No Tav e No Muos: conflitti di “minoranze” che annunciano idee ormai maggioritarie

Venerdì, 29 Marzo 2013 13:35

Ci sono molti punti di contatto tra la manifestazione avvenuta in Val di Susa il 23 marzo e quella prevista il 30 marzo a Niscemi in Sicilia.

Non solo perché partono entrambe dall’opposizione ad interessi estranei che rischiano di avere pesanti ripercussioni sulla vita degli abitanti di un’area, ma perché entrambe appaiono importanti per la costruzione di una nuova prospettiva politica, soprattutto di fronte alle ripercussioni della crisi economica e alle guerre in atto. Nel conflitto politico che ruota intorno all’installazione delle antenne del Muos di Niscemi si ritrovano molte delle problematiche storiche della costruzione del potere in Sicilia, come l’imposizione al contesto politico locale della fedeltà atlantica a prescindere dalle alleanze europee o la garanzia di intoccabilità riservata alle basi militari internazionali presenti sul territorio. Si intravedono anche i più classici interessi oscuri che risiedono dietro la scelta di localizzazione dell’impianto e la caotica sovrapposizione di ruoli amministrativi che rende difficile individuare in Italia un vero, unico, responsabile istituzionale del progetto.

Emerge però anche uno scontro evidente tra la società isolana e il governo nazionale, e si vede in ciò quanto sia cambiato lo scenario politico della regione e quanto possa ancora trasformarsi rispetto agli ultimi anni.

Si tratta di grandi novità presenti ormai in tutta Europa, in cui emergono nuove organizzazioni e nuove prospettive per la politica.

La costruzione delle antenne, che trova un’opposizione pressoché generale presso l’opinione pubblica siciliana, è un processo che riesce a svelare la natura stessa del potere ed i limiti di funzionamento del modello democratico occidentale, che non riesce più neanche a ricomporre la conflittualità interna secondo gli schemi classici del Novecento. Proprio da questa opposizione può però nascere un nuovo orizzonte politico.

Il conflitto sociale, sempre più forte in questi mesi, rende evidenti alcune grandi trasformazioni che il progetto neoliberale ha realizzato nell’impianto stesso delle democrazie occidentali, in cui esiste ormai una contrapposizione costante tra ciò che resta delle istituzioni statali (ormai del tutto prive di un proprio ruolo indipendente dal grande potere economico) e gli interessi degli abitanti.

La grande quantità di casi simili che si sono ripetuti negli ultimi anni chiarisce il funzionamento di un modello in cui la popolazione non possiede alcuna capacità decisionale né diritto di rappresentanza dei propri interessi. Un modello che si ripete con costanza su tutto il territorio europeo.

È sufficiente pensare alle battaglie civili condotte contro l’apertura di discariche vicino ai centri abitati, la costruzione di impianti di smaltimento di rifiuti radioattivi, l’ampliamento delle basi militari, la costruzione di grandi opere come il ponte sullo stretto o la linea ad alta velocità in Val di Susa.

Il richiamo ad un astratto bene superiore, non condiviso peraltro dall’opinione pubblica nazionale, ha giustificato finora una vera e propria guerra condotta costantemente dagli ultimi governi contro le comunità locali.

Un conflitto in cui anche le organizzazioni politiche tradizionali si sono dimostrate sostanzialmente subordinate ai grandi interessi economici o geopolitici e prive di capacità di analisi o di proposte e le comunità locali sono state private del tutto di voce e diritti.

In parte si è evidenziato quanto i ceti dirigenti nazionali fossero inadeguati a gestire la contraddizione tra il modello di sviluppo economico e il diritto ad un’elevata qualità della vita della popolazione, soprattutto se i conflitti riguardavano elementi sostanziali del funzionamento del modello democratico, come, ad esempio, la possibilità che la popolazione locale possa decidere delle sorti del proprio territorio, oltre che della propria salute.

È probabile però che il problema riguardi tutti i sistemi sociali occidentali, perché l’affermazione del progetto neoliberale ha comportato proprio la subordinazione dei diritti della popolazione al funzionamento del mercato. Un mercato che nelle teorie neoliberali sostituisce lo stesso spazio sociale.

Il livello del dibattito è stato disarmante, con una tendenza a considerare un problema di ordine pubblico qualunque forma di opposizione agli interventi programmati dalle strutture centrali. Con una esplicita richiesta di ridurre al silenzio le forme di opposizione.

Il principio dell’affermazione di un bene superiore, astratto, è diventato un argomento pervasivo della politica europea. Sembra inutile ricordare la lunga serie di dichiarazioni inqualificabili e disarmanti che la stragrande maggioranza del ceto politico italiano ha espresso per due decenni di fronte ai movimenti di opposizione, con un’arrogante espressione di potere inconciliabile con gli stessi principi costitutivi del pensiero politico europeo moderno. Tutto ciò mentre molte delle persone coinvolte nelle battaglie civili in difesa degli spazi di vita iniziavano a discutere della necessità di ridisegnare il funzionamento dei processi democratici almeno nel contesto locale.

Tutto il progetto neoliberale in effetti tende alla dissoluzione delle capacità progettuali delle istituzioni statali e all’eliminazione dello spazio della politica. In questo quadro la situazione di impotenza in cui si trova il dibattito politico sembra rispondere perfettamente ad un’idea di funzionamento di un sistema sociale in cui solo i grandi aggregati economici possono assumere decisioni a discapito di tutto.

Gli analisti che si domandano con una certa ansia quali siano stati i motivi dei risultati elettorali recenti, forse dovrebbero considerare alcuni casi lampanti, specialmente in un contesto in cui le differenze sono di poche migliaia di voti. Bisognerebbe considerare di più, ad esempio, il peso elettorale delle comunità locali piemontesi per comprendere le ultime elezioni regionali, oppure ascoltare le posizioni del Movimento 5 stelle e della giunta Crocetta in Sicilia.

La politica conservatrice britannica ha diffuso negli anni Ottanta una definizione precedentemente coniata nel dibattito politico statunitense: sindrome Nimby, ossia Not in my backyard(sul tema si legga il saggio di Gennaro Avallone, «NIMBY»: definizione e critica di un concetto dell’analisi ambientale). Un’etichetta attribuita a chiunque si sia opposto all’impianto di una struttura che riteneva dannosa. Gli oppositori sono stati descritti come vittime di una sindrome derivante da un forte egoismo sociale che gli impediva di guardare al bene collettivo, superiore, nazionale.

L’argomentazione classica è quella secondo cui gli interventi non sono contestabili e la popolazione locale non ne comprende l’importanza, ottenebrata dal proprio egoismo.

Un problema tangibile (la costruzione di una struttura) viene dunque trasformato in una questione relativa all’incapacità della popolazione di comprendere le sempre ottime scelte dei governanti oppure di comprendere la necessità indiscutibile di costruire qualcosa (l’idea che si possa fare a meno di un’antenna che serve a teleguidare delle armi non è contemplata nel discorso politico dominante).

Bisogna dire che è impressionante constatare quanto tale ideologia paternalistica del bene superiore economico, tipica delle dittature, si rispecchi nelle azioni e nelle tesi sostenute da tutti i governi italiani dell’ultimo ventennio e da gran parte del ceto politico. Anche il centro-sinistra, il Partito Democratico che, ad esempio, è stato il più agguerrito sostenitore della costruzione di una linea ad alta velocità in Val di Susa (evidentemente inutile per il paese nell’attuale contesto economico).

Sotto la formula dell’interesse nazionale e sovranazionale, svuotata nel frattempo di ogni significato, si è nascosto ogni tipo di intervento imposto dall’alto, contro la volontà della popolazione locale, in un processo in cui il territorio è stato considerato una variabile irrilevante e la democrazia un ostacolo fastidioso.

Dopo oltre tre decenni di propaganda e di imposizione violenta delle scelte, sembra chiaro che ormai poche comunità locali hanno ancora intenzione di accettare la situazione per come si è posta.

Si definisce dunque la stessa frattura che si è determinata in tutti i casi europei degli ultimi anni, in cui le strutture di polizia sono state chiamate a operare in ogni modo per riempire il vuoto lasciato dallo spazio della politica distrutto dai gruppi dirigenti europei, ad agire affinché l’opposizione della popolazione non interferisse con la realizzazione delle varie opere.

È un fenomeno che non può essere gestito a lungo in questo modo, perché le tensioni locali createsi in queste situazioni rappresentano un nuovo schema della politica, una forma di interesse diretto che spinge le persone alla partecipazione attiva e in breve costringe a pensare forme alternative, solidali, sostenibili.

Le vecchie organizzazioni politiche, che iniziano ad avere paura per la propria sopravvivenza, se volessero superare la crisi degli ultimi trent’anni, dovrebbero dare risposte a questi fenomeni, ma non possono perché sarebbero costrette a tradire il ruolo assunto finora.

La novità è sempre più evidente, perché la quota di opinione pubblica che ritiene che la ragione stia dalla parte di chi si oppone alla devastazione ambientale (in questo caso il MUOS è anche un ecomostro) è maggioritaria. Non solo. È sempre più forte anche l’idea che le scelte operate debbano seguire dei principi e non essere guidate da un’idea amorale della difesa del profitto.

Forse bisognerebbe iniziare a pensare in modo differente alla posizione assunta dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana di fronte ad ogni scelta che riguardasse i beni comuni negli ultimi anni.

Come è noto, il governo Monti, dimissionario e sfiduciato dal voto, ha individuato nel MUOS un’opera di interesse nazionale, ripercorrendo una strada seguita dagli ultimi governi (basta ricordare l’ampliamento della base Dal Molin e il governo Prodi); il dissenso locale è stato derubricato, ovviamente, a problema di ordine pubblico. Con tale azione è stato anche esautorata di fatto l’amministrazione regionale (non si capisce se ciò sia avvenuto con un certo margine di consenso nei partiti locali). L’azione di sgombero dei manifestanti che organizzano blocchi stradali nella sughereta di Niscemi è, infine, uno dei tanti segnali del fatto che la gestione militare sarà, come sempre, l’unica risposta prevista e che gran parte della politica nazionale sarebbe ben lieta di chiudere la faccenda in questo modo.

Non bisognerebbe dimenticare però che quella contro il MUOS ricorda anche tante storiche battaglie dei movimenti ambientalisti e pacifisti nell’isola, dalle manifestazioni contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso a quelle contro la base di Sigonella, in un territorio che è uno dei più militarizzati dell’Europa mediterranea.

Si tratta di decine di esperienze che si sono realizzate in periodi di grande cambiamento nella società locale e che rappresentano un’eredità storica spesso sottovalutata, rappresentata anche da personalità e gruppi politici che hanno avuto un grande valore per il dibattito internazionale.

La posizione strategica di piattaforma militare per le attività nel Mediterraneo e in Medio Oriente è inoltre un problema irrisolto di consenso per la politica locale, che dal dopoguerra cerca di nascondere le principali operazioni che vengono effettuate sul territorio dell’isola, usato come se fosse un luogo libero da vincoli giuridici.

Non bisognerebbe quindi dimenticare neanche il fatto che ognuna di quelle battaglie è stata segnata da momenti di grande tensione sociale e da eventi che hanno un grande valore identitario per tutta la politica italiana. Al problema dei missili a Comiso, ad esempio, si collega l’omicidio di Pio La Torre, così come alla costruzione di strutture speciali realizzata in regime di emergenza è seguita quasi sempre un’inchiesta per infiltrazione della criminalità organizzata. È la forma più profonda di espressione del modello di potere locale (si può leggere sul caso del MUOS già la prima inchiesta di Giovanni Tizian pubblicata nel 2011 su L’Espresso).

È evidente che molti hanno in mente un percorso simile a quello seguito in altre regioni: completare i lavori in tempi brevi, attraverso il ricorso alla forza, per poi attendere gli esiti di un decennale contenzioso giuridico tra Stato e regione mentre la struttura è in funzione.

Si tratta però di una scelta che non tiene in considerazione quanto stia cambiando la percezione del fenomeno e quanto le organizzazioni locali che si oppongono a interventi di questo tipo stiano diventando essenziali per la soluzione della crisi della democrazia.

Perché si inizi a ragionare su una nuova proposta è sufficiente mettere insieme tutte le questioni poste dai movimenti locali di opposizione come ecocompatibilità, solidarietà sociale, nuove formule di cittadinanza, riorganizzazione dei sistemi produttivi. Si tratta di idee che sono ormai maggioritarie e che rappresentano il fulcro di qualunque nuovo sistema politico.

Fonte: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/10029-no-tav-e-no-muos-conflitti-di-qminoranzeq-che-annunciano-idee-ormai-maggioritarie.html

La Tav inciampa a Chiomonte

di  da: Il Sole 24 ORE – 29 marzo 2013

Dal fango e le ruspe del cantiere di Chiomonte alle asettiche aule del Tar Lazio e del Tribunale di Torino. Per poi ritornare, ancora e di nuovo, in Valle di Susa. La battaglia contro la Torino-Lione si combatte non solo a colpi di manifestazioni, cortei e incursioni degli attivisti. 
Ma la lotta è fatta anche di carte bollate, richieste e dinieghi, ricorsi e contro-ricorsi, su aspetti macro e micro dell’iter che accompagna il complesso progetto dell’alta velocità. L’ultima scintilla, lontano dalle recinzioni dei lavori aperti in Valsusa, è scoccata intorno alla questione del progetto esecutivo di Chiomonte, che il movimento No Tav chiede da tempo di poter visionare, ma che ancora una volta questa settimana Ltf ha negato agli interlocutori, opponendo una serie di motivazioni.

Non ultimo il fatto che il progetto, come ha chiarito il commissario di Governo per la Torino-Lione, Mario Virano, «viene completato e terminato man mano che procedono le lavorazioni».
L’intera questione è una conseguenza diretta della visita di sabato scorso, 23 marzo, da parte di una delegazione di 61 parlamentari grillini e di Sel accompagnati da 38 tecnici e leader del movimento No Tav al cantiere della Maddalena. Qui, sotto il museo archeologico (ormai divenuto il centro operativo delle forze dell’ordine che presidiano, giorno e notte, il sito), è stato avviato lo scavo per la realizzazione della galleria esplorativa di 7 km, del valore di 143 milioni, propedeutica al futuro tunnel di base e di cui, ad oggi, sono stati realizzati circa una cinquantina di metri (i No Tav contestano anche questa misura) con tecnica tradizionale.

 

«L’ispezione al cantiere – spiegano i tecnici del Movimento, che tengono a sottolineare come non si sia trattato di una semplice visita – ci ha consentito di verificare che una serie di prescrizioni ambientali, inserite dal Comitato interministeriale come presupposto per l’autorizzazione dei lavori nella delibera approvata nel novembre 2010, non sono state rispettate». Per avere tutte le controprove, però, attivisti e avvocati chiedono di vedere le carte del progetto esecutivo. 
«In settimana, come era previsto, ci siamo presentati a un appuntamento con Ltf, che ha negato l’accesso alla documentazione, perché la Comunità montana è controparte in un ricorso al Tar del Lazio – spiega, con evidente amarezza, l’avvocato Massimo Bongiovanni -.

Tuttavia si tratta di una pubblica amministrazione che chiede documenti ad un’altra, è inammissibile che non vengano consegnati. Senza contare che nell’esame dell’istanza istruttoria con cui il Tar del Lazio sta procedendo all’esame dell’impugnativa presentata contro la delibera del Cipe, i giudici romani hanno chiesto la consegna dello stesso esecutivo». Pronta, però, la replica di Ltf che precisa: «E’ stato seguito tutto l’iter previsto per il progetto esecutivo così come disciplinato dal codice dei contratti pubblici» e invita i No Tav a effettuare una formale richiesta di accesso agli atti, per poterli consultare.
Il chiarimento arriva però da Virano. «Lo sviluppo del progetto esecutivo – spiega il commissario – spetta all’impresa titolare dell’appalto integrato (cioè la Venaus, società creata dalla cordata guidata da Cmc) e, come sempre accade in tutte le grandi opere di questo tipo, viene sviluppato in lotti.

Indicativamente, anche per lo scavo, sarà redatto un esecutivo all’avanzamento di ogni 100 metri». Spiega ancora il commissario: «Le prescrizioni ambientali sono attentamente osservate. Al punto che il progetto è costantemente sottoposto al vaglio del ministero dell’Ambiente, a cui sono inviate le carte e che può fare rilevazioni oppure lasciare che si proceda con il silenzio-assenso». Ma, ribattono ancora i legali No Tav, il progetto deve essere unitario. Prima di altri atti legali, la prossima mossa sarà dunque un’interrogazione parlamentare annunciata dal Movimento 5 Stelle.

Siria. È scontro anche all’interno delle opposizioni armate

Il leader dimissionario delle opposizioni estere conferma la presenza di centina di miliziani tunisini fra le fila delle truppe dissidenti 

Matteo Bernabei

Dalla politica al campo di battaglia, le divisioni interne alle opposizioni siriane si fanno sempre più evidenti. A pochi giorni dalle dimissioni del presidente della Coalizione di Doha, Moaz al Khatib, che ha accusato i suoi colleghi di agire per interessi personali o di Paesi stranieri, un’altra notizia mette in evidenza le frizioni fra le diverse fazioni che compongono il fronte dissidente, questa volta però in ambito “militare”. Il magazine statunitense Time ha, infatti, pubblicato ieri un reportage nel quale mette in evidenza un fenomeno fino ad ora mai riscontrato ufficialmente, ma spesso ipotizzato dagli analisti, e cioè lo scoppio di scontri armati fra i diversi gruppi che compongono il sedicente Libero esercito siriano, braccio armato delle opposizioni estere al governo di Damasco.
La rivista statunitense rivela in particolare combattimenti fra la Brigata Farouq e i miliziani di Jabhat al Nusra, nell’area compresa tra le province di Raqqa, Hasaka e Dayr az Zor. Una diretta conseguenza delle ingerenze internazionali che hanno portato alla formazione di un’accozzaglia di bande armate composte per la maggior parte di mercenari e volontari jihadisti stranieri, che ha dato vita a un conflitto dipinto come una guerra civile ma che, evidentemente, tale non è. Il manifestarsi sempre più frequente di frizioni e di azioni armate incontrollate da parte di questi gruppi, ha costretto nel recente passato gli Stati Uniti a inserire il fronte al Nusra nella lista organizzazioni terroristiche, così da poter avere un capro espiatorio al quale imputare le stragi indiscriminate compiute dalle milizie ribelli. La verità sta però venendo a galla e persino il governo tunisino, preoccupato dal flusso di estremisti che dal Paese si reca in Siria per unirsi alle fila del Les, sta agendo in via ufficiale per fermare la migrazione jihadista. Dopo l’appello della scorsa settimana del premier di Tunisi, ieri anche il ministro della Giustizia dello Stato maghrebino si è rivolto alla popolazione chiedendo a chiunque avesse legami con chi recluta combattenti in Siria di “prendere contatto con le autorità competenti”.
Sulla vicenda è intervenuto, sempre ieri, anche il presidente dimissionario della Coalizione siriana, il quale, nel tentativo di sminuire le affermazioni del governo tunisino, ne ha invece confermato i timori e affermando che la presenza combattenti tunisini nel Paese arabo “ammonta a poche centinaia”. Parole che lasciano intuire come la presenza di mercenari e soldati di altri Paesi sia la normalità per chi afferma, invece, di combattere una guerra civile e di parlare in nome dei cittadini siriani. Quella di ieri per il fronte dissidente è stata la giornata delle brutte notizie. Al reportage del Time e ai timori di Tunisi, si sono infatti affiancate le risposte negative di Usa e Alleanza Atlantica in merito alla richiesta di Khatib di utilizzare le batterie di missili Patriot schierate in Turchia per difendere le aree ribelli. “C’è una volontà internazionale di non far vincere la rivoluzione”, ha commentato il leader dimissionario della Coalizione di Doha, che si è detto “sorpreso” dalla reazione degli alleati. Al Khatib ha evidentemente sopravvalutato il supporto che i Paesi occidentali sono disposti a fornire a una “rivolta” fittizia, che nonostante l’addestramento, la presenza di mercenari e la fornitura illegale di armi, non riesce a ottenere grandi successi in campo militare e neppure a guadagnarsi il rispetto e il supporto della popolazione civile.
In molti evidenziano ormai l’impossibilità di mettere fine alla crisi attraverso una soluzione armata, ma in pochi, almeno in Occidente, tentano strade alternative. Un’opzione valida al conflitto potrebbe essere rappresentata dai cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa), i Paesi emergenti, ai quali ieri si è rivolto anche il presidente siriano, Bashar al Assad, chiedendogli di agire per mettere fine alle violenze e favorire la ricerca di una soluzione negoziata e pacifica della crisi. Appello che sarà accolto con ogni probabilità, vista la presenza nel gruppo dei governi di Mosca e Pechino, gli unici che in passato hanno realmente provato a mettere fine al conflitto attraverso la diplomazia.


28 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19962

 

Crisi. Gli incantatori di serpenti non incantano Grillo

Bersani e gli intellettuali non riescono a convincere i 5 Stelle. L`incaricato rinuncia. Il Colle cerca nuove strade? 

michele mendolicchio

Da giorni sentiamo rivolgere accorati appelli a Grillo affinché faccia nascere il governo Bersani. Un giorno è Dario Fo, il giorno dopo il figlio Jacopo, poi è la volta di un gruppo di intellettuali che si rifanno a Zagrebelsky, quindi scende in campo anche Saviano, poi tocca ai preti: prima don Gallo e poi don Ciotti, e infine arriva l’appello dei cantautori: da Celentano a Jovanotti per finire alla Mannoia. Tutti che si sentono animati da un interesse comune: aiutare Bersani. E soprattutto il partito di riferimento: Pci-Pds-Ds-Pd. Senza tralasciare la costola Sel. Ora si possono fare tutti gli appelli che si vogliono ma indubbiamente questo incessante richiamo all’occasione da non lasciarsi sfuggire come se la proposta del Pd fosse l’unica con dei contenuti effettivi per risalire la china ci sembra davvero insopportabile e inaccettabile.
Dov’è il cambiamento di cui parlano Bersani, Vendola e tutta la comitiva di cantautori, preti e intellettuali? Non è certo con una legge sul conflitto d’interesse o con il matrimonio dei gay e con la concessione della cittadinanza e magari pure del voto che si possa uscire dalla crisi. Sono tutti palliativi che non portano nessun beneficio a livello di comunità. Quantomeno non ci fanno fare un salto in avanti. Altrimenti basta andare a Piazza San Pietro e lasciarsi incantare dalle parole del nuovo francescano successore di Pietro. Tutta retorica sulla povertà e nulla più, come la Boldrini. Il cambio di passo e il superamento della crisi passano solo attraverso un gesto di rottura forte come l’uscita dall’euro e il ritorno alla nostra sovranità. Questo è il punto centrale che ogni pacchetto di proposta dovrebbe contenere. Stare in questa Europa vuol dire solo rinunciare ai nostri diritti, in primis salari dignitosi e qualità di vita. Siamo uniti solo dalla moneta e dalla spianata di povertà. Non decidiamo più nulla, né sul piano industriale né sulle politiche economiche e sociali. E tantomeno sul piano della sicurezza. Tutto ci viene imposto dall’Ue e i risultati si vedono. Tra un po’ a furia di saracinesche abbassate e suicidi di lavoratori resteranno solo gli ambulanti. E assistere alle scenette di guardia e ladri con neri, bengalesi e cingalesi in fuga dai vigili con le loro borse contraffatte e con cianfrusaglie varie non è un bel vedere. E soprattutto non lascia ben sperare al cambiamento paventato dalla dirigenza del Pd e di Sel. E neanche della lista Monti o della lista Berlusca. Quindi preferiamo dare credito al M5S piuttosto che continuare con questo balletto dell’uno e dell’altro schieramento che negli ultimi 20 anni ha fatto poco e niente. E la cosa più grave è che hanno svenduto la nostra sovranità, facendoci immaginare un’Europa che non c’è. Tutta la dirigenza del Pd passata e presente, compreso l’inquilino del Colle, hanno gravi colpe per averci portato nell’euro. Le imprese, i lavoratori e le famiglie stanno morendo per colpa loro. E Bersani e le giovani marmotte pensano di incantarci con i matrimoni gay e con la cittadinanza facile. L’Europa sta morendo anche perché è fallito il suo progetto d’integrazione, almeno per la gran parte dei paesi. Si è trasformata in un grande contenitore di nuovi schiavi. E le responsabilità sono anche del centrodestra che negli anni in cui ha governato ha fatto davvero poco per uscire da questo girone dantesco imposto dall’Ue e dai mercati.   
Il no del 5 Stelle ad un governo Bersani è la logica conseguenza di questo disastro sotto gli occhi di tutti. Ora spetterà al Colle decidere a chi affidare il nuovo mandato esplorativo. Molto probabilmente il nome potrebbe essere quello del presidente del Senato Grasso. Attorno al nuovo padre Pio si potrebbero riunire tutti meno il M5S.
 
 
29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19977

 

Dal dr. Jekyll (Monti) a Mr. Hyde (Saccomanni)

Dal dr. Jekyll (Monti) a Mr. Hyde (Saccomanni)

L’ultimo nome spuntato dal cilindro del cameriere dei baksters internazionali. Con cari saluti e abbracci al Pierluigi

Ugo Gaudenzi

Il Pierluigi ha voluto, ha sempre voluto, ha fortissimamente voluto, fare “melina”: d’altra parte era già consapevole dell’esito negativo del suo pre-incarico di formare un governo.
Il Pd la maggioranza non la possiede, e tutto il tortuoso giro di inutili “consultazioni” (è mancato soltanto un colloquio con la Caritas diocesana piacentina-bobbiense in parrocchia a Bettola)è tornato al punto di partenza.
Gli stessi bluff e le boutades delle altre due quasi pari forze in Parlamento – il Pdl e il M5Stelle – erano stati messi in conto dal segretario-candidato dei democratici. “Pera presidente”, o “Parlamento senza governo” – le due avances di Berlusconi e di Grillo – suonavano appunto come ipotesi dell’irrealtà, lanciate lì sul tavolo da gioco del costruendo governo, come scontate mosse di poker.
E, poiché “numeri sicuri” non ve ne sono, ecco che il primo turno della partita si è arenato nelle dichiarazioni di “parola” di tutti, con la “mano” conclusa e la posta in gioco intatta al centro del tavolino verde.
Così, nella pausa, riemergono tutte le possibili scappatoie. Un incarico a Renzi. No: meglio a Grasso. No: a uno della cricca (Amato & co.). No: a… Bersani stesso che giura possibile una maggioranza variabile sul “fare”. Ma quest’ultima era un’ipotesi peregrina: dato per scontato il rifiuto di Grillo e dei suoi, non sarebbe restato che l’abbraccio – mortale – con il Cavaliere.
Quindi: rinuncia. E via aperta a quello che vuole il Colle, per proseguire nell’inguacchio a questo ordinato fin dal 2011 da atlantici e “Troika”.
Ma poi ecco l’idea, ecco uscire dal cilindro… Fabrizio Saccomanni, dg di Bankitalia e consigliere della Bri, la Banca Spectre dell’alta finanza internazionale.
Povera Italia.


28 Marzo 2013 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19998

 

La Turchia minaccia Cipro e l’Italia

Il governo di Ankara provoca i greco-ciprioti e l’Eni, che verrà esclusa da altri affari con l`esecutivo islamista di Erdoğan 

Andrea Perrone

Il governo turco fa la voce grossa con Cipro e la nostra compagnia di idrocarburi, Eni. Nonostante la volontà – soltanto a parole – di voler entrare nell’Unione europea e diventare membro a tutti gli effetti dell’Ue, Ankara continua con le sue minacce contro uno Stato sovrano come Cipro e con una compagnia italiana come quella rappresentata dal cane a sei zampe. Il governo di Ankara ha deciso di sospendere tutti i progetti del gruppo petrolifero italiano, a causa del suo impegno a Cipro. Ma l’ad Paolo Scaroni, pur dispiaciuto, non demorde e assicura che le prospezioni al largo dell’isola andranno avanti: “L’Eni non ha alcuna intenzione di mettere uno stop a Cipro”, ha spiegato Scaroni, ma sottolineando di essere dispiaciuto ma fiducioso in un punto d’accordo nell’interesse di entrambi. Del resto l’Eni non avrebbe potuto far altro che seguire il suo destino visto che nel gennaio scorso ha annunciato la firma di un accordo con il governo di Nicosia per l’esplorazione e lo sfruttamento di tre zone del giacimento di gas al largo delle coste dell’isola in consorzio con il gruppo coreano Kogas. Ma la Turchia è un po’ dura d’orecchi, in linea con la sua nuova politica estera che fa appello al neo-ottomanesimo: una linea di pensiero politico creata ad hoc dall’attuale ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoğlu e seguita a menadito dal primo ministro e leader del partito Akp, Recep Tayyip Erdoğan, affinché la Turchia acquisisca sempre più un’influenza politico-militare ed economica nel Vicino e Medio Oriente. Il motivo della decisione della Turchia ha anche una motivazione di natura geostrategica. L’isola è divisa infatti tra l’area sud che parla la lingua greca e quella del nord che invece parla turco. E la Turchia riconosce solo l’esistenza della Repubblica turca del Nord di Cipro, proclamata nel 1983. Ultimamente, le autorità turche hanno poi affermato che le riserve di gas dovrebbero apportare beneficio a entrambe le comunità. La Turchia è contraria alle esplorazioni avviate dal governo cipriota e le definisce “illegali”. Inoltre Ankara ha avviato proprie esplorazione nelle acque di Cipro nord, l’area dell’isola occupata appunto dalla Turchia e nei mesi scorsi ha minacciato anche interventi militari contro Nicosia inviando truppe, navi militari e sommergibili al seguito di proprie imbarcazioni per effettuare delle prospezioni a largo dell’isola.
Per quanto riguarda Nicosia, Ankara non accetta assolutamente cambiamenti dello status quo dell’isola, di cui ha occupato militarmente e colonizzato dal 1974 la parte settentrionale, dove è stata proclamata una Repubblica turca di Cipro del Nord riconosciuta solo da Ankara. Proprio per questo contesta al governo di Nicosia il diritto di gestire autonomamente le risorse energetiche al largo dell’isola del Mediterraneo. La Turchia ha minacciato più volte di sospendere ogni collaborazione con i gruppi petroliferi internazionali che concludano accordi con il governo cipriota, da quelli statunitensi a quelli israeliani. La major petrolifera statunitense Noble Energy, responsabile dell’esplorazione di una delle zone del giacimento cipriota, ha indicato due anni fa di averne stimato le riserve in circa 230 miliardi di metri cubi, per un valore di circa 100 miliardi di euro.
La Turchia ha diffidato il governo cipriota negli ultimi giorni dall’usare le riserve di gas quale garanzia per superare l’attuale crisi finanziaria. In Turchia, Eni commercializza gas naturale di provenienza russa, trasportato attraverso il gasdotto Blue Stream. Ma vi sono anche altri interessi da parte del cane a sei zampe e quindi dell’Italia, attaccati ignobilmente dagli islamisti “moderati” del governo Erdoğan. “Calik holding ed Eni sono partner nel Progetto di oleodotto Samsun-Ceyhan che dovrebbe trasportare il petrolio russo dalla costa turca del mar Nero al Mediterraneo”, ha commentato Yildiz. “Calik deciderà in autonomia se continuare a collaborare con l’azienda italiana, ma il governo preferisce non lavorare con loro su nessun progetto”, ha avuto l’ardire di affermare il ministro senza alcun timore, sapendo che il governo italiano e la stessa Ue non hanno il coraggio di protestare.


29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19973

 

L’Angola tende la mano alle aziende europee in crisi

ecco un esempio di come l’Africa libera dal giogo del FMI può prosperare. Fino a che non sorgerà la necessità di un intervento umanitario…

Il governo angolano ha invitato gli industriali che non trovano mercato in Europa a “de-localizzarsi” nel Paese africano 

Francesca Dessì

Se in Europa ci sono unità industriali avanzate che non trovano mercato per i loro prodotti a causa del contesto attuale, potrebbero pensare di de-localizzare in Angola, se l’alternativa deve essere il fallimento”. È l’invito lanciato dal ministro dell’Industria angolana Bernarda Henriques da Silva durante una conferenza sul commercio fra l’Angola e il Portogallo, organizzata a Lisbona. Il ministro dell’Industria ha sottolineato che “gli angolani non vogliono attrezzature obsolete col pretesto che l’Angola è un Paese sottosviluppato, dove la priorità è creare occupazione e dover il personale essendo poco qualificato può anche utilizzare tecnologia antiquata. Gli imprenditori che la pensano così non hanno futuro in Angola”. “Chi la pensa così”, ha continuato Da Silva, “non conosce la realtà angolana, manca di lungimiranza e non è sicuramente un industriale. Perché l’industria in qualsiasi parte del mondo è un investimento di lungo periodo che ha bisogno di investimenti continuativi e di modernizzazione per mantenersi competitiva”.
Da qualche tempo, l’Angola, secondo produttore di petrolio in Africa dopo la Nigeria (anche se secondo gli ultimi dati se la giocano alla pari), sta dando lezioni all’Europa, alle prese con una profonda crisi economica. Offre posti di lavoro ai disoccupati europei e possibilità di investimento agli industriali.
Secondo i dati forniti dall’Osservatorio per le migrazioni, sono oltre 100mila i portoghesi che si sono trasferiti nel Paese africano, oltre quattro volte il numero di angolani presenti in Portogallo. Ad attrarre i giovani sono le possibilità di lavoro e gli stipendi più alti. Un ingegnere appena laureato o un giornalista con tre anni di esperienza, che guadagnano al massimo mille euro in Portogallo, se ne vedono offrire tremila in Angola, il più delle volte con vitto e alloggio pagato dai datori di lavoro. Ma il fenomeno non riguarda solo il Portogallo, sono molti i Paesi messi in ginocchio dalla speculazione finanziaria internazionale. Molti vanno in Sudafrica, Mozambico e in altri Paesi che offrono maggiori possibilità di una vita dignitosa.
L’Angola, uscito dalla guerra civile nel 2002, ha conquistato l’invidiabile primato di avere avuto la maggiore crescita economica al mondo nell’ultimo decennio. Nel periodo 2001-2010, il Pil dell’Angola ha avuto un aumento medio annuo dell’11,1%, seguita dalla Cina con una crescita del 10,5%. Nel 2012, il Pil è stato pari all’8%. Per il 2013 la Banca mondiale ha previsto una crescita del 7,2% e del 7,5% nel 2014.
È un Paese in forte crescita economica grazie alle scelte del governo che ha sfruttato al meglio le sue risorse naturali – petrolio, oro, diamanti, bauxite, uranio, rame, terre fertili e così via- e che si è ribellato ai dettami imposti dall’Occidente. Uscito dalla guerra civile, il presidente José Eduardo Dos Santos, non volendo sottostare alle regole “colonialiste” del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale, si è infatti rivolto alla Cina che non ci ha pensato due volte a prestare soldi a palate per ricostruzione del Paese. Un credito che il governo angolano sta ripagando in forniture di petrolio.
Ancora oggi, il presidente Dos Santos ha adottato misure anti-occidentali. Ad esempio, a partire dal primo luglio, tutte le aziende petrolifere che operano in Angola e tutte le imprese e le istituzioni straniere dovranno utilizzare il Kwanza, la moneta locale, per effettuare pagamenti di beni e servizi. La nuova legge prevede l’obbligo per le compagnie petrolifere di pagare i fornitori angolani utilizzando conti correnti aperti in banche angolane. Il nuovo provvedimento rientra nell’ambito della politica di “de-dollarizzazione” dell’economia angolana.
Oggi siamo di fronte al rovesciamento della storia. L’Angola che si può permettere di comprare le imprese portoghesi e non solo, mentre il Paese europeo sta precipitando in un abisso senza ritorno. I Dos Santos, che si sono arricchiti con lo sviluppo dell’industria petrolifera e diamantifera, si stanno infatti comprando le aziende del Portogallo in bancarotta, in particolare nel settore della stampa portoghese. Ma non è l’unico Paese, l’intera Europa soffre di una crisi senza precedenti, tra cui l’Italia. In un’interessante articolo pubblicato qualche giorno fa, il Jornal de Angola, il quotidiano di Stato, analizzando le elezioni italiane, scrive: “L’Italia non è ingovernabile. Ciò che è ingovernabile è l’Unione Europea”. Pertanto, “la notizia principale delle elezioni italiane è la fragorosa sconfitta della politica economica unica dell’austerità e dei tagli di bilancio imposti dai mercati, che possono tutto attraverso i loro agenti installati nell’Unione Europea”. L’articolo si sofferma sulla figura di Monti definito “un apostolo del neoliberismo” che “guidò un governo solo perché fu indicato dai burocrati ultraliberali di Bruxelles e dalla Cancelliera tedesca”. Il quotidiano angolano parla anche del Pd di Bersani che viene definito un partito che ha “una storia corta e triste”, fondato “sulle macerie del Pci” da cui è nata “un’imitazione a buon mercato e ancora meno raccomandabile del Partito democratico americano di Obama”.
 

29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19976

Guantanamo. Cresce lo sciopero della fame

Almeno tre detenuti sono stati ricoverati per disidratazione. Dieci sono nutriti a forza 

F.C.

Tre detenuti di Guantanamo sono stati ricoverati nell’ospedale del carcere per disidratazione, dopo quasi due mesi di sciopero della fame. Lo hanno reso noto alcuni funzionari militari interpellati da Democracy Now, sito internet d’informazione indipendente. I militari hanno specificato che al momento ci sono 28 prigionieri che possono ufficialmente essere dichiarati in sciopero della fame. Dieci sono stati nutriti a forza. Ma secondo quanto denunciato nei giorni scorsi dagli avvocati difensori, lo sciopero coinvolgerebbe ormai la maggior parte dei 166 prigionieri, che contestano le condizioni del centro e la detenzione senza accuse a carico. Diversi prigionieri avrebbero perso circa 15 chili e più d’uno sarebbe svenuto per la denutrizione.
I vertici militari hanno ammesso, nei giorni scorsi, che la frustrazione e la rabbia tra i detenuti è aumentata negli ultimi tempi, dopo la promessa mancata del presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, di chiudere Guantanamo. A pesare sulla salute mentale dei detenuti, più delle condizioni di detenzione, è soprattutto la prolungata incarcerazione a tempo indeterminato, che li fa letteralmente impazzire e tentare più volte il suicidio. A rendere particolarmente insopportabile l’attesa è il fatto che molti dei prigionieri (ben 86) hanno già ricevuto l’autorizzazione per il rilascio, ma non vengono liberati per problemi politici e burocratici. Emblematico è il caso degli yemeniti, che non possono tornare in Patria perché il presidente Obama ha imposto una moratoria sui trasferimenti in Yemen dopo che, a Natale 2009, un nigeriano addestrato in Yemen cercò di farsi saltare in aria in un aereo per Detroit con delle “mutande-bomba”. A settembre dello scorso anno Adnan Farhan Abdul Latif, uno yemenita di 32 anni rinchiuso a Guantanamo dal 2002, si è suicidato mentre si trovava in isolamento. La sua scarcerazione era stata autorizzata nel 2009 dalle commissioni di revisione istituite da Obama, e confermata l’anno dopo da una sentenza della Corte distrettuale di Washington.
Di recente, inoltre, la Nbc news ha riportato la notizia di un progetto al vaglio del Pentagono prevede una spesa di quasi 200 milioni di dollari: 150 per la ristrutturazione, e 50 per costruire un nuovo carcere per i detenuti più importanti, come Khalid Sheikh Mohammed, la mente degli attentati dell’11 settembre 2001.


29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19979

 

Cipro, assegni sospesi e contante limitato in banca

Nei primi due mesi del 2013, i clienti stranieri hanno ritirato più del 50% dei depositi

 Andrea Angelini

 La prima conseguenza dell’accordo tra Cipro e la Troika degli usurai internazionale è stata la militarizzazione delle banche, ieri alla loro riapertura. Gruppi di soldati sono stati collocati al di fuori delle agenzie per impedire gli assalti da parte dei clienti vogliosi di farsi ridare indietro i propri soldi e più in generale da parte dei cittadini ridotti in povertà. Le misure aggiuntive pensate dalla Ue, dal Fmi e dalla Bce, costituiscono infatti un invito a compiere azioni che, in altre situazioni, sarebbero considerate crimini. Oltre ad accettare il prelievo forzoso del 30% sui conti correnti sopra i 100 mila euro, voluto da Unione Europea, Fondo Monetario e Bce, il governo ha vietato per 7 giorni l’utilizzo di assegni e ha stabilito che i prelievi al bancomat non potranno superare i 300 euro al giorno. Nessun limite invece all’utilizzo di carte di credito sul territorio nazionale ma i ciprioti che si recassero all’estero non potranno spendere più di 5 mila euro. Un bel calcio allo sbandierato principio della libera circolazione dei capitali considerato che per “estero” si intendono anche i Paesi dell’Unione europea della quale Cipro fa parte a pieno titolo.

Le banche potranno togliere i limiti all’utilizzo del contante a propria discrezione quando saranno in grado di fare fronte alle richieste di banconote. La banca centrale cipriota ha invitato camion strapieni di monete alle agenzie sotto nutrita scorta della polizia per esaudire la richiesta di contanti di migliaia di cittadini che si sono rassegnati a lunghe file agli sportelli e ai bancomat. E allo stesso tempo è stata obbligata a chiedere rifornimenti di contanti alla stessa Bce a Francoforte.

Una stretta creditizia “indispensabile”, hanno fatto sapere da Bruxelles con la tecnocrazia comunitaria che ha tenuto però a precisare che essa non dovrà durare troppo a lungo. Se infatti le misure restrittive erano necessarie per prevenire rischi per la stabilità finanziaria di Cipro e limitate al periodo necessario a raggiungere l’obiettivo, è altrettanto chiaro che la libera circolazione dei capitali debba essere ristabilita prima possibile nell’interesse dell’economia cipriota e del mercato unico europeo. Sempre chiusa invece la Borsa di Nicosia per evitare, questa è la spiegazione ufficiale, che i capitali possano prendere il largo verso lidi più sicuri.

In realtà con buona pace della Troika e del governo di Nicosia, i cittadini dei Paesi dell’Euro e gli oligarchi russi che avevano scelto Cipro, in quanto paradiso fiscale di fatto, hanno ritirato i propri soldi con percentuali rispettivamente del 14,6% e del 50% e li hanno portati altrove ma sempre in uno dei Paesi dell’euro. Ora si tratterà di vedere quanti capitali sono usciti in marzo prima che il governo chiudesse le banche per una decina di giorni. Una cifra sicuramente minore ma sempre molto consistente.

Le vicende di Cipro sono state l’occasione per il Fondo Monetario Internazionale per cercare di spargere tranquillità e sottolineare che quello dell’isola rappresenta “un caso unico e molto complesso”. Soprattutto, e questa puntualizzazione potrebbe riferirsi all’Italia, il Fmi ha messi le mani avanti per spiegare che sarebbe difficile ripetere la soluzione cipriota in altri Paesi dell’Eurozona o del mondo.

Da parte sua il presidente, Nicos Anastasiades, ha ringraziato i suoi concittadini per la maturità e la responsabilità mostrata alla riapertura delle banche. In tal modo, ha sostenuto, si è mandato un chiaro messaggio sul fronte interno, fatto di ottimismo e di certezza per il futuro del Paese. Ma è stato anche un segnale ai “mercati finanziari internazionali”, a coloro che guardano agli sviluppi dell’economia nazionale. Insomma un messaggio agli speculatori che i ciprioti saranno bravi e faranno i compiti a casa. In altre parole, che immetteranno nella politica economica massicce dosi di liberismo e di privatizzazioni. Così, per dare il buon esempio sul fatto che anche lui deve fare i sacrifici dei comuni mortali, Anastasiades, ha deciso di ridursi lo stipendio del 25%, mentre i ministri lo ridurranno del 20%. Tutti poi rinunceranno alla tredicesima.

29 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19987

 

L’italia devastata dalla troika dei banchieri

Questa è l’Italia di TUTTI I GIORNI.

Ma dato che non si può inzozzare la reputazione dei saggi professori e dei signori della “responsabilità” come la lungimirante TROIKA DEI BANCHIERI ECCO CHE I PENNIVENDOLI CENSURANO e nascondono quanto possibile queste notizie CHE NON DEVONO ANDARE SUL NAZIONALE.

I tg non ne parliamo.

 L’azienda è in crisi, imprenditore tenta di rubare in casa col figlio

I carabinieri di Chioggia hanno arrestato un 46enne titolare di un’azienda agricola che con due complici voleva razziare un’abitazione di Valgrande

 Gabriele Vattolo29 Marzo 2013

 La pistola sequestrata

Voleva regalarsi una Pasqua migliore. Per sé e per due dipendenti della sua azienda agricola, tra cui il figlio. La ditta, infatti, non naviga in acque floride. Peccato, però, che G.T., 46enne di Sant’Anna di Chioggia, abbia scelto la strada peggiore. Del resto criminali non si nasce, si diventa. Ed è necessaria anche un po’ di esperienza, quella che al trio è mancata nella notte tra giovedì e venerdì, quando sono tutti finiti in manette per furto in abitazione in concorso e porto illegale d’arma.

 G.T., il figlio 22enne e il dipendente, un cittadino romeno di 28 anni, avevano messo nel mirino l’abitazione dell’azienda agricola “Gallmann” di Valgrande, una località rurale della città clodiense. Verso mezzanotte, quindi, hanno raggiunto il luogo del colpo con la Fiat Punto con targa romena intestata alla moglie del dipendente-ladro e poi sono entrati in azione. Il più giovane del trio, il figlio dell’imprenditore, è rimasto al volante del veicolo. Era stato designato come “palo”, mentre gli altri due sono entrati alla chetichella nell’abitazione.

 Proprio in quel momento, però, una pattuglia del nucleo radiomobile dei carabinieri di Chioggia, in servizio di perlustrazione, si è accorta della Fiat Punto. In sosta in un luogo molto isolato, “fuori contesto”. Sono scattati quindi i controlli: il 22enne viene prima identificato e poi perquisito. Nel suo marsupio era nascosta una pistola calibro 7,65 perfettamente funzionante. Col colpo in canna e un altro nel caricatore. Vicino anche una scatola con 37 proiettili. Di sicuro, quindi, per quella notte criminale i tre si erano armati a puntino.

 Gli altri due componenti della batteria, che nel frattempo avevano trafugato nella casa un veliero, un televisore Samsung a schermo piatto da 52 pollici e vari trofei di caccia, non trovando più l’auto del palo ad aspettarli, hanno deciso di nascondere momentaneamente la refurtiva in un casolare abbandonato poco distante. Per poi darsi alla fuga attraverso i campi. Tempo mezz’ora, però, e anche loro sono stati catturati dai militari dell’Arma, che poi hanno portato in caserma tutti e tre i “novelli banditi”. Di fronte alle domande degli agenti, i tre hanno rivelato anche dove avevano nascosto il bottino, poi restituito al legittimo proprietario.

 Pieno di debiti diventa rapinatore di banche. Arrestato piccolo imprenditore

Bollette, debiti e tasse. Un carico che un piccolo imprenditore 60enne non riusciva più a sostenere decidendo così di risolvere il problema improvvisandosi rapinatore di banche. Tre i colpi effettuati in poco più di un mese, 20mila euro il bottino.L’uomo, arrestato martedì scorso, è ora agli arresti domiciliari.

 riccione | 29 marzo 2013 |

L’uomo, da solo, entrava in banca a volto scoperto, si avvicinava allo sportello minacciando con un cutter per farsi consegnare il denaro e poi fuggire in pochi minuti. La prima rapina ai danni della filiale Monte dei Paschi di Siena, in questo caso il rapinatore uscendo ha urlato “siete voi i ladri”, è avvenuta il 29 gennaio scorso, la seconda il 14 marzo alla Carim di Riccione. Pochi giorni dopo, il 19, ha rapinato la Banca Popolare Valconca di Sant’Andrea in Casale. I video di sorveglianza hanno permesso ai carabinieri del comando di Riccione di identificare l’uomo. Si tratta di un 60enne di origine venezuelana residente a San Giovanni in Marignano, separato e con due figli piccoli, in gravi difficoltà economiche per il fallimento della sua attività di vendita al dettaglio di stock di pagine gialle o altri prodotti. Nel suo appartamento è stato trovato il giubbotto utilizzato per le rapine, il cutter e 800 euro in contanti provento del reato.

 Pubblicato in data 28/mar/2013

TREVISO – Ancora il suicidio di un imprenditore, ancora un dramma legato alla crisi economica. Si è tolto la vita, stamane, all’interno della sua azienda, il 57enne proprietario della Elettro Forma, di Fiume Veneto, residente a Treviso.

– Intervistati: MARINA SALAMON (Imprenditrice) – Servizio di Paola Gazziola, riprese di Matteo Spinazzè, montaggio di Paolo Carrer

 IL PROCESSO

Per pagare Equitalia fallisce

I giudici lo assolvono

L’accusa di bancarotta per 12 milioni di lire lievitati. L’imprenditore: «Quasi 20 anni di calvario»

 «Stavo bene, non posso negarlo. Ogni mio compleanno andavo a Bormio, mi permettevo crociere e vacanze, però guardi che io e mia moglie lavoravamo giorno e notte. Ora lavoriamo per pagare i debiti». La storia di Giovanni D. (l’iniziale per uno strascico di problemi finanziari), 54 anni, di Fara Gera d’Adda, è un calvario: quasi vent’anni di cartelle esattoriali e debiti con le banche lievitati, fino al processo per bancarotta fraudolenta per distrazione. Soldi usati in buona parte per pagare Equitalia. Ora il riscatto: l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato». L’ha chiesta lo stesso pm. Per i giudici, in sostanza, l’imprenditore non ha macchinato nessun fallimento. Anzi, ha fatto di tutto per mettere le pezze ai debiti. Ma il verdetto non addolcisce l’amarezza che gli sta appiccicata addosso come una seconda pelle: «Forse sarebbe stato meglio andare in galera ma avere ancora lavoro». Invece ha perso tutto: la tranquillità economica, tant’è che «prima al supermercato riempivamo il carrello, ora prendiamo il cestino e controlliamo con cura tutti i prezzi», l’azienda, le case, il lavoro, e la fiducia della banche.

 La sua vicenda inizia tanti anni fa.

«Dal 1986 al 1993 sono stato socio con altre tre persone, una era mio fratello, di un caseificio. Poi sono uscito, perché ho avuto un brutto incidente e con i soldi dell’assicurazione nel’94 ho aperto un’altra attività con mia moglie. Assemblavamo parti elettroniche. Ma ho lasciato la mia firma nella precedente società ed è stata la mia rovina».

 Le cartelle esattoriali.

«Nemmeno il tempo di aprire la nuova società e mi sono piombate addosso. Non ne sapevo nulla: 12 milioni di lire che con il tempo sono lievitati a 240 mila euro. Arrivavano a me, perché gli altri soci non avevano beni. Prima dalla Bergamo Esattorie, poi da Equitalia, a mio nome e con quello dell’azienda. Un caos».

 Come ha reagito?

«La mia rabbia era che non c’entravo nulla se non per quella firma. Ha ho detto “pago tutto quello che devo pagare”. Ho sempre messo la faccia e non mi sono mai nascosto».

 Come avete fatto lei e la sua famiglia?

«Nel 1995 abbiamo svenduto per 140 milioni di lire – metà del prezzo che valeva – una casa a Cisano. Metà sono andati alla Bergamo Esattorie e metà alla banca, perché avevo un mutuo».

 Il debito, però, non era saldato.

«No. Nel frattempo sono arrivate altre cartelle. Allora, nel 2003, io e mia moglie abbiamo venduto anche un’altra casetta che avevamo preso a Blello: tra acquisto e ristrutturazione ci era costata 260.000 euro, l’abbiamo data via a 160.000. Così 120.000 sono andati a Equitalia e 80.000 alla banca».

 Fatti i conti, quanto le rimaneva da pagare?

«Di cartelle esattoriali sui 79.000 euro. Ho ottenuto la rateizzazione. Potevo farcela: 1.000 euro al mese a Equitalia e 500 euro per noi».

 Come campare con 500 euro al mese?

«Lavoravamo e basta e i miei figli non avevano pretese. Appassionati di calcio, la loro massima richiesta era un paio di scarpe per giocare a pallone».

 Allora com’è arrivato il tracollo?

«Colpa della concorrenza cinese. Pensi che dalla Germania avevo ordini per 450.000 euro revocati nel giro di due mesi: mi hanno detto “o ci fai gli stessi prezzi o compriamo da loro”; io ho risposto che non potevo. Intanto i clienti erano in crisi e non pagavano, due sono pure falliti».

 A quel punto ha chiuso?

«Ma no. Mi hanno anche consigliato di fallire, ma non lo avrei mai fatto per orgoglio».

 Che cosa ha fatto?

«Erano arrivate altre cartelle. Quindi ho venduto la casa di mia moglie in cui vivevamo, a 230.000 euro a fronte di un valore di 400.000. Ero in rosso di 80.000 euro con la banca che, saputo della vendita dell’abitazione, mi ha chiamato e ha detto che dovevo portare i soldi da loro. Ma nel frattempo ho pagato le mie sette dipendenti, alcune con figli, che ho dovuto licenziare. Prima, però, io e mia moglie abbiamo trovato un nuovo lavoro a tutte. Poi c’erano i fornitori, avevano diritto di essere pagati. Ricordo che uno aveva dei bambini malati».

 Possedeva altri beni?

«Certo, il capannone. Avevo trovato un acquirente. Valeva 355.000 euro: con quei soldi avrei pagato Equitalia, che nel frattempo voleva metterlo all’asta, la banca, il mutuo in un’altra banca e mi sarebbero rimasti 50.000 euro. Ho detto a mia moglie “tiriamo su le maniche e andiamo avanti”. Ma nel 2010 mi è arrivato il pignoramento cautelativo e a luglio è stato dichiarato il mio fallimento. Non l’ho mica chiesto io. Non l’avrei mai dichiarato».

 Poi l’accusa di bancarotta fraudolenta per sottrazione: 244.388 euro tolti dalla sua precedente attività per pagare Equitalia e altri 115.324 dal conto in banca per privilegiare altri creditori.

«Ma ci pensa? Non ho tolto i soldi dalla società, erano i miei, provento della vendita delle case. Siamo finiti per sei mesi in un container. Ma ripeto, non ho nascosto nulla alla banca. Ho chiesto aiuto anche a mia suocera che mi ha prestato 60.000 euro».

 Finire sotto accusa, un grosso peso.

«Notti insonni. Mia moglie piangeva di nascosto. Ma ho uno spirito battagliero e la mia famiglia è unita, mi seguirebbe anche se mi buttassi nel fuoco. Che cosa dovevo fare, andare a rubare o gettarmi nell’Adda? Mai».

 I giudici le hanno creduto. Un riscatto.

«Sapevo che la verità sarebbe saltata fuori. Se fossi finito in carcere, avrei scritto un libro per raccontarla. Sono stato assolto, sì, però sono rovinato. Io e la mia famiglia. Nessuno ci dà più fiducia. Pensi che abbiamo chiesto i sussidi, ma ci hanno risposto “siete imprenditori, non vi spettano”».

 E ora i debiti sono ripianati?

«Magari. A Equitalia dobbiamo ancora 62.000 euro, ma si prenderanno l’ipoteca sul capannone, che andrà all’asta; il debito di 118.000 euro con una banca è diventato di 190.000, e quello con un’altra da 11.000 euro è salito a 62.000».

 Scusi, ma come fa?

«Mi arrangio, vado a lavorare dove capita, nei cantieri, ovunque, so fare di tutto».

 E dove vive?

«Nel mio capannone. Mio si fa per dire, perché sta per andare all’asta. Sono passato dalle stelle alle stalle, ma non per colpa mia. Se avessi speso soldi in Ferrari e li avessi nascosti chissà dove, direi che tutto questo l’ho voluto io, ma quelle cartelle esattoriali non erano mie».

 Giuliana Ubbiali