20 marzo 2013
di Enrico Galoppini
Ricevo a casa “Con”, il “mensile dei soci Coop” (n° 2, marzo 2013), e sfogliandolo alle pagine dedicate alla “cultura” trovo due libri consigliati.
Il primo contiene “la memoria e il dolore di una ebrea italiana” protagonista, alcuni anni or sono, della “estradizione del criminale nazista Erich Priebke, che viveva lì [in Argentina, NdT] in esilio dorato”; il secondo è un’autobiografia romanzata, che racconta la vicenda di un ragazza ebrea austriaca, “prima a Praga, poi a Londra, ma anche qui sotto i bombardamenti dell’aviazione nazista, in una sorta di fuga e rincorsa senza tregua, un tragico gioco a rimpiattino con Hitler” (p. 37).
E questo è quanto (due libri su due), per ciò che riguarda la rubrica libraria dedicata ai soci della Coop.
Un po’ perplesso, pensando a quanti altri libri interessanti e degni di segnalazione ci sarebbero per i soci Coop, giro pagina, e trovo, nella sezione musicale, “Una voce blues da Israele”, quella di Asaf Avidan, protagonista sul palco dell’ultimo Festival della Canzone italiana (?).
Potrebbe bastare, mi dico, ma a p. 39 c’è una mini-intervista al gruppo musicale Marta sui tubi, “il gruppo con cui Lucio Dalla ha pubblicato la sua ultima canzone”. In tutto sono due domande, e questa è la seconda, rivolta al cantante: “Che film ti hanno affascinato, tra quelli che hai visto di recente?”. Segue la risposta, che comprende tre film: “… poi Il bambino col pigiama a righe, diretto da Marc Herman, storia dell’amicizia di due bambini, uno internato in un campo di concentramento, l’altro figlio di un ufficiale nazista”.
A questo punto non ho più il coraggio di andare avanti.
Tremo all’idea di scoprire che la Coop stia per mutare nome in “Kibbutz”; che a breve si potrà pagare nei suoi punti vendita solo in shekl, la divisa israeliana; o che per restarne soci si debba superare un qualche test che prevede la misurazione della soglia di tolleranza a regolari e crescenti dosi di queste segnalazioni “culturali”.
Non ci vuole il fiuto d’un cane da tartufi per rendersi conto che in tutto ciò che è “cultura” (“di massa” o per pretese “élite”), oggi esiste una sovraesposizione di personaggi, elementi e situazioni riconducibili, direttamente o meno, a quella variegata realtà denominata “mondo ebraico”.
Basta sfogliare un quotidiano nelle pagine “culturali” per notare come non manchino praticamente mai, dalla ribalta di quella che per quasi tutti rappresenta e delimita “la cultura” tout court, lo scrittore ebreo o il libro che parla di ebrei, l’artista ebreo e lo “spirito ebraico” nell’arte, il film del regista ebreo o che tratta degli ebrei, l’umorismo ebraico, la cucina ebraica eccetera eccetera, in una sequenza praticamente inesauribile di spunti (al pari di quelli sui “nemici degli ebrei”), alimentata tra l’altro da una nutrita pattuglia di “firme” ebree delle suddette pagine.
Quotidiani come “La Stampa” e “la Repubblica” sono talvolta imbarazzanti per come infarciscono le loro “pagine culturali” di articoli evidentemente scritti con un unico scopo: alimentare il mito del “genio ebraico” e rendere in ogni modo familiare e simpatico tutto ciò che è definibile come “ebraico” (ed antipatico tutto ciò costituirebbe per esso un “pericolo” o ne rappresenterebbe l’antitesi e la negazione). A riscuotere familiarità e simpatia, o comunque comprensione, sono naturalmente, per la proprietà transitiva, anche lo “Stato ebraico” (confuso con “gli ebrei”) e le sue imprese, comprese le più deprecabili ed ignobili.
Sfido chiunque a provare il contrario: le emeroteche con le collezioni dei quotidiani e delle riviste a maggior diffusione sono accessibili a tutti.
Che rilevare una simile ovvietà possa esporre alla scontata accusa di “antisemitismo” non ce ne può fregare di meno, perché a noi interessa solo la verità e dire le cose come stanno, con la maggior equanimità possibile, facendo il massimo sforzo per mettersi sempre nei panni degli altri (anche quando abbiamo scritto di “gay” e “razzismo”), ma senza deflettere di un’unghia dal dovere sacrosanto ed inalienabile di non fare lo struzzo per opportunismo o paura.
Tanto per cominciare, diciamo subito che lo stesso identico monopolio culturale risulterebbe indigesto e sospetto anche se venisse esercitato da quelli che possono essere i nostri rispettivi temi o personaggi prediletti. Non sarebbe infatti stucchevole e odioso se dovessimo sorbirci, a cadenza quotidiana e a senso unico, sperticate lodi all’indirizzo di un’opera d’arte o dell’ingegno per l’unico fatto di provenire da un autore della nostra idea preferita o religione professata, di trattare dell’unico argomento che ci sta a cuore e che riteniamo importante, di portare la firma di giornalisti e “critici” di nostro gradimento perché ci riconfermano nelle nostre convinzioni?
Dove andrebbe a finire l’osannato “pluralismo delle idee”? A cosa si ridurrebbe il “mondo della cultura”? A un museo delle cere, come quello al quale è stato ridotto attualmente, a causa d’una miscela esplosiva di fattori che trovano il loro collante nell’esigenza di tenere una nazione in uno stato di narcosi prolungata a tutto vantaggio dell’attuale servitù politica, economica, militare e, appunto, culturale, che perdura, con successivi peggioramenti dovuti all’assenza di uomini degni di questo nome, di veri Italiani, dal 1945 ad oggi.
Ma si può tranquillamente affermare che tutti i “liberati” come noialtri sono sotto il seguente ricatto: “Attenti, che se vi considerate una grande nazione e riprovate ad essere liberi, sovrani e indipendenti, potete fare davvero seri danni, soprattutto agli ebrei, e quindi a voi stessi, perché ‘siamo tutti ebrei’”.
Guai a dire che gli aderenti ad una religione o ad un’ideologia, o meglio ancora ad una ideologia religiosa, oppure gli affiliati ad una qualche organizzazione, una volta che monopolizzano (e comunque occupano in una percentuale esorbitante rispetto a quanti sono in una data società) la “cultura” non faranno altro che insufflare in tutti gli altri la loro sensibilità e la loro visione del mondo. E questo per forza di cose, senza che intervenga una particolare “intenzione”.
Propongo un esempio assurdo per spiegare il concetto: immaginiamo che i contenuti delle pagine culturali dei giornali vengano scelti e gestiti da una maggioranza di talebani nei posti-chiave che scrivono solo di talebani, vita talebana, gusti talebani (e nemici dei talebani, dipinti malissimo!). Che cosa accadrebbe pian piano ai lettori? Che a poco a poco si ‘talibanezzerebbero’, schiaffando un bel burqa alle loro donne e perorando il cannoneggiamento di tutto il patrimonio artistico del Bel Paese. Quale forma mentis prenderebbe pian piano il lettore abituale di giornali i cui temi “culturali” venissero selezionati da un comitato redazionale di tagliatori di teste dell’Amazzonia? Il lettore italiano comincerebbe a convincersi che sì, non è poi così male staccare la capoccia a qualcuno che ci sta sulle balle per farci una zanza da mettere sul comodino.
Simili assurdità non sarebbero una cosa di fronte alla quale verrebbe spontaneo ribellarsi? La risposta è lapalissiana.
Certo, qui la questione è più sfumata, essendo l’identità ebraica (o la mera giudeofilia, quando non si tratta di persone che si definiscono “ebrei”) dei vari “addetti alla cultura” nelle cosiddette “democrazie” qualcosa di meno ‘esotico’ e alieno rispetto al nostro carattere e modo di vedere la vita e il mondo.
Ma ne siamo così sicuri?
Si tratta infatti di una questione di percezione. Siamo proprio certi che il “nostro” modo di pensare (che comprende anche il rapporto col divino) e di vivere corrisponda a quello incoraggiato da ciò che assomiglia alla famosa tortura medievale, quella della gocciolina che pian piano scava un foro nel cranio? Una gocciolina sulla testa non fa nulla, infatti, ma qua è come se fossimo legati ad una sedia mentre qualcuno (questi “opinionisti” ed “addetti alla cultura”) ha aperto il rubinetto sulla nostra testa. Ma goccia a goccia, affinché uno non se ne renda conto, e quando ce la fa ormai è troppo tardi.
Le vie d’uscita, a quel punto, sono due: o viene chiuso il rubinetto o si riesce a tagliare le corde che tengono legati alla sedia.
La seconda opzione è senz’altro da preferire perché qualora si eliminasse la fonte di cotanto fastidio resterebbe il problema delle corde. Invece, una volta liberatosi il torturato può chiudere il rubinetto, regolando poi i conti con chi gliel’aveva aperto sul capo per torturarlo.
Ma è evidente che se le corde sono ben salde, c’è bisogno di qualcuno che arrivi per tagliarle. Ora, questo “qualcuno” non è un filantropo che accorre da fuori, ma siamo noi stessi. O meglio la nostra coscienza, che ad un certo punto si risveglia ed esce dall’illusione in cui è stata imprigionata.
Quelle ‘corde’ infatti non esistono, ma esiste solo chi ci fa credere che esistano, che siano strettissime e sia impossibile tagliarle, ed esiste anche la nostra ferma convinzione al riguardo.
Solo da questo può nascere la recente ed assurda idea, veicolata dalla “cultura di massa”, che “siamo tutti ebrei” (mentre sarebbe impossibile farci credere che “siamo tutti talebani” o “tutti tagliatori di teste dell’Amazzonia”). E non, attenzione, una convinzione viva solo in determinate occasioni, come ci si potrebbe attendere quando un soggetto X, Y, Z vien fatto oggetto di qualche grave ingiustizia ed allora per solidarietà si afferma “siamo tutti X, Y, Z”. No, il “siamo tutti ebrei” vale sempre, ininterrottamente, 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno, al punto che quelli che non lo sono hanno cominciato a crederci per davvero!
Tradotto in termini pratici, hanno preso a pensare che il “bene degli ebrei” in quanto ente collettivo dotato di un che di magico equivalga al nostro, o addirittura che vada anteposto al nostro, poiché se le cose vanno bene per loro saranno buone anche per noi, che alla fine abbiamo pure introiettato, assieme ad una tonnellata di “sensi di colpa”, un incapacitante complesso d’inferiorità nei loro confronti, anche quando, per reazione, prevista in percentuali contingentate e perciò controllabili, si sviluppa in qualcuno un odio cieco verso “gli ebrei”: “l’antisemita” è un esito previsto e in parte cercato dell’eccesso di giudeofilia che pervade una società.
La questione non è né nuova né di lana caprina. Lo storico del Nazionalsocialismo, George L. Mosse, ebreo, raccontando della sua famiglia proprietaria di parecchi giornali avalla indirettamente la critica degli hitleriani secondo cui, nella Germania prima del 1933, “tutti i giornali” erano “in mano ad ebrei” (Intervista sul Nazismo, a cura di M. Ledeen, ed. 1992, Mondadori, pp. 1-4). Va da sé che la smania di averla vinta su tutta la linea, e per di più senza nemmeno un po’ di accortezza, provoca una reazione eguale e contraria dagli esiti incontrollabili.
Adesso, che in Mongolia tutti i giornali siano controllati da mongoli, a me pare una cosa sana e normale. Che i direttori delle principali testate del Togo siano togolesi, mi sembra altrettanto serio; così come ritengo onesto che i curatori delle “pagine culturali” ed i contenuti in esse trattati, in ogni nazione, debbano appartenere alla compagine nazionale maggioritaria e riferirsi ad argomenti di primario interesse per i connazionali, che hanno tutto il diritto di elevarsi traendo il meglio da sé quando fruiscono di cultura, non di essere intortati con argomenti pretestuosi e forzature d’ogni genere, per non parlare del gusto particolare nell’insozzare e degradare tutto e tutti, specifico di certi “artisti” e “comici”.
Ma ho anche detto all’inizio che è bene fare sempre lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Che in “Israele” le testate giornalistiche e radiotelevisive siano dirette da ebrei a me non pare affatto scandaloso. E che i temi “culturali” privilegino un indirizzo confacentesi a quello auspicabile per il bene collettivo della “nazione israeliana” (o quello che ritengono tale i suoi dirigenti), secondo me non fa una piega.
Ma ciascuno dev’essere padrone a casa sua, compreso il diritto di vedersi inoculare nella propria mente le idee che meglio gli fanno, lo rafforzano e lo rendono fiero ed orgoglioso di quel che è, non il patetico e tremebondo individuo della “democrazia”, perennemente spaventato all’idea di farsi e di fare del male, ridotto alla controfigura di stesso, ad uno spettro deambulante.
Ora, i “liberati”, per i quali è prescritto il “regime democratico”, devono sorbirsi il monopolio della loro “cultura” da parte d’individui che tirano l’acqua solo al loro mulino, si divertono a mischiare le carte e a confondere le idee, “criticando” tutto con la loro lingua sciolta e l’assenza di freni inibitori. Tutto ciò è veramente molto grave e nocivo.
E anche autolesionistico. Si prenda a puro titolo d’esempio (poiché la casistica è sterminata) quanto è stato pubblicato da “La Stampa” nelle sue “pagine culturali” del 6 maggio 2012. Vi si trova un articolo-intervista, firmato Maurizio Molinari (corrispondente da New York che E. Ratier, in Misteri e segreti del B’nai B’rith – trad. it. Verrua Savoia, 1995 – indica come organico all’organizzazione sionista) dedicato ad un “grande caricaturista americano”, Marc Podwal, che ha pubblicato un “bestiario” che ha come filo conduttore le sue vignette incentrate sulla “zoologia ebraica” (un argomento di estremo interesse per i “non ebrei”!): “C’è l’animo di noi ebrei negli animali della Bibbia”.
Bene, questa è la vignetta riprodotta a pagina 30. Una lupa capitolina che proietta la sua “vera” ombra, quella di un maiale.
Vale anche la pena di leggere la domanda concernente e la relativa risposta: “Perché il maiale è associato con l’immagine della lupa di Roma? La lupa capitolina, che allatta Romolo e Remo, proietta l’ombra di un maiale. Antichi scritti ebraici paragonano l’odiato nemico romano – responsabile della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme – a un maiale. Per il Talmud il maiale incarna 9 delle 10 misure di malattie terrene. I rabbini considerano il maiale così abominevole che il Talmud tende a evitare di menzionarlo, chiamandolo ‘l’altra cosa’”.
Adesso bisogna fare un piccolo sforzo, che per alcuni sarà sovrumano, e ricordarci che siamo in Italia, e che le italiche “radici”, più che nel “giudeo-cristianesimo” (che significa: Cristianesimo “riformato” filo-ebraico e anti-islamico), affondano nel terreno della Romanità. L’immagine della lupa che allatta i gemelli è qualcosa che sta nel nostro sentire più profondo, un simbolo molto commovente e rivelatore di predisposizione a grandi imprese (due neonati allattati amorevolmente da un animale così “feroce”), nonché di superiorità…
“Orrore! Gli unici superiori siamo noi”, avrà pensato qualche “addetto alla cultura”… Meglio far circolare l’idea della lupa-maiale, con tutte le implicazioni del caso. Sì, perché nulla passa invano ed indifferente. Immagini di leggere un libro di storia e invece sei immerso in una favola; pensi di “divertirti”, ma ti stanno insultando senza posa; sei convinto di “elevarti” fino alle sommità della “cultura”, ma stai sguazzando in un trogolo.
Queste situazioni non avvengono a caso. Si verificano quando una nazione, vinta, perde la sua identità.
Intendiamoci, non stiamo affermando che uno non possa avere più identità. Tutti noi ne abbiamo di molteplici, etniche, religiose, ideologiche, territoriali ecc. Possono perciò coesistere un’identità italiana ed una ebraica nella medesima persona? Certamente. Ma a patto che al di là di tutto, si faccia chiarezza dentro se stessi e ci si metta a disposizione, con animo dedito e sincero, alla grandezza della propria Patria, che è la casa di tutti. Questo era, in fin dei conti, l’atteggiamento di molti onesti patrioti italiani ebrei (e persino fascisti!), fino alla Seconda guerra Mondiale.
Ma oggi il discorso è cambiato. Dal 1948 esiste un chiaro problema di “doppia fedeltà”, perché in una tasca c’è il passaporto italiano e nell’altra quello israeliano, e non è la stessa cosa che avere – poniamo – un doppio passaporto dell’Italia e del Burkina Faso. “Israele” non è un soggetto geopolitico creato e difeso per mantenere la pace nel Mediterraneo, né per permettere all’Italia di tornare a svolgere la sua naturale funzione, al centro del Mare Nostrum. In simili condizioni, il doppio passaporto è uno scandalo bello e buono.
Ed è scandaloso anche che sulla “nostra” carta stampata, da quella “autorevole” a quella più settoriale (come il bollettino della Coop), vi sia una così palese, ingombrante ed incalcolabile rappresentazione di personaggi, temi e modi di pensare legati in qualche mondo al “mondo ebraico”, ad opera di addetti che, dagli “intellettuali” che fabbricano le opinioni ai redattori e i collaboratori delle “pagine culturali”, sono incessantemente impegnati ad occupare uno spazio, circoscrivendone attentamente i limiti affinché non emerga altro, approfittandone per modificare e plagiare le coscienze di lettori che vanno confusi ed abbrutiti ad un livello tale che non sappiano letteralmente più chi sono e non azzardino alcuna strategia di resistenza e di rinascita.
Chi ci ha occupato prima militarmente e poi politicamente ed economicamente, sa bene che la cultura non è un ambito da poter lasciare, senza rischi per la sua egemonia, in mano ad elementi nazionali fedeli a se stessi e al proprio panorama interno. Quelli, anzi, vanno emarginati, esclusi, messi a tacere o sbattuti al pubblico ludibrio di una maggioranza “acculturata” che vive in uno stato di allucinazione, alienata e talmente lobotomizzata da essere la prima alleata del Badrone appena qualche indomito eroe del suo stesso sangue sguaina la spada per guidare la riscossa.
Una riscossa che, presto o tardi, dovrà passare anche per il ripristino di una nostra cultura, una cultura italiana autenticamente nazionale, nel quadro di una battaglia non più procrastinabile per la nostra sovranità, libertà ed indipendenza.
http://freeyourmindfym.wordpress.com/2013/03/20/si-scrive-cultura-si-legge-fregatura/