Si scrive “cultura”, si legge “fregatura”

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20 marzo 2013 

di Enrico Galoppini

Ricevo a casa “Con”, il “mensile dei soci Coop” (n° 2, marzo 2013), e sfogliandolo alle pagine dedicate alla “cultura” trovo due libri consigliati.

Il primo contiene “la memoria e il dolore di una ebrea italiana” protagonista, alcuni anni or sono, della “estradizione del criminale nazista Erich Priebke, che viveva lì [in Argentina, NdT] in esilio dorato”; il secondo è un’autobiografia romanzata, che racconta la vicenda di un ragazza ebrea austriaca, “prima a Praga, poi a Londra, ma anche qui sotto i bombardamenti dell’aviazione nazista, in una sorta di fuga e rincorsa senza tregua, un tragico gioco a rimpiattino con Hitler” (p. 37).

E questo è quanto (due libri su due), per ciò che riguarda la rubrica libraria dedicata ai soci della Coop.

Un po’ perplesso, pensando a quanti altri libri interessanti e degni di segnalazione ci sarebbero per i soci Coop, giro pagina, e trovo, nella sezione musicale, “Una voce blues da Israele”, quella di Asaf Avidan, protagonista sul palco dell’ultimo Festival della Canzone italiana (?).

Potrebbe bastare, mi dico, ma a p. 39 c’è una mini-intervista al gruppo musicale Marta sui tubi, “il gruppo con cui Lucio Dalla ha pubblicato la sua ultima canzone”. In tutto sono due domande, e questa è la seconda, rivolta al cantante: “Che film ti hanno affascinato, tra quelli che hai visto di recente?”. Segue la risposta, che comprende tre film: “… poi Il bambino col pigiama a righe, diretto da Marc Herman, storia dell’amicizia di due bambini, uno internato in un campo di concentramento, l’altro figlio di un ufficiale nazista”.

A questo punto non ho più il coraggio di andare avanti.

Tremo all’idea di scoprire che la Coop stia per mutare nome in “Kibbutz”; che a breve si potrà pagare nei suoi punti vendita solo in shekl, la divisa israeliana; o che per restarne soci si debba superare un qualche test che prevede la misurazione della soglia di tolleranza a regolari e crescenti dosi di queste segnalazioni “culturali”.

Non ci vuole il fiuto d’un cane da tartufi per rendersi conto che in tutto ciò che è “cultura” (“di massa” o per pretese “élite”), oggi esiste una sovraesposizione di personaggi, elementi e situazioni riconducibili, direttamente o meno, a quella variegata realtà denominata “mondo ebraico”.

Basta sfogliare un quotidiano nelle pagine “culturali” per notare come non manchino praticamente mai, dalla ribalta di quella che per quasi tutti rappresenta e delimita “la cultura” tout court, lo scrittore ebreo o il libro che parla di ebrei, l’artista ebreo e lo “spirito ebraico” nell’arte, il film del regista ebreo o che tratta degli ebrei, l’umorismo ebraico, la cucina ebraica eccetera eccetera, in una sequenza praticamente inesauribile di spunti (al pari di quelli sui “nemici degli ebrei”), alimentata tra l’altro da una nutrita pattuglia di “firme” ebree delle suddette pagine.

Quotidiani come “La Stampa” e “la Repubblica” sono talvolta imbarazzanti per come infarciscono le loro “pagine culturali” di articoli evidentemente scritti con un unico scopo: alimentare il mito del “genio ebraico” e rendere in ogni modo familiare e simpatico tutto ciò che è definibile come “ebraico” (ed antipatico tutto ciò costituirebbe per esso un “pericolo” o ne rappresenterebbe l’antitesi e la negazione). A riscuotere familiarità e simpatia, o comunque comprensione, sono naturalmente, per la proprietà transitiva, anche lo “Stato ebraico” (confuso con “gli ebrei”) e le sue imprese, comprese le più deprecabili ed ignobili.

Sfido chiunque a provare il contrario: le emeroteche con le collezioni dei quotidiani e delle riviste a maggior diffusione sono accessibili a tutti.

Che rilevare una simile ovvietà possa esporre alla scontata accusa di “antisemitismo” non ce ne può fregare di meno, perché a noi interessa solo la verità e dire le cose come stanno, con la maggior equanimità possibile, facendo il massimo sforzo per mettersi sempre nei panni degli altri (anche quando abbiamo scritto di “gay” e “razzismo”), ma senza deflettere di un’unghia dal dovere sacrosanto ed inalienabile di non fare lo struzzo per opportunismo o paura.

Tanto per cominciare, diciamo subito che lo stesso identico monopolio culturale risulterebbe indigesto e sospetto anche se venisse esercitato da quelli che possono essere i nostri rispettivi temi o personaggi prediletti. Non sarebbe infatti stucchevole e odioso se dovessimo sorbirci, a cadenza quotidiana e a senso unico, sperticate lodi all’indirizzo di un’opera d’arte o dell’ingegno per l’unico fatto di provenire da un autore della nostra idea preferita o religione professata, di trattare dell’unico argomento che ci sta a cuore e che riteniamo importante, di portare la firma di giornalisti e “critici” di nostro gradimento perché ci riconfermano nelle nostre convinzioni?

Dove andrebbe a finire l’osannato “pluralismo delle idee”? A cosa si ridurrebbe il “mondo della cultura”? A un museo delle cere, come quello al quale è stato ridotto attualmente, a causa d’una miscela esplosiva di fattori che trovano il loro collante nell’esigenza di tenere una nazione in uno stato di narcosi prolungata a tutto vantaggio dell’attuale servitù politica, economica, militare e, appunto, culturale, che perdura, con successivi peggioramenti dovuti all’assenza di uomini degni di questo nome, di veri Italiani, dal 1945 ad oggi.

Ma si può tranquillamente affermare che tutti i “liberati” come noialtri sono sotto il seguente ricatto: “Attenti, che se vi considerate una grande nazione e riprovate ad essere liberi, sovrani e indipendenti, potete fare davvero seri danni, soprattutto agli ebrei, e quindi a voi stessi, perché ‘siamo tutti ebrei’”.

Guai a dire che gli aderenti ad una religione o ad un’ideologia, o meglio ancora ad una ideologia religiosa, oppure gli affiliati ad una qualche organizzazione, una volta che monopolizzano (e comunque occupano in una percentuale esorbitante rispetto a quanti sono in una data società) la “cultura” non faranno altro che insufflare in tutti gli altri la loro sensibilità e la loro visione del mondo. E questo per forza di cose, senza che intervenga una particolare “intenzione”.

Propongo un esempio assurdo per spiegare il concetto: immaginiamo che i contenuti delle pagine culturali dei giornali vengano scelti e gestiti da una maggioranza di talebani nei posti-chiave che scrivono solo di talebani, vita talebana, gusti talebani (e nemici dei talebani, dipinti malissimo!). Che cosa accadrebbe pian piano ai lettori? Che a poco a poco si ‘talibanezzerebbero’, schiaffando un bel burqa alle loro donne e perorando il cannoneggiamento di tutto il patrimonio artistico del Bel Paese. Quale forma mentis prenderebbe pian piano il lettore abituale di giornali i cui temi “culturali” venissero selezionati da un comitato redazionale di tagliatori di teste dell’Amazzonia? Il lettore italiano comincerebbe a convincersi che sì, non è poi così male staccare la capoccia a qualcuno che ci sta sulle balle per farci una zanza da mettere sul comodino.

Simili assurdità non sarebbero una cosa di fronte alla quale verrebbe spontaneo ribellarsi? La risposta è lapalissiana.

Certo, qui la questione è più sfumata, essendo l’identità ebraica (o la mera giudeofilia, quando non si tratta di persone che si definiscono “ebrei”) dei vari “addetti alla cultura” nelle cosiddette “democrazie” qualcosa di meno ‘esotico’ e alieno rispetto al nostro carattere e modo di vedere la vita e il mondo.

Ma ne siamo così sicuri?

Si tratta infatti di una questione di percezione. Siamo proprio certi che il “nostro” modo di pensare (che comprende anche il rapporto col divino) e di vivere corrisponda a quello incoraggiato da ciò che assomiglia alla famosa tortura medievale, quella della gocciolina che pian piano scava un foro nel cranio? Una gocciolina sulla testa non fa nulla, infatti, ma qua è come se fossimo legati ad una sedia mentre qualcuno (questi “opinionisti” ed “addetti alla cultura”) ha aperto il rubinetto sulla nostra testa. Ma goccia a goccia, affinché uno non se ne renda conto, e quando ce la fa ormai è troppo tardi.

Le vie d’uscita, a quel punto, sono due: o viene chiuso il rubinetto o si riesce a tagliare le corde che tengono legati alla sedia.

La seconda opzione è senz’altro da preferire perché qualora si eliminasse la fonte di cotanto fastidio resterebbe il problema delle corde. Invece, una volta liberatosi il torturato può chiudere il rubinetto, regolando poi i conti con chi gliel’aveva aperto sul capo per torturarlo.

Ma è evidente che se le corde sono ben salde, c’è bisogno di qualcuno che arrivi per tagliarle. Ora, questo “qualcuno” non è un filantropo che accorre da fuori, ma siamo noi stessi. O meglio la nostra coscienza, che ad un certo punto si risveglia ed esce dall’illusione in cui è stata imprigionata.

Quelle ‘corde’ infatti non esistono, ma esiste solo chi ci fa credere che esistano, che siano strettissime e sia impossibile tagliarle, ed esiste anche la nostra ferma convinzione al riguardo.

Solo da questo può nascere la recente ed assurda idea, veicolata dalla “cultura di massa”, che “siamo tutti ebrei” (mentre sarebbe impossibile farci credere che “siamo tutti talebani” o “tutti tagliatori di teste dell’Amazzonia”). E non, attenzione, una convinzione viva solo in determinate occasioni, come ci si potrebbe attendere quando un soggetto X, Y, Z vien fatto oggetto di qualche grave ingiustizia ed allora per solidarietà si afferma “siamo tutti X, Y, Z”. No, il “siamo tutti ebrei” vale sempre, ininterrottamente, 24 ore su 24 e 365 giorni l’anno, al punto che quelli che non lo sono hanno cominciato a crederci per davvero!

Tradotto in termini pratici, hanno preso a pensare che il “bene degli ebrei” in quanto ente collettivo dotato di un che di magico equivalga al nostro, o addirittura che vada anteposto al nostro, poiché se le cose vanno bene per loro saranno buone anche per noi, che alla fine abbiamo pure introiettato, assieme ad una tonnellata di “sensi di colpa”, un incapacitante complesso d’inferiorità nei loro confronti, anche quando, per reazione, prevista in percentuali contingentate e perciò controllabili, si sviluppa in qualcuno un odio cieco verso “gli ebrei”: “l’antisemita” è un esito previsto e in parte cercato dell’eccesso di giudeofilia che pervade una società.

La questione non è né nuova né di lana caprina. Lo storico del Nazionalsocialismo, George L. Mosse, ebreo, raccontando della sua famiglia proprietaria di parecchi giornali avalla indirettamente la critica degli hitleriani secondo cui, nella Germania prima del 1933, “tutti i giornali” erano “in mano ad ebrei” (Intervista sul Nazismo, a cura di M. Ledeen, ed. 1992, Mondadori, pp. 1-4). Va da sé che la smania di averla vinta su tutta la linea, e per di più senza nemmeno un po’ di accortezza, provoca una reazione eguale e contraria dagli esiti incontrollabili.

Adesso, che in Mongolia tutti i giornali siano controllati da mongoli, a me pare una cosa sana e normale. Che i direttori delle principali testate del Togo siano togolesi, mi sembra altrettanto serio; così come ritengo onesto che i curatori delle “pagine culturali” ed i contenuti in esse trattati, in ogni nazione, debbano appartenere alla compagine nazionale maggioritaria e riferirsi ad argomenti di primario interesse per i connazionali, che hanno tutto il diritto di elevarsi traendo il meglio da sé quando fruiscono di cultura, non di essere intortati con argomenti pretestuosi e forzature d’ogni genere, per non parlare del gusto particolare nell’insozzare e degradare tutto e tutti, specifico di certi “artisti” e “comici”.

Ma ho anche detto all’inizio che è bene fare sempre lo sforzo di mettersi nei panni degli altri. Che in “Israele” le testate giornalistiche e radiotelevisive siano dirette da ebrei a me non pare affatto scandaloso. E che i temi “culturali” privilegino un indirizzo confacentesi a quello auspicabile per il bene collettivo della “nazione israeliana” (o quello che ritengono tale i suoi dirigenti), secondo me non fa una piega.

Ma ciascuno dev’essere padrone a casa sua, compreso il diritto di vedersi inoculare nella propria mente le idee che meglio gli fanno, lo rafforzano e lo rendono fiero ed orgoglioso di quel che è, non il patetico e tremebondo individuo della “democrazia”, perennemente spaventato all’idea di farsi e di fare del male, ridotto alla controfigura di stesso, ad uno spettro deambulante.

Ora, i “liberati”, per i quali è prescritto il “regime democratico”, devono sorbirsi il monopolio della loro “cultura” da parte d’individui che tirano l’acqua solo al loro mulino, si divertono a mischiare le carte e a confondere le idee, “criticando” tutto con la loro lingua sciolta e l’assenza di freni inibitori. Tutto ciò è veramente molto grave e nocivo.

E anche autolesionistico. Si prenda a puro titolo d’esempio (poiché la casistica è sterminata) quanto è stato pubblicato da “La Stampa” nelle sue “pagine culturali” del 6 maggio 2012. Vi si trova un articolo-intervista, firmato Maurizio Molinari (corrispondente da New York che E. Ratier, in Misteri e segreti del B’nai B’rith – trad. it. Verrua Savoia, 1995 – indica come organico all’organizzazione sionista) dedicato ad un “grande caricaturista americano”, Marc Podwal, che ha pubblicato un “bestiario” che ha come filo conduttore le sue vignette incentrate sulla “zoologia ebraica” (un argomento di estremo interesse per i “non ebrei”!): “C’è l’animo di noi ebrei negli animali della Bibbia”.

Bene, questa è la vignetta riprodotta a pagina 30. Una lupa capitolina che proietta la sua “vera” ombra, quella di un maiale.

Vale anche la pena di leggere la domanda concernente e la relativa risposta: “Perché il maiale è associato con l’immagine della lupa di Roma? La lupa capitolina, che allatta Romolo e Remo, proietta l’ombra di un maiale. Antichi scritti ebraici paragonano l’odiato nemico romano – responsabile della distruzione del secondo Tempio di Gerusalemme – a un maiale. Per il Talmud il maiale incarna 9 delle 10 misure di malattie terrene. I rabbini considerano il maiale così abominevole che il Talmud tende a evitare di menzionarlo, chiamandolo ‘l’altra cosa’”.

Adesso bisogna fare un piccolo sforzo, che per alcuni sarà sovrumano, e ricordarci che siamo in Italia, e che le italiche “radici”, più che nel “giudeo-cristianesimo” (che significa: Cristianesimo “riformato” filo-ebraico e anti-islamico), affondano nel terreno della Romanità. L’immagine della lupa che allatta i gemelli è qualcosa che sta nel nostro sentire più profondo, un simbolo molto commovente e rivelatore di predisposizione a grandi imprese (due neonati allattati amorevolmente da un animale così “feroce”), nonché di superiorità…

“Orrore! Gli unici superiori siamo noi”, avrà pensato qualche “addetto alla cultura”… Meglio far circolare l’idea della lupa-maiale, con tutte le implicazioni del caso. Sì, perché nulla passa invano ed indifferente. Immagini di leggere un libro di storia e invece sei immerso in una favola; pensi di “divertirti”, ma ti stanno insultando senza posa; sei convinto di “elevarti” fino alle sommità della “cultura”, ma stai sguazzando in un trogolo.

Queste situazioni non avvengono a caso. Si verificano quando una nazione, vinta, perde la sua identità.

Intendiamoci, non stiamo affermando che uno non possa avere più identità. Tutti noi ne abbiamo di molteplici, etniche, religiose, ideologiche, territoriali ecc. Possono perciò coesistere un’identità italiana ed una ebraica nella medesima persona? Certamente. Ma a patto che al di là di tutto, si faccia chiarezza dentro se stessi e ci si metta a disposizione, con animo dedito e sincero, alla grandezza della propria Patria, che è la casa di tutti. Questo era, in fin dei conti, l’atteggiamento di molti onesti patrioti italiani ebrei (e persino fascisti!), fino alla Seconda guerra Mondiale.

Ma oggi il discorso è cambiato. Dal 1948 esiste un chiaro problema di “doppia fedeltà”, perché in una tasca c’è il passaporto italiano e nell’altra quello israeliano, e non è la stessa cosa che avere – poniamo – un doppio passaporto dell’Italia e del Burkina Faso. “Israele” non è un soggetto geopolitico creato e difeso per mantenere la pace nel Mediterraneo, né per permettere all’Italia di tornare a svolgere la sua naturale funzione, al centro del Mare Nostrum. In simili condizioni, il doppio passaporto è uno scandalo bello e buono.

Ed è scandaloso anche che sulla “nostra” carta stampata, da quella “autorevole” a quella più settoriale (come il bollettino della Coop), vi sia una così palese, ingombrante ed incalcolabile rappresentazione di personaggi, temi e modi di pensare legati in qualche mondo al “mondo ebraico”, ad opera di addetti che, dagli “intellettuali” che fabbricano le opinioni ai redattori e i collaboratori delle “pagine culturali”, sono incessantemente impegnati ad occupare uno spazio, circoscrivendone attentamente i limiti affinché non emerga altro, approfittandone per modificare e plagiare le coscienze di lettori che vanno confusi ed abbrutiti ad un livello tale che non sappiano letteralmente più chi sono e non azzardino alcuna strategia di resistenza e di rinascita.

Chi ci ha occupato prima militarmente e poi politicamente ed economicamente, sa bene che la cultura non è un ambito da poter lasciare, senza rischi per la sua egemonia, in mano ad elementi nazionali fedeli a se stessi e al proprio panorama interno. Quelli, anzi, vanno emarginati, esclusi, messi a tacere o sbattuti al pubblico ludibrio di una maggioranza “acculturata” che vive in uno stato di allucinazione, alienata e talmente lobotomizzata da essere la prima alleata del Badrone appena qualche indomito eroe del suo stesso sangue sguaina la spada per guidare la riscossa.

Una riscossa che, presto o tardi, dovrà passare anche per il ripristino di una nostra cultura, una cultura italiana autenticamente nazionale, nel quadro di una battaglia non più procrastinabile per la nostra sovranità, libertà ed indipendenza.

Fonte

http://freeyourmindfym.wordpress.com/2013/03/20/si-scrive-cultura-si-legge-fregatura/

Obama a Tel Aviv pensando a Teheran

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di Michele Paris

 

La prima attesissima visita ufficiale in Israele da presidente degli Stati Uniti di Barack Obama si è aperta mercoledì con l’arrivo dell’inquilino della Casa Bianca all’aeroporto internazionale di Tel Aviv, da dove ha immediatamente raggiunto Gerusalemme in elicottero per un lungo faccia a faccia ed una cena con il primo ministro, Benjamin Netanyahu.

La vigilia della due giorni in Israele è stata preceduta da ripetuti avvertimenti dei portavoce del governo di Washington a non aspettarsi nuove proposte concrete da parte del presidente democratico ai suoi interlocutori soprattutto attorno alla questione palestinese – lasciando intendere come il vero scopo della visita non sia altro che il coordinamento tra i due alleati dell’approccio alle crisi in Siria e Iran, ma anche la dimostrazione che, nonostante i dissapori di questi anni, i due alleati rimangono fermamente sulla stessa lunghezza d’onda.

 Superate più o meno agevolmente le preoccupazioni elettorali di entrambi i leader, la visita di Obama in Israele era stata programmata agli albori del suo secondo mandato principalmente per rassicurare le potenti lobbies israeliane, preoccupate per una presunta insufficiente fedeltà del presidente al principale alleato americano in Medio Oriente. Nelle parole dei comunicati ufficiali, la visita in corso sarebbe perciò l’occasione per Obama di “connettersi con il popolo di Israele”.

 

 Su questo messaggio ha infatti insistito il presidente appena sbarcato a Tel Aviv mercoledì, sostenendo già sulla pista dell’aeroporto la sua volontà di “riaffermare il legame indissolubile e l’alleanza eterna tra le nostre due nazioni”. Obama ha poi annunciato che “la pace deve giungere in Terra Santa”, proprio mentre i due governi continuano al contrario a manovrare per la destabilizzazione della regione e a progettare nuove e rovinose guerre in Siria e in Iran.

 

 Non a caso, il legame militare tra Washington e Tel Aviv è stato subito mostrato all’opinione pubblica internazionale con l’ispezione da parte di Obama di una batteria del sistema di difesa anti-missilistico di Israele denominato “Iron Dome”, trasportato appositamente in un hangar dell’aeroporto.

 Finanziato in buona parte proprio dagli Stati Uniti, questo strumento viene presentato come un mezzo efficace per intercettare e distruggere i missili lanciati da coloro che, a Gaza e in Libano, desidererebbero l’annientamento dello stato ebraico, mentre in realtà non è altro che un sistema che dovrebbe consentire a Israele di condurre liberamente le proprie politiche aggressive e guerrafondaie nella regione limitando al minimo i danni collaterali causati dalla reazione di paesi ed entità vicine.

 Quest’ultimo principio, da affermare a tutti i costi per mantenere un’incontrastata superiorità militare in Medio Oriente, è anche alla base delle continue minacce di un’aggressione militare preventiva per distruggere il programma nucleare dell’Iran, anche se per il quale non esistono prove che sia diretto alla creazione di armi atomiche.

 Il nucleare iraniano è in ogni caso uno dei punti centrali del vertice Obama-Netanyahu, attorno al quale i due governi hanno una sostanziale identità di vedute. Entrambi intendono cioè sfruttare il programma nucleare civile di Teheran per giungere all’obiettivo ultimo di rimuovere l’attuale regime della Repubblica Islamica, contro il quale le rispettive agenzie di intelligence conducono da tempo operazioni clandestine di sabotaggio.

 Le differenze emerse apertamente finora tra i due leader sembrano piuttosto di natura tattica, con Netanyahu che, almeno pubblicamente, ha manifestato una maggiore impazienza per l’adozione di misure estreme contro l’Iran, laddove Obama ha espresso toni relativamente più moderati, sostenendo di puntare ad una soluzione diplomatica della crisi pur mantenendo “sul tavolo qualsiasi opzione”.

 

Approfittando forse anche della recente débacle elettorale di Netanyahu, costretto a formare un governo di coalizione con alcune formazioni politiche moderate, Obama ha probabilmente provato a convincere il primo ministro israeliano ad attendere che la diplomazia faccia il proprio corso prima di ricorrere ad un’opzione militare che gli USA non hanno peraltro mai escluso.

 A tal proposito, un messaggio di conciliazione, anche se da qualche osservatore considerato in contrasto con la posizione di Netanyahu, era stato lanciato da Obama nei giorni scorsi in un’intervista rilasciata alla rete televisiva israeliana Channel 2. In essa, il presidente democratico aveva per la prima volta formulato un termine temporale per il raggiungimento della capacità di costruire un’arma nucleare da parte iraniana.

 Anche se per Obama la data limite in questo senso cadrebbe tra un anno o poco più, a differenza di Netanyahu che riteneva più probabile la prossima estate, l’adeguamento da parte dell’inquilino della Casa Bianca alla retorica dell’alleato può essere considerato sia come un invito a superare le divisioni sia come un via libera ad un eventuale attacco israeliano unilaterale contro la Repubblica Islamica.

 Pressoché identiche sono poi le vedute di USA e Israele sulla Siria, dal momento che entrambi i governi hanno deciso da tempo di mettere da parte le esitazioni e di adoperarsi per un cambio di regime a Damasco, valutando più importanti i vantaggi strategici di una tale soluzione rispetto non solo al rischio di un predominio di forze integraliste nel dopo Assad ma anche alla devastazione sociale e alle decine di migliaia di morti provocati dal conflitto in atto.

Il coordinamento delle operazioni da condurre nei prossimi mesi per garantire un esito della guerra civile il più favorevole possibile agli interessi di Washington e Tel Aviv è stato perciò con ogni probabilità oggetto di discussione tra Obama e Netanyahu.

 Nel corso della conferenza stampa congiunta tra i due leader nella serata di mercoledì, il presidente statunitense ha poi ribadito l’impegno del suo paese per la sicurezza di Israele, dipingendo come al solito un quadro regionale nel quale sarebbe lo stato ebraico ad essere seriamente minacciato e non, come accade in realtà, esso stesso la principale minaccia alla stabilità mediorientale.

 Di fronte alla stampa internazionale, Obama ha inoltre affermato l’interesse americano per la creazione di uno stato palestinese forte e sovrano, anche se in realtà nessun serio sforzo viene dedicato in questa visita alla riapertura dei negoziati di pace con l’Autorità Palestinese. Questo punto era stato al centro della politica estera di Obama all’inizio del suo primo mandato ma è stato sostanzialmente messo da parte fin dal 2010, quando i colloqui si sono arenati attorno alla questione del blocco degli insediamenti illegali di Israele nei territori occupati.

 Pressato da esigenze interne e da un Congresso totalmente appiattito sulle posizioni più estreme della destra sionista, Obama ha ormai del tutto abbandonato ogni tentativo di spingere Netanyahu a fare qualche concessione ai palestinesi per tornare al tavolo delle trattative. Il presidente americano, inoltre, si trova ora di fronte un primo ministro che ha appena creato un nuovo esecutivo del quale fanno parte politici contrari ad una soluzione basata sulla creazione di due stati e totalmente a favore dell’espansione degli insediamenti considerati fuori legge da tutta la comunità internazionale.

 Con queste premesse, è apparsa scontata la scelta della Casa Bianca di limitare al minimo indispensabile gli incontri con i vertici palestinesi nel corso della visita di questa settimana. Nella giornata di giovedì, Obama vedrà a Ramallah – dove mercoledì in centinaia hanno manifestato contro il presidente USA – il numero uno dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), e il primo ministro, Salaam Fayyad, mentre tornerà ancora in Cisgiordania venerdì per visitare la Basilica della Natività a Betlemme.

 Nessuna visita è prevista invece, ad esempio, alla Moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme Est o in zone che implicherebbero il passaggio attraverso il muro che separa Israele dalla Cisgiordania, né tantomeno il governo americano ha accettato un incontro del presidente con i familiari dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane.

 Dal punto di vista mediatico, il momento clou della trasferta in Israele di Obama è il discorso che terrà giovedì in un centro congressi di Gerusalemme di fronte ad una platea di studenti accuratamente selezionati. Questo evento, considerato da molti il corrispondente del noto discorso tenuto al Cairo nel 2009 davanti a studenti musulmani, è stato valutato come un’alternativa più sicura ad un intervento alla Knesset (Parlamento), dove la diffidenza nei confronti di Obama tra la destra israeliana rimane ampiamente diffusa.

 Le poco meno di 48 ore trascorse in Israele si concluderanno infine venerdì, quando il presidente democratico si sposterà ad Amman per incontrare un’altra pedina fondamentale nelle strategie americane in evoluzione in Medio Oriente, il sovrano hascemita di Giordania Abdullah II.

http://www.altrenotizie.org/esteri/5394–obama-a-tel-aviv-pensando-a-teheran.html

 

M5S al Copasir: svuoteranno gli archivi dei servizi?

di  | 21 marzo 2013 – Da: Il Fatto Quotidiano

Portella della Ginestra, la bomba senza artificieri di Piazza Fontana, la strage di Brescia, quella della stazione di Bologna, la strage dell’Italicus, l’omicidio di Aldo Moro, di Mauro De Mauro, di Ilaria Alpi e di Mauro Rostagno. Pier Paolo Pasolini massacrato di botte da mani oscure e l’aereo del presidente dell’Eni Enrico Mattei. E poi un altro aereo, quello caduto su Ustica senza un perché. L’ombra di Stay Behind dietro la strage di Alcamo Marina, apparati, servizi e boss che confezionano il botto in via d’Amelio, l’agenda rossa di Paolo Borsellino e la scomparsa di Emanuela Orlandi, la strage degli innocenti in via dei Georgofili. E poi quella di Brindisi, scomparsa troppo presto dalle pagine dei quotidiani. Dipanare il filo rosso delle stragi irrisolte di questo Paese fa quasi impressione. Fa impressione soprattutto perché i botti senza colpevoli che hanno insanguinato la storia italiana sono molto più diffusi di quelli che hanno poi trovato ricostruzioni credibili nelle aule di tribunale.

Uno dei problemi di questo Paese è che non c’è ad oggi una narrazione condivisa della Storia italiana. A ben pensarci di storie d’Italia ne esistono più di una: una ufficiale, una ufficiosa e presunta, ed un’altra – la più importante – fatta di dubbi, domande e oscuri interrogativi. Tutte questioni alle quali hanno provato a dare una risposta inchieste giornalistiche e storiche. Ma quando si tratta di trovare il bollo di autenticità in un’aula di giustizia quei dubbi rimangono fermi e cristallizzati. Solo per fare un esempio, ci sono voluti 50 anni esatti perché un giudice terzo mettesse nero su bianco che l’aereo di Enrico Mattei non era caduto per un incidente ma era stato sabotato.

Eppure in questo Paese un sancta sanctorum delle verità occultate potrebbe anche esserci. Sono gliarchivi dei servizi, che troppo spesso hanno giocato molteplici e controversi ruoli sullo sfondo delle stragi. La procura di Palermo, indagando sulla scomparsa del giornalista dell’Ora Mauro De Mauro, chiese ai servizi di produrre i fascicoli delle operazioni messe in atto dal Sid (l’allora servizio informativo della difesa) nel periodo della scomparsa del cronista. “Il Servizio informazioni della Difesa ha comunicato di non aver svolto alcuna indagine sulla scomparsa del giornalista Mauro De Mauro” fecero sapere gli 007 su carta intestata del Ministero della Difesa. Eppure più di un testimone aveva raccontato di come l’allora capo del Sid Vito Miceli si fosse precipitato a Palermo nel novembre del 1970 per ordinare di insabbiare le indagini sulla scomparsa di De Mauro. Forse di quelle operazioni non esistono fascicoli o prove scritte. Forse non esistono più. O forse semplicemente non verranno mai fornite ad una procura.

Adesso però si parla di una possibile presidenza del Copasir al Movimento Cinque Stelle. Un’ipotesi che sembra atterrire alcuni commentatori di indubbia autorevolezza. “Ma come? I grillini a guardia della sicurezza della Repubblica?” L’idea che i parlamentari a Cinque Stelle “forzino” il sancta sanctorum dei segreti di Stato, però, è stimolante. Almeno per un cronista. Perchè  le tante verità negate alla conoscenza dei cittadini fanno dell’Italia una democrazia a tutti gli effetti monca. È una democrazia monca che democrazia è? 

 

La Nato codifica le nuove guerre cibernetiche

Il tentativo dell’Alleanza Atlantica è quello di tentare una regolamentazione degli attacchi informatici e ottenere la patente di gendarme mondiale 

Andrea Perrone

In un mondo sempre più globalizzato in cui si ripetono e si susseguono gli attacchi informatici per spiare e colpire altri Stati, la Nato ha preparato un manuale per regolamentare – a modo suo – le guerre cibernetiche, naturalmente a difesa degli interessi esclusivi dell’impero a stelle e strisce. Il documento prevede che gli attacchi online possano in futuro dare vita a veri e propri conflitti militari. A denunciarne i pericoli è stato il quotidiano britannico The Guardian, con un lungo articolo in cui vengono ricordati gli attacchi informatici compiuti anni fa contro i siti nucleari iraniani da parte di un virus di origine statunitense o israeliana, che mise fuori uso le centrifughe utilizzate per l’arricchimento dell’uranio. Il virus utilizzato, denominato Stuxnet, venne creato e appositamente diffuso dal governo Usa, nell’ambito dell’operazione “Giochi Olimpici” iniziata dal presidente americano George W. Bush nel 2006 costituita da un’ondata di attacchi digitali contro l’Iran in collaborazione col governo di Tel Aviv nella centrale nucleare iraniana di Natanz, allo scopo di sabotare la centrifuga della centrale tramite l’esecuzione di specifici comandi inviati all’hardware di controllo industriale responsabile della velocità di rotazione delle turbine al solo scopo di danneggiarle irreparabilmente. L’opinione condivisa tra gli esperti della Nato che hanno operato a Tallinn per la realizzazione del documento, hanno paragonato l’attacco alle centrifughe iraniane ad un conflitto armato.
Con la recente pubblicazione di questo documento, la Nato vuole dimostrare di essere invece un’organizzazione di buontemponi altruisti, che mira ad evitare attacchi cibernetici in grado di colpire obiettivi civili come ospedali, dighe e centrali nucleari, e non come è ormai evidente il gendarme mondiale al servizio degli interessi statunitensi. Tuttavia secondo la Nato le norme hanno costituito il primo tentativo di regolare la cosiddetta cyberwarfare. Le norme redatte prevedono anche che gli Stati possano rispondere con le forze convenzionali a un attacco informatico, condotto da un altro Paese, che abbia provocato morti o ingenti danni.
Il manuale, composto di 95 norme piuttosto stringate, è stato redatto da 20 esperti legali che hanno lavorato per tre anni a stretto contato con il Comitato internazionale della Croce Rossa e il Cyber Command statunitense, prevede anche che gli hacker colpevoli degli attacchi, anche se civili, possano essere considerati obiettivi legittimi dai militari. Il gruppo di esperti è stato invitato a preparare il manuale – presentato giorni fa a Londra al think-tank Chatham House – dal Co-operative Cyber Defence Centre of Excellence della Nato, che si trova proprio a Tallinn, in Estonia. Il centro è nato a Tallinn in Estonia nel 2008, dopo un’ondata di attacchi contro i Paesi Baltici partiti dalla Russia per colpa degli estoni che nella Federazione russa distrussero il simbolo della vittoria moscovita, ovvero il monumento al soldato russo. E il fatto che l’attività di attacco cibernetico venga svolta in Estonia dimostra che i nemici di Washington sono nelle vicinanze, ovvero Mosca e Pechino, due Stati emergenti nemici assoluti dell’unipolarismo statunitense in lento declino.
La Nato si prepara così a lanciare i suoi attacchi cibernetici mascherandoli da strumenti per garantire la difesa contro i cosiddetti “Stati canaglia”.
Intanto però si organizza per regolamentare in modo per ora molto sommario gli attacchi informatici, che secondo il documento Nato, devono evitare obiettivi sensibili e civili come ospedali, dighe, argini e centrali nucleari. Tuttavia a detta del manuale di consultazione relativo alla cyberguerra gli attacchi online potrebbero costituire in futuro dei conflitti militari in piena regola.
Le regole elaborate da una serie di esperti pagati dall’Alleanza Atlantica rappresentano il primo tentativo di codificare sul piano del diritto internazionale gli attacchi on-line e prevede una serie di disposizioni utili agli Stati per rispondere con le forze convenzionali se l’aggressione è compiuta con l’intento di inserirsi nelle reti informatiche di altri Paesi provocando risultati mortali o gravi danni a cose.
Il manuale, redatto da 20 esperti di giurisprudenza che lavorano in collaborazione con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e del Comando US Cyber, è composto da 95 regole e afferma che le guerre su vasta scala potrebbero essere innescate da attacchi online su sistemi informatici. 
Il documento afferma inoltre che i cosiddetti hacker che organizzano i loro attacchi online persino durante una guerra possono avere obiettivi legittimi anche se sono civili. Il gruppo di esperti è stato invitato a redigere il manuale da parte della Co-operative Cyber Defence Centre of Excellence (CCDCOE) della Nato a Tallinn, la capitale estone. Il periodo di realizzazione del documento è stato di tre anni.
Nel gennaio scorso il premier conservatore britannico David Cameron ha annunciato che anche il Regno Unito è pronto ad unirsi al CCDCOE entro il 2013. L’ambasciatore del Regno Unito a Tallinn, Chris Holtby, ha osservato che “il Regno Unito invierà un esperto così come continuerà la più ampia cooperazione tra il Regno Unito e il centro già esistente. Il Regno Unito apprezza molto il lavoro del centro e guarda avanti per aumentare il nostro contributo”.
Il colonnello Kirby Abbott, un consigliere giuridico aggiunto presso la Nato, ha dichiarato in occasione della presentazione del manuale che attualmente è “il documento più importante della legge per la cyber-guerra. Sarà molto utile”.
La norma 22 del manuale cita testualmente: “Un conflitto armato internazionale esiste quando ci sono ostilità, che possono comprendere o essere limitate anche alle sole operazioni informatiche che si verificano tra due o più Stati”. Il manuale suggerisce proporzionate “contromisure” contro gli attacchi on-line da parte di uno Stato, “contromisure” che sono per questo assolutamente consentite. Tali misure non possono comportare l’uso della forza, tuttavia, a meno che il cyber attacco non abbia provocato morti o gravi danni a cose e persone. Formulare un quadro per consentiti contromisure non deve abbassare la soglia per futuri conflitti, ha dichiarato il professor Michael Schmitt, direttore del progetto, che lavora presso la US Naval War College al Guardian. “Si può soltanto usare la forza quando si raggiunge il livello del conflitto armato. Tutti parlano di cyberspazio come se fosse il selvaggio west. Abbiamo scoperto che ci sono numerose leggi che si possono applicare al cyberspazio”, ha osservato il consigliere presso la Nato. In molti casi è difficile individuare la sorgente di un attacco online. Il mese scorso da Shanghai sarebbe partito un attacco da una unità dell’esercito cinese, che è stata allo stesso tempo la fonte di numerosi altri attacchi informatici a livello globale, dimostrando chiaramente la difficoltà nel riconoscere i responsabili di eventuali danni ai sistemi informatici.
La norma 7 del documento afferma invece che se un’operazione di cyberwarfare proviene da una rete del governo, “non è una prova sufficiente per attribuire l’operazione a quello Stato, ma sta ad indicare che lo Stato in questione è collegato con l’operazione”.
Il manuale sostiene inoltre che, in conformità con la Convenzione di Ginevra, gli attacchi ad alcuni siti chiave civili sono assolutamente da ritenersi fuorilegge. L’articolo 80 del manuale afferma testualmente che “al fine di evitare la presenza di sostanze pericolose e di conseguenza, gravi perdite tra la popolazione civile, particolare attenzione deve essere fatta durante i cyber-attacchi contro le installazioni di opere che racchiudono elementi dannosi, ovvero dighe, argini, centrali nucleari ed elettriche, nonché impianti situati nelle loro vicinanze”. Gli ospedali e le unità mediche sono protette come lo sarebbero in base alle norme che disciplinano la guerra tradizionale.
Il manuale non costituisce tuttavia un documento ufficiale della Nato, ma un semplice manuale di consultazione. Per questo è stato già pubblicato dalla Cambridge University Press, visto che a lavorare alla realizzazione del progetto hanno lavorato diversi avvocati britannici. Ma come al solito tutto ciò che viene dagli ambienti politico-militari dell’Alleanza Atlantica assume con il tempo una rilevanza anche di natura giuridica per annientare l’avversario se non con le armi almeno con i processi. Nel 2010 la strategia di sicurezza nazionale del Regno Unito, ha definito i cyber-attacchi, compresi quelli ad altri Stati, come una delle quattro minacce “di primo livello”, assieme al terrorismo, alle crisi militari e ai contrasti rilevanti tra Stati. Tuttavia il timore è che a farne le spese saranno tutti coloro, Stati emergenti in particolare, che non si piegano ai voleri dell’Occidente euro-atlantico, e per questo insieme ad altri Paesi la volontà mai sopita di esportare la democrazia a suon di bombe e di attacchi informatici.

21 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19797

 

Siria. Le armi chimiche ribelli imbarazzano l’Occidente

Ennesimo scontro all’interno della Coalizione di Doha. La vice presidente Atassi lascia l’incarico all’indomani della nomina di Hitto 

Matteo Bernabei

L’utilizzo di armi chimiche nel conflitto in corso in Siria resta per il secondo giorno consecutivo al centro del dibattito internazionale. All’indomani dello scambio di accuse tra il governo di Damasco e le opposizioni, infatti, il fronte intervista occidentale continua la sua opera di mistificazione puntando il dito contro il governo di Bashar al Assad e le forze armate siriane, pur non avendo a supporto di tali accuse alcuna prova concreta. Un’assenza totale di riscontri certi sull’utilizzo di questo tipo di ordigni da parte dell’esercito del Paese arabo, sottolineata ieri anche dal ministro dell’Intelligence israeliana Yuval Steinitz (foto). “Appare ormai chiaro che delle armi chimiche sono state usate contro dei cittadini siriani dai ribelli o dal governo. È un fatto molto preoccupante per noi e di cui ci dobbiamo occupare urgentemente”, ha affermato il rappresentante del governo di Tel Aviv, che rispondendo poi a una domanda diretta su chi avesse fatto ricorso ad armi non convenzionali, ha prima ribadito di non avere notizie confermate a riguardo e poi rilevato che questo per Israele “non ha importanza”. Quello che preoccupa le autorità israeliane è infatti il pericolo che queste armi arrivino lungo i loro confini, un timore non espresso esplicitamente dal ministro Steinitz forse per evitare nuovo imbarazzo al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in occasione della sua prima visita nel Paese. Il supporto degli Usa alla rivolta armata contro Damasco è cosa nota, così come la presenza di gruppi islamici estremisti tra le milizie ribelli, una pericolosa deriva estremista più volte denunciata in passato anche dalle stesse autorità di Tel Aviv.
A mettere in imbarazzo l’inquilino della Casa Bianca, che martedì scorso per bocca del suo portavoce aveva accusato apertamente le forze armate siriane di aver fatto riscorso ad armi non convenzionali, ci ha pensato però l’ambasciatore americano nel Paese mediorientale, Robert Ford.
“Finora non ci sono prove che avvalorino i resoconti che parlano di uso di armi chimiche in Siria”, ha dichiarato il diplomatico nel corso della sua audizione al Congresso.
Parole che tuttavia non hanno scoraggiato i detrattori di Damasco dal lanciare le solite accuse mediatiche. “Credo ci siano alte probabilità che siano state usate armi chimiche. Dobbiamo avere una verifica finale, ma sulla base di quanto sappiamo nell’ultimo anno e mezzo, concluderei che siano state posizionate per essere usate, siano pronte ad essere usate o siano già state usate”, ha affermato il presidente del House Intelligence Committee Usa, Mike Rogers, che non ha ovviamente specificato da quali informazioni abbia tratto tali conclusioni. Ignote anche le fonti del presidente della commissione Intelligence del Senato, Dianne Feinstein, secondo la quale Damasco in questo modo avrebbe oltrepassato la “linea rossa” tracciata dal presidente Obama e che potrebbe portare gli Usa a un intervento militare. Intervento diretto che non è in realtà nei piani futuri del capo di Stato nordamericano, il quale sta invece facendo di tutto per far fare il lavoro sporco ai propri alleati europei. Ad ogni modo, per chiarire la questione, il governo siriano ha rivolto al segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, un appello affinché formi una commissione d’inchiesta composta di esperti. Richiesta volta a dimostrare la propria estraneità ai fatti e, di contro, la colpevolezza delle truppe ribelli. Una simile richiesta è stata poi presentata anche dalle fazioni politiche estere che si oppongono a Damasco, senza tuttavia specificare chi dovesse occuparsi della questione. E mentre la macchina della mistificazione mediatica lavora senza sosta per ribaltare ancora una volta la realtà dei fatti sul campo, le opposizioni estere tanto care all’Occidente continuano a mostrare la loro fragilità, frutto di un’unione forzata dall’esterno.
Dopo la nomina di martedì del primo ministro del futuro e improbabile governo dissidente estero, la Coalizione di Doha perde un altro importante pezzo: si tratta del vice presidente Suheir Atassi, unica donna a ricoprire un incarico di rilievo nella piattaforma, che ieri ha congelato la sua appartenenza all’organizzazione.
Ad annunciarlo è stata la stessa Atassi attraverso una nota pubblicata sul suo profilo Facebook dove afferma che “in quanto cittadina siriana non intendo essere un accessorio”. Un’uscita di scena probabilmente motivata dall’ennesima decisione presa in maniera unilaterale dalla componente islamica della Coalizione, che ne costituisce la grande maggioranza. L’annuncio arriva infatti all’indomani della nomina di Ghassan Hitto, cittadino statunitense, eletto proprio grazie ai voti dei membri musulmani dell’organizzazione. Uno strapotere che già nell’estate scorsa aveva spinto Bassma Qodmani, un’altra donna membro del direttivo del Consiglio nazionale siriano, formazione dominata dai Fratelli musulmani con sede a Istanbul e successivamente confluita nel novembre scorso nella Coalizione, ad abbandonare la piattaforma costatandone l’inefficacia. Un’ennesima prova delle frizioni interne al fronte delle opposizioni, che di certo non può rappresentare e tantomeno parlare a nome dell’intero popolo siriano.


21 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19801

 

L’IGNORANTE ILLUMINATO, L’EUROPA E M5S

Scritto da Daniele Martinelli on marzo 20th, 2013

Caro Gad, rispondo al suo post nelle vesti di libero cittadino, prima che da commissario alla comunicazione dei deputati 5 Stelle. Parto da alcune rapide delucidazioni, visto che da ciò che scrive sul mio conto, dimostra effettivamente (come dice lei di sé stesso), “modesta ignoranza”, e dunque confusione. Ebbene, alla Camera il mio incarico sarà quello di responsabile della comunicazione del gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle. Tradotto in parole povere, significa che dovrò ottimizzare la comunicazione istituzionale del portavoce del Movimento, che in questi primi tre mesi sarà Roberta Lombardi. Per comunicazione istituzionale intendo consulenza e realizzazione di articoli, video, post e comunicati da diffondere quasi unicamente su internet, relativi alle attività e all e iniziative parlamentari del gruppo politico. Non compete a me entrare nel merito delle scelte e delle strategie politiche dei deputati del Movimento, tantomeno mi compete suggerire linee, decisioni o prese di posizione. Io non sono un eletto. Sono un professionista della comunicazione nato sulle macchine da scrivere, passato attraverso le redazioni radiofoniche e televisive in cui si doveva saper fare tutto: scrivere testi, condurre, cimentarsi in regia, usare la telecamera, sistemare le luci, l’audio, montare i servizi con metodo lineare, non lineare e poi digitale… Tutti questi lavori messi insieme hanno creato la recente (non per me) figura del videomaker. Che nell’accezione più moderna del termine significa esercitare attività di video-giornalista INDIPENDENTE. Questo è il lavoro che svolgo da almeno 15 anni e che cercherò di onorare con impegno full-time a Roma, in regime di spending review, retribuito al pari di un deputato del M5S: 5.000 euro lordi.

Chiarito questo primo fondamentale aspetto, vengo alle sue considerazioni inesatte e fuorvianti che scrive sul mio conto. La prima, e la più grave, data la sua statura di editorialista da prima pagina ignorante e modesto, è quella di portavoce. Se l’ha scritta in buonafede, vuol dire che ha tralasciato la regola più importante del giornalista, che è quella di documentarsi. Diventerebbe meno ignorante. Se, invece, l’ha scritta in malafede, ho un motivo in più per sperare di vedere azzerati i contributi pubblici all’editoria di cui anche lei beneficia in qualità di articolista sul quotidiano “La Repubblica”.

Lei mi chiede “compiacenza di motivare la gravissima affermazione rilasciata a SkyTG24 sul fatto che l’ingresso dell’Italia nell’euro sia frutto di una mossa massonica“. Tutte le affermazioni fatte in quell’intervista non sono il pensiero o la linea politica del Movimento 5 stelle. Sono mie libere opinioni. Lo av evo precisato durante la telefonata. Se l’avesse ascoltata, probabilmente, avrebbe evitato di fare il cascamorto per compiacere il Partito democratico, di cui non mi meraviglierei se lei avesse la tessera in tasca. Poi, relativamente alla mossa massonica, mi sembra di aver reso abbastanza l’idea. In senso figurato, la massoneria è un’attività di persone influenti nel tessuto sociale che perseguono obiettivi non sanciti da volontà popolare. L’ingresso dell’Italia nell’euro non è stato frutto di una decisione referendaria, o di una consultazione popolare. E’ stata un’operazione elitaria di un gruppo ristretto di uomini di governo in combutta con un gruppo di banchieri. Se la parola massoneria la spaventa, usiamo “consorteria“, o “conventicola“. Ci hanno martellato per anni, a cominciare dal suo beniamino Romano Prodi, con mantra del tipo “meno male che l’Italia, nell’euro, è salva“. Quel che vediamo oggi, senza av ere in dote “autorevolezza in materia economica e geopolitica“, da quando è scomparsa la lira è sotto gli occhi di tutti: debito pubblico alle stelle, costo della vita insostenibile, mancanza di liquidità, taglio dei servizi primari ai cittadini per onorare interessi su interessi, commissariamento degli Stati con sottrazione di sovranità nazionale, restrizione del credito, fuga di capitali nei paradisi fiscali eccetera eccetera. Cos’è questa secondo lei, caro Gad, se non un’azione criminale di stampo massonico mirata a portarci in rovina? Ci spieghi e ci motivi con compiacenza i benefici di questa operazione. Ci “illumini”, per favore, nella sua “modesta ignoranza“!

Finché non lo farà, io personalmente, rimarrò un estimatore della nostra vecchia liretta e, le dico in tutta franchezza, che se mai ci sarà un referendum sull’euro (benché i trattati attuali non lo consentano), voterò a favore di un ritorno alla sovranità monetar ia nazionale. Questa è una mia posizione personale, ribadita in molti post. Nel Movimento non so cosa pensano di questa materia. In qualità di consulente della comunicazione, non mi toccherà convincere i deputati in tal senso. Non rientra nelle mie competenze.

L’essere stato trombato alle parlamentarie del mio collegio, come lei una volta tanto sottolinea giustamente, non ha nulla a che vedere con le mie posizioni sull’euro. Mi hanno trombato perché del Movimento non sono mai stato attivista (controlli anche questa definizione). Ma non è stato un problema. Come non lo fu per il giovane Einstein essere trombato all’esame di ammissione al politecnico di Zurigo. Dunque se “Grillo&Casaleggio hanno imposto un trombato a sovrintendere sui deputati scelti dagli iscritti e eletti dal popolo“, lo hanno fatto perché in materia di comunicazione spetta ai titolari del logo politico decidere a chi affidarla. Anche qui, caro Gad, sarebbe bastato leggersi Statuto e regolamenti dei candidati al Movimento per documentarsi e diminuire “modestia e ignoranza” che purtroppo palesa nel suo scritto a mio carico. Il “Porcellum al massimo livello” che lamenta essere applicato ne i miei confronti, è la realtà ribaltata dei quotidiani finanziati con fondi pubblici all’editoria, di cui beneficia anche lei in barba alla volontà popolare (massoneria?) e in barba alle leggi del libero mercato. Su questo, sono sicuro, i deputati del Movimento non avranno bisogno di molti giri di parole spesi in comunicazione fritta. Tireranno diritti all’obiettivo di azzerarli. E qui, mi perdoni la partigianeria, tifo per loro. Cordialità.

fonte Link

http://altrarealta.blogspot.it/2013/03/lignorante-illuminato-leuropa-e-m5s.html

 

Travaglio: Grasso evitò di indagare Schifani, difeso dal Pd

Scritto il 20/3/13 •

«I 5 Stelle che han votato Grasso contro Schifani sapevano bene chi è Schifani e hanno scelto il meno peggio, cioè Grasso, ma non avevano la più pallida idea di chi è Grasso». E questo è un bel problema, dice Marco Travaglio, specie per chi dice di informarsi sul web per sfuggire alla propaganda di regime: «Se l’avessero fatto davvero, avrebbero scoperto che il dualismo Schifani-Grasso era finto». Schifani è sempre piaciuto al Pd, che infatti cinque anni fa «non gli candidò nessuno contro, votò scheda bianca e mandò la Finocchiaro a baciarlo sulla guancia». Quando poi lo stesso Travaglio raccontò in televisione «chi è Schifani», i primi ad attaccarlo furono Finocchiaro, Violante, Gentiloni, il direttore di “Rai3” Ruffini e “Repubblica”. «Schifani era il pontiere dell’inciucio Pdl-Pd. Così come Grasso che, per evitare attacchi politici, s’è sempre tenuto a debita distanza dalle indagini più scomode su mafia e politica, mentre altri pm pagavano e pagano prezzi indicibili per le loro indagini».

 Quando Grasso arrivò alla Procura di Palermo nel 2000, racconta Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, si ritrovò Schifani indagato per mafia «e lo fece subito archiviare (l’indagine fu riaperta dopo la sua dipartita)». Così, «un colpo al cerchio e uno alla botte», il neopresidente del Senato «divenne il cocco del Pdl (che lo impose alla Pna, estromettendo per legge Caselli), del Centro (che voleva candidarlo) e del Pd (che l’ha candidato)». Per Travaglio, «ciò che conta in politica non è la verità, bensì la sua percezione»: per questo, a Palazzo Madama, «era difficile per i grilli siculi non votare un personaggio da tutti dipinto come un cavaliere senza macchia e senza paura», secondo il ritratto fornito dai «media di regime» sempre allineati coi partiti, «con il sapiente dosaggio di mezze verità e mezze bugie e il dizionario doppiopesista delle grandi occasioni».

 Bersani accusa Grillo di leninismo? La regola base della democrazia è che si decide a maggioranza e chi perde si adegua o esce, salvo poche questioni che interpellano la coscienza individuale. «Così ha fatto M5S sui presidenti delle Camere, decidendo a maggioranza per la scheda bianca». Ma, siccome non piace al Pd, «la minoranza diventa democratica e la maggioranza antidemocratica». Bersani? Evoca il leninismo di Grillo, ma «senza spiegare con quale metodo democratico è passato in 48 ore dall’offerta delle due Camere a Monti e M5S, al duo Franceschini-Finocchiaro, al duo Boldrini-Grasso». Idem per il diritto al dissenso: «Da che mondo è mondo, il parlamentare che approfitta del segreto dell’urna per impallinare il suo partito è un “franco tiratore”», ma se invece è un grillino, allora la sua è «una sana manifestazione di dissenso contro la pretesa di Grillo di telecomandarlo». Per vent’anni, «se uno passava da destra a sinistra era un “ribaltonista”, mentre se passava da sinistra a destra era un “responsabile”. Ora, se un grillino porta acqua al Pd è un bravo ragazzo fiero della sua indipendenza; se resta fedele al suo movimento e ai suoi elettori, è un servo del dittatore Grillo».  

 Tra i neologismi del periodo non manca lo “scouting”, citato sempre da Bersani. Quando Berlusconi avvicinava uno a uno gli oppositori per portarli con sé, ricorda Travaglio, era “mercato delle vacche”, “compravendita”, “voto di scambio”. Se invece è Bersani a sguinzagliare gli sherpa ad avvicinare i grillini uno a uno, è “scouting” e odora di lavanda. Due pesi e due misure anche in caso di sanzioni contro i dissidenti: «Se Pd, Pdl, Udc e Lega espellono un dirigente che ha violato le regole, è legalità. Se lo fa M5S, è “epurazione”». Contro la quale, i media parlano addirittura di “rivolta”: «Ci avevano raccontato che Adolf Grillo e Hermann Casaleggio lavano il cervello al popolo del web e censurano sul blog i commenti critici, un po’ incompatibili col lavaggio del cervello, e ora scopriamo che c’è la “rivolta del web” pro-dissenzienti». Ma anche, dal sondaggio di Mannheimer sul “Corriere”, che il 70% degli elettori M5S è contro l’inciucio col Pd. Chiosa Travaglio: «Gentili tromboni, potreste gentilmente mettervi d’accordo con voi stessi e poi farci sapere come stanno le cose, possibilmente chiamandole col loro nome?».

 

Crisi alimentare, per costringerci ad accettare gli Ogm

Scritto il 13/3/13 Jack Bobo, il consigliere capo di Hillary Clinton per quanto riguarda le biotecnologie, durante una recente conferenza a Londra ha affermato che la moratoria dell’Unione Europea sulle coltivazioni Ogm è stata un vero disastro per il commercio. Ha anche incoraggiato i paesi europei a prendere le decisioni riguardanti la tecnologia basandosi sulla scienza e non sulla politica. 

 Quando gli è stato poi chiesto cosa servirebbe perché i paesi come la Francia cambino la loro posizione negativa verso gli Ogm, ha risposto: «Temo che servirà una crisi. Succederà solo quando tutti vedranno e sentiranno la sofferenza di non avere la biotecnologia, e allora la richiederanno».

 Durante la suddetta conferenza, poi, mr. Bobo ha puntigliosamente riferito una lunga serie di dati che mostrano come l’agricoltura dovrà produrre nei prossimi anni una mostruosa quantità di cibo per sfamare una mostruosa quantità di persone, e tutto ciò in un momento di calo di risorse: senza biotecnologie – il succo – sarà impossibile farcela. Sembra che mr. Bobo abbia tanto a cuore le sorti dell’umanità affamata, ma non dimentichiamo le parole esatte che usa, ovvero: «La moratoria è un disastro per il commercio», e non certo per i poveri bimbi che muoiono di fame. E’ chiara insomma qual è la reale preoccupazione: il business. E siccome in Europa ci si preoccupa che tale business possa far male alla salute, ecco l’esimio augurarsi che la crisi alimentare ci riduca tutti in ginocchio a supplicare i suoi preziosi Ogm. Che a quel punto, immagino, le aziende Usa ci rivenderebbero a caro prezzo.

 Si sa: non si bada a spese pur di sfamarsi. Anche se in realtà ci sarebbero molte strade da seguire per rispondere alla crisi alimentare. Tanto cinismo ha un nome. Si chiama shock economy, e ormai abbiamo imparato a conoscerla. Dai disastri naturali alle calamità finanziarie, la shock economy è una manna per il business, per la finanza e per la politica. C’è sempre chi si augura disgrazie altrui per arricchirsi, e quando non arrivano, a volte, ci si adopera persino a provocarle.

 (Debora Billi, “Crisi alimentare? Tornerà utile, per costringerci ad accettare gli Ogm”, dal “Crisis” dell’8 marzo 2013).

Golpe europeo, Murphy: giù la maschera, signor Draghi

dei nostri europarassiti che paghiamo con sacrifici ce ne è uno che parla in difesa davvero degli sfruttati?

Giù la maschera, “signor Draghi”: la Bce non è un’autorità finanziaria neutrale, ma una organizzazione “golpista” al servizio dell’élite europea. Archiviato Mario Monti, il finto salvatore della patria ridicolizzato di fronte a tutta l’Europa dal misero risultato elettorale rimediato in Italia, brilla di nuova luce la straordinaria perfomance del giovanissimo Paul Murphy, l’eurodeputato socialista irlandese che già il 5 dicembre 2011 fece letteralmente a pezzi l’ammutolito presidente della Bce, rinfacciandogli il famigerato diktat per l’austerity firmato con Jean-Claude Trichet per ottenere lo scalpo di Berlusconi e la capitolazione dell’Italia di fronte al ricatto telecomandato dello spread. «Ognuna di queste misure – tuonò Murphy – porta ad attacchi contro i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori». La “nota” della Bce terminava con una frase che Murphy definì inquietante: “Abbiamo fiducia che il governo metterà in campo azioni appropriate”. Esplicita, quindi, «la minaccia di non comprare i titoli di Stato italiani», facendo precipitare il paese nella crisi.

«All’interno della Troika – continuò Murphy nella sua energica requisitoria – la Bce ha premuto fortemente per l’applicazione di misure di austerità che hanno spinto la gente verso la miseria in Irlanda, in Portogallo e in Grecia. La Banca Centrale Europa ha anche ricoperto il ruolo di co-cospiratore centrale nell’organizzazione dei colpi di Stato silenziosi che sono stati condotti in Grecia e in Italia, dove governi eletti sono stati sostituiti da governi composti da banchieri». Violazione allora segnalata da Paolo Barnard e dall’avvocato Paola Musu, seguiti da migliaia di cittadini, pronti a denunciare Napolitano e Monti per “attentato alla Costituzione”, nel silenzio generale dei media, impegnati – insieme al centrosinistra – a supportare l’operazione Napolitano-Monti. Oggi, un economista come Bruno Amoroso denuncia apertamente Draghi: da direttore del Tesoro approvò le privatizzazioni delle banche, poi emigrò alla Goldman Sachs che inondò di titoli-spazzatura gli istituti di credito europei, quindi “se ne meravigliò” una volta a capo della Banca d’Italia, per poi completare l’opera – dal vertice della Bce – attuando una sorta di “riciclaggio” di quei titoli-spazzatura.

Inutile stupirsi della catastrofica inerzia della politica, aggiunge Amoroso: scandali come quello del Montepaschi dimostrano quanto la finanza-canaglia abbia letteralmente infiltrato partiti e sindacati, inondati da fiumi di denaro purché tacessero e lasciassero campo libero alla speculazione. Palesemente speculativi, secondo tutti gli osservatori indipendenti, anche gli obiettivi di grandi opere completamente assurde come la linea Tav Torino-Lione, “bancomat dei partiti” e affare d’oro per le banche, con tutti quei miliardi da prestare allo Stato, con fior di interessi. Lungi da qualsiasi ravvedimento, il Pd non ha esitato ad espellere i propri esponenti valsusini vicini al movimento No-Tav, salvo poi subire – con il tracollo elettorale – l’altolà dei “grillini”.

Ne sa qualcosa lo stesso Paul Murphy, che accorse in valle di Susa nell’agosto 2011 insieme a Paolo Ferrero per esprimere solidarietà alla popolazione. Pochi mesi dopo, affrontò direttamente Draghi al Parlamento Europeo con queste parole: «Potrebbe cortesemente abbandonare la pretesa che è stata ripetuta qui oggi, secondo cui la Banca Centrale Europa sarebbe in qualche modo indipendente?». In realtà, la Bce «è indipendente da qualsiasi controllo democratico, da qualsiasi responsabilità nei confronti della gente comune: è uno strumento al servizio degli interessi dei capitalisti e dei ricchi nei paesi dominanti dell’Unione Europea, di cui in questa crisi gioca il ruolo di gruppo d’assalto». Parole che allora circolavano clandestine solo sul web, e che oggi cominciano a penetrare nell’agenda europea, costretta a fare i conti con un paese come l’Italia, di cui gli amici di Draghi hanno perduto il completo controllo politico.

 Intervento di Paul Murphy – eurodeputato socialista

http://www.youtube.com/watch?v=eq_rcPqM5K4&feature=player_embedded

 
http://www.libreidee.org/2013/03/golpe-europeo-murphy-giu-la-maschera-signor-draghi/

 

Imprese strozzate dallo Stato, ridotto in bolletta dall’euro

Scritto il 21/3/13 • nella Categoria: segnalazioni

Il problema numero uno si chiama euro – tecnicamente: impossibilità di emettere moneta sovrana – ma il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, preferisce parlare di uno dei suoi effetti più vistosi, cioè la mancata liquidazione dei crediti delle imprese da parte della pubblica amministrazione, ridotta in bolletta. Il saldo, secondo gli industriali italiani, potrebbe portare a 250.000 posti di lavoro nel giro di cinque anni, con una crescita del Pil dell’1% per i primi tre anni, per arrivare all’1,5% nel 2018. Robetta, in confronto ai centomila posti di lavoro “immediati” ipotizzati da Luciano Gallino se solo si ricorresse a finanziamenti speciali per i giovani, o ai 200.000 occupati nell’edilizia che secondo Maurizio Pallante, presidente del Movimento per la Decrescita Felice, scatterebbero senza costi aggiuntivi con un semplice piano nazionale di riconversione degli edifici, orientato al risparmio energetico.

Per Squinzi, l’immissione di liquidità nel sistema delle imprese «innescherebbe un circolo virtuoso portatore di posti di lavoro e, quindi, maggiori consumi». Confindustria auspica che il governo in carica «provveda tempestivamente ad adottare, già dal prossimo Consiglio dei ministri, tutti i provvedimenti necessari per la liquidazione di quanto spetta alle imprese». Per la cronaca, il “governo in carica” è ancora quello presieduto daMario Monti, il commissario liquidatore dell’Italia inviato da Bruxelles per la più suicida delle missioni: imporre l’austerity in regime di recessione, in ossequio alla teologia economica che, dalla Bocconi ad Harvard, professa una fede grottesca nell’ossimoro “più rigore, più crescita”. Monti, tecnocrate dell’Eurozona già al lavoro per la Goldman Sachs, esponente del Gruppo Bilderberg e della Commissione Trilaterale: denunciato da Paolo Barnard per “attentato alla Costituzione”, dopo il “golpe bianco” promosso da Napolitano alla fine del 2011. “Capolavoro” immediato: il taglio sanguinoso delle pensioni, predisposto da un’insider come Elsa Fornero, che – come lo stesso Barnard documenta – “lavora” da oltre dieci anni per le grandi compagnie assicurative, quelle che presidiano il mercato delle pensioni private.

Così, prosegue senza freni il crollo delleconomia reale italiana, non più supportata dalla necessaria leva della moneta sovrana: secondo la Cgia di Mestre, nel 2012 un fallimento su tre è stato causato proprio dai ritardi nei pagamenti da parte delle pubbliche amministrazioni. Sono ben 12.463 le imprese italiane che hanno chiuso per fallimento, e di queste quasi 4.000 si sono arrese di fronte «all’impossibilità di incassare le proprie spettanze in tempi ragionevoli, sia da committenti pubblici che da committenti privati». Di questo passo, si scende negli scantinati infernali della crisi: «La mancanza di liquidità che attanaglia le aziende sta facendo crescere il numero degli sfiduciati», denuncia Giuseppe Bortolussi, portavoce dell’associazione che rappresenta artigiani e piccole imprese. In tanti, ormai, hanno deciso di non ricorrere più alle banche: «E’ un segnale preoccupante, che rischia di indurre molte aziende a rivolgersi a forme illegali di accesso al credito, con il pericolo che ciò dia luogo a un aumento dell’usura e del numero di infiltrazioni malavitose nel nostro sistema economico».

Mentre il ministro Vittorio Grilli “rassicura” Confindustria sul recupero dei crediti alle imprese – perlomeno, quelle sopravvissute al regime artificiale di penuria imposto dall’Eurozona a guida tedesca – nelle trattative per il nuovo ipotetico governo italiano non è ancora stato intavolato, in modo determinante, quello che per Giorgio Cremaschi sarà il vero referendum sul nostro futuro: dire sì o no al Fiscal Compact. E’ evidente che, col preteso “pareggio di bilancio”, lo Stato sarà costretto a spremere ulteriormente cittadini e aziende. SempreBarnard cita il caso della Gran Bretagna, che pure è «in recessione e con 60 miliardi di euroda prendere in prestito in più». Eppure, proprio grazie al controllo dello Stato sulla sterlina, anche in un momento come questo riesce a «tagliare la tassa sulle aziende di 8 punti percentuali», e allo stesso tempo a «promettere 12 miliardi di sterline di garanzie ai detentori di mutui a rischio, che beneficeranno di 130 miliardi di sterline di mutui». Avendo evitato di finire nella trappola dell’euro, il governo sovrano di Londra arriva persino a «richiedere alla banca centrale britannica di fregarsene dell’inflazione e di aiutare la crescita».

 http://www.libreidee.org/2013/03/imprese-strozzate-dallo-stato-ridotto-in-bolletta-dalleuro/