No Tav e No Muos: conflitti di “minoranze” che annunciano idee ormai maggioritarie

Venerdì, 29 Marzo 2013 13:35

Ci sono molti punti di contatto tra la manifestazione avvenuta in Val di Susa il 23 marzo e quella prevista il 30 marzo a Niscemi in Sicilia.

Non solo perché partono entrambe dall’opposizione ad interessi estranei che rischiano di avere pesanti ripercussioni sulla vita degli abitanti di un’area, ma perché entrambe appaiono importanti per la costruzione di una nuova prospettiva politica, soprattutto di fronte alle ripercussioni della crisi economica e alle guerre in atto. Nel conflitto politico che ruota intorno all’installazione delle antenne del Muos di Niscemi si ritrovano molte delle problematiche storiche della costruzione del potere in Sicilia, come l’imposizione al contesto politico locale della fedeltà atlantica a prescindere dalle alleanze europee o la garanzia di intoccabilità riservata alle basi militari internazionali presenti sul territorio. Si intravedono anche i più classici interessi oscuri che risiedono dietro la scelta di localizzazione dell’impianto e la caotica sovrapposizione di ruoli amministrativi che rende difficile individuare in Italia un vero, unico, responsabile istituzionale del progetto.

Emerge però anche uno scontro evidente tra la società isolana e il governo nazionale, e si vede in ciò quanto sia cambiato lo scenario politico della regione e quanto possa ancora trasformarsi rispetto agli ultimi anni.

Si tratta di grandi novità presenti ormai in tutta Europa, in cui emergono nuove organizzazioni e nuove prospettive per la politica.

La costruzione delle antenne, che trova un’opposizione pressoché generale presso l’opinione pubblica siciliana, è un processo che riesce a svelare la natura stessa del potere ed i limiti di funzionamento del modello democratico occidentale, che non riesce più neanche a ricomporre la conflittualità interna secondo gli schemi classici del Novecento. Proprio da questa opposizione può però nascere un nuovo orizzonte politico.

Il conflitto sociale, sempre più forte in questi mesi, rende evidenti alcune grandi trasformazioni che il progetto neoliberale ha realizzato nell’impianto stesso delle democrazie occidentali, in cui esiste ormai una contrapposizione costante tra ciò che resta delle istituzioni statali (ormai del tutto prive di un proprio ruolo indipendente dal grande potere economico) e gli interessi degli abitanti.

La grande quantità di casi simili che si sono ripetuti negli ultimi anni chiarisce il funzionamento di un modello in cui la popolazione non possiede alcuna capacità decisionale né diritto di rappresentanza dei propri interessi. Un modello che si ripete con costanza su tutto il territorio europeo.

È sufficiente pensare alle battaglie civili condotte contro l’apertura di discariche vicino ai centri abitati, la costruzione di impianti di smaltimento di rifiuti radioattivi, l’ampliamento delle basi militari, la costruzione di grandi opere come il ponte sullo stretto o la linea ad alta velocità in Val di Susa.

Il richiamo ad un astratto bene superiore, non condiviso peraltro dall’opinione pubblica nazionale, ha giustificato finora una vera e propria guerra condotta costantemente dagli ultimi governi contro le comunità locali.

Un conflitto in cui anche le organizzazioni politiche tradizionali si sono dimostrate sostanzialmente subordinate ai grandi interessi economici o geopolitici e prive di capacità di analisi o di proposte e le comunità locali sono state private del tutto di voce e diritti.

In parte si è evidenziato quanto i ceti dirigenti nazionali fossero inadeguati a gestire la contraddizione tra il modello di sviluppo economico e il diritto ad un’elevata qualità della vita della popolazione, soprattutto se i conflitti riguardavano elementi sostanziali del funzionamento del modello democratico, come, ad esempio, la possibilità che la popolazione locale possa decidere delle sorti del proprio territorio, oltre che della propria salute.

È probabile però che il problema riguardi tutti i sistemi sociali occidentali, perché l’affermazione del progetto neoliberale ha comportato proprio la subordinazione dei diritti della popolazione al funzionamento del mercato. Un mercato che nelle teorie neoliberali sostituisce lo stesso spazio sociale.

Il livello del dibattito è stato disarmante, con una tendenza a considerare un problema di ordine pubblico qualunque forma di opposizione agli interventi programmati dalle strutture centrali. Con una esplicita richiesta di ridurre al silenzio le forme di opposizione.

Il principio dell’affermazione di un bene superiore, astratto, è diventato un argomento pervasivo della politica europea. Sembra inutile ricordare la lunga serie di dichiarazioni inqualificabili e disarmanti che la stragrande maggioranza del ceto politico italiano ha espresso per due decenni di fronte ai movimenti di opposizione, con un’arrogante espressione di potere inconciliabile con gli stessi principi costitutivi del pensiero politico europeo moderno. Tutto ciò mentre molte delle persone coinvolte nelle battaglie civili in difesa degli spazi di vita iniziavano a discutere della necessità di ridisegnare il funzionamento dei processi democratici almeno nel contesto locale.

Tutto il progetto neoliberale in effetti tende alla dissoluzione delle capacità progettuali delle istituzioni statali e all’eliminazione dello spazio della politica. In questo quadro la situazione di impotenza in cui si trova il dibattito politico sembra rispondere perfettamente ad un’idea di funzionamento di un sistema sociale in cui solo i grandi aggregati economici possono assumere decisioni a discapito di tutto.

Gli analisti che si domandano con una certa ansia quali siano stati i motivi dei risultati elettorali recenti, forse dovrebbero considerare alcuni casi lampanti, specialmente in un contesto in cui le differenze sono di poche migliaia di voti. Bisognerebbe considerare di più, ad esempio, il peso elettorale delle comunità locali piemontesi per comprendere le ultime elezioni regionali, oppure ascoltare le posizioni del Movimento 5 stelle e della giunta Crocetta in Sicilia.

La politica conservatrice britannica ha diffuso negli anni Ottanta una definizione precedentemente coniata nel dibattito politico statunitense: sindrome Nimby, ossia Not in my backyard(sul tema si legga il saggio di Gennaro Avallone, «NIMBY»: definizione e critica di un concetto dell’analisi ambientale). Un’etichetta attribuita a chiunque si sia opposto all’impianto di una struttura che riteneva dannosa. Gli oppositori sono stati descritti come vittime di una sindrome derivante da un forte egoismo sociale che gli impediva di guardare al bene collettivo, superiore, nazionale.

L’argomentazione classica è quella secondo cui gli interventi non sono contestabili e la popolazione locale non ne comprende l’importanza, ottenebrata dal proprio egoismo.

Un problema tangibile (la costruzione di una struttura) viene dunque trasformato in una questione relativa all’incapacità della popolazione di comprendere le sempre ottime scelte dei governanti oppure di comprendere la necessità indiscutibile di costruire qualcosa (l’idea che si possa fare a meno di un’antenna che serve a teleguidare delle armi non è contemplata nel discorso politico dominante).

Bisogna dire che è impressionante constatare quanto tale ideologia paternalistica del bene superiore economico, tipica delle dittature, si rispecchi nelle azioni e nelle tesi sostenute da tutti i governi italiani dell’ultimo ventennio e da gran parte del ceto politico. Anche il centro-sinistra, il Partito Democratico che, ad esempio, è stato il più agguerrito sostenitore della costruzione di una linea ad alta velocità in Val di Susa (evidentemente inutile per il paese nell’attuale contesto economico).

Sotto la formula dell’interesse nazionale e sovranazionale, svuotata nel frattempo di ogni significato, si è nascosto ogni tipo di intervento imposto dall’alto, contro la volontà della popolazione locale, in un processo in cui il territorio è stato considerato una variabile irrilevante e la democrazia un ostacolo fastidioso.

Dopo oltre tre decenni di propaganda e di imposizione violenta delle scelte, sembra chiaro che ormai poche comunità locali hanno ancora intenzione di accettare la situazione per come si è posta.

Si definisce dunque la stessa frattura che si è determinata in tutti i casi europei degli ultimi anni, in cui le strutture di polizia sono state chiamate a operare in ogni modo per riempire il vuoto lasciato dallo spazio della politica distrutto dai gruppi dirigenti europei, ad agire affinché l’opposizione della popolazione non interferisse con la realizzazione delle varie opere.

È un fenomeno che non può essere gestito a lungo in questo modo, perché le tensioni locali createsi in queste situazioni rappresentano un nuovo schema della politica, una forma di interesse diretto che spinge le persone alla partecipazione attiva e in breve costringe a pensare forme alternative, solidali, sostenibili.

Le vecchie organizzazioni politiche, che iniziano ad avere paura per la propria sopravvivenza, se volessero superare la crisi degli ultimi trent’anni, dovrebbero dare risposte a questi fenomeni, ma non possono perché sarebbero costrette a tradire il ruolo assunto finora.

La novità è sempre più evidente, perché la quota di opinione pubblica che ritiene che la ragione stia dalla parte di chi si oppone alla devastazione ambientale (in questo caso il MUOS è anche un ecomostro) è maggioritaria. Non solo. È sempre più forte anche l’idea che le scelte operate debbano seguire dei principi e non essere guidate da un’idea amorale della difesa del profitto.

Forse bisognerebbe iniziare a pensare in modo differente alla posizione assunta dalla stragrande maggioranza della popolazione italiana di fronte ad ogni scelta che riguardasse i beni comuni negli ultimi anni.

Come è noto, il governo Monti, dimissionario e sfiduciato dal voto, ha individuato nel MUOS un’opera di interesse nazionale, ripercorrendo una strada seguita dagli ultimi governi (basta ricordare l’ampliamento della base Dal Molin e il governo Prodi); il dissenso locale è stato derubricato, ovviamente, a problema di ordine pubblico. Con tale azione è stato anche esautorata di fatto l’amministrazione regionale (non si capisce se ciò sia avvenuto con un certo margine di consenso nei partiti locali). L’azione di sgombero dei manifestanti che organizzano blocchi stradali nella sughereta di Niscemi è, infine, uno dei tanti segnali del fatto che la gestione militare sarà, come sempre, l’unica risposta prevista e che gran parte della politica nazionale sarebbe ben lieta di chiudere la faccenda in questo modo.

Non bisognerebbe dimenticare però che quella contro il MUOS ricorda anche tante storiche battaglie dei movimenti ambientalisti e pacifisti nell’isola, dalle manifestazioni contro l’installazione dei missili nucleari a Comiso a quelle contro la base di Sigonella, in un territorio che è uno dei più militarizzati dell’Europa mediterranea.

Si tratta di decine di esperienze che si sono realizzate in periodi di grande cambiamento nella società locale e che rappresentano un’eredità storica spesso sottovalutata, rappresentata anche da personalità e gruppi politici che hanno avuto un grande valore per il dibattito internazionale.

La posizione strategica di piattaforma militare per le attività nel Mediterraneo e in Medio Oriente è inoltre un problema irrisolto di consenso per la politica locale, che dal dopoguerra cerca di nascondere le principali operazioni che vengono effettuate sul territorio dell’isola, usato come se fosse un luogo libero da vincoli giuridici.

Non bisognerebbe quindi dimenticare neanche il fatto che ognuna di quelle battaglie è stata segnata da momenti di grande tensione sociale e da eventi che hanno un grande valore identitario per tutta la politica italiana. Al problema dei missili a Comiso, ad esempio, si collega l’omicidio di Pio La Torre, così come alla costruzione di strutture speciali realizzata in regime di emergenza è seguita quasi sempre un’inchiesta per infiltrazione della criminalità organizzata. È la forma più profonda di espressione del modello di potere locale (si può leggere sul caso del MUOS già la prima inchiesta di Giovanni Tizian pubblicata nel 2011 su L’Espresso).

È evidente che molti hanno in mente un percorso simile a quello seguito in altre regioni: completare i lavori in tempi brevi, attraverso il ricorso alla forza, per poi attendere gli esiti di un decennale contenzioso giuridico tra Stato e regione mentre la struttura è in funzione.

Si tratta però di una scelta che non tiene in considerazione quanto stia cambiando la percezione del fenomeno e quanto le organizzazioni locali che si oppongono a interventi di questo tipo stiano diventando essenziali per la soluzione della crisi della democrazia.

Perché si inizi a ragionare su una nuova proposta è sufficiente mettere insieme tutte le questioni poste dai movimenti locali di opposizione come ecocompatibilità, solidarietà sociale, nuove formule di cittadinanza, riorganizzazione dei sistemi produttivi. Si tratta di idee che sono ormai maggioritarie e che rappresentano il fulcro di qualunque nuovo sistema politico.

Fonte: http://www.megachip.info/tematiche/democrazia-nella-comunicazione/10029-no-tav-e-no-muos-conflitti-di-qminoranzeq-che-annunciano-idee-ormai-maggioritarie.html

No Tav e No Muos: conflitti di “minoranze” che annunciano idee ormai maggioritarieultima modifica: 2013-03-29T19:15:00+01:00da davi-luciano
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