Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l’ambiente e per la nostra salute

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Gli allevamenti industriali si rivelano sempre più dannosi e favoriscono il salto di specie dei virus. E questa pandemia mette sotto accusa un intero sistema di produzione e consumo

DI STEFANO LIBERTI

05 maggio 2020

Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l'ambiente e per la nostra salute

Alla fine Kenneth Sullivan si è dovuto arrendere. Il 12 aprile scorso, l’amministratore delegato della Smithfield Food ha annunciato con uno scarno comunicato la chiusura a tempo indeterminato dello stabilimento di Sioux Falls, in South Dakota. Non poteva fare altrimenti: superati i 700 casi, la fabbrica era diventata uno dei principali cluster di contagio al Covid-19 degli Stati Uniti.

Che l’infezione si sia trasmessa in modo così massiccio proprio all’interno di quell’impianto è quasi una nemesi della natura. Perché Smithfield non è un’azienda qualsiasi: nata nel 1936 nell’omonimo paesino della Virginia, si è imposta negli anni come la principale produttrice di carne di maiale d’America. Un suino su quattro negli Stati Uniti viene macellato in uno dei suoi stabilimenti. Da quando, nel 2013, è stata acquisita dal gruppo cinese Wh per la modica cifra di 4,7 miliardi di dollari, è diventata parte di un conglomerato multinazionale che oggi vanta il titolo di maggiore trasformatore di carne di maiale del mondo.

Il virus originatosi da una zoonosi, cioè da un salto di specie tra animale e umano, è riuscito quindi a interrompere la produzione di carne in uno dei mattatoi più grandi d’America (a Sioux Falls in tempi normali vengono macellati 20mila capi al giorno).

Secondo le ricostruzioni più accreditate il coronavirus che sta bloccando il mondo sarebbe fuoriuscito dal mercato umido di Wuhan e sarebbe passato da un pipistrello a un pangolino e da questo a un essere umano. È però riduttivo puntare il dito soltanto contro l’usanza cinese di consumare animali selvatici. Questa pandemia interpella invece un intero sistema di produzione e di consumo, basato su quella che viene definita in inglese “livestock revolution”, cioè la diffusione a livello planetario dell’allevamento intensivo. Esattamente il modello incarnato da Smithfield e dai suoi acquirenti cinesi.

Lo interpella per diverse e variegate ragioni. La prima e più evidente è che gli allevamenti intensivi sono una possibile e pericolosa fucina di virus e di altri agenti patogeni. Come sottolinea un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) del 2016, «circa il 60 per cento delle malattie infettive negli umani derivano da una zoonosi. Se molte hanno origine nella fauna selvatica, il bestiame d’allevamento serve spesso da ponte epidemiologico tra la fauna selvatica e l’infezione umana».

Gli allevamenti possono fare cioè da intermediari per il salto di specie. Non abbiamo evidenze che ciò sia accaduto nel caso del virus Sars-CoV-2 all’origine dell’infezione ormai nota come Covid-19. La pandemia è nuova; le ricerche sono in corso. La teoria del pangolino è ancora quella più in voga, anche se alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che il passaggio potrebbe essere avvenuto attraverso i maiali. Quel che è certo è invece che il bestiame d’allevamento ha svolto funzione di intermediario per altre infezioni virali che si sono diffuse negli anni scorsi, anche se con effetti meno rovinosi di quella attuale. Fra queste: le influenze aviarie H5N1 e H7N9, passate attraverso il pollame, e l’influenza suina H1N1, che nel 2009 si è sviluppata a partire dal continente americano infettando in maniera lieve tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale.

A rendere particolarmente vulnerabile l’allevamento industriale sono le sue caratteristiche strutturali: non solo l’elevata densità del bestiame, ma anche la sua scarsa varietà genetica. Creati in appositi laboratori che selezionano le linee più adatte alle esigenze dell’industria e del mercato (alta riproduttività, crescita rapida, capacità di adattamento allo stato di confinamento), gli animali sono di fatto cloni l’uno dell’altro. Così una qualsiasi infezione può rivelarsi devastante, come dimostra in modo cristallino il caso recentissimo della peste suina africana (Asf). Rimasta lontana dai riflettori perché non contagia gli esseri umani, questa malattia virale ha decimato nel 2019 la popolazione dei suini in Cina: secondo i ricercatori dell’accreditato gruppo olandese Raboresearch, avrebbe causato la morte di circa 200 milioni di capi, portando a un aumento del prezzo della carne e a una crescente richiesta di importazioni dall’estero, in particolare dagli stabilimenti americani della stessa Smithfield. Se non è chiaro come abbiano fatto i produttori cinesi a smaltire i resti di un numero così gigantesco di animali, tanto che un’inchiesta del New York Times ipotizza che li abbiano comunque macellati e venduti, la vicenda dimostra l’incredibile fragilità di un sistema di produzione basato su un modello così standardizzato, geneticamente omogeneo e pertanto poco resistente agli shock esterni.

Per ovviare al problema, l’industria della carne si affida alla medicina. Tonnellate di antibiotici sono somministrati agli animali come misura profilattica: non vengono cioè dati loro quando si ammalano, ma sempre e comunque, per evitare che si ammalino. Il risultato è che oggi il 73 per cento degli antibiotici prodotti al mondo è utilizzato nella zootecnia. Con una conseguenza di non poco conto: questi farmaci si diffondono nell’ambiente e favoriscono la nascita di super-batteri resistenti, suscettibili poi di attaccare l’essere umano rimasto a quel punto senza difese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni anno nel mondo muoiono 700mila persone in conseguenza all’antibiotico-resistenza. La stessa agenzia dell’Onu prevede che nel 2050 ci saranno 10 milioni di morti l’anno per questa causa. Numeri rispetto ai quali l’odierna pandemia di Covid-19 ci potrebbe sembrare una passeggiata di salute.

Ma la generalizzazione di questo modello di produzione ha impatti anche più ampi, perché porta alla modifica sostanziale di interi habitat naturali e alla destrutturazione del rapporto tra aree selvatiche e aree agricole. L’allevamento intensivo non è solo il capannone in cui sono rinchiusi gli animali. È, secondo la definizione dello studioso canadese Tony Weis, un «complesso industriale interconnesso di bestiame-cereali-semi oleosi».
Confinati nei loro recinti, gli animali devono infatti essere alimentati.

Non a caso negli Stati Uniti l’allevamento intensivo è chiamato Concentrated animal feeding operation (Cafo) – Operazione di nutrimento di animali concentrati. Nella sua terribile asetticità, la definizione si rivela calzante: le singole bestie sono meri ingranaggi di una catena di montaggio che li nutre, li fa ingrassare e li manda al macello. Non più esseri senzienti, ma macchine per produrre carne. Applicazione del modello fordista all’allevamento, il sistema ha portato a un incremento smisurato del numero di capi: ogni anno vengono allevati e macellati a livello globale 70 miliardi d’animali. Secondo le previsioni di Weis, che ha dedicato diversi libri all’impatto ecologico della “livestock revolution”, nel 2050 questa cifra toccherà i 120 miliardi.

Dove si prendono i prodotti necessari a nutrire tutte queste bestie? Oggi un terzo delle terre arabili sono utilizzate per coltivare soia e mais destinati alla zootecnia. La Cina, che ha visto negli ultimi anni il numero di animali allevati e il consumo di carne aumentare vertiginosamente, importa annualmente dal Brasile più di 50 milioni di tonnellate di soia. Per far fronte a questa crescente domanda, aree di savana e di foresta Amazzonica vengono disboscate, milioni di ettari sono convertiti alla produzione agricola, con effetti collaterali potenzialmente devastanti. Come ha scritto sul New York Times David Quammen, che nel suo libro-inchiesta “Spillover” (Adelphi, 2014) ha previsto l’attuale pandemia, «invadiamo foreste tropicali e altri paesaggi selvatici, che ospitano tante specie animali e vegetali – e al loro interno, tanti virus sconosciuti. Distruggiamo eco-sistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando questo accade, hanno bisogno di un nuovo ospite. Che spesso siamo noi».

L’assottigliamento della frontiera tra aree selvatiche e aree agricole, insieme all’urbanizzazione crescente e allo svuotamento delle campagne in conseguenza alla scomparsa dei piccoli contadini, è un processo globale, dagli incalcolabili impatti ambientali, sociali e sanitari. È un movimento in cui l’allevamento intensivo – e il complesso di monocolture a esso intrinsecamente legato – gioca un ruolo cruciale.

Questo processo è guidato da un pugno di grandi aziende che controllano l’intera filiera produttiva, definendo le modalità d’allevamento, le linee genetiche, il numero di capi, le quantità di mangime e di antibiotici che vengono loro somministrati. Sono ditte come la Smithfield, membri di colossi multinazionali che fanno economie di scala e impongono in tutto il pianeta un modo di produzione unico e standardizzato. Queste aziende prosperano e macinano profitti perché non si fanno carico dei reali costi di produzione, ma scaricano le cosiddette esternalità negative sull’ambiente e sugli ecosistemi che ne risultano compromessi. Forse il Sars-Cov2 è un messaggio che ha voluto inviarci la natura per metterci in guardia contro l’insostenibilità di questo modello di sviluppo, di cui l’allevamento intensivo è solo una delle criticità. Quel che è certo è che la chiusura forzata dello stabilimento di Sioux Falls per Covid-19 assume da questo punto di vista il sapore di una beffarda rivalsa.

Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l’ambiente e per la nostra saluteultima modifica: 2020-06-15T08:19:21+02:00da davi-luciano
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