L’italia devastata dalla troika dei banchieri

Questa è l’Italia di TUTTI I GIORNI.

Ma dato che non si può inzozzare la reputazione dei saggi professori e dei signori della “responsabilità” come la lungimirante TROIKA DEI BANCHIERI ECCO CHE I PENNIVENDOLI CENSURANO e nascondono quanto possibile queste notizie CHE NON DEVONO ANDARE SUL NAZIONALE.

I tg non ne parliamo.

 L’azienda è in crisi, imprenditore tenta di rubare in casa col figlio

I carabinieri di Chioggia hanno arrestato un 46enne titolare di un’azienda agricola che con due complici voleva razziare un’abitazione di Valgrande

 Gabriele Vattolo29 Marzo 2013

 La pistola sequestrata

Voleva regalarsi una Pasqua migliore. Per sé e per due dipendenti della sua azienda agricola, tra cui il figlio. La ditta, infatti, non naviga in acque floride. Peccato, però, che G.T., 46enne di Sant’Anna di Chioggia, abbia scelto la strada peggiore. Del resto criminali non si nasce, si diventa. Ed è necessaria anche un po’ di esperienza, quella che al trio è mancata nella notte tra giovedì e venerdì, quando sono tutti finiti in manette per furto in abitazione in concorso e porto illegale d’arma.

 G.T., il figlio 22enne e il dipendente, un cittadino romeno di 28 anni, avevano messo nel mirino l’abitazione dell’azienda agricola “Gallmann” di Valgrande, una località rurale della città clodiense. Verso mezzanotte, quindi, hanno raggiunto il luogo del colpo con la Fiat Punto con targa romena intestata alla moglie del dipendente-ladro e poi sono entrati in azione. Il più giovane del trio, il figlio dell’imprenditore, è rimasto al volante del veicolo. Era stato designato come “palo”, mentre gli altri due sono entrati alla chetichella nell’abitazione.

 Proprio in quel momento, però, una pattuglia del nucleo radiomobile dei carabinieri di Chioggia, in servizio di perlustrazione, si è accorta della Fiat Punto. In sosta in un luogo molto isolato, “fuori contesto”. Sono scattati quindi i controlli: il 22enne viene prima identificato e poi perquisito. Nel suo marsupio era nascosta una pistola calibro 7,65 perfettamente funzionante. Col colpo in canna e un altro nel caricatore. Vicino anche una scatola con 37 proiettili. Di sicuro, quindi, per quella notte criminale i tre si erano armati a puntino.

 Gli altri due componenti della batteria, che nel frattempo avevano trafugato nella casa un veliero, un televisore Samsung a schermo piatto da 52 pollici e vari trofei di caccia, non trovando più l’auto del palo ad aspettarli, hanno deciso di nascondere momentaneamente la refurtiva in un casolare abbandonato poco distante. Per poi darsi alla fuga attraverso i campi. Tempo mezz’ora, però, e anche loro sono stati catturati dai militari dell’Arma, che poi hanno portato in caserma tutti e tre i “novelli banditi”. Di fronte alle domande degli agenti, i tre hanno rivelato anche dove avevano nascosto il bottino, poi restituito al legittimo proprietario.

 Pieno di debiti diventa rapinatore di banche. Arrestato piccolo imprenditore

Bollette, debiti e tasse. Un carico che un piccolo imprenditore 60enne non riusciva più a sostenere decidendo così di risolvere il problema improvvisandosi rapinatore di banche. Tre i colpi effettuati in poco più di un mese, 20mila euro il bottino.L’uomo, arrestato martedì scorso, è ora agli arresti domiciliari.

 riccione | 29 marzo 2013 |

L’uomo, da solo, entrava in banca a volto scoperto, si avvicinava allo sportello minacciando con un cutter per farsi consegnare il denaro e poi fuggire in pochi minuti. La prima rapina ai danni della filiale Monte dei Paschi di Siena, in questo caso il rapinatore uscendo ha urlato “siete voi i ladri”, è avvenuta il 29 gennaio scorso, la seconda il 14 marzo alla Carim di Riccione. Pochi giorni dopo, il 19, ha rapinato la Banca Popolare Valconca di Sant’Andrea in Casale. I video di sorveglianza hanno permesso ai carabinieri del comando di Riccione di identificare l’uomo. Si tratta di un 60enne di origine venezuelana residente a San Giovanni in Marignano, separato e con due figli piccoli, in gravi difficoltà economiche per il fallimento della sua attività di vendita al dettaglio di stock di pagine gialle o altri prodotti. Nel suo appartamento è stato trovato il giubbotto utilizzato per le rapine, il cutter e 800 euro in contanti provento del reato.

 Pubblicato in data 28/mar/2013

TREVISO – Ancora il suicidio di un imprenditore, ancora un dramma legato alla crisi economica. Si è tolto la vita, stamane, all’interno della sua azienda, il 57enne proprietario della Elettro Forma, di Fiume Veneto, residente a Treviso.

– Intervistati: MARINA SALAMON (Imprenditrice) – Servizio di Paola Gazziola, riprese di Matteo Spinazzè, montaggio di Paolo Carrer

 IL PROCESSO

Per pagare Equitalia fallisce

I giudici lo assolvono

L’accusa di bancarotta per 12 milioni di lire lievitati. L’imprenditore: «Quasi 20 anni di calvario»

 «Stavo bene, non posso negarlo. Ogni mio compleanno andavo a Bormio, mi permettevo crociere e vacanze, però guardi che io e mia moglie lavoravamo giorno e notte. Ora lavoriamo per pagare i debiti». La storia di Giovanni D. (l’iniziale per uno strascico di problemi finanziari), 54 anni, di Fara Gera d’Adda, è un calvario: quasi vent’anni di cartelle esattoriali e debiti con le banche lievitati, fino al processo per bancarotta fraudolenta per distrazione. Soldi usati in buona parte per pagare Equitalia. Ora il riscatto: l’assoluzione «perché il fatto non costituisce reato». L’ha chiesta lo stesso pm. Per i giudici, in sostanza, l’imprenditore non ha macchinato nessun fallimento. Anzi, ha fatto di tutto per mettere le pezze ai debiti. Ma il verdetto non addolcisce l’amarezza che gli sta appiccicata addosso come una seconda pelle: «Forse sarebbe stato meglio andare in galera ma avere ancora lavoro». Invece ha perso tutto: la tranquillità economica, tant’è che «prima al supermercato riempivamo il carrello, ora prendiamo il cestino e controlliamo con cura tutti i prezzi», l’azienda, le case, il lavoro, e la fiducia della banche.

 La sua vicenda inizia tanti anni fa.

«Dal 1986 al 1993 sono stato socio con altre tre persone, una era mio fratello, di un caseificio. Poi sono uscito, perché ho avuto un brutto incidente e con i soldi dell’assicurazione nel’94 ho aperto un’altra attività con mia moglie. Assemblavamo parti elettroniche. Ma ho lasciato la mia firma nella precedente società ed è stata la mia rovina».

 Le cartelle esattoriali.

«Nemmeno il tempo di aprire la nuova società e mi sono piombate addosso. Non ne sapevo nulla: 12 milioni di lire che con il tempo sono lievitati a 240 mila euro. Arrivavano a me, perché gli altri soci non avevano beni. Prima dalla Bergamo Esattorie, poi da Equitalia, a mio nome e con quello dell’azienda. Un caos».

 Come ha reagito?

«La mia rabbia era che non c’entravo nulla se non per quella firma. Ha ho detto “pago tutto quello che devo pagare”. Ho sempre messo la faccia e non mi sono mai nascosto».

 Come avete fatto lei e la sua famiglia?

«Nel 1995 abbiamo svenduto per 140 milioni di lire – metà del prezzo che valeva – una casa a Cisano. Metà sono andati alla Bergamo Esattorie e metà alla banca, perché avevo un mutuo».

 Il debito, però, non era saldato.

«No. Nel frattempo sono arrivate altre cartelle. Allora, nel 2003, io e mia moglie abbiamo venduto anche un’altra casetta che avevamo preso a Blello: tra acquisto e ristrutturazione ci era costata 260.000 euro, l’abbiamo data via a 160.000. Così 120.000 sono andati a Equitalia e 80.000 alla banca».

 Fatti i conti, quanto le rimaneva da pagare?

«Di cartelle esattoriali sui 79.000 euro. Ho ottenuto la rateizzazione. Potevo farcela: 1.000 euro al mese a Equitalia e 500 euro per noi».

 Come campare con 500 euro al mese?

«Lavoravamo e basta e i miei figli non avevano pretese. Appassionati di calcio, la loro massima richiesta era un paio di scarpe per giocare a pallone».

 Allora com’è arrivato il tracollo?

«Colpa della concorrenza cinese. Pensi che dalla Germania avevo ordini per 450.000 euro revocati nel giro di due mesi: mi hanno detto “o ci fai gli stessi prezzi o compriamo da loro”; io ho risposto che non potevo. Intanto i clienti erano in crisi e non pagavano, due sono pure falliti».

 A quel punto ha chiuso?

«Ma no. Mi hanno anche consigliato di fallire, ma non lo avrei mai fatto per orgoglio».

 Che cosa ha fatto?

«Erano arrivate altre cartelle. Quindi ho venduto la casa di mia moglie in cui vivevamo, a 230.000 euro a fronte di un valore di 400.000. Ero in rosso di 80.000 euro con la banca che, saputo della vendita dell’abitazione, mi ha chiamato e ha detto che dovevo portare i soldi da loro. Ma nel frattempo ho pagato le mie sette dipendenti, alcune con figli, che ho dovuto licenziare. Prima, però, io e mia moglie abbiamo trovato un nuovo lavoro a tutte. Poi c’erano i fornitori, avevano diritto di essere pagati. Ricordo che uno aveva dei bambini malati».

 Possedeva altri beni?

«Certo, il capannone. Avevo trovato un acquirente. Valeva 355.000 euro: con quei soldi avrei pagato Equitalia, che nel frattempo voleva metterlo all’asta, la banca, il mutuo in un’altra banca e mi sarebbero rimasti 50.000 euro. Ho detto a mia moglie “tiriamo su le maniche e andiamo avanti”. Ma nel 2010 mi è arrivato il pignoramento cautelativo e a luglio è stato dichiarato il mio fallimento. Non l’ho mica chiesto io. Non l’avrei mai dichiarato».

 Poi l’accusa di bancarotta fraudolenta per sottrazione: 244.388 euro tolti dalla sua precedente attività per pagare Equitalia e altri 115.324 dal conto in banca per privilegiare altri creditori.

«Ma ci pensa? Non ho tolto i soldi dalla società, erano i miei, provento della vendita delle case. Siamo finiti per sei mesi in un container. Ma ripeto, non ho nascosto nulla alla banca. Ho chiesto aiuto anche a mia suocera che mi ha prestato 60.000 euro».

 Finire sotto accusa, un grosso peso.

«Notti insonni. Mia moglie piangeva di nascosto. Ma ho uno spirito battagliero e la mia famiglia è unita, mi seguirebbe anche se mi buttassi nel fuoco. Che cosa dovevo fare, andare a rubare o gettarmi nell’Adda? Mai».

 I giudici le hanno creduto. Un riscatto.

«Sapevo che la verità sarebbe saltata fuori. Se fossi finito in carcere, avrei scritto un libro per raccontarla. Sono stato assolto, sì, però sono rovinato. Io e la mia famiglia. Nessuno ci dà più fiducia. Pensi che abbiamo chiesto i sussidi, ma ci hanno risposto “siete imprenditori, non vi spettano”».

 E ora i debiti sono ripianati?

«Magari. A Equitalia dobbiamo ancora 62.000 euro, ma si prenderanno l’ipoteca sul capannone, che andrà all’asta; il debito di 118.000 euro con una banca è diventato di 190.000, e quello con un’altra da 11.000 euro è salito a 62.000».

 Scusi, ma come fa?

«Mi arrangio, vado a lavorare dove capita, nei cantieri, ovunque, so fare di tutto».

 E dove vive?

«Nel mio capannone. Mio si fa per dire, perché sta per andare all’asta. Sono passato dalle stelle alle stalle, ma non per colpa mia. Se avessi speso soldi in Ferrari e li avessi nascosti chissà dove, direi che tutto questo l’ho voluto io, ma quelle cartelle esattoriali non erano mie».

 Giuliana Ubbiali

L’italia devastata dalla troika dei banchieriultima modifica: 2013-03-29T18:42:00+01:00da davi-luciano
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