(ListaNoNato) Epidemia e Slovenia: ottime notizie e terrorismo

Buone, ottime notizie sul tema “epidemia Covid-19” in Slovenia.
Ciò si rileva dalle notizie riportate dai media sloveni ed italiani, come sappiamo molto attenti alla questione del rischio della “porta balcanica” come possibile vettore di una “seconda ondata” epidemica, ben pompata dai media, con conseguenti pronunciamenti di amministrazioni e virologi vari minaccianti provvedimenti drastici che vanno da TSO e denunce penali per chi, “pescato” positivo ma asintomatico ad un esame tampone di dubbia affidabilità, osasse rifiutare un ricovero coatto per una “cura” da una malattia assolutamente non presente (e c’è soprattutto da chiedersi in cosa consisterebbe questa cura coatta ovvero Trattamento Sanitario Obbligatorio contro una malattia non in atto: forse psichiatrico?).
In Slovenia, a fronte delle poche migliaia di contagiati dal virus in questi 4 mesi di allarme, e del numero di decessi legati ad esso (concomitanti nel 99% dei casi con altre gravi patologie) che, su una popolazione di 2.100.00 abitanti, conta poco più di un centinaio di casi, in gran parte dovuti a negligenze imputabili alle residenze per anziani non dovutamente protette ad inizio epidemia, i numeri forniti in questi giorni sono ulteriormente confortanti: il virus è presente in Slovenia in minimi termini. E ciò pure considerando i recenti allentamenti delle prescrizioni sanitarie e all’apertura dei confini sia Shengen che extra UE.
Nei giorni scorsi sono stati registrati 21 (ventuno) casi di tamponi positivi al Covid, su oltre un migliaio di test effettuati (Il Piccolo, 6 luglio 2020). Dei 21 casi nella quasi totalità asintomatici, 9 si sono registrati in una residenza per anziani di Vipava (Aidovščina), ripartiti tra 5 operatori sanitari e 4 anziani residenti, due soltanto dei quali rivelavano qualche sintomo ristretto a febbre moderata e moderati sintomi influenzali, nessuno dei due bisognosi di terapie emergenziali. Per i restanti 19, nulla da dichiarare se non la positività da tampone (ibid).
A fronte di questi evidenti ottimi dati, pur riportati in modo chiaro da istituzioni e media, la campagna terroristica su Covid-19 ha provveduto a lanciare allarmi sia tramite dichiarazioni dei governi sloveno e italiano, sia sui rispettivi media (Il Piccolo di Trieste e testate nazionali, RTV Slovenia etc., 6-7 luglio 2020), di una “ripresa della pandemia”, si è parlato di ri-chiusure di confini, di rinnovo di provvedimenti restrittivi, di emergenza sanitaria, di virus che autonomamente svolazzarebbe nell’aria, di assenza di metodi di cura (falso madornale) per chi si ammala, ovvero il 5% dei tamponi-positivi (Il Piccolo, 7 luglio). Tutto ciò senza riportare alcuna evidenza, prova, dato scientifico. Mero terrorismo.
Tutto ciò rivela che sta a noi cittadini, col nostro discernimento e dati alla mano, valutare la situazione e darci il compito di comprendere le ragioni che portano governi e media (e questo sia a livello locale, statale, europeo e mondiale) a tale comportamento terroristico, sia pregresso che attuale, e futuro. E comportarci di conseguenza sia rispetto i nostri simili vicini e lontani, i nostri familiari, i nostri vicini, i nostri colleghi di lavoro, che verso i decisori delle nostre vite e del nostro futuro. E una volta compreso l’inganno, spiegarlo, diffondere consapevolezza, ed agire.

Jure Eler

MENTRE LE STELLE (RUSSE E CINESI) STANNO A GUARDARE —– IL SULTANO SI RIPRENDE CIO’ CHE GLI ARABI GLI AVEVANO TOLTO —- E, GRAZIE A GIULIO REGENI E AI SUOI SPONSOR, ANCHE DI PIÙ

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2020/06/mentre-le-stelle-russe-e-cinesi-stanno.html

MONDOCANE

VENERDÌ 19 GIUGNO 2020

 “Viva gli sciagurati (per lo sciagurato OMS) napoletani” (Anonimo fiorentino)

Le squadre in partita

Da una parte il subimpero del sultano ottomano neo-islamista, padrino di tutto il terroristame che imperversa in Medioriente e Africa, con alle spalle l’impero tenuto in piedi dal Deep State statunitense con il corredo dei “progressisti” imperiali di Soros, di nascosto Israele e, ultimo arrivato, paradossalmente, l’Iran del “moderato” Rouhani, suo rivale in Siria e Iraq.

Dall’altra l’Egitto, maggiore potenza araba, Arabia Saudita, Emirati, il pezzo più significativo del mondo arabo, Bengasi e gran parte della Libia liberata dai jihadisti, la Russia che traccheggia, la Cina che simpatizza da molto lontano. Queste le forze che si fronteggiano oggi nella regione. Il che è individuabile al semplice osservare le mosse dei due opposti schieramenti, ma mistificato e reso ingarbugliato dai servizi mediatici offerti ai soliti attori preferiti.

 L’Egitto come lo vorrebbero i suoi nemici

Regeni, la leva con cui sollevare il Medioriente

Si pensi al “manifesto”, arrivato a sostenere lo psicopatico guerrafondaio Bolton contro Trump, e al suo internazionalista “de sinistra” Alberto Negri. Antiamericano da vetrina, ma anche, all’uopo, antisaudita; detesta i turchi in quanto sterminatori di curdi (dichiarati “vincitori dell’Isis” al posto dei siriani, ed effettivi ascari antisiriani degli USA)), ma oggi come oggi, detesta di più al Sisi, da amico dei russi capovolto in “cocco di Trump”. Il suo condirettore, Tommaso Di Francesco, autonominatosi, nelle more dei giudici di Roma e del Cairo, PM, giudice e, domani, boia del presidente egiziano, dichiara Giulio Regeni  “barbaramente fatto uccidere dai suoi servizi segreti”. Uno specialista di efficaci messaggi subliminati, questo Negri ex-Sole-24 Ore, come li definisce acutamente un mio amico. Del resto lo accredita nientemeno che Amnesty International. Chi oserebbe contraddire questa santa costola del Dipartimento di Stato?

Quell’Amnesty dei diritti umani sulla cui invenzione di una spia, Caesar, che attribuisce ad Assad qualcosa come 15mila assassinati in carcere (con foto di soldati siriani uccisi in combattimento!), Washington ha ora eretto la mannaia di ulteriori sanzioni genocide alla Siria, straziata da 9 anni, per impedire che mangino anche l’ultima pagnotta e ricevano anche solo il primo mattone per la ricostruzione. Poi, per la gioia dei nostri antifascisti con chiacchiera e distintivo, gli “Antifa” americani, nel quadro della rivolta fatta passare per antirazzista, ma coltivata dal Deep State, hanno creato a Seattle una “libera comune” intitolata a Idlib, quella degli invasori turco-terroristi, vista come avamposto dell’antifascista Erdogan.

L’iniziativa, grazie al poco pubblicizzato, ma evidente e decisivo sostegno diplomatico e jihadista del settore guerrafondaio USA (che, incidentalmente, come ovunque, coincide con quello coronavirale) è in mano al sultano della mezzaluna a stelle e strisce. Riempita la Libia di mercenari jihadisti e truppe corazzate, droni e aerei dell’esercito turco, è riuscito a mantenere in vita i presidi dei Fratelli Musulmani di Tripoli e Misurata, e a respingere l’Esercito Nazionale Libico, liberatore laico del resto della Libia.

Turchi ante portas

Presente con armi e bagagli in Yemen e Somalia, collaboratore dello sterminio di questi popoli a fianco dei regimi fantocci degli USA e a fianco, stavolta, dei sauditi nemici in Libia, ha poi invaso il nord dell’Iraq. Il pretesto, come per la Siria nordoccidentale, glielo hanno fornito i curdi. Incurante della sovranità di un paese che, grazie alle milizie popolari vincitrici dell’Isis, sta riguadagnando un minimo di autonomia e dignità, ovviamente col beneplacito degli occupanti USA, in difficoltà per i continui missili che i patrioti iracheni lanciano sulle loro basi.

Sul piano geopolitico, a queste offensive in terra e aria, ha aggiunto quelle sui mari, dove il nuovo subimpero ottomano si è assicurato, nell’attonita passività di tutti gli interessati, una striscia di mare tra Asia Minore e costa libica che vorrebbe in pratica porsi a difesa di tutto il petrolio e gas dell’immenso serbatoio mediterraneo.

Di fronte a questa davvero colossale operazione espansiva, a parte borbottii innocui di qualche cancelleria (pensate, noi abbiamo Di Maio!), non s’è mossa foglia mediatica, né sospiro dell’ONU, o della merkeliana UE. Neppure quando il turco s’è permesso di prendere a ceffoni l’Italia, cacciando con una nave da guerra dalle acque internazionali attorno a Cipro, il naviglio da ricerca dell’Eni. Neppure quando, il 18 giugno scorso, si è arrivati quasi allo scontro tra Turchia e Francia allorchè una fregata francese, in esercitazione Nato, è stata oggetto di una manovra al limite dell’aggressione da parte di una nave turca. Osservava l’operazione, con tranquilla indifferenza, una flottiglia civile turco-italiana, attiva sulle zone petrolifere.

Tutto questo configura una poderosa strategia offensiva del caposaldo Nato in Medioriente cui è ovviamente consentito dal capofila dell’Alleanza, dai suoi subordinati e dal finto opposto teocratico israeliano (da sempre cogestore del jihadismo terrorista e, anche per questo, intoccabile) di fare tutti i comodi suoi, purchè diretti contro chi anche all’Impero grande dà fastidio. In primis, l’Egitto.

Ma che, davvero l’Egitto…?

Ma che, davvero qualcuno pensava che si potesse lasciare l’Egitto, massima potenza storica, demografica, industriale, laica, della nazione araba, a costruirsi un futuro più influente, prospero e autonomo e a garantire tale condizione anche alla sorella Libia? E a fondare tale futuro prossimo sullo sfruttamento della ricchezza del più grande giacimento marino di idrocarburi del Mediterraneo, Zohr, davanti alle sue coste? Un giacimento affidato all’italiana ENI, alla faccia del branco di famelici pronti al balzo, proprio come Shell, BP, Exxon e le altre nel 1953, al tempo di Enrico Mattei e del nazionalizzatore del petrolio iraniano, Mohammed Mossadeq? Con quest’altro Mossadeq, Abdel Fattah al Sisi, portato alla presidenza da una sollevazione di popolo contro il Fratello Musulmano e amerikano Mohamed al Morsi e che poi, per stramisura, riesce ad aumentare gli introiti dello Stato raddoppiando in un anno il canale di Suez.

Cairo. Manifestazione contro Morsi

Visto questo scenario, come non chiedersi ciò che il buon Alberto Negri, campione di ambiguità geopolitica, e tutti i suoi affini non si chiedono? Se, cioè, questa realtà nel cuore del Mediterraneo, cuneo e transito tra Africa ed Europa, Asia e Atlantico non potesse destabilizzare l’egemonia, in corso di attuazione, dell’affidatario ottomano, in nome anche del suo ruolo di pilastro Nato numero uno nel mondo. Come non chiedersi la ragione di tanta passività, tanta tolleranza, di tutti gli altri interessati alla cornucopia mediterranea e come non rispondersi che, al di là dei rimbrotti politically correct, gli sta bene quello che Erdogan fa e ne sono tutti complici?

Compresi gli apostoli del povero Giulio Regeni “santo subito”. Per la centesima volta – e chi non vuole intendere, intende benissimo – io e molti altri riassumiamo la storia, ostinatamente dimenticata, dello sventurato giovane “ricercatore”. Viene addestrato negli Usa da ambienti dell’Intelligence, collaboratore della multinazionale dello spionaggio “Oxford Analytica”, diretta da John Negroponte (squadroni della morte in Nicaragua e Iraq), Colin McColl (ex-capo del MI6 britannico), e David Young (gestore del caso Watergate), mandato da una docente di Cambridge, rimasta muta dal giorno del ritrovamento del corpo, a installarsi nel covo di spie che è l’American University del Cairo.

Prova a contattare sindacati di opposizione, incappa in un agente governativo, non se ne rende conto, gli offre 10mila dollari per un “progetto” che s’illude di contrasto al “regime”, in questo modo si scopre ed è bruciato. Viene ritrovato nel fosso, torturato, nel giorno in cui la ministra dello sviluppo italiano dovrebbe firmare con Al Sisi accordi commerciali, oltre a quelli con l’ENI, per, se ben ricordo, più di 4 miliardi di euro. L’incontro e gli accordi italo-egiziani saltano. Altri subentrano.

Il più bravo nell’intelligence, il più cretino dei regimi? O il nuovo amico dei russi?

L’operazione Regeni, che, su ovvii suggerimenti di ovvii suggeritori, viene sussunta dall’intero arco costituzionale italico e diffonde i suoi virus anche tra i governi alleati, per quattro anni e per tutto il futuro prevedibile, ne ignora i dati. Però accredita un regime idiota e tafazziano, per quanto dotato della più agguerrita intelligence della regione, che avrebbe eliminato una zanzara, facendola poi ritrovare torturata, con il dito puntato al palazzo presidenziale e rimettendoci accordi di enorme vantaggio. Su questa base il moscerino cocchiero Alberto Negri, suoi affini in tutti i media, i consanguinei Amnesty e HRW, fanno un respiro profondissimo, strapieno di proliferanti virus e, come succede con le nostre mascherine, lo espirano e sparano contro Al Sisi e il suo Egitto. Che diventa il dittatore più sanguinario, quello che non deve difendere il suo paese da un’ aggressione dei cari Fratelli musulmani, sotto forma di terrorismo Isis che decima civili e istituzioni, ma che incarcera e tortura 60mila oppositori. 60mila conosciuti (da chi?), perché altri, in massa, spariscono.

Putin, Al Sisi

Naturalmente Regeni è solo il vessillo dietro al quale marciano gli ottomani e i loro complici, i gelosi dell’ENI, Israele, gli intolleranti nei confronti di qualsiasi ruolo arabo non allineato con i satrapi del Golfo (che di tortura s’intendono molto meglio: vedi gli schiavi massacrati nei lavori per i Mondiali di calcio nel Qatar), i sostenitori di una Libia in mano ai tagliagole di Misurata e ai trafficanti di migranti di Tripoli. E, soprattutto, un Egitto che si allontana dal fare il sussidiario dei suoi ex-colonizzatori e che naviga verso Mosca.

Chi è storicamente il più pratico di assassinii mirati?

Restano due domande. Come mai il Cairo non esce dalla tenaglia Regeni e denuncia il complotto? Difficile la risposta, ma neanche tanto. Uno, forse non ci sarebbero le prove e si scatenerebbe un altro uragano di accuse, calunnie, boicottaggi. Due, se è vero, come sembra, che entrano in ballo elementi destabilizzatori stranieri, denunciarli, magari con molti dannanti indizi, significa entrare in un gioco pericoloso di ritorsioni che comprometterebbe la posizione dell’Egitto nei suoi complicati equilibri per preservare agibilità geopolitica, coesione interna, indipendenza e pace. Per non farsi saltare subito addosso i veri responsabili della tragedia Regeni.

Russia e Cina, amici, ma a ragion veduta

“Datti da fare, compagno”

L’altra domanda: e la Russia? Sempre lì che tentenna, subisce, prova a rimediare, irresoluta. Illudendosi di portare dalla sua parte chi è ontologicamente legato all’imperialismo. Subisce in Siria tregue con Erdogan, il quale sistematicamente ne approfitta per rafforzare la presenza sua e di un’inenarrabile feccia terrorista in Idlib e sabotare ogni sforzo di liberazione dell’esercito siriano. Tace sulle ininterrotte incursioni israeliane che aggravano terribilmente il costo siriano dell’aggressione. Soffre, ma subisce anche, l’iniziativa dei turchi in Libia, sempre nel vano tentativo di mantenere i piedi in due staffe. Politica della seduzione alla quale il supposto sedotto risponde a calci da quelle parti.

Del resto, Mosca delude anche i suoi sostenitori, mai quelli andati in fissa con Putin, allineandosi all’Occidente anche nel modo demenzial-criminale di affrontare l’operazione globalista del Covid.19. C’è dentro anche la Cina, si sa. Può darsi che, alla lunga, nessuna classe dirigente rinunci alla possibilità di conquistare un potere assoluto e definitivo sul proprio popolo. Anche a rischio di distruggerlo, come il 5G cinese prospetta.

Noi, che proviamo a essere “follower” di Cartesio, nel confronto-conflitto con l’Occidente, ci schieriamo senza remora e in misura incondizionata a fianco di questi due paesi. Occidente coloniale, imperialista, neocoloniale, strutturalmente sadico guerrafondaio, che, in base a calcoli matematici, prima ancora di quelli morali, sta al “male assoluto”, di cui si vuole portatore il nazismo, come la bomba atomica sta ai V2. Ciò non ci impedisce di obiettare ai lockdown e alle altre misure disumane e totalitarie per un pericolo che è il topolino partorito dalla montagna. O per un 5G, che è la cosa più genocida mai progettata contro l’uomo, gli animali, le piante.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:19

COMMENT LA GUERRE PAR PROCURATION D’ISRAEL CONTRE LA SYRIE CIBLE EN FAIT L’IRAN (LES GUERRES DU CORONAVIRUS)

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE/

Luc MICHEL pour EODE/

Quotidien géopolitique – Geopolitical Daily/

2020 05 01/ LM.GEOPOL - Coronavirus Israel cible l'iran (2020 05 01) FR (3)

« Covid-19: Les effets géopolitiques au Moyen-Orient (…) La bataille mondiale contre le nouveau coronavirus a peut-être pris le pas sur le cycle normal de l’actualité, mais sous le radar, la guerre parallèle d’Israël contre l’Iran se poursuit »

– Jerusalem Post (ce 1er mai).

« Naftali Bennett, a souligné: «Non seulement nous continuons à contenir la présence militaire de l’Iran en Syrie, mais nous sommes également passés à une stratégie d’expulsion. Gardez vos oreilles ouvertes », a-t-il dit. «L’Iran ne se repose pas un instant, mais nous non plus. Pour Téhéran, c’est une aventure à mille kilomètres de chez soi ; pour nous, c’est la vie (de tous les jours) », a poursuivi Bennett : « Et nous sommes donc plus déterminés que jamais à ne pas autoriser l’Iran à établir une base avancée contre nous en Syrie. »

– Naftali Bennett

(ministre de la défense israélien, ce 26 avril).

L’article publié ce matin dans le journal israélien (1), et largement rediffusé en France par la presse likoudnik, a le mérite de mettre bas les masques. Comme partout dans le monde, la pandémie n’a pas arrêté les conflits, mais les a même exacerbés. Cetrtains voyant dans la crise mondiale l’occasion de rabattre les cartes, voire des fenêtres d’opportunités géopolitiques.

Il donne aussi un coup de projecteur sur la « likoudisation » (2) de la politique israélienne, qui a contaminé la diaspora juive dans le monde, en particulier aux USA et en France. Même le vieux parti travailliste gravite dans l’orbite de ce grand disciple de Jabotinski qu’est Netanahyou (3). La vieille gauche sioniste est désormais ultra minoritaire et se limite aux marges intellectuelles (comme par exemple le quotidien ‘Times of Israel’ …

« LA GUERRE PARALLELE D’ISRAËL CONTRE L’IRAN » :

QUE DIT LE ‘JERUSALEM POST’ ?

Cet article, véritable manifeste géopolitique, est ce mélange habituel d’arrogance israélienne et de catastrophisme sensationnaliste :

Il commence par vanter les agressions israéliennes en Syrie, au mépris des lois internationales. « (…) la liste est longue – il y a eu au moins quatre frappes aériennes connues en février et deux autres en janvier.

Par qui? Ah. Cela reste un mystère.

Presque toutes les frappes sont attribuées à Israël. Tsahal a admis son implication après certaines, mais est restée silencieuse dans la plupart des cas, ne confirmant ni infirmant aucun rôle.

Quoi qu’il en soit, les hauts responsables de la défense confirment ouvertement qu’Israël a atteint des milliers de cibles en Syrie ces dernières années, principalement iraniennes.

 Bien que la liste ci-dessus ne stipule que les attaques que dont le public a eu connaissance au cours des trois derniers mois, il y en aurait beaucoup d’autres menées bien en dessous du radar ».

Israël voit visiblement dans la pandémie du coronavirus une fenêtre d’opportunité pour faire avancer son agenda géopolitique : « Alors que le monde et le grand public restent concentrés sur le COVID-19 et l’effort mondial pour freiner sa propagation, Israël a, non seulement, mis le pied dans la guerre contre l’Iran, mais il a même intensifié la campagne pour essayer d’empêcher le régime et le Hezbollah de se retrancher en Syrie. L’objectif, comme le dit le ministre de la Défense Naftali Bennett lors de ses réunions régulières avec les officiers de Tsahal, est de faire comprendre à l’Iran qu’il perdra plus qu’il n’obtiendra en restant stationné à travers la frontière nord-est d’Israël ». Tel-Aviv ne cache pas que la pandémie est utilisée comme une arme contre l’Iran : « Tsahal a constaté une baisse de l’action de Téhéran telle que l’Iran ne pourrait continuer ce combat pendant longtemps », se réjouit le journal israélien. « C’est loin d’être une victoire, mais on pense que c’est le résultat d’une combinaison de la politique agressive que Bennett a amenée, à son poste au ministère de la Défense depuis qu’il a pris ses fonctions il y a six mois; de l’impact du virus en Iran; et de la baisse du prix du pétrole, une source clé de revenus pour le gouvernement islamique ».

Quel est l’agenda de Tsahal : « L’idée a été d’empêcher l’Iran de pouvoir créer une infrastructure en Syrie, de la portée et à l’échelle de l’arsenal de missiles du Hezbollah au Liban, qui aujourd’hui, que cela plaise ou non à Israël, a créé un niveau de dissuasion : tandis qu’Israël attaque régulièrement la Syrie, il ne frappe pas au Liban. La raison en est que le Hezbollah pourrait potentiellement riposter avec ses 150 000 missiles capables de frapper n’importe où en Israël. Jusqu’à présent, la Syrie ne le peut pas ».

LA PANDEMIE EXPLOITEE CONTRE TEHERAN

C’est ce qu’explique cyniquement les sources militaires israéliennes au ‘Jerusalem Post’ : « Ce qui est clair, c’est que le virus a tout changé (…) C’est pourquoi le chef d’état-major, le lieutenant-général. Aviv Kochavi réunira lundi tous les officiers de Tsahal supérieurs au grade de brigadier général pour un séminaire de deux jours sur les changements qui ont eu lieu dans la région depuis l’épidémie du virus. Le défi pour Kochavi – qui a passé les six dernières semaines à formuler une nouvelle stratégie, en collaboration avec la Direction du renseignement et la Division de la planification – est double. Premièrement, prévoir ce qui se passera dans la région devient de plus en plus compliqué alors que le rôle de la pandémie dans les calculs de sécurité nationale n’est pas encore clair. Le lancement du satellite iranien montre-t-il une détermination à continuer d’avancer même pendant cette crise sanitaire, ou s’agit-il davantage de se montrer, de sorte que ses adversaires – Israël et les États-Unis – croiront que rien n’a changé alors qu’en réalité, tant de choses l’ont déjà fait? »

‘Debka’, le think tank israélien « proche de l’Etat-major de Tsahal, précise cet agenda centré sur l’Iran (ce 29 avril) : « C’est en Syrie – avant même Bagdad – que le général Esmail Qa’ani a effectué sa première visite à l’étranger après avoir succédé au regretté Qassem Soleimani en tant que chef d’Al Qods – preuve que l’Iran continue de se concentrer sur le maintien de cette base avancée. Qa’ani a inspecté les actifs iraniens dans la ville d’Alep, dans le nord du pays ».

L’AGENDA ISRAELIEN EN ACTION :

« RAID ISRAELIEN SUR DAMAS MALGRE LA CRISE SANITAIRE »

Des raids attribués à Israël près de la capitale syrienne confirment la mise en action de cet agenda. Dans la nuit du 26 au 27 avril, des raids attribués à Israël près de la capitale syrienne ont tué trois civils, selon l’agence officielle ‘Sana’. Comme d’habitude, Tel-Aviv n’a fait aucun commentaire. « Trois civils sont morts en martyrs et quatre autres, dont un enfant, ont été blessés lorsque des éclats des missiles israéliens ont touché des habitations [de la banlieue de Damas] », a rapporté l’agence gouvernementale syrienne ‘Sana’, ce 27 avril. L’agence a précisé que la défense antiaérienne de l’armée syrienne avait abattu «la plupart» des missiles, lancés depuis l’espace aérien du Liban voisin un peu avant l’aube. Selon la chaîne saoudienne ‘Al-Arabiya’ citée en anglais par le ‘Jerusalem Post’, « des membres [d’une] milice iranienne ont également été tués lors de ces frappes aériennes ».

Israël n’a, pour le moment, pas commenté ces bombardements. Depuis le début, en 2011, de la guerre syrienne, Tel-Aviv a mené de multiples attaques contre des positions en Syrie, la plupart visant des cibles iraniennes ou du Hezbollah, et martèle « qu’il ne laissera pas ce dernier devenir la tête de pont de Téhéran », son ennemi juré. Israël confirme rarement avoir mené des frappes en Syrie. En novembre 2019, néanmoins, l’armée israélienne avait revendiqué « des frappes de grande ampleur contre des cibles iraniennes de la Force al-Qods [branche des Gardiens de la Révolution chargée des opérations extérieures] et des forces armées syrienne en Syrie en réponse à des tirs de roquettes contre Israël ». Le 20 avril, l’agence ‘Sana’ a aussi évoqué des tirs de missiles qu’elle a imputé à Israël contre des cibles dans le désert central de Palmyre. Le 31 mars, ‘Sana’ avait également rapporté des tirs de missiles menés par l’aviation d’Israël contre des cibles dans le centre de la Syrie.

NOTES ET RENVOIS :

(1) Voir “What type of Middle East will the IDF meet after COVID-19?”, The Jeruslam Post, 1er mai 2020.

(2) Voir LUC MICHEL’S GEOPOLITICAL DAILY/

RUSSIE-ISRAEL : LE VOTE RUSSE EN ISRAEL OU L’HERITAGE DES ‘REFUZNIKS’, UN DOSSIER GEOPOLITIQUE

sur http://www.lucmichel.net/2020/03/13/luc-michels-geopolitical-daily-russie-israel-le-vote-russe-en-israel-ou-lheritage-des-refuzniks-un-dossier-geopolitique/

(3) Voir « Israël: le Parti travailliste se joint au gouvernement d’union nationale », sur i24NEWS, 26 avril 2020,

https://www.i24news.tv/fr/actu/israel/1587931365-israel-le-parti-travailliste-se-joint-au-gouvernement-d-union-nationale

Le Parti travailliste a voté dimanche en faveur de son entrée au gouvernement d’union nationale, qui doit voir le jour en vertu d’un accord conclu entre le Premier ministre Benyamin Netanyahou et le chef de file de la liste centriste Bleu Blanc, Benny Gantz. Les membres de la convention du parti ont voté par 64,2% en faveur de cet accord prévoyant la mise en place d’un gouvernement qui sera dans un premier temps dirigé par B. Netanyahou pendant 18 mois puis par B. Gantz. Le dirigeant du Parti travailliste, Amir Peretz avait signé un accord avec M. Gantz et accepté de faire partie du gouvernement. Deux portefeuilles, celui de l’Economie et celui des Affaires sociales devraient leur être confiés.

Le Parti travailliste, longtemps au pouvoir en Israël mais en déclin ces vingt dernières années, n’avait obtenu que trois sièges au sein d’une union de trois formations aux élections du 2 mars dernier, sur les 120 que compte le Parlement.

(Sources : Jerusalem post – Debka files – SANA – Al-Arabiya – EODE Think Tank)

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE

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LA FRANCE FACE À LA NOUVELLE GÉOPOLITIQUE DES OCÉANS

 

EODE-BOOKS – lire – s’informer – se former

Un service du Département EDUCATION & RESEARCH

de l’Ong EODE

EODE-BOOKS - France geopol des océans (2020 04 24) FR

# RECONQUÉRIR PAR LA MER –

LA FRANCE FACE À LA NOUVELLE GÉOPOLITIQUE DES OCÉANS

Richard Labévière,

Éditions Temporis.

La critique de Robert Bibeau, ‘éditeur du Webmagazine ‘Les 7 du Québec’, emporte notre agrément :

La thèse géopolitique de Labévière repose sur un postulat :

« 1) mers et océans constituent le vecteur structurant de l’économie globalisée;  » … alors qu’il faudrait lire :  » l’économie globalisée et mondialisée (il y a des nuances entre ces deux termes) utilise les voies maritimes comme l’un de ses vecteurs structurant (à côté du train, de l’avion, et du camionnage tous indispensables). Ceci pour réaffirmer que c’est la puissance économique = les capacités globales des moyens de production = qui détermine ce qu’une puissance impérialiste (la France par exemple) pourra faire de sa façade maritime et de celle de ses concurrents,

Ce qui entraine que la France 5e ou 6e puissance industrielle mondiale – immensément loin de la Chine – la 1ere – ne peut soutenir ses illusions maritime : « A l’initiative de la France, une «Route de la soie à l’envers» s’est esquissée: la stratégie dite «Indo-Pacifique» est considérée comme une «géostratégie de troisième voie». Que la France gaspille ou non des milliards de dollars dans l’armement et le militarisme cela ne changera en rien de puissance industrielle en déclin accéléré. C’est pourtant ce que voulait signifié le stratège chinois : «Le Civil d’abord, le Militaire après», concept en filiation directe des enseignements du grand stratège Sun Tzu, auteur de l’un des manuels majeurs –L’Art de la guerre– Le Civil étant ici = les échanges commerciaux découlant et supportant le développement industriel et productif capitaliste.

Ainsi n’en déplaise à M. l’officier Labévière le 6e de la classe sur les continents ne peut aspirer qu’au 6e rang sur les océans impériaux. Napoléon l’avait pourtant appris il y a plus d’un siècle passé.

PARTIE I

UN MANIFESTE STRATÉGIQUE À L’INTENTION D’UN PAYS À LA FOIS DEUXIÈME DOMAINE MARITIME ET PREMIER ESPACE SOUS MARIN DU MONDE.

A la hache, à la manière d’un bûcheron chevronné, l’auteur assène ses vérités, comme pour secouer de sa torpeur une technostructure à bout de souffle, comme pour réveiller de sa léthargie une caste politico médiatique plombée par ses délires et dérives de la guerre de Syrie, comme pour réveiller un pays de sa torpeur du fait d’un grand malaise social dû à son endettement colossal et son enlisement dans des guerres post coloniales au Sahel et en Syrie. Comme pour administrer un électrochoc à l’effet d’enrayer la relégation de la France du classement des grandes puissances mondiales, en lui proposant un objectif dynamisant à la mesure de l’ambition qu’il veut lui insuffler.

«La France possède le deuxième domaine maritime et le premier espace sous marin du monde. Sa marine nationale est opérationnelle partout. Ses savoir faire techniques couvrent tous les enjeux de défense et de sécurité, comme ceux de l’économie bleue, de la recherche et de la protection environnementale. Pourtant notre pays peine à exploiter ses atouts, alors qu’une nouvelle géopolitique des océans multiplie guerres commerciales, rivalités de ports destructions et pillage des ressources naturelles, crises ouvertes en mer de Chine méridionale, dans le golfe Persique, les océans Indien et Arctique, en Méditerranée et en mer Noire….

«Dans cette confrontation globale, même si l’action de l’état en mer reste un modèle, même si notre gouvernance maritime est efficace, nos forces se perdent dans le court-termisme d’un pouvoir exécutif hyper-centralisé. Exemple emblématique: l’absence d’un deuxième porte-avions affaiblit la crédibilité stratégique du «Charles de Gaulle» et de son éventuel remplaçant. Force est d’admettre qu’il est des économies qui coûtent cher».

DEUX PORTE-AVIONS SINON RIEN

L’auteur consacre un chapitre complet à ce problème: «Deux porte-avions sinon rien»: «Il n’y a pas de réelle mobilité si l’on ne possède pas qui va avec, d’autant plus grande que la distance va avec. Sur ce point il y a confusion habituelle entre mobilité et rapidité. Il faut en réalité les deux. C’est l’avantage des forces aéronavales de les concilier par le mariage de la mobilité et de l’ensemble qui fait planer l’incertitude avec la foudroyance de leur moyens: missiles et aéronefs embarqués» (Chapitre 3).

…«Après l’effondrement de Mai 1949, c’est par la mer qu’ont démarré la France Libre et la reconquête. Certes, la France d’aujourd’hui n’est pas occupée militairement.Mais face aux abandons successifs de souveraineté induits par la mondialisation, contraints par l’Union européenne et l’OTAN, la mer représente une fantastique opportunité de reconquête de l’indépendance nationale et de liberté».

Tout est dit avec précision et concision. Ce constat n’émane pas de verbeux médiacrates qui peuplent nos lucarnes, mais d’un homme de terrain.

L’AUTEUR

L’auteur de «Reconquérir par la Mer» (Temporis), Richard Labévière, est un connaisseur des choses de la mer et de beaucoup d’autres choses. Fils d’un officier de la marine, cet officier de la réserve opérationnelle embarque chaque année au début de l’été à bord du navire école de la Marine Nationale pour inculquer aux élèves officiers les rudiments de la nouvelle géo stratégie planétaire. Une session pédagogique intensive pour le plus grand profit de la génération de la relève.

Ancien Rédacteur en chef de la revue «Défense» de l’Institut des Hautes Études de la Défense Nationale, il est le promoteur de la notion de «rizhome islamique» pour expliquer le déploiement arachnéen de la métastase terroriste. Son ouvrage en la matière «Le terrorisme face cachée de la Mondialisation» (Pierre Guillaume de Roux- Éditions) fait autorité.

«La France face à la nouvelle géopolitique des Océans», le sous-titre de son nouvel ouvrage, est une thématique qui échappe aux préoccupations et à la sagacité de la quasi totalité de la classe politique française. Un manifeste pourtant en résonance avec la thématique développée uniquement et exclusivement par deux personnalités politiques françaises, Jean Luc Mélenchon lors de sa campagne présidentielle de 2017, et Jean Pierre Chevènement, le préfacier de cet ouvrage.

Paraphrasant le commandement de Sir Walter Raleigh, le théoricien de la colonisation occidentale du Monde: -«Celui qui commande la mer commande le commerce; celui qui commande le commerce commande la richesse du monde, et par conséquent le monde lui-même », (Cf. Sir Walter Raleigh (1554-1618), History of the world,)-, l’ancien ministre socialiste de la Défense fixe le débat: «La France n’est pas que le Finistère de l’Eurasie… et la mondialisation a rebattu les cartes. En 1950, on transportait un peu plus de 500 millions de tonnes de marchandises par voie maritime. Aujourd’hui plus de dix milliards de tonnes. Plus de 80 pour cent des transports des marchandises se font par voie maritime».

Jean Pierre Chevènement déplore en conséquence la frilosité des Français dans ce domaine: «Depuis Trafalgar, la France a laissé aux Anglais le grand large… alors qu’elle dispose avec la CMA-CGM (Compagnie Maritime d’Affrètement – Compagnie Générale Maritime le 3eme transporteur mondial… et que la conteneurisation du trafic maritime est un progrès irréversible, étroitement corrélé à la mondialisation des échanges».

PARTIE II

MORCEAUX CHOISIS DE L’OUVRAGE:

«La mondialisation, c’est la mer! Oui, la mondialisation, bien avant Christophe Colomb et les Vikings – avec les migrations des tribus du bout de l’Asie -, la mondialisation c’est d’abord la mer et les océans. Ce constat se fonde sur trois raisons principales: 1) mers et océans constituent le vecteur structurant de l’économie globalisée; 2) plus de 65% de la population mondiale vit dans les zones portuaires et côtières; 3) enfin, la plupart des crises internationales se déversent, aujourd’hui dans l’eau: détroits, canaux et nombres d’îles sont devenus des enjeux stratégiques de premier plan.

Depuis la chute du Mur de Berlin, la mondialisation se caractérise aussi par une guerre économique tous azimuts, une dérégulation généralisée et une dé-territorialisation des centres de décision, conséquence d’une «disruption numérique» optimale. On peut renvoyer ici aux travaux du sociologue Bernard Stiegler.

LES STRATÉGIES NAVALES EN TROIS NIVEAUX:

1 – Le niveau impérial, voire néo-colonial incarné par les États-Unis qui assurent une hégémonie américaine globale. En 2018, près de 200.000 hommes, soit 10% du personnel militaire américain, étaient déployés à l’étranger dans 800 bases militaires, le plus souvent maritimes, dans 177 pays.

2- Le «niveau intermédiaire», qui intègre et recycle un passé colonial pour présenter aujourd’hui des stratégies dites de «troisième voie»: c’est le cas de la Grande Bretagne et de la France, disposant de marines hauturières, présentes sur l’ensemble des mers et océans du globe.

3- Le niveau de stratégies de pays émergents, ré-émergentes, sinon émergées: c’est le cas de l’Inde, du Pakistan, du Brésil, du Japon, de l’Australie et bien-sûr de la Russie, qui revient à ses sauvegardes maritimes de proximité, mais qui renoue aussi avec son mouvement ancestral vers les mers chaudes.

LA STRATÉGIE CHINOISE: LA GRANDE BOUCLE

Cette boucle part de la mer de Chine méridionale, se déploie dans l’océan Indien, remonte par la mer Rouge jusqu’en Méditerranée, passe le détroit de Gibraltar pour remonter en Atlantique Nord, avant d’emprunter la «route du Nord», de Mourmansk au détroit de Béring –sur près de 4000 kilomètres– pour dépasser le Kamtchatka avant de revenir en mer de Chine: la boucle est, ainsi bouclée…Mais dans son déploiement la Chine se heurte à des problèmes: En mer de Chine méridionale à travers des présences contestées, notamment autour des îles Paracel et Spratley, opposant la Chine et le Vietnam. Dans bien d’autres zones, Pékin est en confrontation directe avec plusieurs états de la sous-région: Japon, Indonésie, Malaisie, Thaïlande, Australie, etc.

En océan Indien: il y a d’abord les conséquences de la présence chinoise dans le port militaire pakistanais du Baloutchistan–Gwadar, qui inquiète l’Inde voisine.

En Afrique: Dans la zone du canal du Mozambique et de Madagascar, les prétentions économiques de Pékin se heurte frontalement aux intérêts français liés aux îlots de Tromelin et des Eparses.

En mer Rouge, autour de Djibouti. En juin 2017, le président Xi Jinping a officiellement inauguré la première base militaire chinoise extraterritoriale à Djibouti (capacité d’accueil de plus de 10.000 hommes), l’état portuaire étant devenu le «hub stratégique» de l’Afrique de l’Est. Devenu l’un des épicentres majeurs de la mondialisation, le grand jeu djiboutien n’a pas encore dit ses dernières ruses …

La mer Rouge: au delà de la confrontation Qatar-Turquie à l’encontre de l’Arabie saoudite, à partir de l’île de Suakin, juste à la hauteur du port militaire de Djeddah, la mer Rouge et son prolongement par le canal de Suez constitue l’une des articulations majeures des Routes de la soie maritimes. Plus largement, le canal de Suez (qui vient d’être doublé sur son segment central) demeure l’un des pivots stratégiques de la mondialisation maritime, qui nous amène aux enjeux méditerranéens et à une implantation militaire chinoise pérenne dans le port syro-russe de Tartous.

En Méditerranée, Pékin multiplie des implantations dans les ports civils, notamment ceux du Pirée en Grèce, de Cherchell en Algérie, en Italie et au Portugal. Concernant la route dite du «Grand Nord», les accords de coopération Russo-Chinois détermineront –à terme– un rail arctique de première importance. Toujours est-il que «La grande boucle maritime» des Routes de la Soie ne va pas de soi… et génère nombre d’interrogations économiques et stratégiques, même si, officiellement, ce déploiement planétaire s’opère, d’abord, de manière civile, avant de révéler des aspects militaires induits à plus long terme.

UN JEU DE GO PORTUAIRE

Dans leur stratégie des «nouvelles routes de la soie», les ports européens sont des cibles privilégiées de Pékin. Depuis la prise de contrôle totale du Pirée en avril 2016, une douzaine de ports ont vu des opérateurs chinois investir leurs quais. Se joue ici, un «jeu de G0» planétaire. Et Pékin n’en fait pas mystère! Les ports européens font partie de ses cibles de sa stratégie maritime. Méthodiquement, les sociétés chinoises investissent les quais et les terminaux de conteneurs délaissés par les opérateurs privés européens et les collectivités territoriales. La prise de contrôle la plus symbolique est celle du port du Pirée, en Grèce, en avril 2016. Sous la pression de la Troïka (FMI, BCE, Commission européenne), le gouvernement grec a privatisé l’ensemble du port voisin d’Athènes. Le repreneur est un groupe chinois, COSCO, qui détenait déjà 49 % du port.

Les opérateurs chinois détiennent désormais plus de 10 % des capacités portuaires européennes.: Du Pirée à Vado Ligure en Italie, en passant par Valence en Espagne, Zeebrugge en Belgique et enfin Dunkerque et Marseille, une emprise grandissante des sociétés chinoises dans les infrastructures portuaires européennes est constatée.

Cette stratégie repose sur un concept-clé: «Le Civil d’abord, le Militaire après», concept en filiation directe des enseignements du grand stratège Sun Tzu, auteur de l’un des manuels majeurs –L’Art de la guerre– enseigné dans toutes les écoles de guerre et selon lequel, il s’agit de gagner les guerres sans les déclarer…

Dernièrement, l’Amiral Christophe Prazuck, chef d’état-major de la Marine nationale française, a rappelé qu’en moins de quatre ans, Pékin avait mis à flot l’équivalent du tonnage de la totalité de la marine militaire française, à savoir plus de 80 bâtiments!

«Le budget officiel chinois de la Défense, en constante augmentation depuis les années 1990, classe Pékin désormais au deuxième rang mondial derrière Washington avec en 2008, 5,8% des dépenses mondiales, soit 84,9 milliards de dollars – en augmentation de 194% entre 1999 et 2008. On reste tout de même loin des 600 milliards de dollars votés par le Congrès américain à l’armée des Etats-Unis en 2018», ajoute-t-il. Aujourd’hui, le budget américain de la défense dépasse les 750 milliards de dollars…

LA STRATÉGIE FRANÇAISE:

A l’initiative de la France, une «Route de la soie à l’envers» s’est esquissée: la stratégie dite «Indo-Pacifique» est considérée comme une «géostratégie de troisième voie». Elle vise à élargir les axes vitaux de défense et de sécurité. A partir des bases et points d’appuis existants à Djibouti, Abou Dhabi, Mayotte, La Réunion et la Polynésie. En approfondissant sa coopération militaire avec l’Egypte, qui vient de moderniser le canal de Suez, la France entend consolider le sommet d’une pyramide qui va s’élargissant de la mer Rouge, de l’océan Indien jusqu’au Pacifique en renforçant trois partenariats principaux avec l’Inde, l’Australie et, dans une moindre mesure, le Japon.

LA NOUVELLE MÉDITERRANÉE: L’ACCORD LIBYE-TURQUIE.

L’accord conclu fin 2019 porte sur une spectaculaire violation de l’espace maritime méditerranéen qui redéfinirait unilatéralement les Zones économiques exclusives (ZEE) des deux pays. En effet, une clause secrète instaure, aussi artificiellement qu’illégalement, une frontière maritime turco-libyenne au beau milieu de la Méditerranée. «Cet accord permettrait à Ankara d’augmenter de 30 % la superficie de son plateau continental et de sa ZEE, pouvant ainsi empêcher la Grèce de signer un accord de délimitation maritime avec Chypre et l’Égypte, ce qui renforcerait considérablement l’influence de la Turquie dans l’exploitation des hydrocarbures en Méditerranée. Autant dire qu’on assiste à la délimitation arbitraire d’une nouvelle Méditerranée», estime un expert de l’IFREMER.

Ce coup de force turc visait à anticiper l’accord du gazoduc East-Med, signé le 2 janvier 2020 à Athènes: infrastructure par laquelle transiteront les futures exportations de gaz du gigantesque gisement de la Méditerranée orientale vers l’Italie et le reste de l’Union européenne.

La découverte d’importantes réserves d’hydrocarbures en Méditerranée orientale a déclenché une ruée vers les richesses énergétiques et ravivé la tension entre Chypre et la Turquie, laquelle fait déjà face à des sanctions de l’Union européenne en raison de ses navires qui cherchent du pétrole et du gaz au large de Chypre.

EAST-MED : ALLIANCE GRECE/CHYPRE/ISRAËL

L’oléoduc East-Med– 1.872 kilomètres pour un coût évalué entre 6 et 7 milliards d’euros – va définitivement changer la carte énergétique de l’Europe. Présenté dès 2013, le projet East-Med consiste à acheminer entre 9 et 10 milliards de mètres cubes par an de gaz naturel d’Israël et de Chypre en direction de la Grèce, puis de se relier aux projets de gazoducs Poseïdon (interconnexion entre la Grèce et l’Italie) et IGB (interconnexion entre la Grèce et la Bulgarie).

East-Med comprendrait quatre parties: un pipeline offshore de 200 km, allant des sources de la Méditerranée orientale à Chypre, un pipeline offshore de 700 km reliant Chypre à l’île de Crète, un pipeline offshore de 400 km de la Crète à la Grèce continentale (Péloponnèse) et un pipeline terrestre de 600 km traversant le Péloponnèse et la Grèce occidentale.

Directeur du site https://prochetmoyen-orient.ch/, Richard Labévière, on l’aura compris, n’est pas un journaliste de déférence, ni un journaliste de révérence, encore moins un journaliste de convenance. Mais un journaliste de pertinence et d’impertinence. Un journaliste de référence.

TABLE DES MATIÈRES

Préface: Jean Pierre Chevènement.

Introduction: Une opportunité historique

1- 2me domaine maritime et premier espace sous-marin

2- Seconde maritime militaire

3- Deux porte-avions sinon rien.

4- L’arsenalisation des mers

5- Le grand jeu djiboutien

6- Une guerre des ports

7- Nouvelles razzias dans l’océan Indien

8 -Un rapport abandonné … à la critique rongeuse des souris

9- La terre est bleu citron

10 – Une gouvernance rhizomatique

11- Servitude et grandeur des préfets maritimes

12- Quel est l’ennemi?

13- OTAN et «en même temps» Europe de la défense?

14- Réponse en 3 cercles

Conclusion: Changement de cap.

Post scriptum I: Jurisprudence Vendémaire

Post scriptum II: Cinq leçons de la crise du golfe Persique

Post scriptum III: Tous sous un même ciel menaçant

RECONQUÉRIR LA MER /

LA FRANCE FACE À LA NOUVELLE GÉOPOLITIQUE DES OCÉANS»

Temporis Éditions, dont le directeur est François d’Aubert, ancien secrétaire d’état à la Recherche.

Prix 18,5 euros. ISBN978-2-37300-057-3

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COMMENT TRUMP UTILISE LA PANDEMIE DU COVID-19 COMME COUVERTURE POUR LANCER LA GUERRE AMERICAINE CONTRE L’IRAN ? (LES GUERRES DU CORONAVIRUS)

 

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE/

Luc MICHEL pour EODE/

Quotidien géopolitique – Geopolitical Daily/

2020 04 25/ LM.GEOPOL - Bio arme US III (2020 04 25) FR 2

«Les États-Unis souhaitent un changement de régime en Iran, font tout ce qu’il faut pour y parvenir»

– Robert Fantina (journaliste américain).

Comme je l’explique depuis de nombreuses semaines, la pandémie çà sert aussi à faire la guerre, les « guerres du coronavirus » ! (1) Cette fois c’est un magazine américain, bien connu pour ses enquêtes sérieuses dans le domaine militaire qui accuse le Régime Trumps. « Trump utilise le Covid-19 comme couverture pour la guerre avec l’Iran », dénonce ‘The Intercept’ (30 mars 2020) …

Ce site américain a écrit dans un article (2) que le président Donald Trump et ses conseillers « cherchaient à exploiter l’occasion de la propagation de la pandémie meurtrière de Coronavirus comme couverture pour lancer la guerre contre l’Iran. » Dans un article signé Mehdi Hassan, le magazine en ligne ‘The Intercept’ a mis en garde contre l’utilisation par le président américain de la propagation de la Covid-19 dans le monde « comme une couverture de la guerre contre l’Iran ». Tout au début de son article, Mehdi Hassan a souligné que « les informations concernant le Coronavirus étaient partout et qu’il n’y avait aucun moyen d’en sortir ajoutant que la pandémie avait submergé tout le monde et tout le monde en parle ». Il fait allusion à l’article du ‘New York Times’ qui prétend dans son édition du 27 mars que « le Pentagone aurait ordonné à ses commandants militaires en Irak de préparer une attaque meurtrière contre l’une des composantes des Hachd al-Chaabi », pour orienter un instant ses lecteurs vers un sujet différent de celui du coronavirus.

« IRAK : LE PLAN SUICIDAIRE DU PENTAGONE ! »

(NEW YORK TIMES)

D’après le rapport du ‘New York Times’, le haut commandant des États-Unis en Irak, le lieutenant-général Robert P. White a averti dans une note « qu’une telle campagne pourrait être sanglante et contre-productive et risquerait de déclencher une guerre avec l’Iran ». Mehdi Hassan pose ensuite une question : « Quel genre de maniaque risque une telle guerre au milieu d’une pandémie mondiale ? » « La réponse c’est le président Donald Trump, aidé et encouragé par le secrétaire d’État Mike Pompeo et le conseiller à la sécurité nationale Robert O’Brien. »

‘The Intercept’ indique qu’un Iranien meurt de Covid-19 toutes les 10 minutes, tandis que 50 personnes sont infectées dans le pays toutes les heures. « Le bilan des morts approche rapidement à 3000 (Ndla : fin mars). Pourtant, pour Trump et ses principaux collaborateurs, il s’agit d’une “occasion” de faire avancer leur programme belliciste » , a-t-il noté. Plus loin dans son article, Hassan citant le lieutenant-général Robert P. White, a averti que « plus il y a de pression, plus il y a d’escalade ». « Les démocrates au Congrès ne sont pas disposés ni en mesure d’appeler à des auditions sur la politique irresponsable et dangereuse de l’administration américaine sur l’Iran, au milieu de la crise actuelle de la propagation du coronavirus. Trump et ses conseillers ne semblent pas se soucier des implications nationales du déclenchement d’une nouvelle guerre étrangère. Il s’agit d’une administration qui annonce publiquement une nouvelle série de sanctions punitives sur l’économie iranienne en difficulté, tout en exhortant en privé les commandants militaires américains à intensifier un conflit avec les Iraniens sur le sol irakien », a-t-il écrit.

Toujours faisant référence à l’article du ‘New York Times’ sur la tentative américaine de se confronter à l’Iran en Irak, Mehdi Hassan souligne que pour Trump et ses collaborateurs, il ne suffit pas de détruire l’économie iranienne. « Ils sont déterminés à exploiter la propagation d’une maladie mortelle comme couverture pour une nouvelle guerre », a-t-il conclu.

NOTES :

(1) Voir sur PRESS TV/ ‘ZOOM AFRIQUE’ DU 09 04 2020/

Luc MICHEL, COVID-19: NOUVELLE ARME DE DÉSTABILISATION EN AFRIQUE (LES GUERRES DU CORONAVIRUS)

sur https://vimeo.com/412905038

(2) Medhi Hasan, “Beware of Trump Using the Coronavirus as a Cover for War With Iran”,

https://theintercept.com/2020/03/30/trump-iran-war-coronavirus/

(Sources : The Intercept – New York Times – Press TT, EODE Think Tank)

LUC MICHEL (ЛЮК МИШЕЛЬ) & EODE

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XB-70 Valkyrie, l’aereo da un miliardo e mezzo di dollari

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 13 Marzo 2019

Avete presente quanti sono 1.500.000.000 di dollari? Ma soprattutto, avete presente quanti erano un miliardo e mezzo di dollari nel 1961? Ve lo dico io: dodici miliardi e mezzo di dollari odierni (dollaro più, dollaro meno).

Ecco, questa è la quantità di verdoni, che potrebbero essere contati a chili, spesi per volare poco più di 250 ore con quel ferro leggendario di cui vi racconterò in quest’articolo e che, a mio avviso, si tratta del mezzo più sfigato che abbia solcato i cieli. Un mezzo che, nonostante le poche ore di volo, ha contribuito in maniera pesante ad aprire il buco dell’ozono. Un ferro che, ogni volta che veniva acceso (Tomma’ accendi!), contribuiva ad aprire di qualche centimetro la faglia di Sant’Andrea.

Ladies and gentlemen: sua maestà XB-70 Valkyrie!

North American XB-70A Valkyrie in flight with wingtips in 65 percent (full) drooped position. (U.S. Air Force photo)

Bello eh? Ma facciamo un passo indietro. Torniamo alla metà degli anni ’50, gli anni in cui Danny Zuko si riempiva i capelli di brillantina (Grease appunto) per portare Sally al drive-in sperando che gliela desse. Ecco, in quegli anni il governo americano si sparò il trip di voler sostituire l’immortale B-52 – che non era ancora entrato in servizio! – con qualcosa di più moderno e veloce.

Venne quindi emessa una specifica tecnica denominata “Intercontinental Weapon System Piloted Bomber” (letteralemente “Sistema d’arma per ferro-del-Dio-pilotato atto a sganciare bomboni”). In tale specifica c’è un lungo elenco di requisiti per la realizzazione di un bombardiere a propulsione chimica (Chemically Powered Bomber) e di uno a propulsione nucleare (Nuclear Powered Bomber).

UN MOMENTO

UN BOMBARDIERE A PROPULSIONE NUCLEARE

Eh si, in quegli anni c’era qualche pazzo che aveva pensato di alimentare un areo tramite un mini-reattore nucleare, ma questa è un’altra storia e tale aereo pare che non sia stato mai realizzato… o no?

Comunque, cose pericolose a parte, la Boeing e la North American risposero al bando di gara per il bombardiere a propulsione “standard” e alla fine la spuntò quest’ultima. È qui che comincia la folle storia del bombardiere più grande e veloce che sia mai stato prodotto, capace di ciucciarsi 165.000 litri di combustibile nello stesso modo in cui Paul Gascoigne (detto Gazza) si scolerebbe un gin-tonic.

Negli anni ’50 gli USA iniziavano a mostrare i muscoli alla Russia, che rispondeva per le rime (avete presente “ti spiezzo in due”?) e nasceva la necessità di costruire un bombardiere che fosse in grado di penetrare il territorio nemico senza farsi beccare dai caccia intercettori russi. Per farlo doveva fare come la gazzella con il leone: correre più veloce e volare più in alto.

Si iniziò quindi a pensare di costruire un bombardiere che potesse viaggiare a Mach 3. Ragazzi, un bombardiere, non un caccia! Stiamo parlando di un fagiano velivolo lungo circa 60 metri, con un’apertura alare di oltre 30 e pesante 250 tonnellate che viaggia a tre volte la velocità del suono! L’idea sembrava balzana e impossibile da realizzare ma fortuna vuole che in quegli anni era appena comparsa la famosa “regola delle aree” che rivoluzionò la tecnica alla base della costruzione delle ali per il volo supersonico e che rendeva possibile anche la più strampalata delle idee.

Come abbiamo visto, la bestia s’aveva da fare (e si poteva fare). Fu contattata la General Electric per iniziare a pensare al tipo di motore da installare sulla suddetta bestia. GE mise a disposizione le sue migliori risorse e adottò il principio che un mitico prof. mi insegnò all’università, un teorema semplice semplice e sempre valido in campo aeronautico: con un motore sufficientemente potente, si può generare una spinta tale da far volare anche vostra nonna legata su una sedia.

Partendo da questo assioma, gli ingegneri della GE iniziarono a fare i loro conti: 250 tonnellate, diviso due, moltiplicato per settordici (o settordici-quattro, non ricordo), riporto tre virgola due, per pi-greco, tutto elevato alla seconda… fa sei! Ebbene si, l’XB-70 Valkyrie era un ferro equipaggiato con sei motori, e che motori!

Sei esemplari dei mitici YJ93-GE-3, che dal nome sembrano troppo dei motori giapponesi montati sotto una Yamaha da GP anni ’80, con post-bruciatore modulabile (in pratica un casino della Madonna) erano installati su questa macchina permettendogli di raggiungere l’incredibile rapporto spinta/peso di 5 a 1. Altra chicca è che questi YJ93 erano derivati dal ben più famoso J79 (il turbogetto utilizzato sui Phantom e sugli F-104) “semplicemente” scalandone le dimensioni: gli YJ-93 sono di un 15% più grandi rispetto ai J79 ma la potenza che riescono a fornire è doppia, oltre 13 tonnellate di spinta con postbruciatore.

Voglio raccontarvi la solita chicca by RollingSteel: la GE fabbricò un altro motore dedicato all’XB-70 Valkyrie (denominato YJ93-GE-5) e che funzionava con benza carburante “vitaminizzato” al boro (nome in codice zip fuel), che aveva più o meno la stessa funzione del Latte Più di Arancia Meccanica o della pozione magica di Asterix. Tuttavia l’utilizzo di questi carburanti ad alta energia creava più problemi di quanti ne risolvesse e l’utilizzo di questo motore fu accantonato quasi subito e la GE si concentrò esclusivamente sullo sviluppo della versione “3” a carburante “standard”.

Intanto alla North American veniva preparata un splendida struttura in acciaio inossidabile ad alto tenore di nichel, con pannelli in honeycomb (letteralmente “a nido d’ape”) che portarono un grandissimo contributo per l’aeronautica. Infatti, prima di allora non erano mai stati usati e saranno alla base delle strutture aeronautiche degli anni successivi. Il tutto era rinforzato con titanio come se piovesse (del prezzo di un culo al kg).

Proprio in quel periodo però iniziò a scricchiolare la certezza di poter utilizzare questo velivolo per le missioni previste in fase di design. Infatti, nel maggio del 1960 successe qualcosa che rivoluzionerà per sempre il mondo dell’aviazione militare: venne abbattuto un velivolo ricognitore U2 (avete presente quegli strani velivoli che volavano in alto in alto, nel blu dipinto di blu?) con un missile SAM (surface-to-air missile) russo. Eh già, erano stati inventati missili terra-aria e stavano diventando operativi, per cui cadeva il castello di carte secondo cui il volare in alto e molto velocemente come una gazzella sfuggendo ai Mig sovietici sarebbe bastato per penetrare lo spazio aereo russo.

Anche perché nel frattempo i russi stavano iniziando a sviluppare il possente Mig-25 proprio per contrastare la nascita del Valkyrie. Interessante la diversità dei due approcci:

CASSONE SOVIETICO TI SPIEZO IN DU

TAMARRATA AMERICANA CIAO BARBONY

Inoltro lo stesso presidente Kennedy, nel 1961, espresse i suoi forti dubbi sulla costruzione di questo aereo che sarebbe costato agli USA il suddetto miliardo e mezzo di dollari (du’ spicci) ma, come cantava Freddie Mercury, the show must go on e si decise di sfruttare il programma per raccogliere dati per la costruzione di un eventuale aereo da trasporto civile supersonico (il nome Concorde vi dice qualcosa?) che in America chiamavano SST, Super Sonic Transport.

The show must go on.

L’11 maggio 1964 il primo esemplare di XB-70 (nome in codice Bu.No.62-0001) è pronto per il primo volo e viene presentato con la sua livrea bianca anti-nucleare (pare che il bianco servisse per riflettere il lampo sprigionato da esplosioni nucleari vicine). Subito gli viene affibbiato il soprannome the Great White Bird (il grande uccello bianco e, per una volta, non si tratta di Rocco). L’aereo è imponente, presenta impennaggi di tipo canard (vedi orecchie al lato del cockpit) che gli permettono una grande capacità di reazione in manovra.

In questo aeroplano tutto è una figata pazzesca, parabrezza compreso. Praticamente aveva una inclinazione “ripida” per viaggiare alle basse velocità e aumentare la visibilità in manovra, considerando che i piloti si trovavano alloggiati oltre 33 metri davanti al carrello di atterraggio e ad una altezza di 10 metri da terra, e una configurazione “schiacciata” per volare a velocità supersoniche rendendo la parte frontale del velivolo molto più aerodinamica.

Ma la vera particolarità di questo aereo erano le estremità alari che si flettevano verso il basso: 25° oltre i 500 km/h e 65° oltre Mach 1.4. Si tratta delle più grosse superfici mobili mai costruite. A cosa servivano? Vedete quella presa d’aria a forma di triangolo? Oltre la presa d’aria sono installati i sei motori e il tutto forma un grosso cuneo (no, non Cuneo, la città piemontese). L’onda d’urto che si formava in volo supersonico a causa di questo grosso cuneo veniva ulteriormente intrappolata, per via della flessione verso il basso delle estremità alari, impedendogli di sfuggire oltre il bordo stesso dell’ala. Questo effetto creava una sorta di risucchio chiamato compression lift (portanza di compressione) che faceva in modo che il velivolo cavalcasse letteralmente l’onda d’urto da se stesso generata… surfin’ bird!!!

Il P1 (che sta per prototipo 1 in aeronautica) fu subito un successo: i pannelli a nido d’ape collassavano al punto che, durante il primo volo a Mach 3, si staccò una porzione del bordo d’attacco della semiala sinistra (bene ma non benissimo); il divisorio tra le due sezioni della presa d’aria si staccò di netto e venne ingerito mettendo KO tutti e sei i motori in un colpo solo (della serie: epic fail); ben presto ci si rese conto che il vano-porta-bomba diventava troppo caldo durante il volo supersonico e, non esistendo all’epoca ordigni in grado di essere stivati a temperature superiori ai 300°C, si capì che non si poteva viaggiare in supersonico portando del carico bellico (era un bombardiere buono, peace and love); i freni del carrello sinistro si bloccarono in atterraggio distruggendo le ruote (dopodiché la BF Goodrich brevettò delle ruote con una innovativa carcassa metallica, severi ma giusti); a tutto ciò andava aggiunta una forte instabilità alle alte velocità, perdite di carico all’impianto idraulico e problemi vari all’impianto di alimentazione.

Nemmeno la vernice rimaneva attaccata all’aereo, qui sotto potete vedere il prototipo numero uno al termine del suo quarto volo con grosse porzioni di vernice volate via.

qui sopra un dettaglio del carrello principale dell’XB-70 Valkyrie: se vi state domandando a cosa serve la piccola ruota centrale la risposta è tanto semplice quanto banale. Quella ruotina è il “sensore” dell’ABS installato su questo aeroplano che era ottimizzato per operare al massimo dell’efficenza in tutte le possibili condizioni della pista di atterraggio.

La NASA stessa ci spiega i dettagli:

Per ovviare a questi problemi di gioventù che si erano presentati sul primo prototipo, venne costruito il P2 (tale Bu.No.62.0207) che si rivelò addirittura più sfigato del fratello. Infatti, la General Electric volle organizzare una bellissima manifestazione durante la quale avrebbero sfigato sfilato tutti i velivoli motorizzati GE.

L’8 giugno 1966, durante una sessione fotografica che vedeva l’XB-70 Valkyrie volare in formazione con dei caccia F-104, che sembravano piccolissimi rispetto a “the Thing” (letteralmente la cosa, altro soprannome che accompagna l’XB-70 Valkyrie), accadde l’irreparabile: uno degli F-104 entrò in contatto con il bombardiere che, dopo aver volato con un assetto corretto per un numero interminabile di secondi, mentre il 104 esplodeva cadendo in una palla di fuoco, si rovesciava e si schiantava al suolo. Nell’incidente, davanti agli occhi atterriti dei fotografi, persero la vita il comandante Carl Cross, pilota del piccolo caccia F-104, e uno dei due piloti dell’XB-70, il comandante Joseph A. Walker che in precedenza era stato un dei piloti del mitico X-15. Il comandante Al White, anche lui a bordo del Valkyrie, riuscì ad eiettarsi in tempo utilizzando la sofisticata capsula (qui sotto) di sopravvivenza e si salvò pur riportando gravi ferite.

Questo sotto è un video con la sequenza fotografica di questo tragico disastro:

Si narra che l’incidente avvenne per cause aerodinamiche: una delle teorie è che il famoso effetto di “compression lift” di cui abbiamo parlato in precedenza, unito all’aspirazione dei sei turbogetti, risucchiò letteralmente l’F-104 sotto l’XB-70.

While an tremendous amount of data was gleaned from the program, sadly the XB-70 is better known for a dramatic accident that happened not long after this photo was taken on June 8, 1966. (U.S. Air Force)

Nonostante l’incidente, la NASA entrò in gioco si fece carico di ulteriori 23 voli sperimentali con il primo prototipo, che venne poi ritirato nel febbraio del 1969. Voli durante i quali furono raccolti una serie di dati di valore inestimabile per quella che fu la storia del volo supersonico degli anni successivi. Infatti, nonostante tutti i suoi limiti, il Valkyrie detiene ancora oggi il record speciale di miglior rapporto portanza-resistenza per un velivolo supersonico. Le sole 250 ore volate, pagate a caro prezzo, hanno rappresentato un passo avanti di notevole nella storia dell’aviazione. Per cui, se vi capita di andare al Museo Nazionale dell’Aeronautica degli USA, vicino Dayton (Ohio), porgete i vostri ossequi a quel gigante ferro del Dio che sfoggia ancora la sua livrea bianca anti-nucleare.

Dedicato a Stefano, perché questo articolo è stato scritto dopo un anno esatto.

Scritto da Matteo Viscogliosi, il nostro inviato nel veloce mondo dell’aeronautica.

MASCHERINE: ESSERE NESSUNO E ODIARSI —- SILVIA ROMANO: MAMMA, LI TURCHI! —– BONAFEDE: STATO-MAFIA 2.0

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2020/05/mascherine-essere-nessuno-e-odiarsi.html

MONDOCANE

MARTEDÌ 12 MAGGIO 2020

 

Due eventi avevano promesso di interrompere l’uragano terroristico, intimidatorio, manipolatore, unanimistico, squadrista, a giornale e schermo nazionali uniti (al guinzaglio del New York Times, organo di Soros, Gates e del profeta Malachia) e di farci eremgere, almeno con il naso, dal pantano di spazzatura politica e morale in cui ci hanno affondato.

Sprovveduta, ma santa subito

Invece niente. I due eventi ci hanno ricacciato col naso, gli occhi e le orecchie sotto, nella melma della propaganda falsa, bugiarda e ipocrita. Una retorica sgocciolante di emozioni farlocche (esaltazioni), che Mario Appelius, la voce tonante di Mussolini (“Dio stramaledica gli inglesi!”), era al confronto un sommesso ora pro nobis di beghine nella cappella laterale. Un trionfo epocale del regime e, dunque, a loro avviso, della nazione tutta, la liberazione della povera Silvia Romano. Povera perché, con ogni evidenza, travolta dagli avvenimenti costruitile addosso. E giustamente soddisfatta per essere tornata a casa dopo 18 mesi. 18 mesi durante i quali aveva capito che la ragione di chi l’aveva spedita a far girotondi con bambini neri, non era altro che una miserabile operazione colonialista in linea con quelle che, da qualche secolo, i bianchi cristiani infliggono ai diversi per fregargli radici, identità, cultura, fede, e farli sentire beneficati da alieni di qualità superiore (che poi gli avrebbero fregato anche il resto). Per cui s’è fatta musulmana, cioè della religione dei cattivi, malmessi e inferiori. Brava.

Con raccapriccio rivedo l’accoglienza all’aeroporto, tutti addosso a Silvia intabarrata nella veste islamica somala, ad abbracciarsi e baciucchiarsi, alla faccia dei tecnoscienziati e del loro banditore. Poi, invece, fatta, come si deve, con i gomiti, dal bischero mascherinato trricolore che, ore prima, aveva ribadito il suo ruolo di caporale di giornata dell’armata Brancaleone, giurando “fedeltà ai valori, che sono quelli del nostro perenne alleato americano”, con tutto quello che ne consegue: Nato e sue guerre, Deep State finanzcapitalista e terrorista, Bill Gates e relativa cosca di “Un vaccino per il Nuovo Ordine Mondiale”. Bel passo avanti rispetto ai tempi in cui borbottava di “rivedere la nostra presenza nella Nato e togliere le sanzioni alla Russia”. Si chiama Luigi Di Maio e, credeteci o no, è dei 5Stelle e fa il ministro degli Esteri. Cosa avrai mai fatto di male il buon popolo dei 5Stelle, la meglio gioventù vista da molti decenni, a meritarsi uno così!

Sulla sceneggiata a cui il popolo è chiamato a sbattere le mani, sbattendosene magari le gonadi, va ancora detto qualcosa. Sappiamo che non c’è stata nessuna liberazione da parte dei nostri prestigiosi servizi segreti, ma uno squallido ma doveroso mercato delle vacche, esclusiva tutta italiana, su quanti nostri soldi dovessero essere dati per riavere la nostra cittadina che va in giro per il mondo a rallegrare bambini, indifferente alle conseguenze (perniciose per quei bambini e costose per noi). E’ trapelata la cifra di 4 milioni, probabilmente il doppio.

Rapitori (chi?), pagatori (noi), sceneggiatori (loro)

Ricordate le “due Simone”, Torretta e Parri? Nel 2004, altra grande impresa dei servizi liberatori, e anche un po’ prestigiatori. Rapite in Iraq ad agosto, il 28 settembre al Jazeera ne annuncia la liberazione ed ecco che, con un allestimento degno di Hollywood, davanti a file di telecamere schierate, dalle brume dell’alba emergono, prima stagliate sull’orizzonte e poi lentamente avanzanti nel deserto, due figure intabarrate in palandrane nere: Simona e Simona. Come, dove, chi e perché non si saprà mai. Rapimento rivendicato da una “Jihad islamica”, prima epifania di integralisti islamici al servizio di Usa, Golfo e Turchia (quelli poi impiegati in mezzo mondo) in un Iraq dove tutta la resistenza contro l’invasore era laica e saddamista.

Nella Somalia del dopo-Barre, del dopo-invasione Nato, con governi-fantoccio installati dagli americani e spazzati via uno dopo l’altro da varie resistenze, dopo una successione di movimenti di liberazione nazionale, da quello del generale Farah Aidid (grande patriota che ebbi l’onore di intervistare prima che i colonialisti lo facessero fuori) alle Corti Islamiche (che riorganizzarono decentemente il paese), la lotta al colonialismo di ritorno era stata assunta dagli Al Shabaab. Islamici e anti-occidentali, necessariamente “terroristi” e dunque giustamente bombardati dagli Usa, con tanto di eccidi di civili. I media unificati sotto l’ombrello Nato-Bilderberg, fanno degli Shabaab l’ala regionale di Al Qaida. Vero o no, strano che Al Qaida e Isis non abbiano mai attaccato interessi USA, o dei loro proconsoli coloniali, ma sempre quelli dei nemici dell’imperialismo, mentre la guerra di questi islamici somali ha esclusivamente colpito obiettivi statunitensi, o di chi ne sono i soci e subalterni.

Guerriglieri Shabaab con bandiere Al Qaida chiaramente photoshoppate

Ma quale Al Shabaab!

Tutti attribuiscono il rapimento a questa organizzazione e, dal momento che gli Al Shabaab nulla avrebbero da aspettarsi in termini politici dall’Italia, che conta una mazza  da quelle parti, se non dei soldi, ecco che la questione viene presentata come risolta in termini puramente monetari. Sempre che sia vera la storia del riscatto, visto che la posta per i rapitori veri era di ben altra portata. Senza contare che una guerriglia in aree limitate del paese, costantemente bombardata dagli USA e inseguita dalle loro Forze Speciali, difficilmente avrebbe avuto l’agio di tenere protetta per 18 mesi e di trasferire ripetutamente in sicurezza un ostaggio. Altri, che controllano gran parte del paese e della sua amministrazione, invece sì. Domani potrà magari uscire una rivendicazione firmata “Al Shabaab”. E con questo? Anche l’assassinio dei miei colleghi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è stato rivendicato da qualche finto brigante somalo….

I servizi impegnati parlano di aver avuto contatti con varie bande, dette di malviventi. La prima, del rapimento, e l’ultima, che avrebbe avuto in consegna la ragazza dagli Al Shabaab. Quindi nessun contatto mai con costoro. E, allora, chi ci garantisce che siano stati loro i rapitori? Capro espiatorio geopolitico, sì, ma rapitori? I servizi condividono i propri meriti non con qualche entità somala, ma esclusivamente con i turchi. Quelli di Erdogan, uno che di scrupoli ne ha quanti Mr. Hyde quando esce di notte. Quelli che da dieci anni conducono guerre in Siria, Libia e Iraq, avvalendosi della peggiore feccia terrorista mai vista. Quelli che in Somalia, da qualche anno, fanno il bello e il cattivo tempo, vuoi collusi, vuoi collisi, con i concorrenti di Abu Dhabi (UAE) e dell’Egitto, la posta in gioco essendo il controllo del Corno d’Africa e dunque lo strategico passaggio di Bab el Mandeb, da Est a Ovest e da Sud a Nord.

Chi mai ce la può avere con Roma?

I ribelli somali non hanno contenziosi con l’Italia, per la sua irrilevanza nella zona. I turchi, invece, ne hanno a iosa. In primis nel Mediterraneo orientale, dove gas e petrolio nelle acque di Cipro e internazionali li hanno contesi all’ENI a suon di cannoniere, con bocche da fuoco solo per ora zitte. Sempre in termini di idrocarburi, non hanno per niente gradito le proteste italiane contro l’accordo tra Erdogan e Al Serraj (il fantoccio Occidentale di Tripoli) per un controllo congiunto di tutto il mare e di tutto il petrolio tra Turchia, Cipro e Libia. E mentre la Turchia è al 100% dalla parte del governo cartonato dei jihadisti di Tripoli e contro Haftar, che però controlla il 90% del territorio e della popolazione, Roma, al suo solito, traccheggia, teme il ricatto dei migranti scatenati da Al Serraj, occhieggia verso Haftar e l’Egitto che, assieme all’ENI, sfrutta i più ricchi giacimenti a mare dell’intero Mediterraneo.

Con Al Serraj e contro l’Egitto, troppo vicino alla Russia, (vedi Regeni, spedito lì dai britannici) sta l’intero Occidente predatore, anche se la Francia si distingue per doppiogiochismo. L’Italia, conta poco e se la giocano tutti. Ma l’ENI conta moltissimo, come ai tempi di Mattei è il convitato di pietra che fa saltare gli equilibri stabiliti tra le Sorelle e che, a dispetto della campagna forsennata lanciatagli contro, con Stefano-Bilderberg-Feltri, dal Fatto Quotidiano, con il confermato AD Descalzi è ancora lì, primo partner petrolifero della Libia e dell’Egitto.

Cosa s’è pagato al sultano in cambio della sventatella?

Sarà ancora così, ora che, grazie ai turchi, abbiamo riavuto Silvia Romano? E, allora, saranno stati davvero gli Al Shabaab ad aver rapito e ospitato la ragazza convertita? Lo si dovrebbe dedurre facilmente dai prossimi sviluppi negli scacchieri indicati, specie da cosa capita tra Ankara e Roma.

Bonafede-Di Matteo, guarda chi si rivede!

E questa era una delle storie che per un attimo ci hanno depistato dalla grancassa della Banda del Virus, assordandoci, peraltro, con clamori altrettanto stonati e cacofonici e annebbiandoci con altrettanti riflessi stortignaccoli da specchi deformanti. L’altra è cosa forse anche più seria, nell’immediato domestico. E’ Cosa Nostra, cioè cosa loro, l’eterno duetto Stato-mafia.

Riassumo la vicenda per chi, stando nelle carceri insieme ad altri 60 milioni di potenziali untori, si fosse lasciato distrarre dalle storiacce di Netflix o da Lilli-Bilderberg-Gruber. Cittadini, oggi, con il cervello in rimessa, ma da usare  al risveglio contro chi ci assassina, fisicamente, moralmente, intellettualmente, culturalmente, socialmente, e ci mina, inevitabilmente, nella salute. Si tratta del pasticciaccio brutto combinato dal ministro Bonafede, ultima stella spenta tra quelle finite in parlamento. Finite in parlamento per aprirlo come una scatola di tonno e per illuminarne, alla vista dei cittadini, la fossa biologica.

Sappiamo che i magistrati italiani si dividono in due categorie. In una circolano gli Ermini, Lo Voi, Pignatone, Bruti Liberati, Tinebra, Legnini, brave persone in ottimi rapporti con l’esistente. Nell’altra procedono i Borsellino, Falcone, Scopelliti, Chinnici, Livatino, Costa, De Magistris, Woodcock, Robledo, Di Matteo, molto poco apprezzati dall’esistente Tanto che quasi tutti sono stati ammazzati, o minacciati di morte. Di solito, la carriera dei primi procede senza intoppi fino all’ultimo piolo della scala. Quella degli altri, spesso s’intoppa e finisce a terra.

Della seconda categoria il più illustre e, oggi, più esposto ai risentimenti di chi delinque in una forma o nell’altra, è Nino Di Matteo, procuratore a Palermo e Pubblica Accusa nel processo sulla sinergia – chiamiamola “trattativa” – Stato-mafia. Una consociazione alla quale dobbiamo molti successi dalla lotta di classe dall’alto al basso contro il popolo italiano, da Portella della Ginestra alle stragi 1992-93. E fino al coronavirus.

Un magistrato che aveva spaventato tutta la scala istituzionale, fino in cima

Questo magistrato, medaglia d’oro del lancio della legge più in là di ogni record, fin nella casa in cima al colle, era stato invitato dal “nuovo che avanza”, nella persona del ministro della Giustizia Bonafede, a occuparsi dei carcerati, in primis di quelli della consociazione, facendo il capo del DAP (Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria). Di Matteo aveva accettato, la mafia dentro e fuori aveva espresso il suo belluino non gradimento e, nel giro di 24 ore, Bonafede aveva ritirato la nomina e l’aveva assegnata a tale Francesco Basentini. Un magistrato ignoto ai più e, forse, anche ai boss, i quali, però, lo conobbero e apprezzarono presto, quando, quatto quatto, consentì il ritorno a casa di quasi 400 mafiosi, compresi quattro mammasantissima al 41bis. Segnale più seduttivo di quanti ne avesse mai dati Andreotti. E che apriva la strada alla grande abbuffata, offerta ai picciotti dagli invasori del pianeta Virus, in termini di imprese schiantate da divorare e esseri umani da impiccare col cappio dell’usura.

Charles-Henri Sanson

Qualcuno di quelli che, fino al giorno prima, avevano considerato il magistrato peggio di Charles-Henri Sanson (boia della ghigliottina, esecutore di Luigi XVI), di colpo coprirono di elogi lui e di vituperi il ministro. E gli chiesero come mai non avesse denunciato la maleodorante offesa già allora, nel 2018. La risposta, di cui peraltro costoro non sono degni, avrebbe potuto essere che, col senso delle istituzioni che lo distingue, Di Matteo non abbia voluto farsi protagonista di una vicenda poco onorevole per il governo. Ma che, davanti allo spudorato rilascio dal carcere e ritorno all’operatività di 400 criminali, con la mina posta sotto al lavoro suo e quello di tutti coloro che si battono, si sono battuti e sono morti nella guerra contro la piovra di Stato, tacere sarebbe stato come apparire connivente. E far prevalere chi, come Giorgio Napolitano, aveva intralciato il suo lavoro, imponendo la distruzione delle conversazioni telefoniche tra il Quirinale e l’indagato ex-ministro Mancino.

Del resto chi mai avrebbe un’autorità così alta da potersi permettere di imporre a un onesto e, fin qui, agguerrito ministro, espresso dal Movimento sulla cui bandiera sta scritto “onestà”, il veto al migliore dei nostri magistrati anti-mafia? Fatevi una domanda e datevi una risposta. Facile facile.

Mascherina, se la conosci….

Torniamo nella palude dalla quale siamo usciti un istante e dalla quale eravamo finiti non proprio in un giardino di rose. Un paio di fatti occorsi negli ultimi due giorni mi permetteranno, cari amici, di fare il protagonista. Parliamo di mascherine, uno dei dispositivi definiti di “protezione individuale” più odiosi e dotati di occulte intenzioni che siano usciti dalla caverna del drago tecnoscientifico. E anche uno dei più ridicoli, se pensiamo a quando i bonzi del ramo ci dicevano che non servivano, a quando divennero obbligatori qua e là, a quando dovettero costare meno del costo di produzione e non se trovava una neanche nella farmacia del Vaticano, a quando, rassegnato, lo sventurato commissario all’emergenza ci disse che potevamo farcele da noi, con le magliette.

Da una tale saga dei controsensi non poteva che uscire una cosa balorda. La sedicente protezione è una pezza di materiale qualunque, anche rimediato e senza il minimo controllo d’efficacia, sul quale l’eventuale virus, se non lo attraversa come lama nel burro, si accoccola e permane, in attesa di nuove imprese, sia che lo espiri tu, sia che te lo soffino altri. E’ dunque nient’altro che un ricettacolo di patogeni: un salottino per batteri, germi, germi, nanoparticelle, polveri. Dopo un po’ ti gira la testa perché respiri forzato e vai in debito d’ossigeno. Poi te la togli, la metti in tasca, o in borsa, accanto ad altre impurità, la posi sul tavolo accanto alle briciole e alle macchie di sugo, ti cade per terra e lo rimetti per qualche giorno, visto che t’è costato minimo 6-8-12 euro e per il lockout sei già o mezzo sbroccato, o tutto rovinato. In compenso qualcuno a produrlo s’è già fatto un po’ di soldini, aprendo la via a quelli di altri “dispositivi”, tipo i vaccini. Tutta roba che serve a farti star male. Sempre che, mettendo fine allo spettacolo, il deus ex machina del sangue iperimmune non sbatta fuori di scena i commedianti di mascherina, intubazioni, distanziamenti, carceri e sfascio.

Ma, nel frattempo, di tutto questo ai tecnoscientifici non frega un’amata cippa, giacchè il mandato conferitogli è quello di farci tutti uguali ma separati, diffidenti, anonimi, irriconoscibili, senza faccia e senza espressione-comunicazione. Fa parte della nuova ingegneria sociale dell’atomizzazione, detta distanziamento. E si sa, chi non si tocca, chi non si aggrega, chi non si assembra, peste lo coglierà. E, soprattutto, non rosica. Il formaggio resta, tutto intero, agli inventori promotori della mascherina.

Mascherine da guerra civile?

E il distanziamento tramite anche mascherina sarebbe niente (si fa per dire), se non coincidesse con l’assembramento di cattivi pensieri e cattive azioni tra i mascherinati. Ecco cosa mi è successo ieri e oggi. In fila davanti al ferramenta, insieme ad altre tre persone, debitamente mascherinate e distanziate. Nel Lazio la pezza sul muso non è obbligatoria, se non entrando in qualche esercizio pubblico. Dunque posso girare smascherinato. Preferisco evitare, quando con mascherina, gli sguardi ansiosi e diffidenti di chi mi indaga se sono io, o un altro, amico o nemico, stronzo o gentiluomo. E viceversa.

E lì mi capita per la prima volta di assistere agli effetti programmati da chi ci ha inflitto le mascherine. Un omone del quale appare solo la pelata e che prima bofonchia l’incomprensibile attraverso il doppio tessuto, poi, aumentando il volume, libera i suoi improperi contro di me che metto a repentaglio la sua vita non tappandomi bocca e naso. E’ un crescendo, fino al diapason, che riecheggia per tutto il corso e lo riempie di mascherinati dagli occhi strabuzzati. Sarebbe il caso, o di mascherinarsi, cosa che mi pare politicamente corretto, dunque scorretto, o di darsela, di pari valenza. Fortuna vuole che l’omone, forse temendo il contagio, si induca ad andarsene lui, così che i tonitruanti improperi si perdono molto lentamente verso il fondo della via. Però sono bravi: gli è riuscito di aggiungere un altro innesco al conflitto orizzontale, un nuovo diversivo da quello verticale.

Invece, stamane, davanti all’autoscuola per il rinnovo della patente. Siamo in una decina, perlopiù maturotti, ben distanziati. Tutti con mascherina. Io no, non è obbligatorio nel Lazio, siamo all’aperto. Sto leggendo il giornale quando mi arriva, come uno schiaffo di tramontana, un “Si metta la mascherina!”, perentorio quanto, nei film americani, l’intimazione del colonello SS al partigiano da fucilare. Obietto che sto fuori e qui non c’è obbligo. “Sì che c’è, non vede che l’abbiamo tutti, abbia rispetto, coglione!”. Subito un rumoreggiare di molti brontolii, sui quali si erge uno strepito femminile: “Io chiamo i carabinieri””. Il dialogo, del tutto unilaterale, si perpetua nel tempo con monotona, quanto impetuosa, regolarità con, ogni tanto, un solista che lancia l’acuto. Il volume in espansione, l’intrecciarsi dei latrati, il colore paonazzo di quanto resta fuori dalla mascherina, diffondono aria di linciaggio. Il primo intervenuto, alto e grosso quanto la sua voce, fa per venirmi addosso e tradurre le percosse verbali in atti. Ma si ferma al metro arcuriano di distanza sociale. Più della collera potè il terrore del virus. Grazie, seminatori del terrore!

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 16:38

L’eccidio di Bava Beccaris

https://www.ildeposito.org/eventi/leccidio-di-bava-beccaris?fbclid=IwAR1f97PxBBAdWLT2o2lgB88QG34d0xPoM7Vubn_eP9coRTUgAM2Mw2xy78U

8 Maggio 1898 (Italia)

Bava Beccaris, generale dell’esercito, in occasione dei “moti del pane” di Milano del 6, 7, 8, 9, maggio1898, sparò sui dimostranti con il cannone. Alcuni parlarono di 127 morti, altri, tra cui i giornali, contarono 500 vittime. Il generale fu premiato dal re Umberto I (re “buono”) con la croce di Grand Uffciale dell’ordine militare dei Savoia. Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, emigrato negli Stati Uniti, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris.

1945: in Valle si prepara la Liberazione. A Susa “il sogno si avvera” sabato 28 aprile

https://www.laboratoriovalsusa.it/blog/un-po-di-storia/1945-valle-si-prepara-la-liberazione-susa-il-sogno-si-avvera-sabato-28-aprile?fbclid=IwAR0a9aq_chp0qwdc1bE3Jvh1zZqmLpIrVZOoJk9KomMo6yuiX3IqYJd6QNo

Nella primavera del 1945 le formazioni partigiane valsusine si riorganizzano: in alta valle viene costituita la 41° Divisione Unificata ed in bassa valle la 3° e la 13° Divisione Garibaldi, che già hanno all’attivo molti uomini e brigate, cambiano nome e diventano 42° e 46° Divisione.

In alta Valle, i partigiani si preoccupano di difendere le dighe e le centrali idroelettriche dagli attacchi dei tedeschi in fuga, mentre le formazioni della bassa Valle mettono in atto azioni di disturbo, ostacolando i movimenti delle truppe tedesche con azioni di sabotaggio. I partigiani sono inoltre impegnati nella bonifica dei ponti e delle strade minate dai tedeschi: gran parte delle cariche vengono rese inoffensive ad eccezione di quelle poste su alcuni ponti a Bardonecchia, Cesana, Oulx ed Exilles.

Proprio il 25 aprile iniziano gli scontri per la Liberazione dei territori dell’alta Valle. Le operazione hanno avvio la sera del 24 quando i Partigiani della Compagnia Assietta si scontrano con i tedeschi in ritirata in una furiosa battaglia nei pressi di Exilles.

6 maggio 1945, manifestazione per la liberazione di Torino

6 maggio 1945, manifestazione per la liberazione di Torino.

Il 26 aprile altre formazioni partigiane valsusine scendono verso Torino; l’obiettivo è quello di incalzare il ripiegamento dei tedeschi e di ricongiungersi in città con le altre formazioni che qui stavano convergendo. I gruppi valsusini rimangono a Torino fino ai primi giorni di maggio e, il 6, partecipano alla grande sfilata in piazza Vittorio Veneto

Sabato 28 aprile 1945 è il giorno della Liberazione di Susa. Il 5 maggio il giornale La Valsusa racconta quelle ore:”Dopo una triste vigilia, nella quale i nazi-fascisti consumarono gli ultimi delitti, varie formazioni di patrioti occuparono la città che imbandierata e vestita a festa, come per incanto, con ardenti manifestazioni espresse la sua gioia e la sua gratitudine ai liberatori. Suonarono tutte le campane come nelle feste più grandi, e nel pomeriggio si volle onorare la memoria dei caduti per la libertà deponendo corone alle tombe dei cimiteri di Susa e Mompantero”.

Un racconto in “presa diretta” di quel giorno lo si trova nel diario del Comandante Aldo Laghi (Giulio Bolaffi) pubblicato nel volume “Giulio Bolaffi, un partigiano ribelle”, Daniela Piazza Editore. Così il Comandante della IV Divisione alpina G.L. Stellina scandisce le ore del 28 aprile 1945:

“Nella notte una grande esplosione. Alle 6 una sparatoria dei miei partigiani. Susa è libera… Raggiungo i miei uomini. Grande entusiasmo. La folla ci acclama: in tutta la città entusiasmo delirante. Raggiungiamo il Castello. Organizziamo tutti comandi. Ianni arriva e dice che ha preso contatto con la Brigata Monte Assietta.

Giulio Bolaffi parla dal Municipio di Susa.

Giulio Bolaffi parla dal Municipio di Susa. In alto, sopra al titolo,  i partigiani sfilano a Susa (foto di Giacinto Contin, detto Nino).

Circolano voci che le truppe di Exilles arriveranno. Mr. Mastro dice di concentrare le armi pesanti al Castello, che è difendibile e ha varie strade che portano fuori città. Lavoro febbrile. Vengono fuori tutti i marescialli. Li prendiamo e li facciamo lavorare. Al Castello affluiscono i prigionieri. Organizzo il servizio.

Pubblico l’ordinanza n.1 che è un appello sul coprifuoco, dalle ore 21 alle 5, e sulle sanzioni: tribunali di guerra contro i predoni.

Visita di Ferrua che vuole portare Piero al Castello ed effettuare un collegamento con la centrale Aem. Impiantiamo un ufficio nelle scuole. Bottazzi mi dice che il mattino alle 8.30, 18 uomini della Olivieri, di guardia a Vertice, dove c’è il salto dell’acqua, hanno attaccato una compagnia tedesca di 50 uomini in zona Piano San Martino per impedire sabotaggi alle tubazioni. C’è stato un combattimento fino alle 18.30 perché sono intervenuti altri tedeschi ad appoggiare quelli già impegnati. È morto Piero, carabiniere, e ferito Marais.

È stata impedita la distruzione delle centrali elettriche e di Venaus per rappresaglia; i tedeschi si sono ritirati a Curnà dove c’è lo sbarramento anticarro. Feriti 5 uomini tedeschi dei quali 2 gravi, forse morti.

Apprendo che sabato mattina alle 9.30, 10 uomini di Martino issavano la bandiera italiana sul Moncenisio all’ospizio; Sergente Maggiore Sten, Vittorio, Luigi e altri della squadra di guardia alle tubazioni, precedendo di un’ora la pattuglia francese comandata dal Capitano Stephane.

Al pomeriggio alle 17 vado in municipio e parlo al balcone alla folla plaudente ed entusiasta, con un ufficiale francese. Parliamo dei patrioti. Poi portiamo due corone ai caduti al cimitero di Susa e di Urbiano”.

Il sogno si è avverato

Gia.Col.

Bibliografia: “Giulio Bolaffi, un partigiano ribelle”, Daniela Piazza Editore. Andrea Maria Ludovici: “Una Comunità e il suo territorio”, Susa, Centro Culturale Diocesano

Torino, la città più bombardata d’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale

http://www.piemontetopnews.it/torino-la-citta-piu-bombardata-ditalia-durante-la-seconda-guerra-mondiale/?fbclid=IwAR1lCBnM7GY15KOrpi5095GoLGLcEkNfoguw-E6K58efuF4T6bXqyHyG_lo

TORINO. A partire dagli Anni Venti del Novecento Torino stava diventando un centro industriale, sede dell’innovazione tecnologica del Paese, e si andavano strutturando complessi manifatturieri, alcuni di una certa rilevanza, quali la Fiat per la produzione di veicoli civili e militari, o l’Upa, una cellula dell’Unpa (l’Ufficio nazionale di protezione antiaerea che si occupava di attuare i provvedimenti relativi all’oscuramento, la protezione, il rifugio e il soccorso della popolazione.), istituito tra il 1936 e il 1937, e soppresso dopo la fine del conflitto nel 1946, che aveva il compito di fornire alla popolazione approvvigionamenti di maschere antigas, materiali sanitari, costruzione rifugi.

Queste furono alcune delle ragioni per cui bombardare Torino, iniziando il 12 giugno del 1940, due giorni dopo la dichiarazione del duce, Benito Mussolini, riguardante l’entrata dell’Italia in guerra contro Francia e Inghilterra, e il cambiamento delle vie i cui nomi contenevano riferimenti al nemico, come corso Inghilterra, che diventerà corso Costanzo Ciano, e via Marna, che diverrà via Bligny.

Da quel momnento, e fino al 1945, la città sarà la più bombardata d’Italia. L’8 novembre del 1943, poi, Torino subirà la prima grande incursione diurna, compiuta da un centinaio di aerei, che farà 202 morti e 346 feriti durante il primo giorno di scuola per elementari e medie. A seguito delle distruzioni che colpiranno strade, edifici, case, monumenti e quant’altro, arando completamente alcuni quartieri, la fisionomia della città cambierà. «Sembra che una nuvola di fuoco, resa ancor più luminosa dall’oscurità, gravi su Torino»: è in questo modo che Emanuele Artom, partigiano e storico italiano di origine ebraica, vittima dell’Olocausto, descriverà uno dei numerosi bombardamenti.

Questi alcuni tra i luoghi bombardati: monumento dell’Artigliere, isolato compreso tra le vie Bonafous, Gioda (ora via Giolitti) e lungo Po Diaz, Stabilimenti Gilardini, corso Giulio Cesare, via Roma, via monte Bianco, Accademia Albertina delle Belle Arti, via Accademia Albertina 6, Istituto Salesiano Maria Ausiliatrice in Valdocco, via Cibrario, cinema Massimo, via Scarlatti 18, stazione Porta Nuova, ospedale Mauriziano, Casa Benefica, via Principi d’Acaja 40, via San Massimo angolo via Maria Vittoria, Azienda Tranvie Municipali, deposito di corso Regina Margherita 14, corso Orbassano, Palazzo delle Corporazioni, via Mario Gioda (ora via Giolitti) 28, corso Racconigi 60, Galleria Subalpina, piazza Cesare Augusto, corso Regina Margherita angolo via Macerata, corso Vittorio Emanuele II 94.

E ancora: chiesa della Crocetta (Beata Vergine delle Grazie), corso Peschiera (ora corso Luigi Einaudi), piazza Castello e via Pietro Micca, ospedale Molinette, campo sportivo “Torino Calcio”, via Filadelfia, Scuola elementare Michele Coppino, corso Duca degli Abruzzi 45, via San Secondo angolo via Legnano, Teatro Alfieri, piazza Statuto, corso San Martino, via Boucheron, Istituto Magistrale Regina Margherita, via Belfiore 46, Tempio israelitico, via Pio V 12, corso Peschiera, corso Gabriele d’Annunzio (ora corso Francia) angolo via Pietro Bagetti, Aeronautica, corso Italia (ora corso Francia) 366, via Filiberto Pingone, via San Quintino, via Maria Vittoria angolo via san Massimo, via Vassalli Eandi angolo via Bagetti, via Carlo Capelli 33-35, via Sacchi angolo via Pastrengo, via Santa Teresa angolo via San Tommaso, via Lodi, Caffè Raymondi, via Rodi 2 bis, farmacia dell’Ospedale Maria Vittoria, via Cibrario angolo via Medail, via Po, piazza Palazzo di Città, Fiat Lingotto.

In cinque anni la città sarà bombardata più di cinquanta volte. Tra i rifugi antiaerei, il Museo della Resistenza, in corso Valdocco 4, negli Anni Quaranta fu il rifugio aziendale del quotidiano “La Gazzetta del Popolo”, e una mostra multimediale, allestita fino al 30 dicembre prossimo, fa rivivere i momenti dei bombardamenti.
La Seconda Guerra Mondiale, con la firma della resa tedesca nel 1945, e la conseguente entrata degli americani a Torino, sarà ricordata tristemente dalla città anche per un altro terribile fatto: i deportati in treno verso il campo di concentramento di Mauthausen, che una targa commemorativa all’interno della stazione di Porta Nuova non farà mai dimenticare.