Grandi evasori, ecco la lista

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Dalle tangenti per il Mose ai conti esteri: scoperte oltre 200 offshore con soldi nascosti al fisco da imprenditori e politici

DI PAOLO BIONDANI E LEO SISTI    

24 aprile 2019

Grandi evasori, ecco la lista
René Caovilla, designer e proprietario dell’omonimo marchio di scarpe

Soldi nascosti in scatole di scarpe. Pacchi di banconote consegnati ad anonimi autisti ai caselli autostradali, in grandi alberghi, ristoranti o studi professionali. Un traffico di contanti che parte dal Veneto e arriva in Svizzera, nelle banche di fiducia di due altolocati tesorieri di denaro nero, con parentele in famiglie reali. Professionisti del pianeta offshore, al servizio di alcuni dei più rinomati commercialisti veneti. Tutti accusati di aver gestito per più di vent’anni una centrale internazionale dell’evasione fiscale. E del riciclaggio di tangenti intascate da politici poi condannati. Ma collegati da legami societari e familiari con parlamentari ancora al vertice delle istituzioni.
Eccoli qua, i Padova Papers. Sono le carte riservate della maxi-indagine fiscale della Procura di Venezia, che pochi giorni fa ha portato al primo sequestro di oltre 12 milioni di euro. Soldi bloccati setacciando un fiume di denaro molto più ampio, «oltre 250 milioni», scrivono i magistrati, dove si mescolano le mazzette dei politici e i fondi neri degli evasori.

Tutto parte dalle indagini sul Mose di Venezia, il più grande scandalo di corruzione in Italia dopo Tangentopoli. Tra il 2013 e il 2014, mentre scattano decine di arresti e condanne, la Guardia di Finanza scopre che imprenditori e politici usano gli stessi canali per nascondere soldi all’estero. In società offshore e conti bancari spesso intestati, sulla carta, a tre commercialisti di un affermato studio di Padova. Si chiamano Paolo Venuti, Guido e Christian Penso. E lavorano per molti ricchi imprenditori veneti, proprietari di grandi alberghi, fabbriche di scarpe, industrie di valigie, aziende di costruzioni, immobiliari, centrali del gioco d’azzardo e altre ditte che non c’entrano con il Mose. Nel maggio 2015 le autorità svizzere accolgono la richiesta del procuratore aggiunto Stefano Ancillotto di perquisire gli uffici dei due presunti tesorieri del denaro nero: un nobile italo-elvetico, Filippo San Germano di San Martino d’Agliè, nipote della regina del Belgio, e il suo braccio destro, Bruno De Boccard. Nel computer di quest’ultimo salta fuori una lista di clienti, aggiornata dal 2002 fino al 2014, finora inedita. I giudici veneti la ribattezzano «lista De Boccard».

In quel computer il professionista svizzero ha trascritto i dati di centinaia di società offshore, con gli azionisti, gli amministratori e l’attività, che si riduce alla gestione di conti esteri o di partecipazioni (riservate) in aziende italiane. In qualche caso compare il vero titolare, in molti altri c’è solo il fiduciario: un altro professionista, in rappresentanza di un cliente che vuole restare anonimo. La Guardia di Finanza concentra le indagini su 48 offshore, controllate da 46 cittadini italiani e da 9 società di capitali, che sembrano ancora attive. I dati però riguardano molti altri evasori. Solo nel 2014 risultano annotate 161 offshore. Nel 2011 se ne contavano 190, nel 2007 erano 232. Già nel 2002, il primo anno inserito nella lista, le offshore erano 228. Questo significa che c’è un esercito di grandi evasori non ancora smascherati.

Visto che la lista è aggiornata a cinque anni fa, molti casi di evasione sono ormai cancellati dalla prescrizione. Mentre gli imprenditori più importanti, interrogati in caserma, spiegano in coro di aver approfittato dello studio fiscale: il super-condono varato nel 2009-2010 dal governo di Berlusconi e Tremonti (sostenuto dalla Lega). Un esempio è la deposizione del “re delle valigie” Giovanni Roncato: «Sono lo storico titolare della Valigeria Roncato spa, attualmente mi occupo di coltivazioni di riso in Romania. Conosco Filippo San Martino da 15 anni, in quanto è anch’egli produttore di riso. Siamo diventati amici (…). L’ho contattato alcuni anni fa, in quanto avevo dei capitali all’estero, da rimpatriare con lo scudo. Avevo iniziato a tenere soldi all’estero parecchi anni prima, a seguito di gravi minacce rivoltemi da un’organizzazione malavitosa che immaginavo essere la Mala del Brenta: si trattava di minacce di morte per i miei figli fatte nel periodo in cui la banda di Felice Maniero operava molti sequestri di persona. Queste minacce mi indussero all’epoca a consegnare cospicue somme di denaro a malavitosi ignoti, in due occasioni, circa 200 milioni di lire alla volta, in contanti, al casello di Padova ovest. Si tratta di fatti che non ho mai denunciato in quanto temevo per la morte dei miei figli allora piccoli».
Chiudendo il verbale, Roncato sottolinea di aver regolarizzato tutto con lo scudo fiscale, da cui risulta che ha rimpatriato 13 milioni e mezzo. Nella lista De Boccard, il suo nome è collegato a una offshore chiamata Alba Asset Incorporation, attiva proprio fino al 2009. Per lui, quindi, nessuna contestazione. Il suo interrogatorio apre però uno squarcio sui rapporti tra imprenditori veneti e criminalità di stampo mafioso: perfino il re delle valigie pagava il pizzo per evitare rapimenti. Proprio come Silvio Berlusconi ad Arcore (tramite Marcello Dell’Utri e lo stalliere mafioso Vittorio Mangano). E come gli impreditori lombardi che negli anni dell’Anonima sequestri affidavano collette di soldi al generale Delfino per placare la ‘ndrangheta.

Anche Renè Caovilla, titolare di un famoso marchio di calzature, conferma a verbale di avere avuto soldi in Svizzera e di aver «aderito allo scudo fiscale del 2009». L’industriale, che controllava la offshore Serena Investors, aggiunge che «le somme non regolarizzate venivano affidate a professionisti operanti con l’estero al fine di depositarle in Svizzera», tra cui ricorda proprio Filippo San Germano, che gli fu presentato da «un commercialista di Venezia, G.B., poi defunto». Caovilla ha rimpatriato con lo scudo 2 milioni e 287 mila euro.
Tra albergatori di Abano Terme, costruttori e imprenditori del gioco d’azzardo, l’oscar dell’evasione va a Damiano Pipinato, un altro big delle calzature, che è anche il più eloquente nella confessione: «Verso il 1997 o 1998 chiesi al mio commercialista, Guido Penso, come poter gestire i proventi dell’evasione, in quanto i controlli erano sempre più stringenti. Il commercialista mi propose di consegnarglieli, affermando che avrebbe messo lui a disposizione gli strumenti per aprire un conto svizzero, senza necessità che io apparissi. Quindi iniziai a consegnare somme consistenti a Penso. La cosa funzionava così: lui mi telefonava e, in codice, mi chiedeva se avessi due o tre campioni di scarpe. Io sapevo, essendo preconcordato, che mi stava chiedendo 100, 200 o 300 mila euro da portare fuori. Spesso lui aveva bisogno di liquidità per compensare partite di giro con altri clienti dello sudio. Infatti più volte ho visto che i miei accrediti, anche di un milione, venivano spezzettati e mi arrivavano da conti diversi. Fatto sta che io predisponevo il contante all’interno di una scatola di cartone, in un sacchetto, e lo portavo in macchina nel suo studio a Padova. Qui Penso non apriva la scatola, non contava il denaro, in ragione della decennale fiducia: io gli indicavo la cifra esatta, lui la riponeva nell’armadio e mi rilasciava un post-it manoscritto, con data e importo. Dopo qualche giorno mi esibiva l’estratto di un conto corrente con la cifra da me versata. A quel punto il post-it veniva stracciato».

L’imprenditore è il primo a chiamare in causa anche i partner di Penso: «Alla metà degli anni Duemila, Guido, suo figlio Christian e il loro socio Paolo Venuti mi proposero di investire nell’immobiliare a Dubai, con altri imprenditori, spiegandomi che stavano organizzando una gestione di fondi all’estero per i clienti dello studio. Iniziai con un piccolo investimento che in un paio di mesi si rivalutò del 40 per cento. Quindi decisi di investire di più, attingendo alle precedenti disponibilità della mia famiglia nella banca svizzera Zarattini. Allora Guido Penso mi spiegò che a gestire il denaro in Svizzera era Filippo San Germano, che era la persona di sua fiducia che copriva anche me. Infatti tutte le mie società e conti esteri erano amministrati da San Germano». In totale, Damiano Pipinato ammette di aver portato all’estero, tramite il commercialista padovano e il suo nobile fiduciario, almeno 33 milioni: 25 in Svizzera, 8 a Dubai. Dove però, dopo la crisi immobiliare, «nel 2013 ho visto che l’investimento continuava a perdere valore». Scoppiato lo scandalo del Mose, l’imprenditore cerca di sanare tutto con la voluntary disclosure, che però non è uno scudo anonimo, ma una vera autodenuncia: l’interessato deve farsi identificare e rivelare come ha fatto a creare il nero. Quindi l’Agenzia delle entrate gli boccia l’istanza. E lui alla fine vuota il sacco.

I due fiduciari svizzeri sono accusati di aver occultato e riciclato fondi neri per molti altri imprenditori veneti. Il tesoro già scoperto dall’accusa sale così di altri 29 milioni, mandati all’estero (attraverso apposite offshore) da imprenditori come Flavio Campagnaro (5 milioni, divisi in 50 consegne), Luca e Roberto Frasson (1,5 milioni), Sergio Marangon (1,2 milioni), Primo Faccia (250 mila dollari), Ignazio Baldan (250 mila euro), Mauro Mastrella (800 mila), Odino Polo (un milione), Maria Rosa e Stefano Bernardi (3 milioni) e Giovanni Gottardo (mezzo milione). In caserma, pur con qualche imbarazzo, tutti finiscono per ammettere i fatti, sottolineando però di essersi messi in regola grazie allo scudo. Alcuni rimarcano di aver soltanto ereditato conti esteri creati dal padre fin dagli anni Sessanta, «quando fare il nero era la regola». Altri, come Pipinato, si vedono contestare società offshore ancora attive, ma rispondono di averle dimenticate «perché furono usate per investimenti in Nicaragua, ma sono andati male e quei soldi li abbiamo perduti».

In almeno vent’anni di traffici di denaro nero, ai tre commercialisti padovani dello studio Pvp (dalle loro iniziali) non sono mai mancate le coperture politiche. Paolo Venuti è stato già arrestato e condannato (a due anni) per le tangenti del Mose, come tesoriere-prestanome di Giancarlo Galan, governatore veneto dal 1995 al 2010 e poi ministro del governo Berlusconi. Quel troncone d’indagine ha svelato un nuovo sistema di corruzione: società private svendute a politici, che incassano le tangenti sotto forma di profitti aziendali. In particolare la Mantovani spa, azienda leader del Mose, ha intestato proprio a Venuti, come paravento di Galan, il 5 per cento di Adria Infrastrutture, la società del gruppo che vinceva appalti stradali con la Regione Veneto. E con lo stesso sistema la Mantovani ha arricchito anche il super-assessore Renato Chisso, altro condannato per il Mose. La nuova ordinanza ora accusa il commercialista di aver nascosto anche contanti incassati da Galan: almeno un milione e mezzo di euro. Soldi finiti in Croazia su un conto intestato alla moglie di Venuti, sempre come prestanome dell’ex doge, come conferma un’intercettazione della coppia in auto, al ritorno da una cena nella villa di Galan (ristrutturata con altre tangenti e quindi sequestrata). La pista dei soldi è emersa grazie ai Panama Papers, le carte segrete delle offshore. Dove L’Espresso nel 2016 ha scoperto un’anonima società panamense, Devon Consultant Assets, intestata a Venuti e mai dichiarata.

Questi, i fattacci del passato, dalla corruzione per il Mose al riciclaggio. Dallo studio Pvp parte però un filo segreto di rapporti professionali e familiari che arriva al presente e porta fino alla seconda carica dello Stato. Lo studio Pvp ha legami molto stretti con una società di Padova, Delta Erre, che è una specie di club dei più affermati fiscalisti veneti. Tra gli azionisti compare Paolo Venuti, che si è visto sequestare la sua quota in questi giorni. La stessa società ha accolto tra i suoi azionisti anche Giambattista Casellati, un grande avvocato di Padova. Che è il marito di Maria Elisabetta Alberti Casellati, l’attuale presidente del Senato. Che ai tempi dello scudo fiscale era sottosegretario alla Giustizia, oltre che parlamentare di Forza Italia. Marito e moglie sono anche soci d’affari in una piccola azienda italiana chiamata Esa, creata nel 1983, che nell’ultimo bilancio (2017) dichiara 55 mila euro di ricavi.

La Delta Erre, costituita nel lontano 1971, è un club esclusivo, con partner selezionati. Fino al 2017 era una fiduciaria, poi si è concentrata sulle consulenze fiscali. Da anni è un punto di riferimento per le aziende di area ciellina. E da sempre ha forti legami con alcuni protagonisti dello scandalo Mose. Tra i soci fondatori spicca infatti Guido Penso, che è stato presidente del consiglio d’amministrazione fino al 1996. Già allora il commercialista manovrava fondi neri degli evasori, come spiega l’ordinanza che oggi accusa lui e suo figlio di aver orchestrato, con il collega Venuti, anche il riciclaggio del tesoro di Galan. I Panama Papers confermano che proprio Penso, attraverso un suo studio di Londra, gestiva già nel 2000 alcune offshore, come la Sorenson Holding delle Bahamas, ora accusate di nascondere i milioni degli evasori.

La Delta Erre non è coinvolta direttamente in questi scandali. Però compare più volte negli atti delle indagini. Ad esempio l’imprenditore Damiano Pipinato, oltre ai 33 milioni dell’evasione, ha parlato anche di una serie di offshore utilizzate per mascherare le sue proprietà a Padova e spostare all’estero i soldi degli affitti. Tra quegli immobili così schermati (con una società italiana controllata da anonime panamensi) c’è una palazzina in via Corciglia 14. Dove ha sede lo studio Cortellazzo e Soatto. Che paga da anni un affitto notevole: 240 mila euro più Iva, poi ribassato a 185 mila. Soldi che, attraverso le offshore, finivano nei conti svizzeri di Pipinato. Sia Soatto che Cortellazzo ricompaiono anche tra i soci della Delta Erre, al fianco di Venuti (il prestanome di Galan) e dell’avvocato Casellati (il marito della presidente del Senato). Allo studio Soatto e Cortellazzo è dedicato perfino un capitolo spinoso della sentenza sul Mose: sono loro ad aver firmato una perizia che, secondo i giudici, ha consentito alla Mantovani spa, l’azienda simbolo delle tangenti venete, di sopravvalutare le sue attività. Il loro studio è registrato con la sigla “Servizi professionali organizzati” e ha come socio di maggioranza il commercialista Lucio Antonello, che è anche l’attuale numero uno della Delta Erre.

Come presidente del Senato, la signora Casellati è sicuramente dalla parte della legalità e della lotta all’evasione fiscale. Il problema è che i soci di suo marito giocano nella squadra avversaria.

Grandi evasori, ecco la listaultima modifica: 2020-06-10T21:02:13+02:00da davi-luciano
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