NSA, le mani sugli account

MERCOLEDÌ 16 OTTOBRE 2013
di Michele Paris

Una nuova serie di documenti riservati dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) pubblicati martedì dal Washington Post hanno rivelato un’ulteriore attività dell’ente governativo con sede a Fort Meade, nel Maryland, che conferma l’avanzato stato di degrado dei diritti democratici negli Stati Uniti. La più recente rivelazione apparsa grazie all’ex contractor della stessa NSA, Edward Snowden, riguarda questa volta la raccolta massiccia e indiscriminata delle liste dei contatti e-mail contenuti negli account personali di posta elettronica e in quelli di messaggistica istantanea di utenti in tutto il mondo, Stati Uniti compresi.

Questa operazione non è mai stata resa nota in precedenza e i documenti forniti da Snowden indicano come l’NSA sia in grado di appropriarsi illegalmente di dati riservati intercettandoli nel momento in cui essi “si muovono attraverso collegamenti globali”, ad esempio quando un utente effettua un log-in, compone un messaggio oppure “sincronizza un computer o un telefono cellulare con le informazioni archiviate su server remoti”.

Come accade regolarmente con gli altri programmi di intercettazione di dati telefonici e traffico internet, anche in questo caso l’NSA non procede con la raccolta mirata di informazioni in caso di utenti sospetti, ma entra in possesso delle liste di contatti in maniera indiscriminata.

La quantità dei dati così ottenuti è perciò impressionante. La sezione dell’NSA denominata Special Source Operations in un singolo giorno ha messo le mani su 444.743 indirizzi e-mail provenenti da account Yahoo, 105.068 da Hotmail, 82.857 da Facebook, 33.697 da Gmail e quasi 23 mila da altri provider. Numeri simili indicano come l’NSA entri in possesso mediamente in un anno di oltre 250 milioni di indirizzi di posta elettronica contenuti nelle liste degli utenti di tutto il mondo.

Secondo quanto riportato dal Washington Post, il metodo con cui l’NSA raccoglie questi dati rende superflua qualsiasi notifica alle compagnie informatiche che li ospitano. Portavoce di Google, Microsoft e Facebook si sono infatti affrettati a dichiarare la loro estraneità al più recente programma di intercettazione di dati riservati rivelato da Snowden.
Tuttavia, come spiega ugualmente il quotidiano della capitale americana, la capacità dell’NSA di avere accesso alle liste di contatti “dipende da accordi segreti con compagnie di telecomunicazioni straniere o servizi di intelligence di paesi alleati” degli Stati Uniti.
Teoricamente, l’NSA avrebbe facoltà di raccogliere informazioni solo su cittadini stranieri, ma nella rete dell’agenzia cadono anche in questo caso numerosi contatti conservati nelle liste di utenti americani. Questo genere di dati, d’altra parte, offre preziose informazioni per l’intelligence d’oltreoceano, visto che gli elenchi dei contatti contengono spesso non solo nomi e indirizzi e-mail ma anche numeri di telefono, indirizzi postali e altro ancora.

Assieme ai dati telefonici e a quelli sul comportamento degli utenti su internet, questi ultimi permettono così agli agenti dell’NSA di delineare una mappa esaustiva della vita delle persone intercettate, comprese le loro frequentazioni e le opinioni politiche.

Questo sistema di controllo pervasivo smentisce dunque in maniera clamorosa le ripetute rassicurazioni da parte del governo americano circa le intenzioni dell’NSA, la quale opererebbe in questo modo solo per trovare informazioni legate ad attività terroristiche, mentre non ci sarebbe alcun interesse per le informazioni personali dei cittadini.

Le stesse debolissime regole create appositamente per dare una parvenza di legalità a sistemi da stato di polizia vengono inoltre puntualmente aggirate dall’NSA, dal momento che per ammissione dei vertici dell’intelligence questa agenzia non ha alcuna autorizzazione formale per raccogliere in massa liste di e-mail, così come altri dati informatici o telefonici, di cittadini americani.

L’NSA, tuttavia, ottiene le informazioni in questione da “punti di accesso in tutto il mondo”, da cui transitano appunto anche i dati degli americani, visto che compagnie come Google o Facebook utilizzano impianti situati fisicamente in svariati paesi esteri.

Queste ultime rivelazioni contribuiscono dunque a mostrare la totale assenza di scrupoli democratici del governo americano nelle proprie attività di controllo del dissenso interno e delle minacce agli interessi della propria classe dirigente in ogni angolo del pianeta.
La conoscenza da parte dell’opinione pubblica di simili operazioni non dipende, come è ovvio, dalla trasparenza del governo di Washington, bensì dal coraggio di persone come Snowden, le quali, per le loro azioni che forniscono un servizio di grandissimo valore vengono spesso perseguiti in maniera feroce.

A mettere in luce i metodi punitivi adottati dall’amministrazione Obama contro i propri critici e i cosiddetti “whistleblowers”, cioè coloro che dall’interno del governo rivelano abusi e crimini a cui hanno assistito in prima persona, è stata una recente indagine del Comitato per la Protezione dei Giornalisti (CPJ), un’organizzazione che promuove la libertà di stampa con sede a New York.

Secondo l’autore del rapporto, il docente di giornalismo presso l’università statale dell’Arizona Leonard Downie, “la guerra lanciata dall’amministrazione Obama contro le fughe di notizie e i suoi sforzi per controllare l’informazione non hanno precedenti per aggressività”.

Dalle testimonianze raccolte dal CPJ sulla questione, appaiono evidenti, tra l’altro, i tentativi di impedire l’accesso da parte dei giornalisti alle fonti interne al governo, le intimidazioni contro le testate e i singoli reporter e il controllo del flusso di informazioni alla stampa a seconda dei propri interessi.

Il quadro che emerge appare più consono ad una dittatura che ad un paese democratico e questo scenario risulta ancora più allarmante alla luce della promessa di assoluta trasparenza fatta nel 2008 in campagna elettorale da Barack Obama dopo l’eccessiva segretezza dell’amministrazione Bush.

Appena installato alla Casa Bianca, infatti, lo stesso Obama si è rapidamente adeguato ai sistemi ormai consolidati dell’apparato della sicurezza nazionale degli Stati Uniti, adottando addirittura misure ben più severe del suo predecessore, in linea con le crescenti necessità di controllo delle informazioni di un regime sempre più screditato e impopolare.
http://www.altrenotizie.org/esteri/5711-nsa-le-mani-sugli-account.html

AGI ha un parere precostituito e disinforma o fa confusione?

Posted By Redazione On 20 ottobre 2013

 Meschinità quotidiane dall’informazione ufficiale.

 Siria: “cecchini di Assad mirano contro pancione donne incinta

 22:51 19 OTT 2013

 (AGI) – Londra, 19 ott. – In Siria i cecchini di Bashar Assad si esercitano sparando su specifici punti del corpo delle vittime civili. Punti che vengono stabiliti dai loro comandanti di giorno in giorno per verificarne le capacita’ e che almeno un giorno alla settimana avevano come obiettivo le pance delle donne incinte. E’ quanto ha denunciato al Times il chirurgo britannico David Nott tornato dalla Siria dove ha trascorso 5 settimane come volontario in un ospedale da campo. Nott ha raccontato che, “in un solo gionro oltre sei donne incinte sono state colpite da cecchini ed il giorno dopo altre due”. Tutte le madri si sono salvate ma i feti nelle loro pance non sono sopravvissuti. “Le donne sono state tutte colpire all’utero, dove (ai cecchini) era stato ordinato di mirare…e questo e’ stato un atto deliberato. Era ben oltre l’inferno”, ha denunciato Nott, che ha raccontato di non aver mai visto nulla di simile neanche dopo tanti anni da volontario in Bosnia, Libia e Sudan.

Nott ha aggiunto che dopo qualche gionro nel Paese, con i suoi colleghi, ha iniziato a notare “uno schema sconvolgente”, su base quotidiana, tra le donne e i bambini colpiti, mentre, sfidando il fuoco incrociato, correvano tra le diverse zone del Paese per procurarsi il cibo. “Un giorno notavi che venivano colpiti all’inguine. Il giorno dopo solo al seno sinistro, e dopo ancora solo colpi al collo. Si trattava di un gioco in cui i cecchini venivano premiati con pacchetti di sigarette”.

 Questa è una notizia attendibile secondo voi? O forse la meschinità della disinformazione totalitaria di regime in Italia sta superando la soglia dell’imbecillità per arrivare alla demenza? (Da notare che l’informazione arriva dritta dalla centrale di disinformazione planetaria di Londra).

 Non si chiedeono questi geni di AGI se forse non erano i cecchini di Assad  (che non ha alcun motivo per sparare alle puerpere, al popolo che va a difendere) a sparare?  Forse il copyright dell’idea criminale è di qualcun altro…  Eccoli qui sotto i detentori dei diritti!

A questo punto sorge spontanea una domanda:  quale pena si dovrebbe dare al direttore dell’AGI per disinformare in questo modo?  NDR

 Le magliette di moda nell’esercito israeliano: “meglio ammazzarli da piccoli”

 1 solo colpo 2 morti

 Ishot2kills

[1]La denuncia scioccante viene dal quotidiano israeliano Haaretz [2]. Ai soldati israeliani piace andare in giro con magliette che superano i classici simbolismi del militarismo per addentrarsi nella guerra del futuro, quella asimmetrica nella quale il protagonista è il cecchino onnipotente con la testa vuota che ammazza civili, meglio se donne e bambini.E questo si riflette nella moda, nell’abbigliamento dei soldati di Tsahal. Sembra vadano a ruba le magliette con disegni di bambini presi nel mirino, oppure madri piangenti sulle tombe dei figli oppure t-shirt come quella nella foto che mostra una donna palestinese incinta e lo slogan: “con un tiro due piccioni”.Tutte le scritte sono per “uomini veri”, notevole per un esercito che fa dell’integrazione delle ragazze motivo d’immagine. I riferimenti sessuali, perfino allo stupro, sono continui come sono continui quelli alla maternità “piangeranno, piangeranno”. A una maglietta che mostra un bimbo ammazzato si accompagna un “era meglio se usavano il preservativo”. A quella con un bambino palestinese nel mirino si accompagna un “non importa quando si comincia, dobbiamo farla finita con loro” che suona in italiano come “meglio ammazzarli da piccoli”.

 Leggi tutto il reportage di Haaretz qui [2] e conserva questo link per la prossima volta che ti diranno che i palestinesi educano i figli alla cultura dell’odio.

SICILIA 1943 – I MASSACRI NASCOSTI (COME QUELLI NELLE CITTA’ DEL NORD, DOVE I BOMBARDAMENTI FECERO MIGLIAIA DI VITTIME).

basta dire che gli assassinati se lo meritavano o erano cattivi e la coscienza è a posto. Atto dovuto, eccidi dovuti.

SICILIA 1943 – I MASSACRI NASCOSTI (COME QUELLI NELLE CITTA’ DEL NORD, DOVE I BOMBARDAMENTI FECERO MIGLIAIA DI VITTIME).
17 ottobre 2013 alle ore 16.08
MA QUESTI GENERALI, COLONELLI E CAPITANI MASSACRATORI, NON SONO MAI ANDATI IN CARCERE E SONO GIA’ STATI SEPOLTI, CON TUTTI GLI ONORI, MENTRE STRADE E PIAZZE PORTANO IL LORO NOME.
 
AD ABUNDANTIAM, INVITO CHI E’ NTERESSATO A CONOSCERE LA VERITA’ E A VOLERE LA GIUSTIZIA, A FARE QULCHE RICERCA SUGLI ACCORDI TRA IL GOVERNO USA E LA MAFIA, PER LA SICILIA, E GOVERNO USA E LA JAKUZIA, PER ILGIAPPONE. Dopo vi sarà più chiaro il suo proliferare e anche quanto accaduto tra la Mafia e lo Stato e i partiti del centrodestrasinistra, da allora ad oggi.
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 “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!».( gen. G.Patton ai suoi soldati prima dello sbarco in Sicilia )
 
«Il capitano Compton radunò gli italiani che si erano arresi. Saranno stati più di quaranta. Poi domandò: “Chi vuole partecipare all’esecuzione?”.Raccolse due dozzine di uomini e fecero fuoco tutti insieme sugli italiani». «Il sergente West portò la colonna di prigionieri italiani fuori dalla strada. Chiese un mitra e disse ai suoi: “E’ meglio che non guardiate, così la responsabilità sarà soltanto mia”. Poi li ammazzò tutti». E’ una piccola Cefalonia: le vittime sono soldati italiani che avevano combattuto con determinazione. I carnefici non sono né delle SS né della Wehrmacht: sono fanti americani. Quella avvenuta in Sicilia tra il 12 e il 14 luglio 1943 è la pagina più nera della storia militare statunitense. Una pagina sulla quale gli storici negli Stati Uniti discutono da un lustro, mentre nel nostro Paese la vicenda è pressoché sconosciuta. Nelle università del Nord America ci sono corsi dedicati a questi eccidi, come quello tenuto a Montreal sul tema «Dal massacro di Biscari a Guantanamo». E negli Usa in queste settimane gli esperti di diritto militare valutano le responsabilità dei carcerieri di Abu Ghraib anche sulla base delle corti marziali che giudicarono i «fucilatori di italiani». Perché – come risulta dagli atti di quei processi – i soldati americani si difesero sostenendo di avere soltanto eseguito gli ordini di George Patton. «Ci era stato detto – dichiararono – che il generale non voleva prigionieri».
 
I fattiNessuno conosce il numero esatto di uomini dell’Asse uccisi dopo la resa. Almeno cinque gli episodi principali, con circa duecento morti. Di due, quelli avvenuti nell’aeroporto di Biscari, nel Ragusano, si conosce ogni dettaglio. Nel massimo segreto, nell’autunno 43 la corte marziale Usa celebrò due processi: il sergente Horace T. West ammazzò 37 italiani, il plotone d esecuzione del capitano John C. Compton almeno 36. Gli atti deltribunale recitano: «Tutti i prigionieri erano disarmati e collaborativi». Altri due eccidi sono stati descritti da un testimone oculare, il giornalista britannico Alexander Clifford, in colloqui e lettere ora divulgate. Avvennero nell’aeroporto di Comiso, quello diventato famoso mezzo secolo dopo per gli euromissili della Nato. All’epoca era una base della Luftwaffe, contesa in una sanguinosa battaglia. Clifford disse che sessanta italiani, catturati in prima linea, vennero fatti scendere da un camion e massacrati con una mitragliatrice. Dopo pochi minuti, la stessa scena sarebbe stata ripetuta con un gruppo di tedeschi: sarebbero stati crivellati in cinquanta. Quando un colonnello, chiamato di corsa dal reporter, fermò il massacro, solo tre respiravano ancora. Clifford denunciò tutto a Patton, che gli promise di punire i colpevoli. Ma non ci fu mai un processo e il cronista si è rifiutato fino alla morte di deporre contro il generale. Infine l’ultima strage nella Saponeria Narbone-Garilli a Canicattì contro la popolazione che la stava saccheggiando. Secondo i resoconti stilati in quei giorni confusi del 43, la polizia militare Usa dopo avere intimato l’alt ed esploso dei colpi in aria, sparò una raffica sulla folla uccidendo sei persone. Ma i verbali scoperti nel 2002 dal professore Joseph Salemi della New York University – il cui padre fu testimone oculare dell’eccidio – riportano il racconto di alcuni dei soldati americani presenti: «Appena arrivati, il colonnello urlò di sparare sulla folla che era entrata nello stabilimento. Noi rimanemmo fermi, era un ordine agghiacciante. Allora lui impugnò la pistola ed esplose 21 colpi, cambiando caricatore tre volte. Morirono molti civili: vidi un bambino con lo stomaco sfondato dalle pallottole».
 
L’ordine Ma gli atti dei processi per «i fatti di Biscari» accreditano la possibilità che le vittime siano state molte di più. Tutti i crimini sono stati opera della 45ma divisione di Patton, i «Thunderbirds»: reparti provenienti dalla Guardia nazionale di Oklahoma, New Mexico e Arizona. Vengono descritti come cow boy, con elementi d’origine pellerossa. Ma presero parte con coraggio ad alcune delle battaglie più dure del conflitto. Quello sulle coste siciliane fu il loro battesimo del fuoco: avevano l’ordine di conquistare entro 24 ore i tre aeroporti più vicini alla costa, strategici per trasferire dal Nord Africa gli stormi alleati. Invece la disperata resistenza di due divisioni italiane e di poche unità tedesche li fermò per quattro giorni. Molti G.I. persero il controllo dei nervi. Ed erano tutti convinti che il generale Patton avesse ordinato di non fare prigionieri. Decine di soldati, graduati ed ufficiali testimoniarono al processo: «Ci era stato detto che Patton non voleva prenderli vivi. Sulle navi che ci trasportavano in Sicilia, dagli altoparlanti ci è stato letto il discorso del generale. “Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero! E finito il momento di giocare, è ora di uccidere! Io voglio una divisione di killer, perché i killer sono immortali!».
 
L’orrore Il primo a scoprire e denunciare gli eccidi fu il cappellano della divisione, il colonnello William King. Alcuni soldati americani, sconvolti, lo chiamarono e gli indicarono la catasta dei corpi crivellati dal sergente West: «E’ una follia – gli dissero -, stanno ammazzando tutti i prigionieri. Siamo venuti in guerra per combattere queste brutalità non per fare queste porcherie. Ci vergogniamo di quello che sta accadendo». King corre a cercare il comando del reggimento. Ma lungo la strada per l’aeroporto vede un recinto di pietra, probabilmente un ovile, pieno di italiani catturati. Recita il verbale del cappellano: «Quando mi sono avvicinato, il caporale di guardia mi ha salutato: “Padre, sei venuto per seppellirli?”. “Cosa stai dicendo?”, replicai io. Il caporale rispose: “Loro sono lì, io sono qui con il mio mitra Thompson, tu sei lì. E ci hanno detto di non fare prigionieri”». A quel punto King sale su un masso, chiama tutti gli americani presenti e improvvisa una predica per convincerli a risparmiare quegli uomini: «Non potete ucciderli, i prigionieri sono una fonte preziosa di notizie sul nemico. E poi i loro camerati potrebbero vendicarsi sui nostri che hanno preso. Non fatelo!». Altrettanto drammatica la testimonianza del capitano Robert Dean: «Venni fermato da due barellieri disarmati. Mi dissero: “Abbiamo due italiani feriti, mandate qualcuno ad ammazzarli”. Io gli urlai di curare quei soldati, altrimenti gliela avrei fatta pagare”».
 
La condanna Fu proprio la volontà del cappellano King a far nascere i due processi sui massacri di Biscari. King raccontò tutto all’ispettore dell’armata – figura simile ai nostri pubblici ministeri -, che fece rapporto a Omar Bradley. La corte marziale contro il sergente West si aprì a settembre. L’accusa: «Omicidio volontario premeditato, per avere ucciso con il suo mitra 37 prigionieri, deliberatamente e in piena coscienza, con un comportamento disdicevole». I fanti italiani – poco meno di 50 – erano stati catturati dopo un lungo combattimento in una caverna intorno all’aeroporto di Biscari. Il comandante li consegnò al sergente con un ordine ritenuto «vago» dai giudici: allontanarli dalla pista dove si sparava ancora. Nove testimoni hanno ricostruito l’eccidio. West mette gli italiani in colonna, dopo alcuni chilometri di marcia ne separa cinque o sei dal resto del gruppo. Poi si fa dare un mitra e conduce gli altri fuori dalla strada. Lì li ammazza, inseguendo quelli che tentano di scappare mentre cambia caricatore: uno dei corpi è stato trovato a 50 metri. Davanti alla corte, il sergente si difese invocando lo stress: «Sono stato quattro giorni in prima linea, senza mai dormire». Dichiarò di avere assistito all’uccisione di due americani catturati dai tedeschi, cosa che lo «aveva reso furioso in modo incontrollato». Il suo avvocato parlò di «infermità mentale temporanea». Infine, West disse ai giudici: «Avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Ma la sua difesa non convinse la corte, che lo condannò all’ergastolo. La pena però non venne mai eseguita. Washington infatti era terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quei massacri. Temeva il danno d’immagine sugli italiani – con cui era stato appena concluso l’armistizio – e il rischio di ritorsioni sugli alleati reclusi in Germania. Si decise di non mandare West in una prigione negli Usa ma di tenerlo agli arresti in una base del Nord Africa. Poi la sorella cominciò a scrivere al ministero e a sollecitare l’intervento del parlamentare della sua contea. Il vertice dell’esercito temeche la vicenda possa finire sui giornali. Il 1° febbraio 1944 il capo delle pubbliche relazioni del ministero della Guerra sollecita al comando alleatodi Caserta un «atto di clemenza» per West: «Non possiamo – è il testo della lettera pubblicata da Stanley Hirshson nel 2002 – permettere che questa storia venga pubblicizzata: fornirebbe aiuto e sostegno al nemico. Non verrebbe capita dai cittadini che sono così lontani dalla violenza degli scontri». Così dopo solo sei mesi, West viene rilasciato e mandato al fronte. Secondo alcune fonti, morì a fine agosto in Bretagna. Secondo altre, ha concluso la guerra indenne.
 
L’assoluzione Invece il 23 ottobre 43 il capitano John C. Compton non cercò scuse: davanti alla corte marziale disse solo di avere obbedito agli ordini. Nel processo fu ricostruita la battaglia per la base di Biscari, combattuta per tutta la notte. C’era una postazione nascosta su una collina che continuava a bersagliare la pista. E una mischia feroce, con tiri di mitragliatrici e mortai, senza una linea del fronte. L’unità di Compton aveva avuto dodici caduti in poche ore. A un certo punto, un soldato statunitense vede un italiano in divisa e un altro in abiti «borghesi» che escono da una ridotta: sventolano una bandiera bianca. L’americano si avvicina e dalla trincea alzano le mani circa quaranta uomini. Cinque hanno giacche e maglie civili sopra i pantaloni e gli stivali militari. Il soldato li consegna al sergente ma arriva il capitano. Compton non perde tempo: dice di ucciderli. Molti dei suoi si offrono volontari: sparano in 24, esplodendo centinaia di pallottole sul mucchio degli italiani. Il numero esatto delle vittime resta incerto ma l’inchiesta si conclude con l’incriminazione del solo ufficiale per 36 omicidi, scagionando i suoi subordinati. E Compton in aula dichiara che l’ordine era quello, che doveva uccidere i nemici che continuavano a resistere a distanza ravvicinata. Inoltre precisa che quegli italiani erano «sniper», termine traducibile come «cecchini» o «franchi tiratori», e quindi andavano fucilati: una linea difensiva che sarebbe stata suggerita dallo stesso Patton. «Li ho fatti uccidere perché questo era l’ordine di Patton – concluse il capitano -. Giusto o sbagliato, l’ordine di un generale a tre stelle, con un esperienza di combattimento, mi basta. E io l’ho eseguito alla lettera». Tutti i testimoni – tra cui diversi colonnelli – confermarono le frasi di Patton, quel terribile «se si arrendono solo quando gli sei addosso, ammazzali». Alcuni riferirono anche che Patton aveva detto: «Più ne prendiamo, più cibo ci serve. Meglio farne a meno». Compton fu assolto. Il responsabile dell’inchiesta William R. Cook fu tentato di presentare appello: «Quell’assoluzione era così lontana dal senso americano della giustizia – scrisse – che un ordine del genere doveva apparire illegale in modo lampante». Ma nel frattempo Cook era caduto al fronte. Ironia della sorte, si crede che sia stato colpito da un cecchino mentre cercava di avvicinarsi a dei tedeschi con la bandiera bianca. La sua assoluzione è però diventato un caso giuridico, che ha cominciato a circolare tra il personale della giustizia militare statunitense dopo la fine della guerra. Un precedente «riservato» anche per evitare che influisca sui processi ai criminali di guerra nazisti. Poi nel ’73 una traccia nei diari di Patton pubblicati da Martin Blumenson e nell’83 la prima descrizione completa nell’autobiografia del generale Omar Bradley. Oggi alcuni storici americani – assolutamente non sospettabili di revisionismo – ritengono che sulla base della sentenza Compton andavano assolte le SS fucilate per gli omicidi di prigionieri americani. E mentre negli Stati Uniti da 25 anni si pubblicano studi sul «massacro di Biscari» e le sue ripercussioni – il primo nel 1988 fu di James J. Weingartner, l’ultimo nel 2002 è stato di Hirshson – nel nostro Paese la vicenda è stata sostanzialmente ignorata. Vent’anni fa nel volume dello statunitense Carlo d’Este sullo sbarco in Sicilia, tradotto da Mondadori, la questione era relegata in un capoverso. Poi, ultimamente due introvabili scritti di storici siciliani e una pagina nel documentato volume di Alfio Caruso. Mai però un iniziativa per ricordare quei soldati, rimasti senza nome. Mentre persino Biscari non esiste più: oggi il paese si chiama Acate.
 

(Gianluca Di Feo – Corriere della sera – 23 giugno 2004

LA SEGRETARIA ZOIA TELEFONA, LA CAMERA SALDA IL CONTO

18 OTT 2013 14:38
1. IL LEADER, LA SEGRETARIA E IL QUESTORE DELLA CAMERA: SEMPRE PIÙ AFFOLLATO LO ZOO DI ZOIA, LA FEDELISSIMA DI PIERLUIGI BERSANI PAGATA DAI CONTRIBUENTI –

2. DOPO LO STIPENDIO DELLA REGIONE EMILIA E IL CONTO COINTESTATO CON BERSANI, ORA SPUNTA ANCHE IL TELEFONINO A CARICO DI MONTECITORIO, ASSEGNATOGLI DAL QUESTORE IN QUOTA PD ALBONETTI, EMILIANO COME CULATELLO, CHE RACCONTA: – “LAVORAVA ANCHE PER ME, TENEVA I RAPPORTI DI NOI DEPUTATI EMILIANI CON LA REGIONE” –

3. PERCHÉ LA SEGRETARIA DI BERSANI, INDAGATA PER TRUFFA E OGGI DIPENDENTE DEL PENSATOIO BERSANIANO NENS, NON POTEVA ESSERE DIRETTAMENTE PAGATA DAL PARTITO? –

4. IL MISTERO DELL’INCHIESTA A SCOPPIO RITARDATO: SE LE CARTE FOSSERO STATE INVIATE SUBITO DA BOLOGNA A ROMA, L’AFFAIRE DEGLI EMILIANI SAREBBE USCITO IN PIENA CAMPAGNA ELETTORALE. IN TEMPO PER LE PRIMARIE IN CUI BERSANI HA BATTUTO RENZI –
5. LA SEGRETARIA ZOIA TELEFONA, LA CAMERA SALDA IL CONTO

Marco Lillo per “Il Fatto Quotidiano”

Oltre al conto cointestato con Bersani c`è anche un telefonino della Camera assegnato, non si capisce a quale titolo, a Zoia Veronesi. Al telefonino affidato a questa dipendente molto particolare della Regione Emilia Romagna dall`allora questore della Camera, Gabriele Albonetti, l`uomo dei conti per il Pd a Montecitorio, ora si sta interessando la Procura di Roma.
La prossima settimana Albonetti sarà sentito come persona informata dei fatti nell`ambito dell`indagine sul conto corrente intestato al duo Bersani-Veronesi. Il procuratore capo Giuseppe Pignatone ha affidato il fascicolo (svelato dal Fatto Quotidiano il 4 ottobre) al procuratore aggiunto Francesco Caporale e al sostituto Corrado Fasanelli. I magistrati, dopo avere studiato le carte trasmesse da Bologna, hanno incaricato il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza guidato dal colonnello Cosimo Di Gesù di effettuare gli accertamenti sul conto cointestato al leader del Pd.

Il rapporto bancario era emerso durante l`inchiesta della Procura di Bologna che vede indagata Zoia Veronesi per truffa aggravata ai danni della Regione Emilia-Romagna. Nei primi giorni di settembre è stato notificato l`avviso di chiusura indagini, che solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio, da parte dei pm bolognesi Valter Giovannini e Giuseppe Di Giorgio. Secondo l`accusa, la Veronesi è stata pagata dall`ente pubblico Regione dal primo giugno 2008 al 28 marzo 2010 quando in realtà svolgeva un lavoro privato di segreteria per il leader del Pd Bersani.

La Procura di Bologna contesta alla Veronesi e all`ex capo di gabinetto del presidente della Regione, Bruno Solaroli, la spesa dei 140 mila euro lordi più rimborsi pagati dalla Regione. Quando lo scandalo esplode, le carte tornano a posto: Zoia Veronesi, a marzo del 2010, nello stesso mese in cui l`ex deputato del Pdl Enzo Raisi presenta l`esposto in Procura, si dimette dalla Regione e trova lavoro al Pd.

Al termine dell`indagine a settembre 2013, la Procura bolognese trasmette a Roma le carte sul conto corrente e il telefonino. Il fascicolo è un mero modello 45 senza indagati e ipotesi di reato nel quale sono confluiti l`informativa e le dichiarazioni inizialmente segretate della Veronesi, relative anche alle due questioni (conto e telefonino) contestate durante l`interrogatorio. Alla presenza del difensore, Paolo Trombetti, nel novembre del 2012, la segretaria di Bersani ha sostenuto che il conto risaliva al 2000 e vi confluivano anche i contributi dei privati regolarmente registrati dal deputato.

Mentre riguardo al telefonino, Veronesi ha spiegato di averlo avuto dal Questore Albonetti anche se non lavorava per la Camera in virtù del suo ruolo di raccordo con la Regione. La scelta dei pm bolognesi di non trasmettere subito il fascicolo a Roma e di non svolgere attività esterna di verifica ha una sua logica. L`intento legittimo di tutelare il segreto sul filone bolognese ha certamente avuto degli effetti politici, indiretti e non voluti. Dopo la scoperta del conto, Bersani è stato candidato prima alle primarie contro Renzi e poi alle elezioni nazionali contro Grillo e Berlusconi.
Indubbiamente non avrebbe giovato alla sua immagine l`uscita sui giornali della notizia di un conto cointestato con la segretaria indagata per truffa sul quale confluivano i contributi elettorali, compresi i famigerati 98 mila euro della famiglia Riva nel 2006. Un eventuale ingresso dei finanzieri alla Camera per chiedere l`estratto conto e le carte sul telefonino della sua segretaria non sarebbe stato un bello spot.

Il deputato Elio Massimo Palmizio (Pdl) nei giorni scorsi ha annunciato un`interrogazione al ministro Cancellieri per chiedere “perché i magistrati, nel momento in cui hanno appreso dell`esistenza del conto intestato a Zoia Veronesi, indagata per truffa, hanno deciso di secretare gli atti, inviandoli per competenza alla procura di Roma solo tre settimane fa, a distanza di 12 mesi dalla presunta notizia di reato”. In Procura, a Bologna, fanno notare che l`informativa finale del Nucleo di Polizia Tributaria di Bologna è più recente. Anche se il conto sarebbe stato individuato e segnalato dalla Guardia di Finanza non uno ma ben due anni fa. I ritardi non giovano a nessuno.

Anche Bersani ha fatto capire al Fatto di non aver gradito i ritardi negli accertamenti perché non ha nulla da temere: “Su quel conto sono confluiti solo contributi regolarmente registrati alla Camera. I soldi sono stati spesi per attività politica, di partito o di associazioni, nel corso degli anni. Al 31 dicembre 2012 erano rimasti sul conto circa 20 mila euro. Ora non c`è quasi nulla. Sono una persona trasparente e ho rispetto della magistratura. E sono pronto a fornire tutti gli elementi a chi di dovere. Non a un giornalista”.

IL QUESTORE PD, EMILIANO COME BERSANI: “SÌ, LA SIM GLIEL`HO DATA IO, LAVORAVA ANCHE PER ME”

Da “Il Fatto Quotidiano”

Gabriele Albonetti, 62 anni di Faenza, Pd, è stato questore alla Camera dal 2008 al 2013. Ci spiega perché ha assegnato alla segretaria di Bersani – nonostante non fosse dipendente della Camera – una Sim del telefonino di Montecitorio Zoia Veronesi ha avuto il telefonino perché era anche una mia collaboratrice a titolo gratuito. Non è necessario essere dipendenti. C`è una delibera dell`ufficio dei questori? ?No. Le avevo solo chiesto di tenermi i rapporti con la regione per le questioni che interessavano noi parlamentari emiliani.

Voi chi? I deputati del Pd? Non solo. Di tutti i partiti. E gli altri deputati emiliani sapevano del ruolo della Veronesi? ?Penso proprio di sì, avevamo fatto alcune riunioni sotto legge finanziaria. ?Anche Enzo Raisi, l`ex deputato Fli che ha denunciato la segretaria di Bersani, sapeva del ruolo di Zoia Veronesi? ?Noi avevamo un rapporto di tipo istituzionale. Io poi facevo il questore e avevo un ruolo ancora più istituzionale degli altri. ?Avete dato telefonini a tutte le regioni?

Non lo so, deve chiedere ad altri. ?Veronesi era dirigente retribuita dalla Regione. Bersani dice che lavorava gratis per lui nel tempo libero. Ora si scopre anche la collaborazione con il Questore del Pd. Altro che truffatrice. A sentire voi è una stacanovista del volontariato politico. ?Bè, è una donna che ha sempre lavorato molto. ?Non pensa che i contribuenti potrebbero sentirsi presi in giro da lei. Non sarà che ha usato il suo potere di questore per assegnare un telefonino alla segretaria del leader del suo partito?

VASCO ERRANI AI FUNERALI DI EDMONDO BERSELLI DA REPUBBLICA
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-il-leader-la-segretaria-e-il-questore-della-camera-sempre-pi-affollato-lo-64847.htm

LA POVERTÀ CHE CI ASPETTA – GIOVANNINI CONFESSA: “IN FUTURO SARA’ MOLTO DIFFICILE ASSICURARE PENSIONI DIGNITOS E”

Giovannini ha detto che gli italiani sono poco occupabili perché ignoranti. Ai pensionati ora dice che dopo una vita di lavoro si aspettino un calcio nel fondoschiena. Non è che c’è qualche ladro di troppo? I tecnici e la troika naturalmente non c’entrano niente.

18 OTT 2013 15:32
LA POVERTÀ CHE CI ASPETTA – GIOVANNINI CONFESSA: “IN FUTURO SARA’ MOLTO DIFFICILE ASSICURARE PENSIONI DIGNITOSE” (INIZIARE A TAGLIARE LE PENSIONI D’ORO, NO?)
Il ministro del lavoro sgancia l’atomica sui pensionati di dopodomani: “La messa in sicurezza del sistema pensionistico non assicurerà necessariamente un futuro dignitoso per tante persone, anche a causa dell’entrata tardiva nel mondo del lavoro e per la frammentarietà del lavoro stesso”…
Da Repubblica.it
“La messa in sicurezza del sistema pensionistico non assicurerà necessariamente un futuro dignitoso per tante persone”. Sebbene l’obiettivo sia proprio quello di “assicurare pensioni dignitose tra trent’anni, con la sfida di guardare al futuro e non limitarci ad aggiustamenti per il presente”, il risultato pare comunque difficile da realizzare. E’ il timore e l’impegno espresso dal ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Enrico Giovannini, intervenuto in videoconferenza alla seconda edizione del convegno “Tutto lavoro” del Sole 24 Ore.
Per il ministro “il problema più ampio che si manifesterà tra trent’anni è che con questa situazione economica, con l’entrata tardiva nel mondo del lavoro, e la frammentarietà del lavoro stesso, sarà molto difficile assicurare, con questo sistema contributivo, pensioni dignitose”.
Proprio sul mondo del lavoro si è concentrata l’attenzione di Giovannini, che ha affrontato il tema della riforma delle norme che lo regolano: la stagione di riforme del mercato del lavoro “non termina mai perchè ci sono evoluzioni continue”, però “non si può ogni volta smontare tutto quanto fatto”, ha ricordato.

Rispetto alle misure per agevolare la flessibilità in uscita, il Governo “ha elaborato una proposta che non ha costi paragonabili ad altre e che prevede la compartecipazione dei lavoratori, dello Stato e delle imprese. In alcuni settori un’età media molto elevata del lavoratore non aiuta la crescità di produttività”, ha spiegato tra l’altro, aggiungendo che “sono in programma la prossima settimana” incontri con le parti sociali.

Un contratto particolare, quello per Expo 2015, secondo il ministro è “in dirittura d’arrivo: abbiamo un’ipotesi che stiamo perfezionando. Come spesso in questi casi le parti sociali si rivolgono al governo chiedendo dove sono gli incentivi”, ha spiegato, però “credo che siamo ormai in dirittura d’arrivo”. Un ottimismo che desta “sorpresa” nella Cgil, tanto che il segretario confederale Serena Sorrentino precisa: “Allo stato attuale, non c’è alcun accordo su Expo né tantomeno siamo stati informati del fatto che il Governo abbia una proposta”.
Giovannini è intervenuto anche sulla questione del taglio limitato al cuneo fiscale della Legge di Stabilità, che ha scatenato violente critiche e accuse di mancato coraggio. Ma il ministro motiva questo ridimensionamento rispetto alle previsioni iniziali per la decisione di non gravare ulteriormente sulla sanità: “La decisione di non tagliare la sanità ha ridotto, soprattutto per le imprese, la possibilità di tagliare ulteriormente il cuneo fiscale nella misura indicata da altri”. Per il ministro comunque ci sono “spazi in futuro per ridurre ancora il cuneo fiscale”.
http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/la-povert-che-ci-aspetta-giovannini-confessa-in-futuro-sara-molto-difficile-assicurare-pensioni-64850.htm

La “Monarch” siriana addestra bambini schiavi

Posted By Redazione On 20 ottobre 2013
Chiamatela Monarch” o chiamatela Al Qaeda sempre quella è, lavaggi di cervello di piccoli esseri per trasformarli in killer seriali o in spie versione porno star.

Su diverse pagine dei social network dedicate alle organizzazioni terroristiche, soprattutto quelle militanti in Siria, sono state diffuse le immagini del campo organizzato dallo Stato islamico dell’Iraq e del Levante nel Ghouta (Damasco) per addestrare i bambini.

Il nome del campo è “Campo cuccioli Zarqawi” – un chiaro riferimento ad Abu Musab al-Zarqawi, fondatore, nel 2004, del ramo iracheno di Al-Qaeda “Tawhid e Jihad”, poi denominato “al-Qaeda della Jihad nella Terra Fiumi”, ora “Stato islamico dell’Iraq e del Levante”.

Le immagini diffuse mostrano i bambini, alcuni chiaramente con meno di dieci anni, che vengono addestrati all’uso delle armi.

Il campo d’addestramento comprenderebbe centinaia di bambini, ancora non identificati (non si sa bene né chi siano né da chi siano stati trascinati lì, se figli di terroristi o residenti rapiti).

Fonte: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=520219188061778&set=a.122593071157727.32096.121253544625013&type=1&theater

http://www.stampalibera.com/?p=67459

Manifestazione 19 ottobre: in marcia con il corteo, tra petardi nascosti e qualche “finto” black bloc

http://www.huffingtonpost.it/2013/10/19/manifestazione-19-ottobre-marcia-con-corteo-petardi-nascosti-finti-black-bloc_n_4129139.html?1382210138&utm_hp_ref=italy

 L’Huffingtonpost  |  Di Fabio Lepore Pubblicato: 19/10/2013 21:15 

manifestazione 19 ottobre

 Doveva essere un “corteo contro”. E un “corteo contro” è stato. Lasciando spazio a tutti, però. A iniziare dai primi che entrano in scena, sotto il sole caldo del dopo pranzo romano. Sono i rifugiati, infatti, a scandire per primi nella piazza il loro dissenso e a manifestare la rabbia per la loro condizione: “Basta! Basta! Siamo rifugiati in Italia senza diritti”.

Parte così il serpentone. Lento e a singhiozzo, specie in via Merulana, dove il camioncino, da cui si lanciano i cori, e il cordone del servizio d’ordine che lo attornia rallentano per permettere di essere raggiunti da tutti i manifestanti, anche quelli che arrivano da fuori Roma e sono stati fermati dalle forze dell’ordine per controlli all’ingresso della città. Si colora, intanto, via Merulana, degli slogan e delle danze dei manifestanti. E delle scritte sui muri del ministero delle Finanze, la prima istituzione che si incontra sul cammino. In quattro e quattr’otto un manifestante, coperto da una complice bandiera, confeziona con un prestampato: “Rendiamo il Paese ingovernabile a banche e Vaticano, costruiamo un governo d’emergenza popolare”. Altri attivisti, con gli ombrelli, inscenano una coreografia per lanciare un messaggio altrettanto chiaro: “Ridistribuite tutto”. Tutt’intorno bandiere No Tav, No Muos e cartelli che per richiamare l’attenzione sulle politiche abitative.

Ma è all’altezza di via Goito, dall’angolo destro con via Napoleone III, che improvvisamente piovono dall’alto cocci di vetro e pietre. Saluto di Casapound ai manifestanti. Il servizio d’ordine fatica non poco a dissuadere i più “caldi” dal rispondere a tono. Ma il cuore del corteo prosegue. E, quando le cose in via Napoleone sembrano essere tornate tranquille, la testa ha già “invaso” piazza della Repubblica. Ancora cori e slogan, incessanti. E sempre dissidenti. Che spiazzano e incuriosiscono i passanti e i turisti appena scesi alla stazione Termini. Nessuno, però, sembra esserne troppo indispettito. L’onda sale e tocca il suo apice nella via dei ministeri, dove fanno la loro comparsa anche le uova. Vengono gettate contro portoni e mura dei Palazzi, quelli con la P maiuscola. “Non ci è piaciuta la vostra recita”, urla una ragazza al mio fianco, colorendo con epiteti meno composti.

Nel corteo compaiono anche ragazzi con il volto coperto, ma per qualcuno è davvero difficile credere che siano “black bloc”, visto che molti indossano una costosa cerata di marca. Sono giovanissimi, a giudicare dal taglio degli occhi, che si intravvedono appena sotto il foulard nero. Dalle buche nell’asfalto, invece, fanno capolino i petardi (“nonostante i controlli, allora, sono riusciti a piazzare qualche sorpresa lungo il percorso”, viene da pensare), che scandiranno l’ultimo tratto di marcia verso Porta Pia.

All’ultima svolta a sinistra la gente, si percepisce, inizia a essere stanca. Freme per passare il più in fretta possibile. E gli addetti all’ordine faticano ancora una volta a contenerli. Soprattutto quando da una camionetta della Polizia parte un lacrimogeno. Poca cosa per i veterani delle manifestazioni d’autunno, che si tamponano appena gli occhi con le mani; forse il primo, per alcuni ragazzi, che prontamente tirano fuori dallo zaino i limoni e iniziano a succhiarli. Dal camioncino in testa al corteo, ancora una volta, lo speaker intima tutti a mantenere la calma. Il fiume si ricompatta. Ed è di nuovo la breccia: Porta Pia viene invasa di musica e colori. Gli stessi, un po’ più stanchi ma non con meno entusiasmo, di piazza San Giovanni.

 

Manifestazione 19 ottobre, tanti radicali in piazza e pochi scon tri. Ecco perché

http://www.huffingtonpost.it/2013/10/19/manifestazione-19-ottobre_n_4129023.html?utm_hp_ref=italy

 Di Angela Mauro Pubblicato: 19/10/2013 21:00 CEST  |  Aggiornato: 19/10/2013 21:00 

manifestazione 19 ottobre

“Qui continua, fino a domani e poi…”. Sono le 19 circa. Porta Pia è un miscuglio di umori, intenzioni, razze. Sotto il monumento al bersagliere, proprio al centro della piazza, davanti al ministero delle Infrastrutture blindato dai cellulari della polizia, più di qualcuno ha già piantato le tende. “Qui continua…”. L’intenzione è di accamparsi per la notte. Lo avevano detto fin dall’inizio quelli del movimento di lotta per la casa, il nucleo più forte del 19 ottobre italiano a Roma. Una manifestazione con effetto sorpresa. Perché le previsioni, anche quelle degli organizzatori, non stimavano una partecipazione così consistente. Perché i migranti si sono presentati in massa: di solito finora, per il timore di fermi o problemi con la giustizia, hanno sempre partecipato a cortei meno ‘radicali’. Ma la sorpresa c’è stata anche negli scontri: più o meno circoscritti a via XX Settembre, davanti al ministero dell’Economia. Eppure, chi conosce i movimenti, sa che c’erano tutte le condizioni per fare di più. Perché non è successo (almeno fino a sera)?

“Questa è l’apertura di uno spazio politico”, ti rispondono i promotori in piazza. Scontri come quelli del 15 ottobre 2011, portati avanti per ore fino a notte in piazza San Giovanni, avrebbero chiuso subito la partita. E invece sta proprio in quel 15 ottobre la chiave per capire che tipo di società è scesa in piazza il 19 ottobre 2013. Trattasi della parte più radicale, quella che due anni fa condivise e mise in atto gli scontri con le forze dell’ordine, quella che ormai ha rotto con chi due anni fa se ne andò dalla piazza in fiamme. Acrobax, Communia, Global Project, Dinamo, una delegazione di No Tav, Pirati, un po di ultrà, oltre ai movimenti di lotta per la casa, i migranti e i sindacati di base, che due anni fa non condivisero gli scontri e ora sì. Ma le sigle contano fino a un certo punto. “Questa partecipazione non ce l’aspettavamo, significa che c’è una domanda di partecipazione radicale, al di là del lessico, effettivamente abbastanza povero”, ti dicono gli organizzatori.

La scommessa pensano di averla vinta. “I movimenti sono qui, non nella ‘piazza soft’ di Rodotà e Landini…”. Sarebbe quella del 12 ottobre per l’applicazione della Costituzione, organizzata insieme a sigle contrarie ad amnistia e indulto, argomenti invece sensibilissimi per la piazza del 19 ottobre. Pensano di aver vinto perché hanno dimostrato “radicalità” davanti al ministero dell’Economia ma al tempo stesso sono riusciti a salvaguardare il corteo per permettere ‘l’acampada’ finale a Porta Pia e per darsi una via d’uscita. Politica. Perché per loro è questa la politica. “D’ora in poi dovranno fare i conti con noi…”.

La crisi effettivamente ha indurito gli animi, chi frequenta le piazze lo sa. Ma il 19 ottobre è stata semplicemente la ‘giornata di presentazione’ della nuova compagine: tanti volti ormai maturi e noti dal G8 di Genova, ma anche e soprattutto tantissimi giovanissimi, la maggioranza, e tutti pronti allo scontro, bardati con cappucci e casco alla mano, più limoni anti-lacrimogeni. Oggi il biglietto da visita. Domani chissà. In corteo cantavano ‘Because the night’ di Patti Smith, in versione rivista e corretta: “Because the night…non usa il flash…”. Potrebbero tornare in azione in nottata? “Forse, chissà. Intanto stiamo qui, a Porta Pia…”.

Tensioni tra manifestanti e militanti di CasaPound

Il corteo antagonista a Roma

Fabio Lepore

Reportage dall’accampamento

Quarto incidente in sette giorni presso la centrale nucleare di Fukushima

14 ott 2013 – Il quarto incidente in una settimana, dovuto a un errore umano: sei operai sono stati esposti ad acqua ad alta contaminazione presso la centrale nucleare disastrata di Fukushima a causa del “distacco improprio” di un tubo collegato al sistema di desalinizzazione.

“Un episodio grave, ancora a causa di disattenzione”, ha tuonato in conferenza stampa Shunichi Tanaka, a capo della Nra (la Nuclear Regulation Authority), l’agenzia sulla sicurezza nucleare in Giappone, tornata a bacchettare il gestore Tepco, su cui il governo di Shinzo Abe potrebbe prendere ora provvedimenti più netti, tra cui – si ragiona nel partito Liberaldemocratico del premier – anche un’ipotesi spezzatino, di spacchettamento delle attività.
Sei degli 11 lavoratori, impegnati nell’attività di controllo del mattino, sono stati colpiti dall’acqua che, una volta trattata, è usata per raffreddare i reattori danneggiati.
L’operazione riduce la radioattività di cesio e rimuove il sale prima dello stoccaggio nei serbatoi: l’acqua rilasciata per l’incidente aveva subito la pulizia del cesio, pur conservandone una concentrazione di 1.690 becquerel per litro. C’è voluta più di un’ora per ricollegare i tubi, tra difficoltà impreviste.

“È difficile che ci sia stata un’esposizione interna”, ha aggiunto Tanaka, visto che tutti “indossavano maschere facciali e stivali”. Il liquido fuoriuscito, infatti, contiene anche sostanze radioattive pari a 34 milioni di becquerel per litro che emettono raggi beta (quindi dannose al contatto diretto), tra cui lo stronzio 90, a fronte di limiti legali sul rilascio all’esterno di 30 becquerel.

Nel pomeriggio, la Tepco ha fornito in una nota i contorni dell’incidente e stimato la perdita in “7 tonnellate” che non hanno raggiunto l’oceano Pacifico grazie alle barriere di contenimento. Una precisazione, dall’esito positivo, che non ha nascosto le innumerevoli difficoltà di gestione dell’enorme quantità di acqua tossica che il sito continua a produrre.
L’incidente è maturato dopo che la Nra ha ordinato venerdì alla Tepco di migliorare la sicurezza dei processi gestionali a seguito di una serie errori, spesso grossolani.
La scorsa settimana, l’utility ha spiegato che 430 litri di acqua radioattiva erano fuoriuscite e filtrate in parte nell’oceano perché i tecnici al lavoro hanno cercato di iniettare più acqua in un serbatoio pressoché pieno e costruito su un leggero pendio. Poco prima, altre 5 tonnellate di acqua piovana contaminata erano uscite da un’altra cisterna perché un operaio aveva erroneamente collegato un tubo di scarico.
Lunedì, infine, uno degli impianti di alimentazione elettrica di raffreddamento dei reattori è stato inavvertitamente disattivato, facendo entrare in funzione quelli di emergenza. La Nra ha riferito in giornata di non aver trovato aumenti delle radiazioni nel mare vicino alla centrale, mentre una missione dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) sarà in Giappone il 14 ottobre per una settimana di ispezioni proprio alla centrale di Fukushima.
Autore: Antonio Fatiguso / Fonte: ansa.it

Fonte: http://www.ecplanet.com/node/4018
http://www.signoraggio.it/quarto-incidente-in-sette-giorni-presso-la-centrale-nucleare-di-fukushima/

TAV in Val di Susa: un incubo lungo 20 anni

http://ilcorrosivo.blogspot.it/2013/10/tav-in-val-di-susa-un-incubo-lungo-20.html

Marco Cedolin

Erano i primi anni 90 quando in Val di Susa s’iniziò a parlare del progetto per la costruzione di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità che unisse Torino a Lione. In un primo tempo l’opera venne presentata come rivolta a mobilitare i passeggeri, successivamente dal momento che i potenziali viaggiatori latitavano, la destinazione d’uso diventò quella del trasporto merci. Nell’intendimento dei proponenti la nuova infrastruttura avrebbe dovuto costituirsi come parte integrante di un ipotetico asse ferroviario ad alta velocità in grado collegare Lisbona con Kiev, prima che la “grande crisi” costringesse il Portogallo e molti altri stati a rinunciare a qualsiasi velleitario progetto di alta velocità….

La popolazione valsusina manifestò fin da subito la propria aperta contrarietà nei confronti del nuovo progetto, dal momento che esso avrebbe determinato una lunga serie di criticità, tanto dal punto di vista ecologico, quanto da quello sanitario e sociale. La Val di Susa è infatti una stretta vallata alpina che già all’epoca risultava profondamente infrastrutturizzata attraverso fabbriche, acciaierie, una linea ferroviaria internazionale preesistente, due statali e l’autostrada del Frejus che era in fase di costruzione. Per una nuova grande opera davvero non ci sarebbe stato più spazio.
 
Pur posto di fronte a molte perplessità e contestazioni il progetto continuò comunque ad andare avanti, fino a quando nell’inverno del 2005, diventato esecutivo, comportò l’installazione di un primo cantiere in località Venaus. Nonostante la Valle fosse stata già dalla fine di ottobre pesantemente militarizzata, l’insofferenza e la rabbia della popolazione continuarono a crescere a dismisura, fino a sfociare l’8 dicembre in una vera e propria sommossa popolare, durante la quale oltre 70mila valsusini, insieme ai propri sindaci, invasero l’area di cantiere ribadendo il proprio NO perentorio alla costruzione dell’opera. Trovandosi di fronte al rifiuto categorico dell’infrastruttura, da parte della stragrande maggioranza della popolazione locale e dei suoi amministratori, in una situazione ad alta tensione sociale, il governo non poté fare altro che sospendere il progetto, ma riuscì comunque a mantenerlo in vita, tramite un Osservatorio presieduto dall’arch. Mario Virano, al quale fu dato il compito di trovare una qualche forma di mediazione.
 
Il TAV Torino – Lione “risorse” di fatto nel 2011, quando il 27 giugno, nel corso di una vera e propria battaglia condotta con l’uso dei gas lacrimogeni, oltre 2000 agenti delle forze dell’ordine occuparono con la forza la Maddalena di Chiomonte, presidiata da mesi da alcune migliaia di cittadini della valle. Proprio a Chiomonte infatti, in una zona difficilmente accessibile, il nuovo progetto aveva spostato il luogo deputato ad ospitare il primo cantiere, dove scavare il tunnel geognostico di 7,5 km, propedeutico a quello di 57 km che costituirà di fatto l’opera, dal momento che lasciata decantare nell’oblio l’intera tratta nazionale, il nuovo TAV “low cost” creato da Virano sarà limitato esclusivamente allo scavo del megatunnel.
 
Nello scorso mese di Gennaio, a quasi due anni dall’inizio dell’occupazione, nonostante la contestazione popolare e e l’insofferenza dei valsusini restino altissime, è iniziato lo scavo dei primi 12 metri del tunnel di Chiomonte, sancendo di fatto l’avvio di un’opera che sul terrorio nessuno vuole, ma la politica, le banche ed il malaffare attendevano bramosi da oltre 20 anni, come un rubinetto al quale abbeverarsi in tranquillità per i decenni a venire.