Traduzione dell’intervista a Virgilio Bellone

Tra i fondatori del PCd’I nel 1921

N.B.: Il colloquio avviene in LINGUA piemontese.

(durante l’intervista Bellone dice di avere 94 anni, quindi dovrebbe essere stata effettuata nel 1974).

Lato A

Pochi minuti di ricordi di quando era a Milano, ricordi della madre, della moglie, del figlio Sergio della sua attività antifascista del 1938 e poi ad inizio resistenza. Nell’ultima parte, su richiesta dell’intervistatore – Gigi Richetto di Bussoleno –, esprime giudizi sul compromesso storico che non approva, ma dice di aver votato PCI al Senato e Democrazia Proletaria alla Camera.

Lato B

I primi dieci minuti sono ricordi di fine ‘800, quando racconta degli scontri e querele con il clero a livello locale nella Valle di Susa.

Poi prosegue sulla realtà operaia di fine ‘800 e sulla nascita del PCd’I.

Domanda

Questi operai che si alleavano al movimento socialista vivevano in condizioni durissime nelle fabbriche è da li che sentivano l’esigenza di organizzarsi, venivano a cercarvi o eravate voialtri che andavate davanti alle fabbriche. Come svolgevate la propaganda?

     C’era tanto analfabetismo, la gente viveva chiusa, gretta. Di politica non capivano niente, nei paesini su 100 persone 90 erano analfabeti. Io ero maestro a San Giorio facevo tre classi I-II-III in tutto erano 40 ma quasi nessuno veniva a scuola.

     Quando hanno fatto la fabbrica a Borgone (Cotonificio Valle Susa n.d.t.), i bambini di 10 anni partivano a piedi da San Giorio per andare a lavorare e prendere 8 soldi al giorno. Se di notte venivano presi a dormire la multa era di 4 soldi, e finiva che la giornata era di 4 soldi.

     Le ragazze avevano 20 soldi e gli uomini 24/25. Poi è arrivata la fabbrica di Chianocco (sempre il CVS n.d.t.), parliamo del 1884-85-86. Aveva aperto nel 1890 e avevano già fatto qualcosa ma a mezzogiorno andavano a mangiare fuori sulla strada e quando pioveva o nevicava andavano sotto il ponte della ferrovia per ripararsi perché non li lasciavano mangiare dentro e facevano 12 ore, entravano che era notte ed uscivano che era notte. Quando sono arrivate le 10 ore erano già in paradiso, ma lì avevano già fatto le leghe. E allora noi andavamo a parlare, ma erano tutti gelosi uno dell’altro perché c’era chi prendeva di più e chi di meno e spesso litigavano e sembravano i capponi di Renzo nei Promessi Sposi. Io quell’esempio lo portavo davanti alle fabbriche. Gli dicevo di non litigare, di unirsi perché quando il padrone ha da fare con tutti e non con uno solo le cose cambiano.

     Un altro esempio. Quando hanno fatto la fabbrica a Borgone era tutto un acquitrino e gli operai che la costruivano lavoravano estate e inverno scalzi nel fango per qualche soldo in più, e a 40 anni erano tutti ammalati o morti. Poi si è saputo che l’azienda pagava all’impresario 10 lire per operaio ma l’impresario che si chiamava Coda gliene dava solo 5. Oppure uno scalpellino di San Giorio che una pietra gli ha schiacciato la gamba, è stato licenziato e andava in giro a chiedere l’elemosina sulle grucce.

     E io che ero già stato in città e avevo girato la campagna romana dove c’erano già le leghe facevo propaganda ma non ero tanto creduto, la gente non si fidava diceva che ero solo un ciarlatano e facevo il maestro di paese perché nessuno mi voleva a lavorare. Ed è stata un po’ la mia fortuna perché sono andato in città e ho preso la laurea.

     Io cercavo di fare la lega, gli dicevo non importa se siete di chiesa o se bestemmiate, ricordate che lavorate tutti insieme. Poi quando ho fatto la prima sezione socialista, lì si faceva anche propaganda anticlericale.

     Ricordo che una volta per la festa di Santa Lucia ai Martinetti, quelli della Lega degli scalpellini vennero da me dicendo che gli scalpellini volevano far dire una messa e io gli risposi che se è quello che la maggioranza voleva era giusto farlo, l’importante era stare uniti.

     Prima si faceva la Lega e poi la sezione socialista e modestia a parte io in Valle di Susa ho fatto molto e dovessi tornare indietro lo rifarei anche se sono stati tanti sacrifici, mia mamma ha pianto spesso per me.

Domanda

In un articolo lei scrive che la maggioranza della Valle di Susa aderisce al Partito Comunista. Ci può raccontare qualcosa sulla scissione?

     Quando si è deciso per la scissione la riunione è stata fatta a casa mia a Milano a settembre. C’era Ljubarskij (si tratta di Nikolaj Markovič Ljubarskij, alias Carlo Niccolini n.d.t.), rappresentante della Terza Internazionale che era stato a Bucarest, c’era Bordiga di Napoli, Grieco che poi è diventato deputato, Fortichiari che era segretario federale di Milano, l’onorevole Belloni di Alessandria e nella sala della mia casa a Milano abbiamo gettato le basi del Partito Comunista, ufficiosamente.

     C’era anche Gramsci ma è arrivato l’indomani, quel giorno non è arrivato in tempo, è arrivato di notte e ha dormito sul sofà di casa mia. C’era anche Terracini che è ancora vivo e ha dormito su un materasso messo sul tavolo. Alla fine della riunione per celebrare abbiamo mangiato una torta e bevuto vermuth. Bordiga ha mangiato da me, ma lui aveva una stanza sua a casa mia. Fatta la riunione abbiamo iniziato subito a fare propaganda nelle sezioni per la scissione.

     Alla direzione centrale del Partito Socialista c’ero anche io, per il Piemonte c’era Terracini. Ma la riunione a casa mia è stata ufficiosa, Ljubarskij è restato in un paesino vicino a Milano fino al Congresso di Livorno e in quel periodo ha imparato l’italiano; parlava italiano come noi.

     Io giravo con Bordiga e altri per propagandare la scissione. Ravetto che era Bussoleno ed era ancora un giovanotto girava la Valle per noi, ecco perché era delegato a Livorno mentre io ero per la Lombardia.

L’ultima parte del nastro ripete nuovamente l’episodio di Graziadei e dello zucchero rubato (vedi A1)

Lato A1

Tutto il colloquio riguarda la scissione con i socialisti e l’occupazione delle fabbriche.

Domanda

Lenin conosceva bene la situazione italiana e seguiva attentamente il dibattito che c’era allora all’interno del partito socialista contro i riformisti e per la fondazione di un partito comunista realmente rivoluzionario e disciplinato. Lenin parla della mozione giusta dei compagni rivoluzionari dentro il Partito Socialista all’interno del comitato centrale di Milano, può dirmi qualcosa di questa mozione di Bellone-Terracini ?

     Vede in quella adunanza si è parlato a lungo, c’erano due tendenze quella rivoluzionaria capeggiata da Terracini, Gennari, Bellone e da altri membri del partito che adesso non mi ricordo.

     Il primo a parlare fui io sostenendo la necessità di separarsi nel partito da quelli che noi chiamavamo controrivoluzionari e che facevano capo a Turati, Treves, anche Serrati direttore dell’Avanti. Si diceva che Serrati aveva in mano una lettera di Lenin, noi l’abbiamo obbligato a leggerla.

Lenin diceva pressappoco quello che dicevamo noi. Il partito era diventato antirivoluzionario da un pò di tempo a questa parte poiché seguiva la linea dei grandi maggiorenti. Nel partito c’era Turati, nella confederazione del lavoro c’è D’Aragona che era un controrivoluzionario.

     Noi volevamo mettere un freno e chiedevamo alla “minoranza”, perché avevamo già fatto una prova nel partito e noi eravamo risultati la “maggioranza”: voi della minoranza accettate le 21 tesi della Terza Internazionale ed abbandonate la vostra propaganda riformistica, oppure noi siamo costretti a staccarci. C’è stata poi una lunga di discussione e poi si è fatta la votazione in favore della successione.     Prima ho parlato io che ero stato nominato segretario della riunione, un segretario che redige il verbale. Dovendo fare il verbale ho deciso di parlare per primo, dopo hanno parlato anche Terracini e Gennari poi alcuni meridionali ma non mi ricordo il nome mi pare ci fosse anche l’onorevole Belloni di Alessandria. Viceversa Bacci, D’Aragona, Sanarini e altri specialmente quelli del Mezzogiorno hanno votato contro ma noi abbiamo avuto la maggioranza.

     Serrati non era né con noi né con i riformisti. Serrati aveva deciso di dimettersi da direttore dell’Avanti ma noi abbiamo insistito perché restasse fino al Congresso per non creare uno scompiglio a pochi mesi dal congresso, però era rimasto con l’obbligo di non fare propaganda per la sua frazione sull’organo del partito e mantenesse la sua neutralità.

     Qui ci sarebbe poi qualche cosa da dire ma è un pettegolezzo.

Erano ritornati i rappresentanti di partito da Mosca e c’era anche l’onorevole Graziadei che faceva parte della frazione rivoluzionaria. A un certo punto della discussione Graziadei sostiene la nostra tesi; D’Aragona presidente della confederazione del lavoro era molto a destra ha investito Graziadei con un pettegolezzo dicendo: “Stai zitto tu che tuo figlio a Mosca ci ha rubato tutto lo zucchero che avevamo portato dall’Italia”.

     In Russia non c’era niente e la commissione era andata a Mosca con dei bauli dove c’era pane salame e formaggio. Graziadei si era arrabbiato dicendo che non c’era e non aveva visto ma non ci credeva perché suo figlio era una persona seria.

     In quella discussione era intervenuto anche il Baldesi che era un vice di D’Aragona è ancora un po’ si prendevano a pugni. Siamo intervenuti e li abbiamo divisi. Dopo un’oretta Graziadei rientra col figlio e il figlio era pronto a prendere per il collo D’Aragona.

     La mattina sul Corriere della Sera appare tutta la scena precisa con tutto quello che era successo ed eravamo tutti stupiti. Serrati si alza e dice “ma qui c’è una spia” e visto che eravamo tutti di noi ci siamo chiesti come aveva fatto il Corriere della Sera a sapere queste cose. Si è poi saputo un mese dopo che era Baldesi della confederazione del lavoro, pagato dal Corriere della Sera. Pubblicato dal Corriere della Sera la cosa ha preso uno sviluppo enorme.

     Dopo la votazione dove abbiamo avuto la maggioranza si è stabilito che l’Avanti rimanesse ancora a Serrati fino al congresso e che il partito incominciasse a far propaganda verso le sezioni.

     E allora abbiamo combinato nei fatti che Bordiga pur non essendo nella direzione del partito ma era uno dei capi più influenti a favore della frazione rivoluzionaria ha incominciato lui a fare il giro per l’Italia a propagandare i principi dai 21 punti di Mosca e poi anche gli altri dalla parte inversa hanno cominciato a fare altrettanto.

     E così siamo andati avanti fino al 21 di gennaio dell’anno appresso al congresso di Livorno.

Domanda

Noi siamo andati a leggerci Ordine Nuovo di quel tempi; la rubrica “Vita di classe” riporta tutte le assemblee che si facevano nelle sezioni del Partito Socialista anche in Valle di Susa. In queste riunioni c’era Pietro Ravetto che andava e discuteva. Si ricorda qualcosa di questo dibattito in Valle di Susa.

     Questo lavoro l’ha fatto soprattutto il povero Ravetto, io ero a Milano ma Ravetto mi informava e aveva un grande ascendente sulle sezioni in contrasto con Barbieri di Condove che sosteneva la tesi minoritaria del partito e che diventerà poi podestà fascista.

     Ravetto invece sosteneva la tesi maggioritaria e rivoluzionaria e quasi tutte le sezioni hanno aderito alle tesi di Ravetto tranne a Condove e nei paesi limitrofi.

Tutti la alte sezioni scelsero la maggioranza. Ci chiamavamo Massimalisti mentre gli altri erano i Riformisti.

     A Livorno mi sono incontrato con Ravetto e anche con Barbieri e nella Valle di Susa era passata a grande maggioranza la frazione massimalista.

Domanda

In queste sezioni c’erano tanti operai? Gli operai sono passati alla frazione rivoluzionaria?

     Quasi tutti operai ma anche contadini. Per esempio a Bussoleno gli operai delle fabbriche, a San Giorio quasi tutti gli scalpellini e qualche contadino. Le sezioni che erano controllate da Ravetto diventeranno subito sezioni comuniste. I riformisti riescono a ricostruire solo la sezione di Condove e di Sant’Antonino. Erano sezioni di minoranze che non avevano più nessun credito presso gli operai.

Domanda

Il credito questi riformisti lo hanno perduto con l’occupazione delle fabbriche?

     Si, l’avevano già perduto li perché erano tutti arrabbiati perché avevano restituito le fabbriche.

Infatti le fabbriche le abbiamo restituite per la grande pressione dei D’Aragona, Baldesi, Colombino tutti riformisti. Quando ci siamo radunati il 13-14-15 settembre a Milano al Salone dell’Umanitaria la notte… noi la chiamavamo la notte tragica perché si trattava di restituire le fabbriche e le terre occupate. In Lombardia il Passalcqua aveva già requisito la meliga dai campi.

     Io avevo fatto un giro nelle campagne ed erano tutti pieni di entusiasmo. Quella notte in una saletta a fianco c’erano Fortichiari, Repossi, io e qualcun altro e quando abbiamo visto che D’Aragona e altri capi riformisti stavano per avere la maggioranza avevamo deciso di sequestrare D’Aragona, caricarlo su un auto e mandarlo a …. (non si capisce n.d.t.).

     Era già tutto organizzato, tanto più che il presidente della Banca Commerciale di Milano, l’ebreo Toeplitz è venuto da noi quella notte ad offrirci i soldi della Banca Commerciale perché la borghesia era ormai convinta che fossimo i padroni del paese e si trattava solo di cambiare il governo a Roma.

     Più di così! Avevamo i soldi, avevamo la maggioranza delle classi lavoratrici, dicevamo: tiriamo via questi capi riformisti, facciamo la votazione, siamo in maggioranza. Domani proclamiamo lo stato proletario d’Italia.

     Viceversa quando Serrati ha sentito parlare di sequestrare D’Aragona e Colombino ha incominciato a dire No, non facciamo questo, è una piazzata, una roba che sarà deplorata da tutti.

     Così abbiamo discusso fino al mattino e poi l’ordine del giorno di D’Aragona ha avuto la maggioranza. Tanto più che D’Aragona, lo abbiamo saputo poi, aveva avuto un colloquio con Giolitti che gli aveva promesso che se si restituivano terre e fabbriche ai legittimi proprietari lui non avrebbe fatto rappresaglie, avrebbe passato una spugna su tutto, anche sui più compromessi.

     E così ci fu una delusione generale e la maggior parte passò con il Partito Comunista. Per convincere a far restituire le fabbriche mi ricordo che Bozzi disse che durante l’occupazione alla Fiat non si lavorava più, che la fabbrica andava in perdita, che gli operai erano assenti altri dormivano, che avevano fatto delle ruote di treni che non resistevano al peso dei vagoni, che il lavoro era mal fatto, che era tutto un disastro, che se si va avanti ancora così 15 giorni l’Italia va a rotoli.

     E quello in parte era anche vero, io sul treno sentivo gli operai della Fiat che tornavano dal lavoro parlare tra loro e dire che dormivano, oppure giocavano a bocce. Lo stesso alla Pirelli o alla Breda e allora è stato buon gioco quella notte convincere tanti a restituire le fabbriche.

Lato B1

Nell’intervista si parla della fine dell’occupazione delle fabbriche, della delusione, del riflusso di una parte e del passaggio al Partito Comunista degli elementi più attivi. Il riflusso con la crescita del fascismo e delle vicende elettorali.

Bellone si candida alle elezioni politiche nel 1919 e nel 1921 ed in entrambe le elezioni risulta il primo escluso. Bellone viene eletto nel 1922 in provincia a Milano, ma vi resta pochi mesi in seguito a dissidi con il prefetto che blocca ogni sua iniziativa a favore della scuola dell’obbligo e dei sordo-muti – Bellone era direttore didattico di Milano – .

Domanda

Lei era nel Partito Comunista, quali erano le prime difficoltà che avete avuto con il fascismo per poter continuare a fare politica tra gli operai.

     Riunioni segrete, per cellule, per gruppi. Invece di radunarsi in tanti ci si riuniva in 10-12, poi con altri 10-12 e si lavorava clandestinamente. C’era una reazione feroce, io a Milano avrò avuto 100 perquisizioni. Mi hanno portato via tutti i libri, avevo le opere di Marx, di Engels e di tutti i grandi del passato.. io ho perso migliaia di libri, portavano via i miei appunti e perfino le cartoline.

Domanda

Ma poi lei è uscito o è restato nel Partito Comunista.

     Sono sempre restato nel Partito Comunista fino a qualche anno fa. Però dopo la guerra non sono mai stato considerato anche se mi sono presentato alle elezioni del 1948.

     Finche si viveva nella clandestinità io e mia moglie servivamo molto. La signora Pajetta, la madre, aveva da dare dei soldi ai perseguitati politici, li portava a mia moglie, che non era conosciuta, e lei li portava alle famiglie indicate con mariti in galera o all’estero.

     Durante la liberazione mio figlio era uno dei capi partigiani e prima era stato condannato a 14 anni insieme a Ravetto. Noi abbiamo sempre appoggiato e lavorato per il partito, ma dopo la liberazione ci hanno messo da parte.

Lato A2

     Prima della liberazione conoscevo bene la famiglia Pajetta dopo la liberazione sono spariti tutti.

Io ero iscritto al partito, frequentavo le assemblee della sezione 18 in Corso Regina Margherita dove abitavo. Un giorno arriva a casa mia un compagno, un certo Anselmi e mi dice: “domani trovati in sezione che distribuiamo le medaglie per il 25° della fondazione del Partito Comunista e diamo la medaglia ai fondatori”.

     Io ci vado: c’era il salone pieno e la musica suonava. Luciano Gruppi sale sul palco, fa il suo discorso e poi chiama per la premiazione e dà la medaglia a Clelia Montagnana che era una turattiana di sette cotte, avversaria dei comunisti, riformista e che ha avuto tante discussioni con me.

     Cosa c’entra lei con la fondazione del partito? Poi a tanti altri e a me niente. Io uno dei fondatori del partito niente medaglia, non è per la medaglia che è una sciocchezza ma è per il riconoscimento.

     Torno a casa, ne parlo con mia moglie e voglio sentire Ravetto che era a Livorno se a lui l’hanno data. Qualche giorno dopo vedo Ravetto, che passava ogni tanto a casa mia e gli chiedo se a lui hanno dato la medaglia. Non ne sapeva niente. Allora mi sono arrabbiato, ho scritto al partito e ho restituito la tessera anche se ho sempre votato per il partito, fino a poco fa quando è uscita la porcheria del compromesso storico.

Domanda

Della svolta di Salerno, di quando Togliatti è tornato dalla Russia, cosa ne pensa.

     Io di Togliatti non ho mai avuto grossa fiducia. Quando è tornato dalla Russia voleva fare un alleanza con cattolici e socialisti. Io ero contrario e non la pensavo così. Togliatti lo avevo conosciuto in altri tempi ma era un po’ opportunista: prima era stalinista poi è diventato antistalinista.

Domanda

Lei ha conosciuto anche Gramsci, Bordiga e altri. Adesso il partito comunista cerca di fare vedere una continuità tra Gramsci, Togliatti e Berlinguer. Io penso che Gramsci fosse un grande rivoluzionario e Togliatti non c’entra niente.

     Lì chi era rivoluzionario, lavorava bene ed aveva una grande intelligenza era Bordiga.

Bordiga è stato a Milano e abitava a casa mia, un uomo di grande valore, con lui c’era anche Grieco che poi ha abbandonato. In una riunione che si è tenuta a Torino a novembre del ’20 con Bordiga, Terracini, Gramsci c’ero anche io e qualcun altro che non ricordo mi sembra anche un operaio della Fiat. Bordiga e Gramsci avevano le stesse idee che differivano molto da quelle di Togliatti.

Domanda

Di Gramsci cosa si ricorda anche dal lato umano.

     Gramsci l’ho frequentato assai poco, mi ha dato l’idea di un grande rivoluzionario e un uomo con delle idee chiare specialmente quando aveva fatto la proposta dell’unità degli operai del nord con i contadini del sud. Che ha lavorato molto anche con Bordiga su questo argomento. E stato a casa mia e ha dormito li anche qualche volta. Io di Gramsci avevo grande fiducia. Credevo che all’epoca i due migliori uomini del Partito Comunista fossero Bordiga e Gramsci.

     Bordiga l’ho riconosciuto grande quando c’è stato a Milano la strage del teatro Diana quando una bomba ha ucciso 20 o più persone al teatro. L’indomani a Milano sembrava un giorno di terremoto, uscivi per strada era tutto cupo, triste, la gente camminava a testa bassa.

     Bordiga è venuto a piedi a casa mia a scrivere un manifesto dove si prendeva lui la responsabilità, anche se non ne sapeva niente. A detto che questo fatto è avvenuto semplicemente per la repressione fascista, la divisione della classe operaia, ecc.. ecc.. che ha irritato talmente il proletariato che è arrivato a un punto che la classe operaia ha dovuto reagire. Allora cercavano Bordiga per metterlo in galera ma non ci sono riusciti perché è scappato. L’hanno poi messo dopo.

     Bordiga ha avuto il fegato di prendersi la responsabilità del Diana anche se lui non ne sapeva niente per dimostrare che il fatto era una conseguenza della reazione precedente.

Poi io fui chiamato in questura e il commissario mi diceva: “ lo so che lei non c’entra niente ma lei dovrebbe sapere chi ha promosso questa azione criminosa”. “Io non so niente, io non frequento gli ambienti anarchici. Io so che ogni azione ha una conseguenza.

     Anche l’uccisione di re Umberto a Monza il 29 luglio del 1900 è stata una conseguenza delle azioni del generale Bava Beccaris del ’98”. E’ andata così secondo me ogni cosa ha un’azione e una reazione ho visto dalla storia che è sempre stato così.

Domanda

Certamente durante l’occupazione delle fabbriche e anche prima e anche dopo vi ponevate come partito il problema della forza. Già i socialisti all’inizio si occupavano dei soldati cioè che i soldati fossero alleati della classe operaia…

     Abbiamo fatto qualcosa ma di superficiale, primitivo. Mi ricordo che ero stato a Roma ad una riunione di partito nel ’20 o nel ’21 e mi hanno caricato una valigia di opuscoletti antimilitaristi da buttare nelle caserme. Io li ho portati a Milano poi i nostri giovani li portavano clandestinamente sotto le porte dei quartieri. Mi ricordo che a qualche riunione segreta vedevi qualche soldato ma era una cosa primordiale, superficiale.

     Facevamo degli opuscoli di 3-4 pagine, alcuni li ho fatti anch’io ma bisognava distribuirli clandestinamente e non facevano presa.

Dal minuto 17.30 l’intervista volge su questioni religiose e di chiesa di minore interesse.

Lato B2

Domanda

Per concludere, che messaggio darebbe ai giovani in base alla sua esperienza.

     Bisogna fare un lavoro non sotterraneo ma meticoloso, lento, paziente per cercare di aprire lentamente la mente alla gioventù, adesso che la cultura si allarga con le scuole per tutti invitare questa gente a leggere. Io sarei sempre del parere mai abbastanza ascoltato di fare come una volta molti opuscoli semplici, facili come una volta che c’era “Il seme”. Io poi avrò fatto 100 opuscoli di propaganda.

L’intervista prosegue e si conclude sul dibattito che c’era in Valle sui giornali la Valsusa e La Valanga.

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FONTE: Istituto di studi storici Gaetano Salvemini di Torino, Fondo Sacco Sergio.

«Rapito da crudele morbo…»: l’epidemia di spagnola a Torino e le disposizioni per limitare il contagio

https://www.farestoriainperiferia.org/rapito-da-crudele-morbo-lepidemia-di-spagnola-a-torino-e-le-disposizioni-per-limitare-il-contagio/

Come tenere sotto controllo un contagio che, comparso come un’apparente forte influenza, colpisce soprattutto le giovani generazioni, già decimate dalla guerra mondiale ancora in corso?

Torino, Colonia profilattica di Lucento Maria Laetitia presso la cascina Continassa, 1918. La foto è scattata in occasione della visita della delegazione della Croce Rossa Internazionale. La colonia, aperta nel 1913, ospitava i bambini di Torino per proteggerli dai focolai famigliari di tubercolosi. La prevenzione contro questa malattia assumeva una particolare importanza nel contesto sanitario precario dovuto alla pandemia di influenza Spagnola. (fonte: American National Red Cross photograph collection, Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017673496/)

La guerra mondiale è entrata nel suo ultimo anno, quando inizia silenziosamente a diffondersi, in diverse parti del mondo, una malattia particolarmente contagiosa. Nel maggio 1918, se ne registrano alcuni focolai anche in Italia, tra cui uno in Piemonte, a Domodossola. Un mese dopo anche Torino risulta colpita da quella che appare come un’anomala forma di influenza, la grippe, come la chiamano i più anziani, o anche “febbre dei tre giorni”, violenta ma quasi mai letale. Alla fine di agosto, l’ondata epidemica estiva sembra attenuarsi. Sottotraccia, però, la curva dei contagi sta tornando a salire e il virus – che forse è mutato – si ripresenta in forma aggressiva e letale, con un decorso breve. Nel corso del settembre 1918, i decessi giornalieri tra i torinesi incrementano giorno dopo giorno fino a raggiungere a fine mese il 300%. L’alta mortalità sembra colpire soprattutto i giovani con un ulteriore angoscioso risvolto, ossia la morte dei bambini più piccoli: negli ultimi cinque giorni di settembre sono una settantina i morti in città sotto i 6 anni, tre-quattro volte in più della media. È forse anche in relazione a questo aspetto che viene rinviata a data da destinarsi l’imminente riapertura delle scuole, prevista per il 1° ottobre.

«La Stampa», 30 ottobre 1918. Particolare della pagina dedicata alle notizie di Torino con i necrologi. Sempre più numerosi nel corso dei mesi, possono essere considerati il riflesso delle dimensioni e dell’aggressività dell’epidemia che colpisce in prevalenza giovani (Archivio storico La Stampa).

Il sindaco Frola, intanto, con un manifesto alla cittadinanza detta un severo decalogo contenente le norme individuali d’igiene da «osservarsi particolarmente in questi giorni», mentre il prefetto Taddei, dietro parere del Consiglio sanitario provinciale, decreta l’immediata chiusura di tutti i locali pubblici della provincia e la riduzione dell’orario di apertura dei negozi. I cortei funebri sono vietati e le funzioni religiose ridotte solo a «quelle essenziali». Mentre l’epidemia appare inarrestabile, le notizie diffuse dai giornali, sottoposti alla censura di guerra, risultano scarse e rassicuranti e i torinesi non sembrano fidarsi. L’attenzione di molti si sposta sui bollettini dello Stato civile pubblicati dai quotidiani e sui numerosi necrologi che dietro giri di parole raccontano la drammatica realtà del momento: «colpita da inesorabile morbo…», «dopo breve ignota malattia…» Per il solo mese di ottobre, si possono stimare in circa 1.300-1.500 i torinesi deceduti a causa dell’epidemia, che ora viene chiamata “spagnuola”.
L’insieme dei provvedimenti attuati, che non prevede però forme di confinamento per i cittadini, sembra dare qualche risultato alla fine di ottobre, quando la Prefettura inizia a valutare una data per l’avvio dell’anno scolastico e l’allentamento dei divieti per i locali pubblici. Un’accelerazione viene dall’annuncio della vittoria contro l’Austria-Ungheria con la conseguente fine della guerra, evento che rovescia per diversi giorni nelle piazze folle festanti. Il 7 novembre, intanto, riaprono caffè-concerto e teatri – con alcune limitazioni come il distanziamento e la disinfezione – e dal 18 novembre iniziano le attività scolastiche.

Seattle, Durante la pandemia di influenza Spagnola non era consentito salire sui mezzi pubblici senza indossare la mascherina (Fonte: American National Red Cross photograph collection, Library of Congress, https://www.loc.gov/item/2017668638/)

I momenti di festa collettiva e la ripartenza prematura presentano però il conto dopo circa un mese con la rapida risalita dei contagi: alla Vigilia di Natale l’epidemia è ritornata alle dimensioni viste in ottobre. Agli inizi del gennaio 1919, mentre in città giunge in visita il presidente americano Wilson, le scuole continuano la pausa natalizia per altre tre settimane, tra le polemiche per il mancato contestuale fermo anche di teatri, cinematografi e osterie. Le proteste di una parte della popolazione e la recrudescenza dell’epidemia sono all’origine di una nuova ordinanza con cui il prefetto, il 16 gennaio, impone limitazioni per i locali pubblici, vietando inoltre le feste da ballo nei circoli privati. Ai medici è fatto obbligo di denunciare i casi di influenza con complicanze e ogni caso registrato in alberghi, istituti e collettività.
Nelle borgate di periferia della zona Nord di Torino la situazione sembra essere particolarmente difficile. In un prossimo intervento si esaminerà l’impatto dell’epidemia in una delle borgate del territorio dell’attuale Circoscrizione 5, ossia Lucento-Ceronda.

Approfondimenti
Per una disamina a livello nazionale: E. Tognotti, La spagnola in Italia. Storia dell’influenza che fece temere la fine del mondo (1918-19), FrancoAngeli, Milano 2015 (1a ed. 2002).

I dati puntuali sulla vicenda torinese sono tratti dalla consultazione di “La Stampa”, per il periodo agosto 1918-gennaio 1919 (www.archiviolastampa.it).


Autori dell’articolo Nicola Adduci e Giorgio Sacchi

NEL 100° ANNIVERSARIO DELLA NASCITA DI SAN KAROL WOJTYLA

https://fulviogrimaldi.blogspot.com/2020/05/nel-100-anniversario-della-nascita-di.htmlMONDOCANE

MARTEDÌ 19 MAGGIO 2020

 
 
Scritto nell’aprile 2011, con l’attacco Nato alla Libia di Gheddafi in corso, in occasione della beatificazione del “Santo subito” polacco. Ribadito oggi, con dedica al suo successore attuale, meritevole di analoghi apprezzamenti per aver perpetuato la storica adesione della Chiesa alle migliori pratiche del potere temporale. In questo caso Covid-19.
 
Frenesia mediatica di distrazione di massa, parallela a quella di distruzione di massa per la grande rivincita del colonialismo alla Graziani (un terzo dei libici gassati, sparati, impiccati), attorno alla beatificazione del migliore degli ontologicamente eccellenti papi e al matrimonio del principotto anglomassonico William, collaudatosi degno erede al trono della sterminatrice Vittoria con la partecipazione in ghingheri da guardia scozzese nel mattatoio Nato dell’Afghanistan.
 
Soffermiamoci sulla prima, degna di collera quanto la seconda lo è di nausea. Anche perché a turlupinare, truffare, obnubilare e manipolare la gente sono stati quelli i santi cristiani ad insegnarlo per primi, meglio di tutti e per duemila anni, alle cricche del dominio, dello sfruttamento e della morte. Vediamoli, i meriti di Karol Woytila, papa vandeano  e restauratore da far vergognare  Pio IX.
  
 
Teologia della liberazione, di cui ho conosciuto i nobilissimi esponenti in Brasile, vituperata e rasa al suolo come l’impero laico amico comandava. Teologia che affiancava gli esclusi nella ricerca della vita e della dignità. Cospirazione, in combutta con Cia, mafia, P2 e reazione mondiale, contro la Polonia sovrana e socialista, alla cui sovversione offriva i denari sottrattici con l’8×1000 “per il sostegno della Chiesa e delle sue opere di carità”. Riabilitazione e connubio con la setta fascista-vandeana del vescovo Lefevbre. Assalto al Nicaragua rivoluzionario dei sandinisti in combutta con i briganti “contras” finanziati dalla CIA mediante traffici di droga.
 
Micidiale epifania sul balcone accanto al generale Pinochet, a sostegno della più stragista delle dittature latinoamericane; fraterna solidarietà e incarichi di massimo livello (Propaganda Fide) al delinquente cardinale Pio Laghi, sodale dei generali argentini dei desaparecidos unitamente all’attuale conducator atlantista Bergoglio.
Intima collaborazione e protezione al braccio squadrista del papa, la mafia cattolica dell’Opus Dei, cane da guardia del potere finanziario e contro le eresie laiciste; lancio degli speculatori e trafficoni di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere alla conquista di mercati, servizi e della spoliazione dei beni pubblici in consorteria con il peggiore malaffare nazionale e internazionale.
 
 
Sostenitore dei “Legionari di Cristo”, altra miliizia squadrista, in spregio – o per merito – dei suoi sodalizi con la criminalità politica e di un superiore generale pedofilo; occultatore fuorilegge di tutti gli episodi di pedofilia che infestano ranghi bassi e alti dell’edificio ecclesiastico; padrino e patrono del banchiere mafioso e piduista, probabile assassino di Papa Luciani, Marcinkus; beatificatore di serial killer come il vescovo croato Stepinac, stragista ustascia al servizio della Gestapo, e due missionari battistrada del genocidio colonialista in Messico; cappellano militare dei fascisti croati responsabili del genocidio di serbi in Slavonia e nelle Krajine.
 
Beatificazione a furor di un popolo vittima di circonvenzione di incapace e di successori che, in tal mondo, si assicurano identico trattamento post mortem, dopo una vita in stile di marketing religioso finalizzato ad accreditarsi come partner politico, culturale e belligerante delle élites occidentali impegnate nelle nuove crociate per lo sfoltimento dell’umanità e la dittatura sui sopravvissuti. Oggi il beatificatore non ha trovato, nel suo impegno  per il rilancio di millenarie superstizioni lobotomizzanti, mezzo minuto per apostrofare, nel giorno di Pasqua, i responsabili della strage degli innocenti in Libia. Ma ha trovato tempi e agi ed encomi da dedicare al presidente dell’Honduras, Porfirio Lobo, installato grazie ai golpisti attivati da Obama e protagonista quotidiano della repressione sanguinosa di un popolo, martire vero, ma dal lato sbagliato.
 
Responsabile diretto di uccisioni, torture, sparizioni forzate, stupri, cacciata di contadini dalle loro terre a vantaggio di una banda di latifondisti e delle multinazionali, il narcofascista Lobo sarà ospite d’onore, insieme ad altri esponenti del crimine politico occidentale, alla beatificazione del facinoroso sodale dei suoi predecessori.
 
Poi è venuto Bergoglio, cresciuto e prosperato, muto, cieco e sordo, nell’Argentina dei Videla e Massera, dei figli dei desaparecidos rubati e i loro genitori torturati e poi gettati in mare dagli aerei. Con lui, a mettere a frutto i meriti conseguiti nel proprio passato venezuelano, il segretario di Stato Parolin, collaboratore del noto cardinale Berton e poi nunzio apostolico. Un fulgido campione della Chiesa latinoamericana più impegnata contro la rivoluzione bolivariana ed emancipatrice di Ugo Chavez.Tout se tien.
 

Susa, la “nobile decaduta”: un declino che inizia con le scelte di un tracciato ferroviario

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Avigliana? La città dei laghi. Bussoleno? Il polo ferroviario. Susa? La nobile decaduta.

Pare un triste destino quello dell’antica Segusium, da sempre snodo della storia e, più di recente, addirittura capoluogo dell’omonima provincia del Regno di Sardegna, poi confluita in quella torinese.

A dare il via a quella che molti interpretano come una decadenza, nella seconda metà del 1800, l’appuntamento mancato con la linea ferroviaria del Frejus; da lì in poi è stata una storia di progressiva marginalizzazione. Mica come la vicina Pinerolo, cuore pulsante della Val Chisone. O Aosta, centro dell’omonima Regione a Statuto Speciale.

Susa, è vero, può vantare importanti vestigia storiche romane e una lunga memoria che da Re Cozio arriva fino alla Marchesa Adelaide, per giungere al vescovo Beato Edoardo Rosaz. Oggi, l’essere rimasta sede scolastica e vescovile (in quest’ultimo caso poco più che formalmente) e l’aver tenuto in piedi un ospedale di provincia (giustificato anche dalla vicinanza delle piste da sci delle montagne olimpiche), rappresentano forse gli ultimi aspetti di importanza vitale e strategica che le sono rimasti.

La stazione ferroviaria di Susa all'inizio del '900, quando esistevano ancora i portici sul lato di Piazza d'Armi

La stazione ferroviaria di Susa all’inizio del ‘900, quando esistevano ancora i portici sul lato di Piazza d’Armi

La storia ci dice che le avvisaglie del declino vanno ricercate proprio nel momento in cui Susa avrebbe potuto “esplodere”, confermando la sua vocazione di città capace di accogliere viandanti e passeggeri più o meno illustri.

All’alba di quel 22 maggio 1854, giorno dell’inaugurazione ufficiale della nuova ferrovia Torino-Susa e della stazione di testa segusina, la Città di Cozio e della Marchesa Adelaide guardava al futuro con grande fiducia e ottimismo. Certo, il binario si fermava lì, ai piedi del Moncenisio, ma la prospettiva era chiara, certa, definita: diventare, un giorno non lontano, parte integrante della linea ferroviaria destinata a collegare Piemonte e Savoia, mettendo in comunicazione i porti affacciati sul Mediterraneo con il cuore dell’Europa, e diventando per davvero la porta delle Alpi.

La posa del binario, lungo 54 km, era stata decisa due anni prima, il 14 giugno 1952, quando a presiedere il Consiglio dei Ministri del Regno di Sardegna era il marchese Massimo d’Azeglio. Ora veniva inaugurato alla presenza nientemeno che del re Vittorio Emanuele II (1), della regina Maria Adelaide, del duca e della duchessa di Genova (sopra al titolo un acquarello di Carlo Bossoli rappresenta la partenza del treno reale).

Le principesse Letizia ed Elena d'Aosta durante l'inaugurazione

Le principesse Letizia ed Elena d’Aosta durante l’inaugurazione

Tante teste coronate e l’inaugurazione in pompa magna diedero il via a un traffico assai redditizio. La Torino- Susa, da subito, si rivelò un comodo e veloce collegamento col servizio postale delle diligenze che da Susa, attraverso il valico del Cenisio, raggiungevano la valle del Rodano. In quello stesso 1854, anno dell’inaugurazione, in 221 giorni di esercizio la linea venne percorsa da 1.354 convogli, capaci di trasportare 249.686 viaggiatori che, nell’anno successivo, salirono a 314.919.

Ma l’illusione di diventare punto “strategico” della linea ferroviaria internazionale che un giorno non lontano avrebbe bucato il Frejus, per la Città di Susa durò poco.

Alcune ricostruzioni storiche raccontano che il tracciato della linea ferroviaria del Frejus “fu oggetto di lunghi e accurati studi” (2)“Si sarebbe voluto farla partire da Susa, per non privare la città del transito tra l’Italia e la Francia di cui essa aveva goduto dall’età medioevale”. Perchè non accadde? La versione accredita la tesi che a sconsigliarlo sarebbero state “le condizioni del terreno” che “non consentivano di porre in Susa l’origine della nuova linea, senza comportare spese eccessive”. Di qui la decisione di far partire la diramazione da Bussoleno e seguire poi, da questo punto, la Valle della Dora fino all’ingresso del Traforo”.

Una giustificazione sufficiente? Non secondo quanto scrive Sergio Sacco nel suo libro dedicato alla realizzazione del Traforo del Frejus, citando a sua volta uno scritto del 1904 di M.Buffa (3).

Il manifesto dell'inaugurazione della stazione e gli orari ferroviari del 1857

Il manifesto dell’inaugurazione della stazione e gli orari ferroviari del 1857

La legge che nel 1857 dava il via alla realizzazione della linea e del Traforo del Frejus, sembrava dare per scontato che i binari verso Bardonecchia e la galleria ferroviaria dovessero prendere il via proprio dalla stazione appena inaugurata a Susa da Sua Maestà, Re Vittorio Emanuele II.

Questa era anche la convinzione del Municipio di Susa, che – si legge nelle parole citate da Sacco – “dormì tranquillamente sugli allori e giammai venne il dubbio ad alcuno dei suoi amministratori che si potesse altrimenti accedere al gran traforo”.

Accadde invece che “la direzione tecnica che compilò il progetto definitivo non tenne conto della legge che prescriveva di partire dalla stazione di Susa, e stabilì la diramazione per Modane dalla Stazione di Bussoleno”.

Solo che, dettaglio non insignificante, a Susa “nulla si sapeva di questa variante” e per questo “si continuò a rimanere sonnacchiosi”. La direzione tecnica che – annota l’autore – “ebbe sempre poco simpatici rapporti col Municipio, per cause sempre rimaste ignote, compì il suo progetto senza punto dargliene partecipazione”.

E dire che lo stesso consiglio comunale segusino, nel 1860, entusiasta dopo l’inaugurazione e l’avvio della Torino-Susa, propose al Governo la creazione di una zona franca doganale formata da Susa e dai comuni dell’Alta Valle.

La stazione di Susa in una incisione d'epoca

La stazione di Susa in una incisione d’epoca

Della proposta non si fece nulla e, anzi, Susa venne tagliata fuori dal tragitto della nuova linea. A nulla valse l’improvviso risveglio del Comune che, una volta reso pubblico il nuovo progetto, ne compilò uno alternativo, facendolo redigere a un ingegnere torinese.

Questa la proposta: dalla stazione di Susa e dalla zona di Urbiano (Mompantero), la linea entrava sotto il monte Rocciamelone con una galleria semicircolare, e poi usciva sopra Venaus in Val Cenischia, poi attraversata con un alto viadotto e con un’altra galleria sotto Giaglione. La linea attraversava poi diagonalmente la valle della Dora con un ponte colossale, al termine del quale raggiungeva la linea attuale nei pressi di Chiomonte.

L’ipotesi progettuale avanzata da Susa (costata 5.000 lire alle casse comunali) venne respinta. Tra le motivazioni, l’allungamento del percorso di circa 4 km, le maggiori pendenze e gli alti costi determinati dal gran ponte diagonale sulla Dora.

Un’ipotesi alternativa poteva essere quella di allestire, sulla nuova linea, una stazione per Susa nel tratto tra le regioni S.Saturnino, Marchetta e Grosse Pietre.

La direzione tecnica preferì invece impiantare un costosissimo casello-stazione in quel di Meana: il vallone di Pian Barale dovette essere colmato di materiali per formare il piazzale, sostenuto dalle grandiose arcate ancora oggi visibili.

Una stazione praticamente irraggiungibile nei primi tempi, visto che la strada carreggiabile oggi esistente non era ancora stata realizzata.

Nel 1870 al danno sopraggiunse la beffa, con la proposta di sopprimere il tronco Susa-Bussoleno. Ipotesi poi rientrata ma a più riprese ripresentata nell’arco dei decenni, per non dire dei secoli, successivi.

Gia.Col.

Bibliografia

(1) Segusium, ottobre 2003, n. 42, Follis R., Il formidabile “vapore”. La ferrovia Torino-Susa compie 150 anni.

(2) Segusium, dicembre 1972, n° 9, numero speciale sulle vie di comunicazione in valle di Susa, pag. 165-166.

(3) Sergio Sacco, Frejus. Sbocco europeo della rete ferroviaria cavouriana, edizioni del Graffio, pag 127-129.

L’eccidio di Bava Beccaris

https://www.ildeposito.org/eventi/leccidio-di-bava-beccaris?fbclid=IwAR1f97PxBBAdWLT2o2lgB88QG34d0xPoM7Vubn_eP9coRTUgAM2Mw2xy78U

8 Maggio 1898 (Italia)

Bava Beccaris, generale dell’esercito, in occasione dei “moti del pane” di Milano del 6, 7, 8, 9, maggio1898, sparò sui dimostranti con il cannone. Alcuni parlarono di 127 morti, altri, tra cui i giornali, contarono 500 vittime. Il generale fu premiato dal re Umberto I (re “buono”) con la croce di Grand Uffciale dell’ordine militare dei Savoia. Il 29 luglio del 1900, a Monza, Umberto I venne assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci, emigrato negli Stati Uniti, che dichiarò esplicitamente di aver voluto vendicare i morti del maggio 1898 e l’offesa per la decorazione conferita a Bava Beccaris.

Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

https://formiche.net/2020/05/back-to-urss-soviet-russia-pellicciari/

Back to Urss. La ri-sovietizzazione russa spiegata da Pellicciari

In Russia per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche. L’analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle Relazioni internazionali all’Università di Urbino e alla Luiss Guido Carli

Tra i molti errori di fondo ricorrenti nell’osservare la Russia odierna forse il più evidente è di considerarla come una prosecuzione automatica e non filtrata del periodo sovietico e di ricondurre la spiegazione di aspetti dell’oggi in toto a logiche del passato, come se nulla fosse cambiato.

Il motivo del persistere di questa prospettiva è al contempo storico e pratico. L’esperienza dell’Urss ha segnato di fatto un intero secolo di storia mondiale ed è comprensibile che chi ne è stato colpito – nel bene o soprattutto nel male – fatichi ad accettarne la fine.

Ce lo dice la vicenda dell’allargamento ad Est dell’Unione europea, che a differenza della Nato – come ricordò lo stesso Romano Prodi in una Conferenza a Mosca nel 2015 – è avvenuta in coordinamento con il Cremlino.

Una serie di nuovi Paesi entrarono nell’Unione accompagnati dalla speranza ingenua di Bruxelles che avrebbero portato nuovi canali ed opportunità di raffronto (non di confronto) con la Russia. In realtà, scottati dal passato, i Paesi dell’Est Europa, molto prima dell’onda di Visegrad, fecero gruppo a parte e si rivolsero a Mosca più come alleati della Nato che come membri della Ue.

Ne nacquero contrapposizioni frontali con la Russia che hanno infastidito non poco i Paesi fondatori dell’Ue (come Italia e Francia), tutt’altro che pronti all’ipotesi di uno scontro politico quando non bellico per compiacere la Polonia o i Paesi baltici.

Accanto a questo pregiudizio storico duro a morire, il motivo pratico del perdurare dell’immaginario sovietico è riconducibile negli ultimi due decenni alla carenza cronica di osservatori occidentali esperti di dinamiche del Cremlino.

Con il crollo dell’Urss e la sua perdita di importanza, la ricerca sulla Russia ha smesso di ricevere i lauti finanziamenti del periodo della Guerra Fredda e si è generata un’importante carenza di expertise che ha lasciato il campo sguarnito ai sovietologi, unici rimasti sulla scena – loro malgrado – a dare spiegazioni su quanto avviene oggi al Cremlino. Creando un evidente cortocircuito: come se per comprendere il boom economico italiano degli anni ‘60 ci si affidasse solo agli esperti del periodo Fascista, con gli esiti immaginabili.

In realtà al cambiare radicale di un sistema politico gli elementi di novità superano quelli di continuità che pure resistono e sconfinano nella antropologia politica di un popolo (la natura umana cambia anch’essa ma con maggiore lentezza).

La Russia non fa eccezione a questo trend e quello che oggi osserviamo è un Paese dove gli elementi di novità superano in gran lunga quelli di continuità del periodo sovietico.

Se dunque dire il contrario è segno di ingenuità o di un trauma politico del passato, molto meno lo è chiedersi se si possa assistere al ritorno di processi di ri-sovietizzazione che Mosca stessa sembra auspicare quando bolla lo smantellamento dell’Unione Sovietica come il più imperdonabile degli errori commessi da Boris Eltsin.

In particolare questi timori hanno riguardato in passato il versante internazionale, dove episodi come la nascita dell’Unione Economica Euroasiatica (oggi poco più di una coalizione doganale) hanno messo in allerta Washington che potessero essere l’anticamera di un ritorno ad una Urss 2.0.

Oggi la novità è che per via del Covid-19 stiamo assistendo a fenomeni non programmati che è probabile rilancino le ipotesi di ri-sovietizzazione in direzioni non previste, verso sfere ritenute al riparo da ritorni al passato, come quelle socio-economiche.

Tenendo conto delle difficili premesse demografiche e al netto della veridicità dei numeri, Mosca tutto sommato sta gestendo l’aspetto virologico della pandemia non peggio di molti altri Paesi: è riuscita adevitare un total lock-down sul modello dei suoi principali competitor (dagli Usa alla Germania). A preoccupare piuttosto è la congiuntura di questa crisi con le pesanti conseguenze della concomitante “Guerra del Petrolio”.

Lanciatasi nello scontro con l’Arabia Saudita ma con l’obiettivo vero di colpire i produttori di Shale Oil americano, Mosca ne è uscita vincitrice sul piano internazionale ma sanguinante su quello interno.

Con il prezzo del barile di greggio a poco più di 10 dollari (a fronte di un break-even calcolato a 41.80) Mosca ha visto evaporare notevolissime risorse utili per coprire i costi della pesante recessione che – dopo le vittime umane – sembra la più grave eredità lasciata del Covid.

La storia ci dirà se lanciarsi in questa sfida sapendo dell’imminente crisi pandemica sia stata per Mosca un azzardo eccessivo (pare che il potente Ministero degli Affari Esteri fosse contrario ma che la governance dei colossi energetici con Rosneft in prima fila abbia avuto la meglio nel decidere lo scontro).

Fatto sta che oggi il governo ha pochissimi strumenti a sostegno di una economia russa che negli anni recenti era andata verso un modello di mercato occidentale, con il moltiplicarsi nel terziario di nuovi micro e piccoli imprenditori, per lo più giovani, incentivati anche da un sistema fiscale a bassissima flat rate (addirittura al 6% per le partite Iva).

Dovendo scegliere dove orientare le poche risorse disponibili è probabile che il governo le convoglierà nel salvataggio dei tradizionali grossi settori industriali del Paese (energetico, agricolo, militare e metallurgico) a scapito del ricordato humus di piccola creatività imprenditoriale, che verrà spazzato via sulla scia di quanto già osservato nelle crisi cicliche del 1998 e nel 2009.

Con la differenza che la nuova disoccupazione giovanile che in passato ha trovato uno sfogo nella emigrazione in Occidente questa volta dovrà confrontarsi con una crisi occupazionale mondiale e cercare soluzioni domestiche al ribasso, come l’impiego in un settore pubblico o para-statale che verrà gonfiato per evitare tensioni sociali.

Per quanto riguarda gli oligarchi, da tempo domati ad accettare e obbedire al primatus politicae imposto dal Cremlino, è probabile che ad aumentare saranno le loro ricchezze ma non l’autonomia nel decidere come utilizzarle a fronte di un’amministrazione del Presidente che continua a utilizzarli come ammortizzatori sociali e scaricare su di loro i costi di interventi che dovrebbero essere coperti dal settore pubblico.

Se il sistema di potere russo anche questa volta è probabile che non ne uscirà stravolto, la vera vittima predestinata nell’immediato sarà quella classe media self made che si è sviluppata nell’ultimo decennio, nonostante il proverbiale strabordante apparato statale russo.

In un Paese dal passato così ingombrante, basta questo dato per fare temere un processo di progressiva ri-sovietizzazione. Economica prima, sociale poi.

La misteriosa città di Rama: l’Atlantide della Val di Susa

https://www.vanillamagazine.it/la-misteriosa-citta-di-rama-l-atlantide-della-val-di-susa/?fbclid=IwAR16lEtJcc6Q5cSWyW25rWCLKGa-87uE751y36lsWV_TZ9fAZ1B6wkGSet0

La prima volta che ho sentito parlare della misteriosa città di Rama mi trovavo in una bocciofila di Bussoleno, nella Bassa Valle di Susa. Qui, tra lo schioccare delle sfere d’acciaio e il tintinnare dei bicchieri di vino, Alessandro e Sara, due cari amici, mi parlarono di una città leggendaria, misteriosamente scomparsa, che sorgeva, in tempi remoti, nella valle.

Mi raccontarono di un contadino che, intento a dissodare la propria vigna con un palanchino, all’improvviso sentì la pesante asta di ferro sfuggirgli di mano, come risucchiata nel buco che stava faticosamente scavando nel terreno, e atterrare con un clangore diversi metri più sotto. Allargando il varco che aveva fortuitamente aperto, il contadino si affacciò su una sala sotterranea o forse sul corridoio di una città dedalica e misteriosa, antica come il vento e le montagne, che in tempi remoti si estendeva per chilometri.

I miei amici non seppero dirmi di più sugli sviluppi della vicenda, né sui ritrovamenti fatti dal contadino nella sala ipogea, ma quelle poche parole, gettate lì quasi per caso tra un bicchiere di arneis e una partita a freccette, infiammarono la mia fantasia: mi vennero in mente Ferdinand Ossendowski e René Guenon, che raccontano di passaggi segreti sotto al deserto dei Gobi, attraverso i quali deambula il Re del Mondo con il suo misterioso corteo. All’improvviso le note del tema di Indiana Jones si fecero strada nel mio cervello.

Da allora sono trascorsi un paio d’anni, durante i quali, occasionalmente, ho fatto ricerche e raccolto testi. Quello della città preistorica valsusina è un mito nebuloso, sfuggente, restio a lasciarsi indagare: ricercare sul tema è come arrampicare su una parete scivolosa, disseminata di falsi appigli che, non appena afferrati, si sgretolano tra le dita. E così, a fatica, di sito in sito, di libro in libro, ho messo insieme qualche tassello: certo, Rama rimane tutt’ora un mistero, ma almeno ho provato a raccontarlo.

Che cos’è Rama?

“Un’altra tradizione è l’esistenza di una antichissima città alle falde del Roc-Maol [antico nome del monte Rocciamelone, in Val Susa n.d.r.] sparita sotto il terreno di alluvione tra i torrenti di Foresto di Chianoc [Chianocco n.d.r.] e Bruzolo”

La Valle di Susa vista dalla Sacra di San Michele. Fotografia condivisa con licenza CC BY-SA 4.0 via Wikipedia. Il monte Rocciamelone (3538 m) domina la Valle di Susa (provincia di Torino) attraverso la quale l’Autostrada del Frejus conduce al tunnel del Frejus:

Le parole citate provengono da uno strano libretto pubblicato nel 1893 da Matilde Dell’Oro-Hermil (1843-1927), con il titolo di “Roc-Maol e Mompantero (Sue leggende e suoi abitanti)”. Il testo è un curioso miscuglio di esoterismo, antropologia ingenua ed etimologie strampalate, con le quali l’autrice, proveniente da Susa, cerca di spiegare le origini arcaiche dell’area del Rocciamelone, riconducendole a migrazioni antidiluviane. Ci sono passaggi tragicomici, in cui l’autrice cerca di ricondurre la fisionomia dei montanari valsusini a tratti negroidi, per rafforzare l’ipotesi di una migrazione dall’India di una “razza nera versatissima nelle scienze esatte ed occulte”. Senza volerci addentrare in una critica dettagliata del testo, si può senza dubbio affermare che la logica stringente e la consequenzialità degli assunti non siano tra i suoi punti di maggiore forza.

Ciononostante, e forse proprio grazie a ciò, il libro della Dell’Oro-Hermil conserva un certo fascino, perché riflette le tendenze culturali piemontesi fin de siecle, pervase da inquietudini metafisiche che, fuoriuscendo dall’alveo della tradizione cattolica, si disperdevano in rivoli sincretistici ed esotici. Spiritismo, teosofia, occultismo trionfavano nei salotti esoterici torinesi e le parole della Dell’Oro-Hermil ne rispecchiano i fasti. Non a caso, l’autrice era in contatto epistolare con il celebre occultista francese Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (1842-1909), citato da René Guenon nell’apertura del suo celebre “Il re del mondo” come primo teorico di un centro iniziatico misterioso dal nome di Agarttha. Il Saint-Yves era anche noto come reazionario teorico della “sinarchia”, sistema politico rigido e conservatore contrapposto all’anarchia. Molto spesso, i cultori della Tradizione non hanno idee progressiste.

Un articolo dell’8 Aprile del 1975 della Stampa parla della città di Rama:

Ma torniamo alla città di Rama: di essa, si racconta nell’opuscolo, “rimangono solo più poche case, o meglio solo alcune casette là dove fu uno dei punti della preistorica città; di essa si dice con vanto melanconico che i suoi portici andavano per tutta la larghezza della valle, da Bussoleno alle ghiaie di Bruzolo”.

Volendo prendere alla lettera le parole della scrittrice valsusina, Rama era un insediamento abitativo di tutto rispetto, con un diametro di circa otto chilometri: l’autrice immagina che questa antica città sacra sotto il segno dell’Ariete si opponesse alla città del Toro (Torino), “laggiù, fra le nebbie del Po”. Rama sarebbe stata una “sede pacifica intellettuale”, mentre il non troppo distante monte Rocciamelone sarebbe stato “la sede estiva”, nella quale gli abitanti si sarebbero rifugiati per sfuggire alla calura.

Non solo: il monte avrebbe anche rappresentato una roccaforte difensiva: “il deposito, la cassa forte del tesoro, la vedetta colle macchine infernali per tener lontano gli importuni”. Nei paragrafi precedenti, infatti, si narra di come un re arcaico di nome Romolo avesse conquistato il Roc-Maol sconfiggendo la “razza nera” e instaurando la sinarchia. Questo re avrebbe raccolto e nascosto nel monte un gran tesoro, e lo avrebbe difeso con “ordigno spaventoso” di catapulte, in grado di scatenare fenomeni atmosferici avversi contro chi cercava di scalarne la vetta: “chiunque tentava di avvicinarsi n’era respinto da improvvisa folta nebbia con grandine di pietre e pioggia di saette e accompagnamento di spaventevole fragore”.

Purtroppo, Matilde dell’Oro-Hermil non si dilunga troppo nel descrivere la città misteriosa né nel narrare la causa della sua scomparsa, genericamente riferita a un “alluvione”: “Io ho accennato ai punti fosforescenti che emergono qua e là nella notte. Agli studiosi e agli amatori del vero lo scandagliare e trovare i le vie e i fili che li collegano tra loro”.

Come già detto, però, la ricerca di quelle vie e di quei fili è tutt’altro che agevole. C’è una cartina di fine Settecento, in cui si leggono le parole “Rovine di Rama” nei pressi del paese di Chianocco e “Rivo di Rama”, indicato come un affluente della Dora Riparia. Forse, la stessa Matilde dell’Oro-Hermil vide questa cartina, in quanto scrive: “in una carta geografica antica vedo questo nome sulla riva della Duranza; forse uno sbaglio, una scorrettezza del geografo che non sa a qual punto fissare una vaga terminologia intesa e non più esistente”. In ogni caso, il nome Rama ricorre anche nelle denominazioni di varie frazioni della Val di Susa, come, ad esempio, la Ramats di Chiomonte, e a Caprie esiste una via denominata “via città di Rama”.

Analizzando la cartina, risalente al 1764, vediamo le “Rovine di Ramà” collocate nel fondovalle compreso nel triangolo tra Bussoleno, Chianocco e San Giorio, poco più a nord di un corso d’acqua, il “rivo di Ramà”. È da notare che in entrambi i casi la parola è accentata, a indicare, forse, un’abbreviazione di “Ramat”.

In merito alla supposta ubicazione geografica della città megalitica indicata sulla mappa, poi, si può rilevare che si trova in una posizione piuttosto improbabile. In genere, infatti, le città dell’antichità sorgevano in posizioni sopraelevate e arroccate, avvalendosi di barriere e difese naturali per proteggersi dagli attacchi di eventuali nemici.

Installarsi a fondovalle, invece, significava mettersi alla mercé degli attacchi di eserciti e predoni. Le “Rovine di Ramà” sulla carta settecentesca, quindi, sorgono in una posizione assolutamente debole dal punto di vista strategico. Non solo: l’area indicata nella cartina indica anche un’area facilmente soggetta ad alluvioni e allagamenti, come fa notare Mariano Tomatis in alcuni suoi brillanti rilevamenti (vedi bibliografia).

Le due fonti citate, il libro e la cartina, sono le più antiche testimonianze documentali a sostegno dell’antica città perduta.

Le origini mitiche della città di Rama

L’opera della Hermil istituisce un collegamento destinato a germinare nell’immaginario collettivo: quello tra la città di Rama e il mito di Fetonte.

Chi era Fetonte? Per rispondere alla domanda, dobbiamo fare riferimento alla mitologia greco-romana. Spulciando le Metamorfosi di Ovidio, ad esempio, scopriremo che era il figlio, orgoglioso e irrequieto, del Sole, che lo aveva concepito con Clìmene, una divinità marina. Desideroso di provare la sua discendenza da Apollo, Fetonte chiese e ottenne di poter condurre il carro d’oro del sole, trainato, secondo il mito da quattro cavalli, “focosi per quelle fiamme che hanno in petto e che soffiano fuori dalla bocca e dalle froge”. Il padre, riluttante a concedergli il privilegio perché ben conscio dei rischi che implica, cerca di dissuaderlo e gli raccomanda di usare prudenza: “evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie”, ma l’irruente semi-dio, incurante delle sue parole, balza alla guida del carro e si lancia in una corsa forsennata attraverso i cieli.

Il “folle volo” di Fetonte crea scompiglio tra le costellazioni – Ovidio ce lo descrive con le fiamme del carro solare che “per la prima volta scaldano la gelida Orsa” e fanno infuriare la costellazione del Serpente, prima di finire quasi tra le terribili chele dello Scorpione. Nella frenesia della corsa, il figlio di Apollo perde il controllo dei cavalli, che proseguono la loro corsa verso la terra, bruciando tutto quello che sfiora il loro tragitto: le nubi ribollono, le montagne si incendiano ed “ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni”.

L’impresa scriteriata di Fetonte rischia di sovvertire il Cosmo: fa evaporare i mari e fa crepare il suolo, facendo affiorare il regno infero di Ade. A questo punto Zeus, il padre degli dei, è costretto a intervenire per arrestare lo scempio: con sommo dolore di Apollo, scaglia sul figlio scapestrato le sue folgori.

“Fetonte, con la fiamma che divora i suoi capelli rosseggianti, precipita girando su se stesso e lascia per l’aria una lunga scia, come a volte una stella può sembrare che cada, anche se non cade, giù dal cielo sereno. Finisce lontano dalla patria, in un’altra parte del mondo, nel grandissimo Po (in latino Eridanus), che gli deterge il viso fumante”. Qui il corpo, incenerito dalla folgore, verrà seppellito dalle Naiadi.

Insomma, Fetonte si era macchiato di quella che per i Greci – non ancora flagellati dal senso di colpa giudaico-cristiano – era la colpa più grande: l’ybris, la tracotanza di volersi pari agli dei, una colpa che nella mitologia greca e successivamente nella tragedia viene sempre duramente castigata.

Ma cosa c’entra tutto questo con la città di Rama? È presto detto: Matilde Dell’Oro-Hermil – e molti altri sulla sua scorta – ipotizzano che il luogo dello schianto del carro solare sia proprio la Valle di Susa. Fetonte, in realtà, sarebbe sopravvissuto allo scontro e avrebbe raccolto intorno a sé dei discepoli, educandoli al culto del sole e facendo loro dono di un sapere iniziatico e divino. Tutto il suo sapere sarebbe stato iscritto in una gigantesca ruota d’oro che, ancora oggi, sarebbe custodita segretamente nelle viscere del monte Rocciamelone, in una grotta misteriosa il cui accesso è ignoto ai più.

Secondo altre fonti, invece, riportate da Antonio Zampedri nel suo “Magia e Leggenda in Val di Susa”, Rama sarebbe stata fondata da profughi di Atlandide: “quando la grande isola Atlantide sprofondò negli abissi, molti superstiti giunsero nella Valle , quasi guidati da un prodigioso disegno ultraterreno e trovarono ivi dimora, costruendo una città senza confronti”. Purtroppo, però, anche questo secondo insediamento era destinato a una tragica fine, quella di venire cancellato dalla faccia della terra da un terremoto o da un cataclisma di qualche tipo.

Il commento semiserio dell’autore è il seguente: “certo che se la succitata supposizione fosse vera, quali tremendi misfatti devono aver commesso i supremi Atlantidei per essere perseguitati in continuazione […]?”

Le prove

Queste le fonti bibliografiche sulla misteriosa megalopoli arcaica. Per cercarne le evanescenti tracce sul territorio dobbiamo però abbandonare i libri e addentrarci tra i boschi, le rocce e i sentieri scoscesi della bassa valle.

Ruote solari o macine?

Un sito che viene comunemente associato alle vicende di Rama è il cosiddetto “Bosco del Maometto”, nei pressi di Borgone di Susa. Il sito è facilmente raggiungibile con una passeggiata di pochi minuti, e deve il suo nome ad una discussa effige scolpita a circa tre metri da terra su un masso gigantesco. Tradizionalmente, la figura umana raffigurata nel basso-rilievo, smangiato e rovinato dalle intemperie, è stata identificata arbitrariamente con il profeta islamico Maometto, facendo riferimento all’invasione dei Saraceni sulle Alpi del X secolo d. C. L’analisi epigrafica dell’edicola rupestre, però permette di farla risalire al un periodo molto anteriore, ovvero al II secolo d. C.

Una volta esclusa la pista islamica, rimangono comunque delle incertezze sull’identificazione della figura, incorniciata in un tempietto scolpito di 80 x 65 cm. Si tratta di sicuramente di una figura antropomorfa, con un animale – forse un cane – accucciato ai piedi e un mantello a cingergli le spalle. Nel timpano dell’edicola c’è un’epigrafe di non facile lettura, che potrebbe essere una dedica ex voto di un certo Lucius Vettius Avitus. La presenza del cane ha portato a identificare la figura con Silvanus, divinità agreste romana, ma non mancano ipotesi alternative: potrebbe più semplicemente trattarsi di un’epigrafe funeraria, oppure di una rappresentazione di Diana Cacciatrice, oppure ancora di una dedica al cartaginese Annibale, che nel 218 a.C. varcò le Alpi per affrontare Roma con il suo esercito e i famosi elefanti. Altre fonti ancora identificano il “Maometto” con Giove Dolicheno, variante asiatica di Giove che veniva particolarmente venerata nelle zone periferiche dell’Impero. Nei pressi della roccia sono stati rinvenuti dei resti umani, che fanno pensare a una sepoltura.

Ad infittire ulteriormente il mistero, su un lato della roccia si trovano delle coppelle, ovvero delle conche semisferiche del diametro di una decina di centimetri, la cui presenza viene sempre associata alle popolazioni celtiche e a funzioni cultuali non ben determinate (forse servivano per contenere delle luci oppure il sangue dei sacrifici).

In ogni caso, l’elemento che accende la fantasia dei ricercatori della città di Rama non è l’edicola romana, bensì un masso erratico che giace nei suoi pressi, con tre macine abbozzate.

Ad alcuni, tra cui Giancarlo Barbadoro e Rosalba Nattero, autori del libro “Rama antica città celtica”, è parso di ravvisare, in queste macine, una testimonianza del mito di Fetonte in Val di Susa di cui si è parlato prima: “un’evidente testimonianza postuma del mito della ruota d’oro forata donata da Fetonte all’umanità del suo tempo in ricordo della sua presenza nel nostro mondo. La tradizione druidica riporta infatti che Fetonte, prima di congedarsi dai suoi allievi, avesse lasciato in dono una grande ruota d’oro forata, di circa due metri di diametro, sulla quale avrebbe inciso tutta la sua conoscenza. Una tradizione che probabilmente in seguito, in epoche più recenti, si sarebbe poi trasformata in un vero e proprio culto che avrebbe perpetuato il mito attraverso le ruote solari”.

E in effetti di macine, in Val di Susa e dintorni, ce ne sono parecchie: dalla “Roca d’la Pansa” (dal piemontese, Pietra della Pancia), presente sulla rocca di Cavour fino al Sentiero delle Macine di Giaveno. Un dubbio, però, si fa strada prepotentemente: più che di un’antica civiltà antidiluviana, le macine potrebbero essere più prosaicamente l’opera dei picapera, che non è il nome di un popolo misterioso, ma il piemontese per “batti-pietra”.

Massimo Centini, antropologo e da sempre grande indagatore di misteri, argomenta così: “A Borgone, anche se sono stati chiamati in causa “simboli solari” risalenti alla preistoria e legati ad atavici riti religiosi, il masso “sacro” sembrerebbe contenere semplici macine di pietra incompiute che, per un qualche motivo, non furono mai estratte dalla roccia”.

In effetti, in prossimità del sito menzionato c’è una cava, detta Roca Furà (in Piemontese, Rocca Bucata). A quanto pare, le macine venivano sbozzate direttamente in loco e poi staccate dalla parete di roccia inserendo dei cunei di legno che venivano poi intrisi d’acqua. Forse, le tre macine sgrossate sul masso servivano per addestrare i picapera, e vennero abbandonate in loco per ragioni che ci sono oscure.

Antiche mura di Rama

Lasciamo ora le misteriose ruote solari per rivolgerci a un sito che sarebbe di grandissimo interesse. Purtroppo, la località ci è ignota e anche l’ubicazione: l’unica fonte di cui possiamo avvalerci è di nuovo il libro di Barbadoro e Nattero, in cui si trova la descrizione di “bastioni di mura megalitiche” inghiottiti dalla boscaglia valsusina, corredata da fotografie.

 

Gli autori descrivono questo muro come affiorante dalla montagna, come se fosse stato sepolto da una valanga, e lo paragonano alle costruzioni andine: “le pietre sono considerevolmente grandi, mediamente si tratta di blocchi di almeno 1,60 metri per 1 metro circa, e appaiono sistemate con sagomature che sembrano aver avuto lo scopo di dare compattezza alle mura”.

Di questo muro portentoso, scoperto nel 2007, esistono anche dei video su youtube, girati sempre dagli stessi autori, che purtroppo si guardano bene dal rivelarne l’ubicazione, forse per proteggere il sito da ipotetici nemici della tradizione celtica, che potrebbero danneggiarlo. Si limitano a dire che si trova “in piena Valle di Susa”, che, come indicazione geografica, è piuttosto fumosa e sibillina.

Se queste mura esistono davvero, è un peccato che non vengano mostrate al pubblico, perché la loro esistenza potrebbe traghettare il discorso dal mito alla storia. Il “se” in apertura di frase, tuttavia, è dovuto al fatto che, da quanto si vede in foto e in video, è difficile stabilire se si tratti davvero di una costruzione umana o se invece sia una curiosa concrezione naturale di crepe su una parete rocciosa.

Un libro d’oro

Il libro di Barbadoro e Nattero cita poi un’altra prova documentale estremamente affascinante ma, ancora una volta, piuttosto “evanescente”: il cosiddetto “libro d’oro dei Druidi di Rama”.

Si tratterebbe (ancora una volta, sottolineo l’uso del condizionale) di una custodia in pietra a forma di parallelepipedo, contente sessantasei lamine d’oro, forate sul lato lungo e tenute insieme da cordoni di colore beige.

Leggiamo l’affascinante storia del ritrovamento: “… un giorno dei primi di ottobre del ’74 due contadini della Valle di Susa portarono a vedere a [ll’archeologo Mario n.d.r] Salomone un cofanetto di pietra. Gli dissero di averlo trovato casualmente in una delle stanze sotterranee del complesso megalitico della città di Rama, che di tanto in tanto esploravano alla ricerca di possibili tesori.”

L’archeologo chiede ai contadini di lasciargli il prezioso manufatto per qualche giorno, ma questi rifiutano recisamente. Nel breve tempo a sua disposizione, lo studioso riesce comunque a ricalcare su carta le incisioni presenti sulle lamine, facendo ricorso alla classica tecnica della matita strofinata obliquamente.

Dopo questa breve parentesi, il libro scompare nel nulla da cui era venuto, custodito da misteriose “Famiglie Celtiche”.

Il testo ricalcato è pressocché incomprensibile, solo uno sconosciuto linguista francese (il nome, non è dato conoscerlo) riesce a venirne a capo, stabilendo che il documento è stato scritto in greco arcaico. Il luminare, però, è vecchio e stanco e non ha voglia di intraprendere un faticoso lavoro di decifrazione, così indirizza i ricercatori in Svizzera, da un suo allievo (anch’esso anonimo) che affronta stoicamente l’oneroso compito.

Purtroppo, neanche i calchi sono visibili al pubblico, Barbadoro e Nattero ci raccontano che gli originali sono conservati in una banca di Mentone, in Francia, mentre le fotocopie consegnate al traduttore giacciono in una cassetta di sicurezza in Svizzera, lontano dagli occhi e dalle grinfie dei nemici della cultura celtica che infestano il suolo italico.

In merito al contenuto, gli autori sono, ancora una volta, piuttosto parchi di indicazioni: “il Libro d’oro era una sorta di enciclopedia, una raccolta sistematica di varie leggende e di cronache di eventi storici riguardanti la città di Rama e il mito di Fetonte”. Di più, non è dato sapere.

A questo punto, però ci si possono porre alcune domande: che fine ha fatto il misterioso libro d’oro? E se esiste davvero, perché i Celti lo avrebbero scritto in Greco?

La vicenda narrata porta alla memoria un altro libro d’oro scomparso misteriosamente: quello che l’Angelo Moroni avrebbe consegnato a John Smith nel 1823, su una collina nei pressi di New York. In questo caso, il testo era in “Egiziano riformato”, ma il profeta riuscì a tradurlo da sé (facendo ricorso a due pietre magiche di nome Urim e Thummim) e consegnò così al mondo il “Libro di Mormon”, libro sacro dei Santi degli Ultimi Giorni, meglio noti come Mormoni.

Anche in questo caso, il libro svanì “misteriosamente” o, se preferite, venne restituito all’Angelo che lo aveva rivelato… Peccato che fonti così preziose si dissolvano con tanta facilità.

Dischi volanti?

Il tragico schianto della carro d’oro di Fetonte potrebbe essere associato allo schianto di un meteorite o, meglio ancora, a un ufo crash: il figlio di Apollo diventerebbe così il rappresentante di una civiltà aliena che fece dono agli uomini di avanzate conoscenze tecnologiche.

Per questo tipo di ricerche, il punto di riferimento in Val di Susa è senza dubbio il monte Musiné, un monte dalla fama tenebrosa che sorge all’imboccatura della Valle, quasi a sfidare il prospiciente Monte Pirchiriano, mistica sede della Sacra di San Michele. Tra parentesi, anche l’etimo di questo secondo monte rimanda alla tematica ufologica, in quanto significa “fuoco del signore” e si riferisce a una colonna di fuoco che sarebbe apparsa sul monte in epoca medievale, intorno all’anno mille.

A partire dagli anni Sessanta del Novecento, però, il primato delle apparizioni extraterrestri spetta senza dubbio al Musiné: per decenni il monte sarà teatro di misteriosi avvistamenti e addirittura di incontri ravvicinati con sedicenti alieni ultra centenari, descritti già dal grande Peter Kolosimo e brillantemente compendiati da Mariano Tomatis nel suo “Camminata spirituale sul monte Musiné”.

Negli anni Settanta vi fu chi ipotizzò che il monte fosse in realtà cavo e che ospitasse una base segreta per gli ufo: da lì alla misteriosa città di Rama, sulle ali della fantasia, il passo è molto breve e si potrebbe nuovamente parlare di caverne nascoste che custodiscono un sapere arcano ma al contempo ipertecnologico. Dal punto di vista documentale, invece, la questione è più spinosa: sul monte vi sono in effetti dei massi coppellati e delle misteriose incisioni rupestri, ma è difficile stabilirne la genuinità e l’attendibilità, perché furono con ogni probabilità frutto di una contraffazione da parte di un giornalista burlone di nome Nevio Boni, che confessò la sua opera in un’intervista a Famiglia Cristiana del 1988.

Conclusioni

Finisce qui la nostra ricerca speculativa sulla misteriosa città di Rama. Purtroppo, come abbiamo constatato, l’esistenza di questa megalopoli dell’antichità si scontra con l’assenza pressoché totale di riscontri archeologici tangibili.

Ciononostante, io rimango fedele alla linea dell’I want to believe e, ogni volta che mi addentro nei boschi di Bruzolo spero di inciampare in una pietra che possa farmi ricredere, aprendo il passaggio verso il mondo antico e meraviglioso di Rama, gravido di tesori ancora da scoprire.

Personalmente, credo anche che il tesoro più grande della Val di Susa non sia nascosto sotto pietre e oscuri cunicoli. Il vero tesoro è la valle stessa, con i suoi paesaggi mozzafiato, le cime innevate, i torrenti pullulanti di vita e i boschi densi di ombre e magie.

Il vero tesoro è, soprattutto, la gente che la abita, franca, fraterna, compatta in un ideale di resistenza e solidarietà, una comunità in senso antico, dove ho conosciuto persone eccezionali e alcuni tra i miei più grandi amici.

A ben vedere, il tesoro di Rama lo potete trovare nella bocciofila di Bussoleno… è forse questo il prezioso indizio nascosto nel libro di Matilde Dell’Oro-Hermil, quando ci rivela che “Un’insegna di osteria su una casetta in mezzo ai campi […] attesta sola la vaga memoria, se non il luogo di questa Rama scomparsa fin dall’elenco dei morti”.

Riferimenti Bibiliografici

Giancarlo Barbadoro, Rosalba Nattero, Rama antica città celtica, Edizioni l’Età dell’Acquario, 2016; Massimo Centini, Provincia Misteriosa. Tradizioni, storia e leggenda nella provincia di Torino, Accademia Vis Vitalis, 2013; Giacomo Augusto Pignone, Pier Paolo Strona, Pietre sacre in Val di Susa. Dolmen coppelle altari e menhir, Neos Edizioni, 2016; Mariano Tomatis, Camminata Spirituale sul Monte Musiné, stampato in proprio, 2014; Mariano Tomatis, Davide Gastaldo, Filo Sottile, Il codice dell’Oro. Sulle tracce del tesoro del Rocciamelone, Edizioni Tabor, 2018; Antonio Zampedri, Magia e leggenda in Val di Susa, Susalibri, 1991; Publio Ovidio Nasone, Metamorfosi, traduzione di Pietro Bernardini Marzolla, Einaudi, 1979.

Un ringraziamento a Mariano Tomatis, wonder injector ed esperto di mentalismo, per i preziosi consigli bibliografici, per i suggerimenti cartografici ma soprattutto per il suo lavoro di divulgazione della meraviglia.

Dove non diversamente specificato, le immagini sono di proprietà dell’autore dell’articolo

Gian Mario Mollar
GIAN MARIO MOLLAR

CLASSE 1982, LAUREATO IN FILOSOFIA CON UNA TESI SUL PLATONISMO MAGICO, GIAN MARIO MOLLAR È DA SEMPRE UN LETTORE ONNIVORO E APPASSIONATO. COLLABORA CON VARI SITI E RIVISTE, I SUOI INTERESSI PRINCIPALI SONO IL WEST AMERICANO E IL MISTERIOSO E L’INSOLITO IN GENERALE. NEL 2019 HA PUBBLICATO IL SUO PRIMO LIBRO, I MISTERI DEL FAR WEST PER LE EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO. LAVORA NELL’AMBITO DEI VEICOLI STORICI E, QUANDO NON LEGGE, VA A PESCA O ARRANCA SU SENTIERI DI MONTAGNA.

1945: in Valle si prepara la Liberazione. A Susa “il sogno si avvera” sabato 28 aprile

https://www.laboratoriovalsusa.it/blog/un-po-di-storia/1945-valle-si-prepara-la-liberazione-susa-il-sogno-si-avvera-sabato-28-aprile?fbclid=IwAR0a9aq_chp0qwdc1bE3Jvh1zZqmLpIrVZOoJk9KomMo6yuiX3IqYJd6QNo

Nella primavera del 1945 le formazioni partigiane valsusine si riorganizzano: in alta valle viene costituita la 41° Divisione Unificata ed in bassa valle la 3° e la 13° Divisione Garibaldi, che già hanno all’attivo molti uomini e brigate, cambiano nome e diventano 42° e 46° Divisione.

In alta Valle, i partigiani si preoccupano di difendere le dighe e le centrali idroelettriche dagli attacchi dei tedeschi in fuga, mentre le formazioni della bassa Valle mettono in atto azioni di disturbo, ostacolando i movimenti delle truppe tedesche con azioni di sabotaggio. I partigiani sono inoltre impegnati nella bonifica dei ponti e delle strade minate dai tedeschi: gran parte delle cariche vengono rese inoffensive ad eccezione di quelle poste su alcuni ponti a Bardonecchia, Cesana, Oulx ed Exilles.

Proprio il 25 aprile iniziano gli scontri per la Liberazione dei territori dell’alta Valle. Le operazione hanno avvio la sera del 24 quando i Partigiani della Compagnia Assietta si scontrano con i tedeschi in ritirata in una furiosa battaglia nei pressi di Exilles.

6 maggio 1945, manifestazione per la liberazione di Torino

6 maggio 1945, manifestazione per la liberazione di Torino.

Il 26 aprile altre formazioni partigiane valsusine scendono verso Torino; l’obiettivo è quello di incalzare il ripiegamento dei tedeschi e di ricongiungersi in città con le altre formazioni che qui stavano convergendo. I gruppi valsusini rimangono a Torino fino ai primi giorni di maggio e, il 6, partecipano alla grande sfilata in piazza Vittorio Veneto

Sabato 28 aprile 1945 è il giorno della Liberazione di Susa. Il 5 maggio il giornale La Valsusa racconta quelle ore:”Dopo una triste vigilia, nella quale i nazi-fascisti consumarono gli ultimi delitti, varie formazioni di patrioti occuparono la città che imbandierata e vestita a festa, come per incanto, con ardenti manifestazioni espresse la sua gioia e la sua gratitudine ai liberatori. Suonarono tutte le campane come nelle feste più grandi, e nel pomeriggio si volle onorare la memoria dei caduti per la libertà deponendo corone alle tombe dei cimiteri di Susa e Mompantero”.

Un racconto in “presa diretta” di quel giorno lo si trova nel diario del Comandante Aldo Laghi (Giulio Bolaffi) pubblicato nel volume “Giulio Bolaffi, un partigiano ribelle”, Daniela Piazza Editore. Così il Comandante della IV Divisione alpina G.L. Stellina scandisce le ore del 28 aprile 1945:

“Nella notte una grande esplosione. Alle 6 una sparatoria dei miei partigiani. Susa è libera… Raggiungo i miei uomini. Grande entusiasmo. La folla ci acclama: in tutta la città entusiasmo delirante. Raggiungiamo il Castello. Organizziamo tutti comandi. Ianni arriva e dice che ha preso contatto con la Brigata Monte Assietta.

Giulio Bolaffi parla dal Municipio di Susa.

Giulio Bolaffi parla dal Municipio di Susa. In alto, sopra al titolo,  i partigiani sfilano a Susa (foto di Giacinto Contin, detto Nino).

Circolano voci che le truppe di Exilles arriveranno. Mr. Mastro dice di concentrare le armi pesanti al Castello, che è difendibile e ha varie strade che portano fuori città. Lavoro febbrile. Vengono fuori tutti i marescialli. Li prendiamo e li facciamo lavorare. Al Castello affluiscono i prigionieri. Organizzo il servizio.

Pubblico l’ordinanza n.1 che è un appello sul coprifuoco, dalle ore 21 alle 5, e sulle sanzioni: tribunali di guerra contro i predoni.

Visita di Ferrua che vuole portare Piero al Castello ed effettuare un collegamento con la centrale Aem. Impiantiamo un ufficio nelle scuole. Bottazzi mi dice che il mattino alle 8.30, 18 uomini della Olivieri, di guardia a Vertice, dove c’è il salto dell’acqua, hanno attaccato una compagnia tedesca di 50 uomini in zona Piano San Martino per impedire sabotaggi alle tubazioni. C’è stato un combattimento fino alle 18.30 perché sono intervenuti altri tedeschi ad appoggiare quelli già impegnati. È morto Piero, carabiniere, e ferito Marais.

È stata impedita la distruzione delle centrali elettriche e di Venaus per rappresaglia; i tedeschi si sono ritirati a Curnà dove c’è lo sbarramento anticarro. Feriti 5 uomini tedeschi dei quali 2 gravi, forse morti.

Apprendo che sabato mattina alle 9.30, 10 uomini di Martino issavano la bandiera italiana sul Moncenisio all’ospizio; Sergente Maggiore Sten, Vittorio, Luigi e altri della squadra di guardia alle tubazioni, precedendo di un’ora la pattuglia francese comandata dal Capitano Stephane.

Al pomeriggio alle 17 vado in municipio e parlo al balcone alla folla plaudente ed entusiasta, con un ufficiale francese. Parliamo dei patrioti. Poi portiamo due corone ai caduti al cimitero di Susa e di Urbiano”.

Il sogno si è avverato

Gia.Col.

Bibliografia: “Giulio Bolaffi, un partigiano ribelle”, Daniela Piazza Editore. Andrea Maria Ludovici: “Una Comunità e il suo territorio”, Susa, Centro Culturale Diocesano

Chernobyl continua a bruciare nel silenzio generale. La nube radioattiva supera l’Italia

https://www.greenme.it/informarsi/ambiente/chernobyl-continua-a-bruciare-nel-silenzio-generale-la-nube-radioattiva-supera-litalia/?fbclid=IwAR2OpGXa9YdHETLfQ5ACIAiIQVTZS_FBge7dw5atAT7ncbzL1DJFvbrsQ7o

Chernobyl continua a bruciare. Nessuno ne parla più, solo i residenti continuano a postare testimonianze delle fiamme che divorano le foreste attorno alla centrale ma anche quelle del resto dell’Ucraina.

Oggi è il 17° giorno ma la situazione sembra lontana dalla risoluzione. Quattro incendi sono in corso e i vigili del fuoco sono allo stremo.

La situazione nelle foreste attorno a Chernobyl è drammatica, come mostra il video girato da Yaroslav Yemelianenko, che fa parte del comitato consultivo pubblico del servizio di emergenza:

Al momento tre sono le sorgenti degli incendi: una situata a circa 70 km a ovest della centrale di Chernobyl e che si estende per 25 km. Un’altra è in un’area a circa 30 km a ovest del Centrale di Chernobyl ai margini della zona di esclusione e altri due camini più piccoli si trovano nella zona di esclusione molto vicino alla centrale elettrica (a circa 2 km).

Secondo quanto postato da Greenpeace Russia su Facebook

“L’ incendio intorno a Chernobyl è ripartito con nuova forza. La situazione nelle aree occupate della centrale nucleare di Chernobyl sta peggiorando di nuovo, le piogge hanno fermato l’incendio solo per un giorno. Nella notte dal 16 al 17 aprile, l’incendio divampato nella regione è diventato ancora più forte”.

Secondo le stime dell’associazione, adesso l’area coinvolta dai primi incendi supera i 40.000 ettari.

“La situazione desta serie preoccupazioni anche perché nella zona di esclusione sono divampati nuovi incendi. Ora ce ne sono almeno tre. I più gravi di oggi si sono verificati al di fuori della zona di esclusione, nei distretti di Ovruch e Narodich, nella regione ucraina di Zhytomyr. Il più vicino si trova a 10 chilometri dalla zona di esclusione. Sulla base delle immagini satellitari, gli esperti russi di Greenpeace ritengono che proprio questi incendi abbiano provocato un notevole fumo a Kiev e nei suoi dintorni”

spiega Greenpeace, secondo cui questa settimana, le situazioni meteo non saranno affatto favorevoli. Non sono previste piogge che possano aiutare i vigili del fuoco a domare le fiamme. Inoltre, è previsto l’arrivo di un forte vento che potrebbe favorirne la diffusione.

Secondo Volodymyr Demchuk, direttore del dipartimento di risposta alle emergenze, oltre 1.000 persone sono state coinvolte nel tentativo di estinguere gli incendi ma le radiazioni nella regione di Kiev sono entro i limiti normali.

Tuttavia, gli esperti di radiazioni di Greenpeace hanno evidenziato che in condizioni di smog, qualsiasi ulteriore esposizione all’inalazione di aria con un alto contenuto di radionuclidi aumenta il rischio di cancro e altre malattie. E ciò è particolarmente pericoloso sullo sfondo della pandemia da coronavirus.

Nube radioattiva: aggiornamenti

La scorsa settimana, l’Istituto francese di radioprotezione e sicurezza nucleare ha ipotizzato, sulla base di una simulazione, che le masse d’aria provenienti dalla zona degli incendi verificatisi il 5 e 6 aprile potrebbero aver raggiunto la Francia dal 7 aprile. Adesso arriva un nuovo aggiornamento, che da una parte conferma che gli incendi in Ucraina che il governo aveva dichiarato estinti il 15 aprile, sono stati riattivati sotto l’effetto di forti venti.

Dall’altra, la nuova nota informativa pubblicata dall’IRSN ha fornito una nuova modellizzazione delle traiettorie delle masse d’aria aggiornata fino al 20 aprile 2020.

“La simulazione è stata effettuata partendo dal presupposto che le emissioni radioattive medie, avvenute tra il 3 e il 12 aprile 2020, continueranno dal 14 al 20 aprile 2020” spiega l’Istituto.

L’IRSN ha continuato a simulare il trasporto di masse aeree tra il 14 e il 20 aprile 2020. Questa simulazione è stata effettuata partendo dal presupposto che i rilasci radioattivi che si sono verificati tra il 3 aprile e il 14 aprile continueranno dal 14 al 20.

Per fortuna, secondo quanto confermato anche dall’Istituto francese per la sicurezza nucleare

“la stima dell’impatto derivante dall’inalazione della radioattività portata dalle masse l’aria che arriva in Francia rimane invariata e senza conseguenze per la salute”.

Gli ultimi dati forniti dall’Istituto, risalenti al 15 aprile, rivelano che

“A partire dal 14 aprile, queste masse aeree stavano ancora coprendo metà del territorio. I livelli di radioattività previsti in Francia sono estremamente bassi, inferiore a 1 µBq / m3 nel 137C”.

Fonti di riferimento: IrsnGreenpeace RussiaReutersGreenpeace Russia/Facebook

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Francesca Mancuso
Giornalista pubblicista specializzata in Editoria, Comunicazione Multimediale e Giornalismo. Nel 2011 ha vinto il Premio Caro Direttore e nel 2013 ha vinto il premio Giornalisti nell’Erba grazie all’intervista a Luca Parmitano.

Il Pertus di Colombano Romean, un’opera titanica che risale a quasi 500 anni fa

https://www.laboratoriovalsusa.it/blog/un-po-di-storia/il-pertus-di-colombano-romean-unopera-titanica-che-risale-quasi-500-anni-fa?fbclid=IwAR2IiR-cPM85NjXjk_Frh2PKuL2qmJWu9yX8ggNypRrSID49b8pQp6tZLGE

In piemontese, pertus vuol dire buco. Ma quello che è visibile sulla montagna di Chiomonte, conosciuto con il nome di Pertus di Colombano Romean, non è un semplice foro. È un’opera titanica, una testimonianza, di quasi 500 anni fa, di incredibile forza di volontà e di notevole ingegno.

Il fatto più stupefacente è che porti la firma di un solo uomo, appunto Colombano Romean, uno scalpellino originario di Chiomonte, nato alla Ramats ed in seguito emigrato a St.Gilles, nella diocesi francese di Nimes, per fare fortuna.

Posto a circa 2 mila metri di quota, proprio sotto i Quattro Denti di Chiomonte, il Pertus è un tunnel di 433 metri di lunghezza, largo circa un metro, per un’altezza di poco meno di due. Colombano aprì il varco da solo, utilizzando il suo scalpello. Un lavoro durato 7 anni, al ritmo di 20 centimetri al giorno, che gli fu commissionato il 14 ottobre 1526. Già nell’ottobre del 1504, i Comuni di Exilles e Chiomonte si erano accordati per lo scavo, ma ci vollero oltre 20 anni, tra discussioni e ricerca della persona idonea, affinchè si giungesse all’avvio dei lavori.

I denti di Chiomonte (versante sud)

I denti di Chiomonte (versante sud)

La galleria si rendeva necessaria per portare l’acqua del Rio Touilles dal versante nord della cresta dei Denti di Chiomonte al versante sud, e consentire così l’irrigazione dei terreni di Cels e Ramats. A questo scopo esisteva già un acquedotto sospeso in legno, che aveva però una una portata molto ridotta e necessitava di ingenti spese di manutenzione. Il suo apporto, inoltre era disponibile solo nei mesi estivi.

Colombano Romean accettò di portare a termine l’impresa. In cambio, i consorzisti gli avrebbero garantito, per ogni mese di lavoro, due emine di segale, del vino, attrezzi per lo scavo, un mantice e la necessaria fornitura di carbone. Per permettergli i lavori fu realizzato, all’imbocco della galleria un capanno con letto, madia, botte e lanterne per illuminazione, che divenne la sua nuova casa. Inoltre, il duro impegno di Colombano sarebbe stato riconosciuto con il compenso di 5 fiorini e 12 soldi per ogni tesa (m. 1,786) scavata nella roccia.

L’impresa fu ardua: nella galleria bisognava garantire aereazione, che, con tutta probabilità, veniva immessa tramite una canalizzazione in tela collegata ad un mantice. Il cane di Colombano ogni giorno percorreva il tratto dal villaggio della Ramats alla galleria per condurre il cibo al suo proprietario.

Ma quando l’opera fu conclusa, nel 1533, e venne il tempo di fare i conti, ecco la sorpresa: la morte dello scalpellino. Sul suo decesso esistono due versioni contrastanti: la prima dice che Colombano Romean, dopo tanta fatica, fu avvelenato per evitare il pagamento della somma pattuita. L’esborso era infatti considerevole: 1600 fiorini, pari a 320 scudi. Per avere un’idea dell’importo avere un’idea va considerato che all’epoca il bilancio del Comune di Chiomonte era di circa 500 scudi.

Un’altra versione dice che l’uomo morì di idropisia, provocata dal freddo e dall’umidità patiti durante lo scavo, aggravati da un’insana passione per il vino. Come andarono i fatti, non lo sappiamo.

Quello che è certo, è che ancora oggi il Pertus di Colombano Romean consente ai pendii di Cels e Ramats di godere di un buon apporto idrico.

Colombano Romean, la targa commemorativa

Chi fa visita alla galleria può ancora vedere su di essa i segni dello scalpello, i visi, le croci ed un giglio del Delfinato scolpiti al suo interno, insieme alle nicchie dove venivano appoggiate le lanterne per verificare che lo scavo stesse seguendo la giusta direzione. Consigliamo di effettuare questa esperienza nei mesi di minore portata idrica, tra agosto ed ottobre, muniti di stivali e torcia frontale. Per maggiori informazioni potete consultare questa escursione proposta dal Rifugio Levi Molinari).

Al fondo della galleria, una targa posta dal CAI e dai comuni interessati celebra l’opera di Colombano, mentre una data incisa sul cemento ricorda i lavori di manutenzione straordinaria portati a termine sul tratto meridionale del tunnel nel 1931 (un getto di calcestruzzo con volta a botte armata mediante centine lignee).

Il Pertus di Colombano Romean in una cartolina d'epoca

Il Pertus di Colombano Romean in una cartolina d’epoca

Concludiamo con una notazione letteraria: nel 2000 lo scrittore torinese Alessandro Perissinotto ha pubblicato La canzone di Colombano, un bel romanzo storico che ricostruisce questa vicenda (Sellerio editore). A noi è piaciuto molto.