Picchia postino, suona troppo campanello

15/10/2013 – CARABINIERI
Infastidito dal suono del campanello picchia il postino

pattuglia di carabinieri di Bra in una foto darchivio
Arrestato giovane disoccupato di origine albanese. Prognosi di sette
giorni per il trimestrale delle Pt
VALTER MANZONE
BRA

Il postino ha suonato il suo campanello, per potergli consegnare una
raccomandata e fargli firmare la ricevuta. Ma allalbanese (28 anni,
disoccupato, con precedenti) questo gesto ha dato molto fastidio. A tal
punto che è sceso in strada e ha iniziato a malmenare il giovane postino
(un ragazzo torinese, con contratto trimestrale). Alcuni passanti hanno
subito chiamato i carabinieri. Una pattuglia del Nucleo operativo
radiomobile ha raggiunto labitazione dellextracomunitario,
arrestandolo per lesioni personali nei confronti di persona incaricata
di pubblico servizio. Il postino, medicato al Pronto soccorso di Bra,
ha avuto una prognosi di 7 giorni. Lalbanese, dopo la convalida del
fermo da parte del magistrato, è ai domiciliari, in attesa di processo.

http://www.lastampa.it/2013/10/15/edizioni/cuneo/infastidito-dal-suono-del-c
ampanello-picchia-il-postino-3zrtLLy00LwbRE6Uz0bxdM/pagina.html

I Fazio, i Vespa, i Crozza

attaccare i Minzolini è facile, ma gli “amici” politically correct i giusti non li contestano. Le regole son fatte per i “nemici”

”Opinion makers”, d`oro
di: u.g.
direttore@rinascita.net
Lo scandalo delle prebende per i cosiddetti “fabbricatori di opinione”, lautamente pagati dal pubblico teledipendente, è sotto gli occhi di tutti, anche se tutti – o quasi tutti – volgono lo sguardo altrove.
Che sia una vergogna lo sperpero di denaro pubblico per far vegetare i cosiddetti “rappresentanti del popolo” sui loro seggioloni (ad ogni livello: dal Quirinale alla XVIII Comunità montana), è un fatto.
Ma che i teledipendenti si applichino autonomamente larghe fette di prosciutto sugli occhi per non fare 2 + 2 e contabilizzare quanto loro costa un Fazio (un milione e ottocento euro l’anno) o quanto poteva costare un Crozza alla Rai (5 milioni in 3 anni più 450 mila euro per ogni 22 o giù di lì puntate) è lo scandalo nello scandalo.
Si tratta di denaro forzatamente estorto con il canone dalla Rai (in perenne deficit: 200 milioni circa l’ultimo dato annuale), dove a fronte di 8000 dipendenti fioriscono “collaborazioni esterne” lautamente retribuite.
Il colmo è che una gran parte dei cittadini-vittima si dichiari anche contento dell’estorsione. Il leit-motiv – sapientemente inoculato dai vari portavoce della baracca – è che, per esempio, se Vespa o Fazio rappresentano il comune sentire degli spettatori allora è giusto che siano così ben retribuiti.
Una falsità, un’ipocrisia iniettata a bella posta. E’ evidente come costoro – i Fazio, i Vespa e tutti i loro consimili – non “interpretino” affatto il cosiddetto comune sentire, ma siano i marchettari, gli “opinion makers” di regime.
E Beppe Grillo lo ha spiegato con dovizia.
 

– See more at: http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22521#sthash.7sgCFPRk.dpuf

Non riesce a pagare il mutuo per la casa, agricoltore si impicca

La casa dell’agricoltore
TREVISO – Un imprenditore agricolo trevigiano di 52 anni, residente a San Vendemiano, si è ucciso impiccandosi ad una trave della sua stalla.
Alla base del gesto, secondo i primi accertamenti, vi sarebbero state le difficoltà dell’uomo a far fronte ad un mutuo per la casa e la stalla. Il corpo dell’agricoltore è stato trovato dal figlio. Sul posto sono intervenuti i carabinieri di Conegliano.

I dettagli sul Gazzettino di Treviso in edicola il 17 ottobre
http://www.gazzettino.it/nordest/treviso/non_riesce_a_pagare_il_mutuo_per_la_casa_agricoltore_si_impicca/notizie/340598.shtml

Stritolata dai mutui, si uccide in casa

PRIMO CASO UN C…O PENNIVENDOLI DI MERDA PRIMO CASO DI CUI SCRIVETE VOI INFAMI

LA TRAGEDIA NEL VENEZIANO

Primo caso di una donna. L’amica: si lamentava della burocrazia. Si era indebitata per acquistare un’agenzia di pratiche auto a Spinea

SALZANO (Venezia) — Prima di andarsene per sempre, ha preso carta e penna e ha scritto quattro lettere: una alla figlia, una a un amico, una alla sorella e l’ultima a un sacerdote, chiedendogli espressamente di leggerla al suo funerale. Appunti sparsi per spiegare le motivazioni di un gesto estremo: la donna, a quanto pare, era preoccupata per i debiti. Una «grave esposizione bancaria », come spiegano gli inquirenti. P.L., 53enne di Salzano, titolare di una agenzia di pratiche auto, la «Dauli» di via Roma a Spinea, si è uccisa nel bagno di casa ed è il primo caso di un’imprenditrice suicida in provincia.

L’allarme è scattato in mattinata, lanciato da una commerciante della zona. La donna, nei giorni scorsi, le aveva chiesto di chiamarla se non l’avesse vista al lavoro all’orario di apertura: «Se magari mi addormento perché non mi suona la sveglia, telefonami». Martedì mattina, però, P.L. al telefono non rispondeva mai e così l’amica, preoccupata, ha deciso di contattare la sorella, titolare anche lei di un’agenzia nello stesso settore con sede a Dolo. A quel punto, la donna ha avuto uno strano presentimento e, forse temendo il peggio, si è rivolta ai carabinieri. I militari della stazione di Noale sono entrati nell’appartamento e l’hanno trovata ormai senza vita, impiccata nel bagno di casa, in via Cesare Battisti a Salzano. I sanitari del Suem, intervenuti in supporto, non hanno potuto far altro che constatarne il decesso, avvenuto da alcune ore.

Le lettere sono state sottoposte a sequestro, e verranno analizzate dal pubblico ministero di turno Angela Masiello, prima di essere consegnate ai destinatari. La donna, separata e con una figlia, che però viveva all’estero in questo periodo, abitava a Salzano ma era originaria di Spinea. Prima di trasferirsi, aveva sempre abitato nell’appartamento sopra al suo negozio. Quel negozio che, qualche anno fa, aveva deciso di comprare perché l’attività fosse sua in tutto e per tutto. P.L., però, si era trovata con tre mutui da pagare: oltre a quello dell’auto e della casa, appunto quello per il negozio. Ma non aveva fatto i conti con la crisi: anche il suo settore aveva avuto delle flessioni e i conti si facevano sempre più pesanti. «Era bravissima nel suo lavoro – raccontano amici e conoscenti – tanto che aveva clienti che venivano appositamente per lei anche da fuori provincia». Secondo investigatori e inquirenti, però, il motivo economico non sarebbe l’unico ad aver scatenato la crisi depressiva della donna, che a quanto sembra viveva un contesto personale piuttosto complicato. Cosa che, comunque, nella vita di tutti i giorni non aveva mai mostrato a nessuno. La tragedia, a Spinea, ha colto tutti di sorpresa. P.L. aveva continuato a sorridere e ad affrontare i problemi con la solita forza e allegria.

«Era una persona stupenda. Si parlava insieme dei figli, delle cose di tutti i giorni. Si lamentava della burocrazia, delle pratiche infinite per ogni cosa, ma non aveva mai fatto pensare che avrebbe potuto arrivare a tanto. E’ una tragedia immensa». Un’amica l’aveva vista anche lunedì sera, per l’ultima sigaretta prima di chiudere la saracinesca e andare a casa. «Abbiamo fatto due battute, ci siamo salutate. E’ incredibile, non riusciamo ancora a renderci conto di cosa sia successo». I funerali, con ogni probabilità, si terranno nella chiesa di Santa Bertilla a Spinea, dove la donna aveva tutti gli amici e dove aveva sempre vissuto.

Davide Tamiello
15 ottobre 2013 (modifica il 16 ottobre 2013)
http://corrieredelveneto.corriere.it/veneziamestre/notizie/cronaca/2013/15-ottobre-2013/troppi-debiti-imprenditrice-si-uccide-2223486183581.shtml

‘Scontro di civiltà’: uccide genero islamico, voleva sgozzare agnellino vivo

ennesimo atto di razzismo……che aspettano a partire le sirene di indignazione a comando?

‘Scontro di civiltà’: uccide genero islamico, voleva sgozzare agnellino vivo
15-10-2013
VOLEVA FARLO DAVANTI AI BAMBINI

VICENZA – Un immigrato di 29 anni, yemenita, è stato ucciso dal suocero, italiano, nel corso di una lite ‘culturale’ davanti al garage di casa, a Vicenza.
L’islamico voleva sgozzare un agnellino vivo per la festa islamica del Sacrificio davanti ai bambini, ma il suocero non voleva che questi potessero assistere. Il diverbio è degenerato e l’uomo ha esploso un colpo d’arma da fuoco contro l’immigrato.

L’agnellino ringrazia.
http://voxnews.info/2013/10/15/scontro-di-civilta-uccide-genero-islamico-voleva-sgozzare-agnellino-vivo/

Bambina sciita costretta a guardare mentre i qaedisti le uccidono i genitori, poi le viene strappato il cuore

la signora dei diritti umani ce lo può spiegare?

Di Siria non si parla più ma i massacri degli amici di Obama e Hollande continuano…….

http://www12.0zz0.com/2013/09/19/23/227360802.jpg

Il suo cuore era già rotto prima di essere tagliato fuori dai sauditi e Qatar zeloti finanziati.

Ora i loro figli, i vostri figli domani. Le società islamiche completamente maschili controllate e gestite non sono mai lontano dalla barbarie peggiore immaginabile, rendendo il loro profeta, signore della guerra orgogliosa.Che cosa è successo alla piccola ragazza sciita in Siria che sono stati costretti a guardare i suoi genitori vengono uccisi che abbiamo riportato qualche settimana fa?

Secondo la pagina Facebook di siriano Verità, la foto è di un bambino che viveva in Deir ez-Zor governatorato in Siria orientale, al confine con l’Iraq. Lei era legato da membri della US-supported “Esercito siriano libero” – che è dominato da stranieri, jihadisti sunniti – e fatto a guardare come sua madre e suo padre sono stati uccisi per essere sciita. Ecco come l’amministrazione Obama sta usando i vostri soldi delle tasse – “. Libertà” beffardamente in nome di

Come si può vedere il suo cuore è stato tagliato e farcito con un panno. Non c’è bisogno di ipotizzare ciò che è stato fatto per quel cuore.

Voglio il tuo denaro fiscali di supportare Barack Hussein, Francois Hollande e il finanziamento di David Cameron di “ribelli” (= selvaggi terroristi musulmani devoti) in Arabia, Qatar, Giordania e la Turchia sunnita genocidio degli sciiti?


 

Sterminio Segreto

In un discorso tenuto nel 2008, un politico potente come Zbigniew Brzezinski ammette senza difficoltà che “Forse un tempo era più facile controllare un milione di persone, anziché ucciderle fisicamente. Oggi è infinitamente più facile uccidere un milione di persone piuttosto che controllarle.”

 Per l’allora consigliere per la politica estera del neo eletto presidente Obama “E’ più facile uccidere che controllare”. Risalendo all’indietro nel tempo sino alla fine del 1974, un altro protagonista della politica statunitense e internazionale, Henry Kissinger sottoscrive, insieme all’allora presidente Nixon, un piano adottato meno di un anno dopo da Gerald Ford. Si tratta del National Security Study Memorandum 200: ‘Implicazioni derivanti dalla crescita della popolazione per la sicurezza e per gli interessi oltremare statunitensi’, che presenta nero su bianco la necessità di eliminare 3 miliardi di persone dalla faccia della terra.

 Da allora a oggi sono passati quasi 40 anni, ma l’obiettivo è rimasto immutato, al punto che un esperto consigliere delle Nazioni Unite nel 2012 ha rivolto un appello ai governi del mondo per ridurre la crescita della popolazione mondiale e per lavorare congiuntamente per modificare il clima.

 Ogni misura diventa lecita per abbattere il numero di abitanti sul globo terrestre: vaccini per la sterilizzazione, politiche economiche globali tese a concedere finanziamenti solo a quegli stati in varie parti del mondo che si adoperano per la limitazione delle nascite, misure anti crisi applicate nei paesi europei che vanno a colpire i gangli vitali del sistema sanitario e di quello sociale, manipolazione del clima piuttosto che alterazione genetica degli alimenti di cui ci cibiamo (OGM). Un silenzioso sterminio è in atto nel nostro pianeta; uno sterminio condotto dalle élites al potere che si arrogano qualunque decisione sanitaria sulla popolazione globale. Ogni diritto è loro. Anche quello di vita e di morte della popolazione mondiale.

 “E il cambiamento avviene così. Un gesto. Una persona. Un momento alla volta.” Libba Bray

 SPEDIZIONI IN ITALIA

ACQUISTA IL LIBRO – euro 12,00 (spedizione inclusa)

Nota bene: La spedizione in Italia è a carico dell’autrice e viaggia come “piego di libri” con Poste Italiane. I tempi di consegna sono mediamente di 7 giorni lavorativi, ma nel periodo estivo, ci sono libri che hanno impiegato 20 giorni ad arrivare a destinazione.


 

Ville e castelli, grande svendita dei tesori degli italiani

cosa c’è? Vi dispiace? Ma bisogna essere pronti a tutti per “salvare l’euro” e guai a pensare ad un’Italia fuori dalla Ue e dall’euro…sarebbe una disdetta ci ripetono da venti anni. Solo che è sempre più chiaro per chi lo sarebbe ed è sempre più chiaro CHI STA CON GLI OLIGARCHI E CON GLI USURAI a difesa dell’eurocrazia. Buona “democrazia” a tutti.

Scritto il 16/10/13

 Il governo italiano prevede la vendita della villa del Grande Inquisitore, del Forte dei Papi e di una delle isole della laguna veneta, allo scopo di tagliare il deficit di bilancio. Secondo quanto riportato dai massmediaitaliani, la dismissione di questi 50 luoghi di prestigio dovrà apportare al Tesoro all’incirca 500 milioni di euro. Si dice che il passaggio ai privati di parte del patrimonio immobiliare dello Stato permetterà di contenere il deficit di bilancio nel 2013 entro la soglia del 3% del Pil, come esige l’Unione Europea. A parte la riscossione immediata di questi importi, il governo auspica che le ville e i castelli siano convertiti in ristoranti, musei ed alberghi, così da consentire la creazione di nuovi posti di lavoro.

 Anche la Grecia, altro paese al quale l’Unione Europea ha prescritto un duro regime di controllo del bilancio, l’anno scorso si è trovata a dover svendere ai privati alcune delle sue isole, spiagge e luoghi di villeggiatura. L’Italia, a sua volta, aveva già messo in vendita con successo alcuni fari sull’isola della Sardegna. Secondo il “Corriere della Sera”, tra le proprietà immobiliari statali in dismissione, quest’anno si troverebbe anche il Castello Orsini, vicino Roma, fatto costruire da Papa Nicola III nel 1270, dalla metà del 19° secolo fino al 1989 utilizzato come prigione. La gente del posto ne parla male, come se vi vivessero i fantasmi.

 Un’altra vestigia nazionale di cui si prepara la messa in vendita è Villa Mirabello, situata non lontano da Milano, costruita nel 1700 dal Cardinal Durini, grande inquisitore di Malta. Nella laguna veneta gli investitori potranno acquistare l’isola di San Giacomo, che dall’undicesimo secolo è stata residenza dei monaci; nel secolo scorso fu trasformata in base militare e poi, dal 1962, dismessa e abbandonata al degrado. Secondo esperti locali, il governo italiano non ha le forze per mantenere adeguatamente questi monumenti, senza contare che molti paesi europei adesso si adoperano per fare cassa attraverso tutte le risorse possibili.

 (“L’Italia svenderà i castelli storici per risanare i buchi di bilancio”, da “Russia Today” del 16 ottobre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).

 Il governo italiano prevede la vendita della villa del Grande Inquisitore, del Forte dei Papi e di una delle isole della laguna veneta, allo scopo di tagliare il deficit di bilancio. Secondo quanto riportato dai mass media italiani, la dismissione di questi 50 luoghi di prestigio dovrà apportare al Tesoro all’incirca 500 milioni di euro. Si dice che il passaggio ai privati di parte del patrimonio immobiliare dello Stato permetterà di contenere il deficit di bilancio nel 2013 entro la soglia del 3% del Pil, come esige l’Unione Europea. A parte la riscossione immediata di questi importi, il governo auspica che le ville e i castelli siano convertiti in ristoranti, musei ed alberghi, così da consentire la creazione di nuovi posti di lavoro.

Anche la Grecia, altro paese al quale l’Unione Europea ha prescritto un duro regime di controllo del bilancio, l’anno scorso si è trovata a dover svendere

 

castello

ai privati alcune delle sue isole, spiagge e luoghi di villeggiatura. L’Italia, a sua volta, aveva già messo in vendita con successo alcuni fari sull’isola della Sardegna. Secondo il “Corriere della Sera”, tra le proprietà immobiliari statali in dismissione, quest’anno si troverebbe anche il Castello Orsini, vicino Roma, fatto costruire da Papa Nicola III nel 1270, dalla metà del 19° secolo fino al 1989 utilizzato come prigione. La gente del posto ne parla male, come se vi vivessero i fantasmi.

Un’altra vestigia nazionale di cui si prepara la messa in vendita è Villa Mirabello, situata non lontano da Milano, costruita nel 1700 dal Cardinal Durini, grande inquisitore di Malta. Nella laguna veneta gli investitori potranno acquistare l’isola di San Giacomo, che dall’undicesimo secolo è stata residenza dei monaci; nel secolo scorso fu trasformata in base militare e poi, dal 1962, dismessa e abbandonata al degrado. Secondo esperti locali, il governo italiano non ha le forze per mantenere adeguatamente questi monumenti, senza contare che molti paesi europei adesso si adoperano per fare cassa attraverso tutte le risorse possibili.

(“L’Italia svenderà i castelli storici per risanare i buchi di bilancio”, da “Russia Today” del 16 ottobre 2013, ripreso da “Come Don Chisciotte”).


 

Tirchio con i poveri, generoso con i ricchi

l’origine della fame nel mondo. Se davvero Onu, FAO, e varie società civili si commuovono sinceramente per i poveri del mondo perché non chiedono di ABOLIRE IL WTO????

C’è baruffa nei negoziati del WTO che preparano la Conferenza di Bali. Le regole per l’agricoltura: sussidi per i paesi sviluppati, penalità per i coltivatori dei paesi poveri.

di Martin Khor

GINEVRA, ottobre 2013 (IPS) – C’è baruffa nei negoziati del WTO che preparano la Conferenza Ministeriale di Bali, e il conflitto in atto mostra come le regole del WTO per il settore agricolo permettano ai paesi sviluppati di continuare a beneficiare di alti sussidi, penalizzando al contempo i coltivatori dei paesi in via di sviluppo.
La sicurezza alimentare costituisce una delle questioni chiave tra quelle oggetto di negoziato al WTO in preparazione della Conferenza di Bali di dicembre. Per i paesi in via di sviluppo, la sicurezza alimentare e la sopravvivenza dei coltivatori sono le priorità assolute.

Ridurre, e tendenzialmente eliminare la fame nel mondo è uno degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) adottati dai Governi delle Nazioni Unite. Nei negoziati attualmente in corso a New York per la formulazione di questi obiettivi, la sicurezza alimentare, la nutrizione e l’agricoltura costituiscono uno dei principali gruppi di questioni sul tavolo. Su questo sfondo, è in corso una forte discussione, al WTO, nel quadro dei lavori di preparazione per Bali.

Il Paesi in via di sviluppo che fanno parte del G33 stanno chiedendo che ai loro governi sia consentito di acquistare cibo dai propri piccoli coltivatori e che questi alimenti possano essere stoccati senza incorrere nelle limitazioni e nelle regole disposte dal WTO in tema di sussidi all’agricoltura. Alcuni governi stanno progettando piani di distribuzione gratuita o a prezzi ridotti da meccanismi di incentivazione statale a favore delle famiglie più povere.
Tuttavia, le loro proposte stanno incontrando una forte resistenza, principalmente da parte di alcuni paesi sviluppati, e specialmente gli Stati Uniti d’America, la cui posizione ufficiale è quella per cui simili politiche «creerebbero un enorme circolo vizioso per meccanismi di sussidio potenzialmente illimitati aventi effetti distorsivi sul commercio».

Lo scontro in atto costituisce un esempio lampante di come le regole sull’agricoltura previste dai trattati del WTO favoriscano i paesi più ricchi penalizzando i paesi in via di sviluppo, e specialmente la parte più povera delle loro popolazioni.
E’ ben noto che i più grandi meccanismi di distorsione nel sistema degli scambi internazionali si trovano proprio nel settore agricolo. Ciò deriva dal fatto che i paesi più ricchi chiesero, ed ottennero, nel 1950, una forma di esenzione dalle regole introdotte con il General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), ossia l’antesignano dell’attuale WTO.

A tali paesi fu consentito di dare alti sussidi ai propri agricoltori, e di mantenere sistemi tariffari molto alti come barriere alle importazioni. Ciò accadde a scapito dei paesi in via di sviluppo, che in campo agricolo godono di un forte vantaggio competitivo.
Quando il WTO fu fondato, si giunse a un nuovo accordo agricolo che, fondamentalmente, consentì di mantenere questo forte sistema di protezione. I paesi sviluppati furono solamente obbligati a ridurre i loro “sussidi distorsivi” del venti per cento, ma poterono cambiare la natura di tali sussidi, che furono inseriti nella “Green box” che poteva contenere incentivi definiti “non distorsivi o minimamente distorsivi”.
Non sono previsti limiti quantitativi per queste tipologie di sussidi. E numerosi studi hanno dimostrato che molti dei sussidi della categoria “Green Box” sono in realtà di carattere distorsivo.
Con questa manovra, i sussidi utilizzati in agricoltura dalle economie più forti sono stati mantenuti, o addirittura sono aumentati.

Ad esempio, i dati del WTO dimostrano come gli interventi di supporto al settore agricolo negli Stati Uniti siano cresciuti dai 61 miliardi di dollari del 1995 ai 130 miliardi nel 2010.
Una più ampia modalità di misurazione dei livelli di protezione dell’impresa agricola, nota come “stima del supporto complessivo”, che è utilizzata dall’OCSE, mostra come i sussidi all’agricoltura dei paesi membri sviluppati siano cresciuti dai 350 miliardi di dollari del 1996 ai 406 miliardi del 2011.

Gli effetti di queste mai interrotte politiche di sostegno sono stati devastanti, per i paesi poveri. Prodotti alimentari venduti sotto il costo di produzione continuano a inondare i paesi più poveri, spesso mangiandosi redditi e livelli di sussistenza dei produttori e delle famiglie locali. Ironicamente, la maggior parte dei paesi in via di sviluppo sono nella condizione di non poter utilizzare le stesse politiche di sostegno.

La ragione è che le regole del settore agricolo stabiliscono che tutti i paesi siano tenuti a tagliare il livello dei propri interventi di sostegno “distorsivi”. Così, se un paese in via di sviluppo non ha mai, in passato, utilizzato lo strumento dei sussidi ai produttori, non gli è consentito di adottarli oggi, se non nel limite di una piccola percentuale (il dieci per cento del valore della produzione agricola totale) noto come il supporto “de minimis”. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo aveva ben pochi interventi di sostegno – o non ne aveva del tutto – al momento della propria adesione al WTO, data la cronica mancanza di fondi.
Questa è la situazione nel momento in cui la controversia in seno al WTO è sorta. I paesi in via di sviluppo che aderiscono al G33 chiedono che il cibo acquistato dai contadini poveri ed immagazzinato dai governi dovrebbe essere considerato, senza condizioni, come compreso nella “Green box”.

Le regole attualmente in vigore stabiliscono delle condizioni inique. Anche se i piani di accumulo di riserve di cibo per scopi di sicurezza alimentare fossero ammessi come compresi nella “Green box”, esiste una disposizione che prevede che l’elemento di sussidio presente in una simile politica di acquisto di scorte dovrebbe essere considerato come parte della “misura aggregata di supporto” (AMS) di quel paese. Tale grandezza costituisce la principale categoria di sussidi che i trattati WTO considerano ad effetto distorsivo, e per i quali per la maggior parte dei paesi in via di sviluppo l’ammontare concesso è limitato alla cosiddetta quota “de minimis” pari al dieci per cento della produzione complessiva.
Altre forme di sussidi comprese nel “Green box”, incluse quelle che più comunemente vengono utilizzate dai paesi ricchi, non sono soggette a tale limite.

L’iniquità di questa condizione è resa ancora maggiore dal modo in cui gli interventi di sussidio sono misurati nell’ambito degli accordi WTO sull’agricoltura, ossia come differenza tra il prezzo di acquisto dei prodotti e il “prezzo esterno di riferimento”.
Il problema nasce dal fatto che il prezzo di acquisto corrisponde al prezzo corrente, mentre il “prezzo esterno di riferimento” è definito come la media dei prezzi a livello mondiale nel biennio 1986/1988 (si tratta del periodo in cui si negoziava il c.d. “Uruguay Round” in vista dell’approvazione definitiva degli accordi del WTO).

Dal 1986/1988, i prezzi del cibo e dei prodotti agricoli, a livello globale e locale, sono cresciuti tremendamente. Il prezzo del 1986/88 è un riferimento obsoleto, e troppo basso per poter essere utilizzato per determinare se un paese in via di sviluppo stia effettivamente fornendo sussidi ai suoi agricoltori.

Tra i paesi che sono oggi a rischio di superamento della soglia di AMS, o del livello massimo della soglia del “de minimis” c’è l’India. Il Parlamento indiano ha appena approvato una legge che dà diritto ai poveri (ossia ai due terzi della popolazione indiana) ad ottenere cibo da un programma di intervento governativo che prevede l’acquisto del cibo dai produttori locali.
Ma la stima di 20 miliardi di dollari che il governo indiano ha in programma di spendere annualmente potrebbe eccedere le soglie AMS e “de minimis”, perché l’India, al momento dell’entrata in vigore delle regole del WTO, non aveva in atto programmi di incentivi significativamente grandi.

Altri paesi in via di sviluppo che attualmente forniscono sussidi ai propri agricoltori ed ai consumatori poveri, come Cina, Indonesia e Thailandia, potrebbero anch’essi, un giorno, trovarsi in una situazione di non conformità agli accordi del WTO.
Per i paesi più ricchi, che stanno pagando un totale di 407 miliardi di dollari all’annuo sotto forma di interventi di sussidio ai propri agricoltori, vietare ai paesi più poveri la possibilità di adottare la stessa politica nei confronti dei propri piccoli coltivatori è realmente una delle peggiori forme di discriminazione e ipocrisia.

Che la controversia in atto possa essere risolta in modo equo prima della prossima Conferenza di Bali è tutto da vedere.
http://www.other-news.info/2013/10/wto-stingy-with-the-poor-generous-with-the-rich/


 

Coop, gli oligarchi rossi che giocano in Borsa con i soldi dei soci

si capisce perché se la intendano tanto bene con la mafia
Coop, gli oligarchi rossi che giocano in Borsa con i soldi dei soci

14 Ottobre 2013Scritto da Redazione  

cooprosse

Le cooperative sono diventate ormai banche d’affari che raccolgono risparmio – pur non essendo sottoposte ad alcuna vigilanza – e si lanciano in rischiose operazioni finanziarie e chiudono i bilanci in perdita. Le “nove sorelle” si sono inguaiate investendo chi su Unipol, chi su Monte dei Paschi. E hanno partecipato al tentativo di salvare la Fonsai di Ligresti.

 Potremmo parlare di banca clandestina, se non fosse tutto alla luce del sole. Basta entrare in un supermercato Coop e diventare socio (che è come fare la tessera sconto in qualsiasi catena) per depositare i propri risparmi. Le nove grandi cooperative del consumo raccolgono ben 10,4 miliardi di euro. Sarebbe vietato: non è che un giorno uno si sveglia di buon umore, apre una banca e comincia a farsi affidare i risparmi dei passanti. La Coop infatti lo chiama “prestito soci”, senza però spiegare al popolo che il prestito soci è un capitale messo a rischio nell’impresa che, sia essa una coop o una società di capitali, lo usa per la sua attività, come aprire un supermercato.

 Infatti accadono sotto gli occhi di tutti, comprese le autorità di vigilanza, due cose strane. La prima è che le Coop utilizzano i risparmi dei loro soci non per mettere scaffali nuovi, ma per dedicarsi alla speculazione finanziaria. Esempio: l’Unicoop Firenze, la maggiore per fatturato (ben 3 miliardi di euro), ha in bilancio immobilizzazioni tecniche (ciò che serve per funzionare) per 2 miliardi e debiti verso i soci per 2,3 miliardi. Ma il debito complessivo è di 3 miliardi. Che ci fa la Coop con tutti quei soldi? Unicoop Firenze ha in bilancio 644 milioni di immobilizzazioni finanziarie: una vera merchant bank.

 I conti in rosso degli uomini al potere da decenni. La seconda stranezza è che queste banche d’affari a marchio Coop non sono sottoposte ad alcuna vigilanza. La Banca d’Italia controlla le banche propriamente dette, ma le Coop non se le fila nessuno, punto e basta. Negli ultimi anni, complice la crisi e nella disattenzione generale, si sono messe nei guai. L’anno scorso le “nove sorelle” (oltre 12 miliardi di fatturato, con 50 mila dipendenti e sette milioni di soci in tutto) hanno chiuso i loro bilanci in rosso per complessivi 135 milioni di euro, e proprio per colpa della finanza.

 

Ma prima di entrare nei dettagli di un disastro annunciato è bene spiegare il peculiare sistema di potere che consente ai boss delle coop di non rendere conto a nessuno. Il mondo delle cooperative cosiddette rosse ha seguito nel Dopoguerra uno schema sensato: le aziende sono cresciute sotto l’ombrello del Pci, che le governava attraverso la Legacoop, nominalmente un sindacato d’impresa, come la Confindustria, di fatto una sorta di holding attraverso la quale i vertici di Botteghe Oscure sceglievano strategie e manager.

 Dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del Pci decisa da Achille Occhetto nel 1989, il potere del partito si è dissolto e i capi delle cooperative sono diventati padroni assoluti, proprio come gli oligarchi russi che si sono appropriati delle aziende alla fine del regime sovietico. L’uomo simbolo di questo curioso fenomeno italiano è Turiddo Campaini, presidente di Unicoop Firenze dal 1973, cioè da 40 anni. Non c’è alcun meccanismo di controllo e nessuno lo può mandare a casa. I soci sono un milione e 200 mila, ma di essi solo 1288 (uno su mille, verosimilmente amici, dipendenti e sottoposti di Campaini) si sono presentati alle 39 assemblee decentrate che hanno approvato il bilancio. Tutti i colleghi di Campaini sono uomini di potere a 24 carati, che si scelgono in autonomia le amicizie politiche di riferimento. Il presidente della Coop Centro Italia, Giorgio Raggi, ex sindaco di Foligno, ha investito i soldi della cooperativa nella Edib, editrice del Corriere dell’Umbria nella fase in cui il quotidiano era nella sfera di Denis Verdini, e ha perso tutto. Recentemente si è fatto intercettare con la sua sodale di sempre, Maria Rita Lorenzetti, oggi agli arresti domiciliari, mentre si rammaricava di non essere potuto intervenire in tempo per bloccare un articolo de La Nazione sgradito alla zarina umbra. 

 Ma lei cerca lui perché la Coop è la seconda azienda dell’Umbria dopo la Thyssen, e gli chiede di assumere la parente del consulente ministeriale che con la zarina sta curando gli interessi della Coopsette nei lavori Tav di Firenze.

 Torniamo a parlare di soldi. Le Coop impiegano gli oltre 10 miliardi del prestito dei soci in operazioni finanziarie, dai Bot alla Borsa. Nel 2012 erano immobilizzati in partecipazioni azionarie 2,2 miliardi di euro. Siccome è buona regola non investire in Borsa i soldi presi in prestito (perché se crollano i listini fai la fine di Romain Zaleski), se la Banca d’Italia vigilasse sull’uso del pubblico risparmio fatto in casa Coop controllerebbe il rapporto tra partecipazioni azionarie e patrimonio netto (che è la somma di capitale sociale e riserve, cioè il vero patrimonio che fa da garanzia per gli investimenti a rischio).

 Consorte ha tracciato il solco e gli Stefanini lo difendono. Ebbene, le nove Coop hanno partecipazioni azionarie per 2,2 miliardi e un patrimonio netto di 6 miliardi. Mediobanca ha lo stesso rapporto: 2,6 miliardi su un patrimonio netto di 7. Solo che Mediobanca è una banca d’affari, la Coop una catena di supermercati. Come mai? Il fatto è che gli oligarchi delle Coop sono rimasti abbagliati dall’esempio di Gianni Consorte, padre-padrone dell’Unipol che otto anni fa tentò senza successo la scalata alla Bnl. E siccome gli azionisti di controllo dell’Unipol erano e sono proprio le grandi coop, quando Consorte fu sconfitto i suoi colleghi, fraternamente, lo cacciarono. Pierluigi Stefanini, oligarca storico della Coop Adriatica, salì al vertice dell’Unipol. E i manager-padroni hanno ricominciato a giocare con la finanza, spaccandosi però in due fazioni, i cosiddetti toscani e i cosiddetti emiliani. I primi si sono fatti male con il Monte dei Paschi, i secondi con l’Unipol.

 I “toscani” sono tre cooperative: Unicoop Firenze, Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia. L’empolese Campaini, leader della corrente toscana, si scontrò a suo tempo con Consorte e non ha più voluto saperne di mettere soldi su Unipol. Ha preferito investire sul Monte dei Paschi, usando i risparmi dei soci per salvaguardare la “toscanità” (testuale) della banca senese. Ha speso oltre 400 milioni e ne ha persi circa 300, e nessuno ovviamente protesta. Unicoop Tirreno e Coop Centro Italia non stanno meglio. Insomma, nel 2012 le tre coop che coprono Toscana, Umbria, Lazio e Abruzzo hanno perso in tutto oltre 200 milioni, dopo aver segnato in bilancio 323 milioni di svalutazioni delle azioni possedute.

 La Coop umbra presieduta da Raggi ha fatto addirittura strike, riuscendo a perdere soldi sia sul Montepaschi sia sulla Popolare di Spoleto (commissariata con vertici arrestati). Il capolavoro di Raggi è stato vendere una ventina di supermercati al Fondo Etrusco, società immobiliare del Monte dei Paschi e dell’ex vicepresidente della banca senese, Francesco Gaetano Caltagirone, per non vendere le azioni del Monte dei Paschi, considerate “strategiche” (che non vuol dire niente ma suona bene). Così adesso le azioni non valgono quasi più niente, ma ogni anno la Coop paga milioni in affitti al Fondo Etrusco, di cui però ha preso delle quote, cosicché partecipa alla speculazione contro se stessa.

 Le sei cooperative del nord, che hanno in Emilia il loro epicentro, si sono invece inguaiate con l’Unipol. La compagnia assicurativa bolognese, trascinata da Mediobanca nel rischiosissimo salvataggio della Fonsai di Ligresti, fa capo alla holding Finsoe, a sua volta posseduta dalle coop del consumo insieme alla Holmo, scatola che riunisce le quote delle coop di costruzioni, l’altra gamba del potere cooperativo. Se al Centro si sono immolate per la “toscanità”, al Nord le coop sono state sacrificate all’ottimismo degli oligarchi. Le azioni Unipol valgono in Borsa circa 3,5 euro, ma il sistema cooperativo le tiene in bilancio a 10 euro. Il che significa che Finsoe segna le Unipol all’attivo del suo bilancio per 2,2 miliardi quando in Borsa valgono appena 800 milioni: mancano all’appello 1,4 miliardi, evaporati in questi anni in nome del mitico aggettivo: il controllo di Unipol è “strategico”.

 Quando è arrivato da Mediobanca l’ordine di salvare Fonsai, oligarchi di primo livello hanno obbedito con entusiasmo: per esempio Ernesto Dalle Rive di Novacoop, Marco Pedroni di Coop Nord Est (ma presidente anche di Finsoe) e Mario Zucchelli di Coop Estense, tutti e tre consiglieri d’amministrazione di Unipol, non si sono fatti pregare per immolare i soldi dei soci al salvataggio dei crediti di Mediobanca e Unicredit verso i Ligresti. Siccome si trattava di far scucire a Finsoe 429 milioni per l’aumento di capitale di Unipol, non solo i “toscani” ma anche grandi cooperative di costruzioni come Cmb e Coopsette si sono tirate indietro e hanno lasciato alle consorelle del consumo, presunte ricche, il conto da pagare. Come nei salotti buoni, anche dentro il mondo coop l’oligarchia è ormai devastata dalle guerre intestine propiziate dall’anarchia.

 Il mistero della Manutencoop che non voleva pagare per Unipol. Illuminante il caso della Manutencoop, uno dei maggiori azionisti di Unipol. Quando partì la chiamata alle armi di Mediobanca, Claudio Levorato, presidente da una trentina d’anni di una cooperativa che ha oggi 15 mila dipendenti e circa un miliardo di fatturato, rispose seccamente alla domanda se avrebbe messo mano al portafoglio: Lo escludo categoricamente, Manutencoop non distoglierà risorse dal proprio core business”. Pochi mesi dopo Levorato ha pagato anche per le coop che si erano rifiutate, inneggiando all’operazione (indovinate?) “strategica”. Alla domanda se svenarsi per salvare la Fonsai non fosse una mossa rischiosa, Levorato ha opposto una risposta sibillina: “Se non l’avessimo fatta ci sarebbero stati dei problemi”.

 Per obbedire a Mediobanca e Unicredit gli oligarchi hanno svenato le proprie coop. La Finsoe, non bastando i 300 milioni chiesti alle coop per l’aumento di capitale Unipol, ha aumentato i suoi debiti con le banche. E poche settimane fa la trimurti delle “banche di sistema” (Mediobanca, Intesa e Unicredit) ha soccorso Manutencoop collocando sui mercati internazionali un prestito obbligazionario da 450 milioni (quasi metà del fatturato) al tasso effettivo dell’8,75 per cento. Siamo ai limiti dell’usura e ciò illumina quanto sia conciata male la coop di Levorato. Ma da quando non c’è più il Pci le coop sono rimaste orfane, e gli oligarchi ormai si affidano ai salotti del capitalismo che una volta dicevano di voler combattere. Adesso, sempre in ritardo, fanno a gara a chi si integra meglio in un sistema in declino.

 Tratto da

 FQ