Iraq. La guerra è costata più di 2mila miliardi

Uno studio calcola i costi dell’invasione Usa 

F.C.

Che gli Stati Uniti abbiano guadagnato molto poco dalla guerra in Iraq, a fronte di spese enormi, mentre l’Iraq ne è uscito traumatizzato, non è certo una novità. Tuttavia uno studio pubblicato a pochi giorni dal decimo anniversario dell’invasione Usa ha cercato di quantificare numericamente i costi sostenuti dagli Stati Uniti in questa disastrosa guerra voluta da George W. Bush contro Saddam Hussein. Secondo i 30 accademici ed esperti del Watson Institute for International Studies della Brown University, nello Sato di Rhode Island, il costo diretto per le casse statunitensi è stato di 1.700 miliardi di dollari, cui vanno ad aggiungersi altri 490 miliardi in indennità per i veterani. Una cifra che, con gli interessi, nei prossimi 40 anni potrebbe lievitare fino all’incredibile cifra di 6mila miliardi.
Per fare un paragone, basti pensare che i famigerati “sequester”, i tagli trasversali e automatici che si abbatteranno sulla spesa statunitense (con pesanti conseguenze su tutti i settori, dalla Sanità alla Difesa), nei prossimi dieci anni non supereranno i 1.200 miliardi di dollari.
Dal punto di vista umano, la guerra ha causato la morte diretta di 134mila civili. Se a questi si aggiungono militari, giornalisti e operatori umanitari, le perdite sono comprese tra i 176mila e i 189mila. Inoltre si stima che il conflitto abbia contribuito alla morte di oltre 500mila persone.
Il rapporto arriva alla conclusione che gli Stati Uniti hanno guadagnato molto poco dalla guerra, mentre l’Iraq è stato traumatizzato: i militanti islamici sono aumentati in tutta la regione, i diritti delle donne peggiorati, e il già vacillante sistema sanitario è stato indebolito. Questo nonostante i 212 miliardi di dollari stanziati da Washington per la ricostruzione. Gran parte di quel denaro, infatti, è stato speso per la sicurezza o è andato perduto in frodi.


16 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19717

M5S. Chi è debole di stomaco rimetta il mandato

Grillo critica i “cittadini” che sono caduti nel tranello del Pd e indica come punto centrale il rispetto delle regole 

michele mendolicchio

L’inizio non è proprio rassicurante. Con il voto dei presidenti di Camera e Senato anche il M5S dimostra di essere molto simile agli altri. La foglia di fico del voto di coscienza non può essere utilizzata per nascondere la propria incapacità a gestire delle emozioni, dei richiami di appartenenza. Se c’è della sintonia con il Pd o il Pdl non c’era mica bisogno di candidarsi nel 5 Stelle. Il movimento di Grillo è nato per essere diverso dagli altri non per fare le stesse cose o per essere una costola dell’uno o dell’altro. E poi le regole vanno rispettate. Se uno si avvale del voto di coscienza il movimento non ha più alcun senso. “In gioco non c’è Grasso ma il rispetto delle regole del M5s. Non si può disattendere un contratto. Chi lo ha firmato deve mantenere la parola per una questione di coerenza e di rispetto verso gli elettori”. Questo il giudizio di Grillo. Fare di volta in volta delle scelte sui contenuti o a seconda di chi le propone diventa un esercizio in piena libertà che poco ha a che fare con un progetto unitario e diverso. Anche il plauso alla nomina della Boldrini e di Grasso lascia poco spazio alla diversità. Quando si vota si finisce immancabilmente per essere accomunati all’uno o all’altro. E questo è indice di fallimento non certo di segnali di democrazia. “La scelta tra Schifani e Grasso era una scelta impossibile. Si trattava di decidere tra la peste bubbonica e un forte raffreddore”, questo il commento aggiuntivo del comico genovese. I 15-17 voti in libertà a favore della candidatura di Grasso rappresentano un brutto segnale di contiguità. Il M5S ha preso i voti per un mandato molto chiaro: tutti a casa. Invece una buona dozzina di grillini ha preferito prendere parte alla corrida. “La coppia senatoriale è stata decisa a tavolino dal Pdl e Pdmenoelle. I due gemelli dell’inciucio sapevano perfettamente che Schifani non sarebbe stato eletto”. Solo alcuni esponenti del 5 Stelle non l’avevano capito. Purtroppo sono caduti nella trappola dell’inconscio dualismo tra il bene e il male. Non è certo Grasso a rappresentare il bene e Schifani il male. E i cittadini del 5 Stelle non si debbono assolutamente sentire come dei purificatori. L’esorcismo lasciamolo fare ai preti.   
“I capricci di Monti che per ripicca aveva minacciato di votare Schifani erano una pistola scarica. I giochi erano già fatti per mettere in difficoltà il Movimento 5 Stelle”. E così è stato. L’applausometro alla Boldrini e il voto a Grasso non è stato un bel segnale di diversità.  
Il Paese non ha certo bisogno né di una nuova madre Teresa di Calcutta né della reincarnazione di un novello Padre Pio. Se dei  discorsi mielosi e piena di retorica dell’uno e dell’altro riescono a far breccia nei cuori dei 5 Stelle allora vuol dire che dentro c’è davvero poco. Per elevare gli ultimi occorre mettersi alla guida della locomotiva, altrimenti si resta tutti a terra. Non è certo con i buoni sentimenti che si cambia il mondo. Chi si è lasciato adulare dalle parole dei nuovi predicatori dovrebbe dare le proprie dimissioni. Quando si entra a far parte di un gruppo poi bisogna pure attenersi alle regole, altrimenti si diventa come gli altri. I casi di coscienza non si possono tollerare in alcun modo. Non sei d’accordo? Ti dimetti. Ed è quello che dovrebbero fare coloro che hanno votato Grasso e la Boldrini. “L’espulsione dovrà essere ratificata da una votazione on line sul portale del M5S tra tutti gli iscritti -così si legge sul codice di comportamento- anch’essa a maggioranza”. Chi si piega al sentimentalismo non ha alcun diritto di rappresentanza. Sono stati mandati in Parlamento perché diversi non per essere una fotocopia. Le debolezze non sono un bel messaggio di diversità. Intanto uno dei senatori sensibili alla parola dei nuovi predicatori del bene contro il male si è detto pronto alle dimissioni. “Se si cercano i colpevoli di alto tradimento ai principi del M5S, ecco, uno l’avete trovato”, così Vacciano offre il suo petto. Francamente la prima cosa che uno dovrebbe fare è dimettersi e poi giustificare il suo operato. Invece Vacciano fa il contrario. Il M5S non è entrato in Parlamento per fare distinzioni tra Grasso e Schifani ma per rompere con un sistema. E soprattutto per ridare slancio e sviluppo al Paese, non certo per patetici slogan di uguaglianza e fraternità che spettano ai preti e ai missionari.
Se diventa salutare la parola di una come la Boldrini allora il Paese è destinato alla povertà assoluta, altro che miglioramento delle condizioni degli ultimi. Il Paese non ha bisogno di una missionaria istituzionale ma di chi mette le sue idee per la crescita e lo sviluppo.
Dunque al primo impatto il M5S dimostra di non avere nervi saldi e coesione. Ora si attende il passaggio successivo: il voto di fiducia. Se anche in questo caso ci sarà un voto di coscienza allora il 5 Stelle è destinato a vita molto breve.
 
 
19 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19734

Cipro: giá deciso prelievo forzoso in tutta Europa

tranquilli, il Pd italiano non ci pensa manco ad opporsi ad una misura del genere.

Athina Kyriakidou, membro del Parlamento cipriota e del Partito Democratico (DIKO). E’ contraria al prelievo forzoso sui conti bancari.

NICOSIA (WSI) – Presto tocchera’ anche a noi. Nell’esprimere la sua solidarieta’ per la gente di Spagna, Grecia, Francia, Irlanda e Italia, uno dei membri di spicco del parlamento cipriota ha detto a questi paesi di rassegnarsi: l’Eurogruppo ha gia’ deciso per un prelievo forzoso dai conti bancari di tutta l’Europa.

In un’intervista a Bloomberg, Athina Kyriakidou, membro del Partito Democratico cipriota (DIKO) all’Opposizione, ha detto di essere convinta che l’Eurogruppo imporra’ una misura simile anche negli altri paesi del blocco a 17.

 “Non voteremo per una misura ingiusta che entrera’ in vigore prima o poi anche negli altri paesi del Mediterraneo” e in Irlanda. “Hanno gia’ deciso tutto, anche gli altri stati europei saranno contaminati”.

 Il parlamento di Nicosia si esprimera’ oggi sulla decisione relativa al prelievo forzoso dai conti bancari, misura che sono obbligati a imporre se vogliono accettare gli aiuti concessi dalla Troika e pari a 10 miliardi.

 Viste le difficolta’ incontrate dai legislatori nel processo di negoziazione, il voto potrebbe essere ancora una volta posticipato.

http://www.wallstreetitalia.com/article/1526319/debito/cipro-gi-deciso-prelievo-forzoso-in-tutta-europa.aspx

 Draghi: «La Bce pronta a tutto per l’euro»

Cosa faresti se scoprissi che il denaro che possiedi non è tuo? Che cosa succederebbe se un giorno ti svegliassi scoprendo di essere del 10% più povero?

Cedendo alle pressioni del Fondo monetario internazionale e dell’Unione europea, il governo cipriota ha accettato di rubare circa il 7% da tutti i depositi bancari fino a 100.000 euro, e quasi il 10% da tutti i depositi oltre tale importo, consegnandoli ai banchieri.

Perché? Perché il governo di Cipro era stato costretto a comprare titoli greci come parte di un piano di salvataggio precedente. Quando la Grecia ha dichiarato il default sulle obbligazioni, i banchieri hanno voluto i loro soldi indietro.

La prima cosa che tutti dovremmo imparare da questo evento è che il denaro non è nostro. La seconda cosa è di non mettere i ‘loro’ soldi nelle ‘loro’ banche. Teneteveli sotto il materasso.

CIPRO

Cipro è sempre stata un ingranaggio importante in quello che Joseph Farrell chiama le operazioni “dei banchieri internazionali”. Nel suo libro, Babylon Banksters, Farrell ripercorre la storia del denaro e delle banche dagli albori della storia.

Riassumendo si deduce che l’euro, come la maggior parte delle valute del mondo, è denaro privato creato da banche private. Quando “decidono di averne bisogno”, è pienamente nei loro diritti riaverlo indietro, in quanto ce lo hanno prestato (ovviamente con un interesse). Noi comuni mortali, i quali abbiamo scelto di utilizzare la loro “proprietà” per svolgere le nostre attività quotidiane, abbiamo consapevolmente o meno accettato le loro condizioni. E’ un semplice, ma piuttosto oscuro, accordo contrattuale.

Ciò che mi lascia sorpreso è che molti di noi non lo capiscono. Rimaniamo scioccati quando ci rendiamo conto che la nostra ‘moneta’, in realtà, appartiene a qualcun altro che ci permette di usarla.

Un sacco di teorici della cospirazione parlano di ‘una valuta mondiale’ e di come ‘loro’ ci stiano guidando verso di essa. Pochi sanno che una moneta unica globale non servirebbe ai fini dei banchieri. Fin dall’inizio della nostra storia, “loro” hanno favorito valute incompatibili speculandoci sopra, essendo l’unico gruppo in grado di convertirle. Se ci fosse una moneta unica globale, ciò metterebbe a repentaglio molte delle loro operazioni.

Piuttosto, semplificheranno il tutto creando due o tre valute, che dovranno essere convertite durante gli affari.

Come Farrell fa notare, fin dall’antichità, l’Occidente utilizzò lingotti d’oro, mentre l’Oriente usò l’argento. Così, chi se ne stava in mezzo, raccoglieva un bel profitto tramite il processo di conversione. Proprio come Sparta (allora) e la Libia (ora), tutti coloro che non giocano al loro gioco ne prendono di santa ragione. 

Tornando a Cipro. I ciprioti in realtà non hanno il diritto di essere arrabbiati in termini strettamente giuridici. Hanno accettato di utilizzare denaro privato per condurre le loro transazioni commerciali. Inoltre, non hanno sollevato un polverone quando il FMI / UE hanno costretto il loro governo a comprare un sacco di inutili obbligazioni greche. Soltanto adesso, quando i nodi vengono al pettine, si sentono turbati.

 

L’unica via d’uscita sarebbe quella di seguire il modello islandese e ripudiare il debito, tagliare tutti i legami con il FMI / UE e sbattere i banchieri in carcere.

 

Un avvertimento: meglio che armino fino ai denti ogni cipriota per essere pronti all’invasione. Questo è l’asso nella manica dei banchieri internazionali. Hanno sempre pronti “rinforzi” per questo tipo di situazioni. L’unica cosa che in questo momento, “grazia” l’Islanda è che lì non c’è molto per cui combattere, a parte alcuni principi.

Cipro, d’altra parte, è sempre stato un luogo di scambio chiave tra Occidente e Oriente. In questo momento, Cipro è una base fondamentale per lanciare attacchi contro la Siria, il Libano e altri punti di interesse per i sionisti. Deve rimanere sotto l’egemonia occidentale.

REAZIONI?

Ciò che vale la pena di guardare è come reagiranno i ciprioti. Molto probabilmente, ci saranno dei disordini e delle rivolte, ma alla fine la gente si sottometterà o rischierà di perdere le importazioni alimentari ed energetiche. Se continuassero a resistere ai banchieri, allora l’isola sarà invasa da … diciamo, i Fratelli Musulmani dalla Siria. In entrambi i casi, i banchieri otterranno ciò che vogliono.

In realtà, l’unico modo per uscire da questo pasticcio è un attacco tripartito: diffondere capillarmente energia a costo zero, rifiuto completo e totale dei cibi OGM, e stampare valuta priva di debito.

Siamo tutti sulla buona strada verso il modello cipriota se nessuno farà qualcosa. I banchieri hanno già sequestrato 8.000 miliardi di dollari negli Stati Uniti, e bonifiche simili stanno avvenendo in tutto il mondo a ritmo sostenuto. Cipro è solo l’esempio più recente e visibile.

Il risultato più probabile è che la gente si sottometterà arrendendosi. Perché? Siamo stati tutti addestrati dalla religione ad aspettare qualche forza esterna che sistemi le cose al posto nostro. Questa mentalità è stata sviluppata e promossa dai banchieri nel corso dei secoli per tenerci tutti compiacenti e docili. In altre parole, Karl Marx aveva ragione su questo punto.

 

La storia si ripete e nessuno fa nulla di veramente costruttivo per sistemare le cose. Si dice che usiamo circa il 10% della capacità del nostro cervello, il quale risulta essere anche la stessa quantità di denaro confiscata dal FMI ai ciprioti. Stiamo forse utilizzando in maniera erronea le nostre doti intellettive?

 Fonte

http://www.neovitruvian.it/2013/03/18/una-riflessione-sulla-situazione-a-cipro/

Obama scorda la Palestina e attacca l’Iran

Preparandosi alla sua prima visita in Israele, il presidente Usa ignora anche i rapporti dell’intelligence per compiacere Tel Aviv 

Ferdinando Calda

Preparandosi alla sua prima visita in Israele come presidente degli Stati Uniti, Barack Obama si preoccupa di ostentare una rinnovata amicizia con la leadership israeliana, in particolare con il premier Benjamin Netanyahu, con il quale i rapporti non sono sempre stati idilliaci. Per sottolineare l’unione di intenti con l’amico “Bibi”, Obama evita accuratamente di entrare nel merito della delicata questione palestinese, e si sposta invece ad attaccare il comune nemico iraniano. Una mossa potenzialmente inopportuna, in un momento che le nuove nomine dell’amministrazione Obama –John Kerry a Segretario di Stato, Chuck Hagel alla Difesa e John Brennan alla Cia, tutti tendenzialmente contrari a una politica aggressiva contro Teheran – avevano fatto sperare l’opinione pubblica iraniana in un possibile allentamento delle tensioni con gli Usa.
Ma, ovviamente, quando c’è da scegliere tra Tel Aviv o Teheran, alla Casa Bianca hanno pochi dubbi. Specialmente se il presidente si sente in obbligo di recuperare gli anni in cui è stato accusato di essere poco attento alle richieste di Israele.
In una intervista concessa alla televisione commerciale israeliana Canale 2, Obama ha voluto rassicurare gli israeliani del fatto che condivide i loro timori sulla bomba atomica iraniana, ribadendo a più riprese di essere in perfetta sintonia con Netanyahu (che per tutta l’intervista chiama con il nomignolo “Bibi”) sulle questioni militari e strategiche fondamentali.
“Sulla base della tecnologia acquisita finora, l’Iran necessita circa un anno o un po’ di più per produrre armi nucleari. Ma noi ovviamente non vogliamo arrivare vicini a quel punto”, ha dichiarato Obama. E poco importa se proprio questa settimana il direttore della National Intelligence (Dni) statunitense, James Clapper, abbia ricordato al Congresso di Washington che non c’è alcuna indicazione che l’Iran abbia deciso di sviluppare un’arma atomica (oltre al fatto che gli iraniani non riuscirebbero a cominciarla senza essere scoperti).
L’importante, per il presidente Usa, è assicurare agli israeliani che “tutte le opzioni sono sul tavolo” per “accettarci che l’Iran non si doti di armi nucleari”. Infatti, ha sottolineato subito dopo, “gli Stati Uniti dispongono di capacità molto significative”. Il che, tradotto per l’irrequieta leadership israeliana, vuol dire: “Aspettate di coordinare con noi ogni eventuale azione militare contro l’Iran. Non avrete da pentirvene, in quanto le vostre capacità offensive non potranno mai eguagliare le nostre”. In passato, infatti, Tel Aviv ha accusato il presidente democratico di eccessivo immobilismo sulla questione iraniana, minacciando un’azione militare nonostante il parere contrario dell’alleato statunitense.
A questo si erano aggiunti i malumori degli ambienti filo-israeliani negli Usa, che rimproverano al presidente democratico un atteggiamento troppo “freddo” nei confronti di Israele, in particolare per le – velate – critiche alla politica coloniale di Tel Aviv.
Adesso Obama sembra intenzionato a recuperare il tempo perduto e ha preparato il terreno con l’ intervista concessa alla giornalista di Canale 2, Yonit Levy, scelta di persona per evitare domande imbarazzanti. “In tutta la mia carriera ho sempre provato ammirazione non solo per la storia di Israele, non solo per i suoi valori fondamentali, non solo per i suoi straordinari successi economici, ma anche per il diritto fondamentale di Israele di fungere in sicurezza da patria del popolo ebraico”, ha sviolinato il presidente statunitense.
Prudente silenzio, invece, sulla questione palestinese. “L’obiettivo di questo mio viaggio è ascoltare – ha spiegato – Intendo incontrare Bibi […] e vedermi con Salam Fayyad e Abu Mazen (premier e presidente dell’Anp ndr) per ascoltare da loro le loro strategie e le loro idee, capire dove ci porteranno”.


16 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19715

UN “CLUB ESCLUSIVO” PER IL CONTROLLO DELLA GEOINGEGNERIA MONDIALE

di Jurian Maessen

Alcuni scienziati affermano: un “club esclusivo” prenderà il controllo della geoingegneria mondiale

Una pubblicazione scientifica (1) prospetta una “strategica e multilaterale implementazione su scala planetaria della geoingegneria, attraverso l’azione di un “club” esclusivo che accresce i benefici per i propri membri a scapito di chi non ne fa parte.

In una recente pubblicazione edita da Environmental Research Letters, tre scienziati hanno riportato i risultati di un “gioco” di simulazione al computer che aveva lo scopo di testare in diversi scenari le modalità per dare vita ad un “piano di implementazione unilaterale” della geoingegneria globale.

“(…) una coalizione internazionale sufficientemente potente potrebbe essere in grado di impiegare la geoingegneria solare. In questo lavoro, mostreremo come le differenze a livello regionale degli effetti prodotti dal clima offrano incentivi alla formazione di alleanze piccole, ma abbastanza potenti da sfruttare la geoingegneria.”

Definita la geoingegneria come “riduzione intenzionale della quantità di luce solare che raggiunge la superficie terrestre attraverso il rilascio di aerosol nella stratosfera”, gli autori hanno poi usato modelli climatici (quelli usati dalla IPCC) come base per le loro attività “ludiche”, che descrivono come un “gioco di regolazione del termostato globale”:

“Le caratteristiche delle alleanze per controllare il clima sono definite usando un “gioco di impostazione del termostato globale” basato sui risultati di modelli climatici. I membri dei gruppi avrebbero incentivi nell’esclusione di soggetti esterni che impedirebbero l’implementazione della geoingegneria solare a livello ottimale per la coalizione stessa.”, fanno notare gli autori Katharine Ricke e Ken Caldeira.

Stabilite “regole e presupposti” gli autori spiegano che “il gioco avviene in due fasi.”

“Durante la prima fase i giocatori scelgono a che gruppo appartenere e formano la coalizione vincente. Nella seconda fase, la coalizione vincente si comporta come un singolo agente per massimizzare i benefici della geoingegneria per i propri membri. I giocatori al di fuori della coalizione non prendono decisioni in questa seconda fase.”

Partendo dall’assunto che i cambiamenti climatici provocati dall’uomo avranno effetti differenti da regione a regione, gli scienziati coinvolti in questa produzione di modelli hanno inserito queste differenze nel loro “gioco di regolazione del termostato globale”, ipotizzando differenti coalizioni internazionali che avrebbero più possibilità di successo nell’inziare e sostenere uno sforzo geoingegneristico:

“(…) se venisse presa la decisione di procedere in qualche modo con l’impiego di un uno strato di aerosol introdotto intenzionalmente nella stratosfera, alcune regioni preferirebbero un raffreddamento o un riscaldamento in base al loro clima del momento, generando così complicati problemi nella regolazione del termostato globale. Inoltre, diversi studi attraverso i modelli hanno dimostrato che se la geoingegneria solare fosse usata per compensare l’aumento delle concentrazioni dei gas serra e fosse poi interrotta bruscamente, potrebbe avere luogo un riscaldamento molto rapido. Quindi se la geoingegneria solare fosse mai implementata, una sua interruzione potrebbe costituire una minaccia.”

Da questa affermazione segue una drastica implicazione, ossia che l’unico modo per modificare attraverso la geoingegneria l’atmosfera terrestre sia uno sforzo prolungato da parte di una coalizione internazionale. La premessa del saggio, corroborata da simulazioni al computer, è che l’intervento di un “club esclusivo” di nazioni, sia la via migliore per finanziare una diffusione di aerosol di questa portata per un periodo di tempo sufficientemente lungo:

“una implementazione multilaterale e strategica attraverso un “club” esclusivo che accresca i benefici per i membri a scapito di chi non ne fa parte. Se la possibilità di una coalizione globale è presa in considerazione nella formulazione di un sistema di scambi all’interno di una coalizione, il gioco qui rappresentato produce sempre un gruppo stabile e potente in cui tutti i membri beneficiano dell’esclusione di altri.”

Il ragionamento dietro questa affermazione apparentemente contraddittoria è il seguente:

“In un modello di coalizioni esclusive con accordi internazionali per la geoingegneria , se un gruppo dovesse sciogliersi un altro sarebbe subito pronto a prenderne il posto. Di pari passo con la crescita del potenziale pericolo di un’interruzione (per esempio se dovesse crescere il forzante radiativo dei gas serra che viene compensato con la geoingegneria), crescono anche gli incentivi nelle diverse potenziali coalizioni per evitare questa interruzione.”

Che gli sforzi geoingegneristici di questo club esclusivo siano un progetto a lungo termine è evidenziato dall’affermazione degli autori secondo cui “se la coalizione decidesse in questo senso, potrebbe impiegare la geoingegneria solare a partire dal 2015 e le negoziazioni tra i membri del club determinerebbero una manipolazione del termostato globale solamente per i successivi dieci anni.”

Dopo l’elenco degli esiti dei modelli applicati al loro gioco,gli studiosi concludono scrivendo che lo scenario del “club esclusivo”, in opposizione a quello inclusivo, finisce per essere il modo più auspicabile per procedere:

“(…)i risultati delle nostre simulazioni ludiche mostrano il massimo beneficio ottenibile dalle regioni muovendosi strategicamente per formare delle cerchie esclusive; questo impone necessariamente dei danni recati ai non membri a seconda delle esigenze”.

I risultati di questa pubblicazione sono intrinsecamente drastici, specialmente se teniamo conto del fatto che il Forum Economico Mondiale nel suo ultimo Rapporto sui Rischi Globali (2) ha messo in guardia sul fatto che uno “stato canaglia” o un solo uomo possano sabotare il cambiamento climatico globale per scopi efferati. Il rapporto descrive diversi possibili scenari o fattori X, che potrebbero verificarsi nel prossimo anno, tra i quali (pagina 57) un incubo geoingegneristico in cui, secondo il rapporto, “un paese o un piccolo gruppo di paesi causasse una crisi internazionale portando avanti l’impiego o la ricerca su larga scala indipendentemente dalla comunità internazionale. Il clima mondiale potrebbe effettivamente essere sabotato da uno stato canaglia o da una persona facoltosa, con costi incalcolabili per l’agricoltura, le infrastrutture e la stabilità globale.”

Si tratta di una ironica confusione che si può creare solo tra le più importanti fazioni mondialiste.

Laddove il Forum Economico Mondiale ci mette in guardia contro possibili soggetti malintenzionati che portino avanti complotti geoingegneristici a livello planetario, un altro gruppo di scienziati finanziati da altri mondialisti, auspica che un “club esclusivo” si ponga alla guida degli sforzi mondiali di nebulizzazione per “controbilanciare il riscaldamento globale”.

Nel rapporto del Forum Economico Mondiale ricaviamo l’impressione che gli stati canaglia descritti siano stati che non hanno siglato o che non sigleranno accordi mondiali supervisionati dalle Nazioni Unite. Questo, secondo il rapporto, creerebbe una falla a favore della sperimentazione non regolamentata.”

“Per esempio”, dice il rapporto, “uno stato isolano minacciato dall’innalzamento dei livelli del mare potrebbe rendersi conto di non aver niente da perdere, oppure un individuo facoltoso con buone intenzioni potrebbe farsi carico dei problemi sulle proprie spalle. Alcuni segnali indicano che questo sta già iniziando ad accadere.”

“Studi recenti”, continua il rapporto, “fanno presente che una piccola flotta aerea potrebbe introdurre un milione di tonnellate di composti sulfurei nella stratosfera (abbastanza da compensare grosso modo la metà del riscaldamento globale patito fino ad oggi) per 1-2 miliardi di dollari all’anno.”

Lo scrittore ambientalista Clive Hamilton in un articolo del 2010 per il Guardian (3) scrive che: “si sta silenziosamente venendo a formare una potente coalizione di forze con l’idea simulare eruzioni vulcaniche per trasformare l’atmosfera terrestre e contrastare gli effetti del riscaldamento terrestre dovuto alle emissioni di carbonio. La modifica del clima terrestre attrae l’attenzione di scienziati, società scientifiche, investitori e think tank conservatori. Nonostante l’enormità della portata di ciò che si propone (niente meno che prendere il controllo del sistema climatico terrestre) il pubblico è stato quasi del tutto escluso dal discorso”.

Nella creazione delle recenti tabelle dei modelli pubblicate in Environmental Research Letters, prima ancora di cominciare il “gioco di regolazione del termostato globale”, si è tenuto conto delle parole di Hamilton (anche lui convinto sostenitore della modifica umana del clima), che stiamo per riportare qui di seguito. Hamilton nel 2010 scrisse:

“Senza un accordo internazionale, una nazione avventata che patisse gli effetti della discontinuità climatica potrebbe decidere di agire in modo indipendente. Non è da escludere che in una trentina d’anni il clima terrestre possa essere deciso da un pugno di alte cariche del Partito Comunista a Pechino. O che il governo di un’Australia azzoppata dalla siccità permanente, dalla agricoltura al collasso e dai feroci incendi nel bush possa rischiare di subire l’ira del mondo imbarcandosi in un progetto di controllo climatico”.

Oltre al fatto che un qualsiasi sforzo di ingegneria planetaria sarebbe gravemente irresponsabile, e oltre al fatto che il riscaldamento globale di matrice umana sia una pseudo-scienza, il fatto che degli scienziati ora stiano immaginando un club elitario di nazioni che prendano in mano la geoingegneria globale dovrebbero far suonare campanelli d’allarme grossi come una casa.

Fonte: http://explosivereports.com

Link: http://explosivereports.com/2013/03/04/scientists-exclusive-club-to-assume-command-of-global-geoengineering/

4.03.2013

Traduzione a cura di ALESSANDRO BOZZI per www.comedonchisciotte.org

1) http://iopscience.iop.org/1748-9326/8/1/014021/pdf/1748-9326_8_1_014021.pdf

2) http://www3.weforum.org/docs/WEF_GlobalRisks_Report_2013.pdf

3) http://www.guardian.co.uk/environment/2010/sep/13/geoengineering-coalition-world-climate

http://www.oltrelacoltre.com/?p=15926

 

Nella Libia ricolonizzata

La Libia cerca di rinascere dal petrolio

L’economia libica ha registrato una ripresa record trainata dalla produzione petrolifera, ma violenze e scioperi minacciano lo sviluppo 

Ferdinando Calda

Dopo il brusco rallentamento causato dalla guerra civile del 2011, l’economia libica sta ripartendo di slancio, trainata dalla ripresa della produzione petrolifera, lanciata verso cifre da record. Lo sottolinea l’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi), secondo il quale nel 2012 l’economia della Libia è cresciuta di oltre il 100 per cento rispetto all’anno precedente. Ma rimane la sfida della transizione politica e della sicurezza, che continua a preoccupare il governo di Tripoli, comincia a impensierire le compagnie straniere e mette a rischio la ripresa economia del Paese. Sabato scorso il governo libico ha dato il via all’ennesima operazione per smantellare le milizie armate “illegali”, ma il compito si prospetta piuttosto arduo. “Useremo la forza e ci saranno degli scontri armati”, ha anticipato il ministro dell’Interno libico Ashur Shuwail.
Secondo quanto dichiarato dal capo del team di osservazione dell’Fmi, Ralph Chami, che si recato in Libia dal 20 febbraio al 7 marzo, gli ultimi indicatori economici “mostrano una ripresa della produzione di idrocarburi entro la fine dell’anno e un pieno recupero dei settori economici non legati agli idrocarburi nel 2014”. Anche l’inflazione, “che nel 2011 è salita vertiginosamente al 16 per cento, è calata al 6 per cento nel 2012” e si prevede un’ulteriore riduzione nel corso del 2013. L’economia della Libia rimane comunque fortemente legata al petrolio e al gas, che rappresentano oltre l’80 per cento del Pil del Paese e sino al 97 per cento dei suoi proventi derivanti dalle esportazioni.
Potendo contare sulle riserve petrolifere più ingenti di tutta l’Africa, Tripoli punta a incrementare enormemente la propria produzione per far ripartire l’economia. L’obiettivo, annunciato a gennaio dal ministro del Petrolio libico Abdulbari Al-Arussi, è di arrivare alla quota record di due milioni di barili al giorno entro i prossimi due anni, superando quindi i circa 1,6 milioni prodotti prima della guerra della Nato contro Gheddafi. Indispensabile a questo proposito sarà il supporto delle compagnie straniere. La scorsa settimana lo stesso Al-Arussi ha annunciato la decisione di Tripoli di offrire nuove concessioni petrolifere – le prime negli ultimi 6 anni – entro la fine del 2013. “Abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo”, ha riconosciuto il ministro, assicurando però che “nella parte finale dell’anno completeremo i nostri studi e annunceremo i nuovi accordi per le concessioni, considerata la grande richiesta delle compagnie straniere che vogliono lavorare in Libia”.
In precedenza Al-Arussi aveva annunciato che il governo libico stava esaminando la possibilità di concedere l’esenzione dalle tasse per almeno cinque anni alle aziende del Golfo Persico intenzionate a investire in Libia insieme a un partner locale. Allo stesso tempo Tripoli chiederà all’Organizzazione dei Paesi produttori di petrolio (Opec) un innalzamento della sua quota di produzione petrolifera, da 1,5 milioni di barili al giorno a 1,7, giustificando questa richiesta con la necessità di produrre di più per finanziare la ricostruzione delle infrastrutture di base distrutte nel corso del conflitto.
In questo contesto di crescita la vera sfida per Tripoli è rappresentata dalla sicurezza e dalla stabilità degli impianti stessi. “Non permetteremo a nessuno di toccare i nostri giacimenti”, dichiarava Al-Arussi una settimana dopo l’attacco al sito algerino di In Amenas.
Questo non è bastato a impedire, all’inizio di marzo, la momentanea sospensione delle esportazioni di gas verso l’Italia dall’impianto di Mellitah, causata da violenti scontri tra milizie tribali rivali che si contendevano la (remunerativa) gestione della sicurezza del sito. Dopo qualche giorno la produzione è ripresa, ma in questi giorni altri scioperi e proteste stanno creando problemi in altri siti petroliferi del Paese. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, manifestazioni per l’aumento dei salari hanno bloccato i terminali strategici di Brega e Ras Lanuf, in Cirenaica, come anche la produzione nel campo petrolifero di Gialo 59, vicino all’omonima cittadina nel sud del Paese. Il ministro Al-Arussi ha comunicato che un sit-in di camionisti davanti al porto Al Menqar di Bengasi, “sta creando grandi difficoltà al trasporto dei combustibili che da questo sito vengono distribuiti poi a tutta la parte orientale” del Paese. Si stima che le proteste di questi giorni potrebbero costare alla Libia 120mila barili di petrolio al giorno.
“Le sfide a breve termine [per la Libia] saranno la gestione della transizione politica, la normalizzazione della sicurezza e la capacità di affrontare alcuni limiti delle istituzioni”, ha messo in guardia il rappresentante del Fmi Chami, sottolineando anche la necessità per Tripoli di introdurre “importanti cambiamenti nelle politiche economiche” che abbiano un serio impatto sul tasso di disoccupazione.
 
Scatta l’Operazione Tripoli
Sabato scorso il governo libico ha dato il via all’Operazione Tripoli, con l’obiettivo di sciogliere definitivamente le milizie armate “illegali” ancora presenti nella capitale nonostante i precedenti appelli del governo di deporre le armi o di unirsi alle forze di sicurezza nazionali. “L’unico modo che abbiamo per provare alla comunità internazionale che siamo una nazione responsabile è quello di fare progressi concreti”, ha dichiarato il premier libico Ali Zeidan. “Useremo la forza e ci saranno degli scontri armati”, ha precisato il ministro dell’Interno libico Ashur Shuwail, spiegando che per l’arduo compito è stata istituita una speciale task force militare. Una delle prime mosse, ha fatto sapere il ministro, sarà quella di sgomberare i miliziani dagli oltre 500 alloggi privati e governativi occupati abusivamente. Tra questi edifici ci sono case e fattorie nella zona di Tripoli. Sabato notte i militari governativi, con il supporto di elicotteri militari e delle forze di polizia, hanno iniziato sgomberando una base militare nella parte sud della capitale. Secondo i piani del governo, l’operazione di sgombero e disarmo dovrà proseguire fino alla città orientale di Bengasi.


19 Marzo 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19747

Spagna cambia costituzione: prelievi dai conti possibili

Il ministro spagnolo della Pubblica Amministrazione, Cristobál Montoro.

NEW YORK (WSI) – Il contagio e’ gia’ in atto. Mentre il ministro spagnolo dell’Economia Luis De Guindos ha proclamato in Senato che “i depositi in banca sotto i 100 mila euro sono sacri e che i risparmiatori non si devo allarmare”, la Spagna ha cambiato una norma costituzionale che consente una tassa sui depositi delle banche. Una norma prima proibita per legge, che potrebbe in caso di bisogno aprire la strada a un prelievo forzoso una tantum dai conti bancari, nella forma di una tassazione dei risparmi. Il concetto e’: se le banche vengono tassate dallo Stato, a chi faranno pagare il conto se non ai correntisti?

Per il momento lo stato sostiene che tale tassa, che gli istituti dovranno pagare allo Stato in proporzione all’entita’ dei propri depositi, “non sara’ molto piu’ alta dello 0%” e che e’ rivolta a quelle regioni che “non hanno compiuto alcuno sforzo per raccogliere entrate fiscali”. 

Nel frattempo l’esecutivo in Nuova Zelanda sta valutando l’ipotesi di imporre in futuro una confisca in stile cipriota dei risparmi, per evitare un eventuale crack delle banche.

Come riporta il quotidiano spagnolo El Pais, il ministro della Pubblica Amministrazione, Cristobal Montoro ha difeso la misura, sottolineando che la sua presenza nella costituzione e’ giustificata dalla volonta’ di uniformare la pressione fiscale tra le varie regioni della nazione indebitata. 

Il governo sta preparando una proposta di legge sull’ammontare che le banche dovranno versare alle casse pubbliche. Anche se una misura simile potrebbe rappresentare una violazione dei movimenti liberi di capitale in Europa, e quindi essere bloccata dalla Commissione Ue, cosi’ com’e’ strutturata lascia la porta aperta a una tassazione dei risparmi dei cittadini, che potrebbe tradursi in un imposta patrimoniale in stile cipriota.

A proposito di capitali, per scongiurare la fuga dei ricchi patrimoni russi, Cipro sta studiando il varo di un piano di emergenza che prevede il controllo dei capitali, tra cui l’imposizione di limiti sui prelievi giornalieri dai conti bancari e di un tetto alle somme di denaro che possono essere prelevate per via elettronica dal paese. Nonche’ l’introduzione di controlli di frontiera piu’ severi, nel tentativo di mettere un freno alla fuoriuscita di capitali dal paese mediterraneo.

Il tutto mentre jet carichi di denaro appartenente agli oligarchi russi stanno volando via dalla piccola isola, che con la sua crisi finanziaria ha aperto il vaso di Pandora in Europa.


http://www.wallstreetitalia.com/article/1527198/debito/spagna-cambia-costituzione-prelievi-dai-conti-possibili.aspx

 

Slovenia, la nuova Cipro?

di: WSIPubblicato il 20 marzo 2013

L’economia ha perso il 2,3% nel 2012 e le sofferenze bancarie sono il 20% del Pil. Se vuole evitare l’intervento europeo, Ljubiana dovra’ ricapitalizzare gli istituti in crisi di liquidita’. La premier Bratusek puo’ contare su una maggioranza risicata.

La nuova primo ministro sloveno Alenka Bratusek. Chiedera’ oggi la fiducia al Parlamento.

NEW YORK (WSI) – Fino a pochi anni fa era una delle economie modello della ‘nuova’ Europa che avanza. Negli ultimi tempi si e’ trovata tuttavia a dovere fare i conti con una crisi economica e finanziaria di crescente entita’. Cosi’ la Slovenia rischia di diventare la nuova Grecia o il nuovo Cipro – visti gli ultimi sviluppi – dell’Eurozona. 

Il parlamento sloveno si appresta a dare l’incarico a un nuovo esecutivo, il cui obiettivo principale sara’ quello di mettere in ordine i conti delsistema bancario in estrema difficolta’

Se non dovesse riuscirci, incontrera’ lo stesso destino della Grecia e – piu’ di recente – di Cipro, vedendosi costretta a ricorrere agli aiuti internazionali

La coalizione della premier Alenka Bratusek puo’ contare su 47 seggi nel Parlamento composto da 90 posti. Questo dovrebbe consentirgli di superare – anche se di misura – il primo test, quello del voto di fiducia.

Bratusek ha gia’ fatto sapere che si impegnera’ a prolungare l’operazione da 4 miliardi di euro volta a ricapitalizzare le banche, un piano gia’ previsto dall’amministrazione precedente guidata da Janez Jansa.

“Anche se il governo vuole ricapitalizzare le banche e consolidare le finanze pubbliche, non e’ ancora ben chiaro come lo faranno”, ha spiegato a Bloomberg in una email Igor Masten, professore di economia alla Ljubljana Economics University.

Sul versante economico, l’anno scorso il Pil ha accusato una contrazione del 2,3% a causa di un forte calo della domanda interna e di un rallentamento delle esportazioni. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 9,6% della popolazione attiva. 

Da quando a febbraio l’agenzia Standard & Poor’s ha ridotto il rating sovrano da A ad A-, dando al paese prospettive stabili, il mercato dei titoli di stato e’ finito sotto osservazione. I tassi sul debito decennale sloveno sono in prossimita’ del 5%. Il 27 febbraio, con la crisi di governo al suo apice, ha toccato i massimi del 2013, pari al 5,3482%. 

In ottobre il governo uscente e’ riuscito a emettere il primo titolo pubblico in 19 mesi, ma fino a quando ancora Ljubiana riuscira’ ad avere accesso ai mercati resta un grosso punto interrogativo.

 

Gli ascari della NATO usano armi chimiche in Siria

marzo 20, 2013 

Tony Cartalucci, Land Destroyer 19 marzo 2013

Dopo una guerra e un’occupazione decennale in Iraq, la morte di oltre un milione di persone, tra cui migliaia di soldati statunitensi, il tutto dovuto a indicazioni palesemente false secondo cui tale nazione era in possesso di “armi di distruzione di massa” (ADM), appare l’ipocrisia scandalosa dell’occidente che arma, finanzia e appoggia politicamente i terroristi in Siria, che in realtà hanno e utilizzano tali armi contro il popolo siriano. Almeno 25 persone sono morte dopo un attacco con armi chimiche contro soldati siriani, condotto dai terroristi filo-NATO ad Aleppo.

Sebbene i terroristi sostenuti dalla NATO non abbiano la “competenza” per usare le armi chimiche, viene riportato dalla CNN, in un articolo del dicembre 2012 “Fonti: Gli USA addestrano i ribelli siriani sulla sicurezza delle armi chimiche“, che “Gli Stati Uniti e alcuni alleati europei utilizzano aziende private della difesa per addestrare i ribelli siriani su come proteggere le scorte di armi chimiche in Siria, hanno detto alla CNN un alto funzionario degli Stati Uniti e diversi diplomatici di alto livello.” E mentre alcuni tentano di suggerire l’uso di armi chimiche da una parte e dall’altra parlano di “scorte non protette” e a “rischio sicurezza”, le armi potrebbero probabilmente provenire dalla Libia. Aleppo si trova vicino al confine turco-siriano.

Se le scorte di armi chimiche depredate dalla Libia vengono spedite in Siria, le armi libiche inviate dagli USA, come le migliaia di terroristi libici che certamente operano in Siria, avrebbero attraversato la Turchia e molto probabilmente per essere usate per colpire città come Aleppo. Peggio ancora, le armi chimiche importate nel Paese coinvolgerebbero la NATO, direttamente o per grave negligenza, in quanto le armi avrebbero attraversato un membro della NATO, la Turchia, come ammettono ex-agenti della CIA che operano lungo il confine e al fianco dei terroristi filo-occidentali attivi in Siria.

Le ADM della Libia sono in mano ai terroristi

L’arsenale della Libia era caduto nelle mani degli estremisti settari, grazie al supporto della NATO nel 2011, durante il culmine degli sforzi per rovesciare la nazione nordafricana. Da allora, i militanti libici guidati dai comandanti del Gruppo Combattente Islamico libico (LIFG) di al-Qaida hanno armato gli estremisti settari di tutto il mondo arabo, tanto a occidente in Mali, quanto a oriente in Siria. Oltre ad armi leggere, anche quelle pesanti vengono inviate attraverso questa vasta rete. Il Washington Post, nel suo articolo “I missili libici a piede libero“, riferisce: “Due ex ufficiali antiterrorismo della CIA mi hanno detto, la scorsa settimana, che i tecnici hanno recentemente inviato 800 di questi sistemi di difesa antiaerea portatili (noti come MANPADS ), una parte al gruppo jihadista africano Boko Haram, spesso visto come un alleato di al-Qaida, per un possibile uso contro i jet commerciali che volano su Niger, Chad e forse N igeria“. Anche se indubbiamente queste armi sono anche dirette in Niger, Ciad, Nigeria e forse, lo sono probabilmente anche in Siria.

I terroristi libici del LIFG invadono la Siria partendo dalla Libia. Nel novembre 2011, il Telegraph, nell’articolo “Gli islamisti libici incontrano l’ELS dell’opposizione siriana“, avrebbe riferito: “Abdulhakim Belhadj, capo del Consiglio militare di Tripoli ed ex leader del Gruppo combattente islamico libico, ‘ha incontrato i leader dell’esercito libero siriano a Istanbul e al confine con la Turchia’, ha detto un ufficiale che collabora con Belhadj. Mustafa Abdul Jalil (il presidente ad interim libico) l’ha mandato lì.” Un altro articolo delTelegraph, “I nuovi governanti della Libia offrono armi ai ribelli siriani”, ammetterebbe che: “I ribelli siriani hanno avuto colloqui segreti con le nuove autorità della Libia, per garantirsi armi e denaro per la loro rivolta contro il regime del presidente Bashar al-Assad, ha appreso il Daily Telegraph. Nel corso della riunione che si era tenuta a Istanbul con funzionari turchi, i siriani hanno chiesto ‘aiuto’ ai rappresentanti libici che hanno offerto armi e, potenzialmente, volontari. ‘C’è in programma l’invio di armi e anche di combattenti libici in Siria’, ha detto una fonte libica, parlando in condizione di anonimato. ‘Un intervento militare è in corso. Nel giro di poche settimane si vedrà.’” Più tardi, quel mese, circa 600 terroristi libici sarebbero entrati in Siria per iniziare le operazioni di combattimento e da allora invadono il Paese.

Il libico Mahdi al-Harati, del Gruppo combattente islamico libico (LIFG), organizzazione terroristica secondo il dipartimento di Stato USA, le Nazioni Unite e le autorità britanniche (pagina 5,  .pdf), colloquia con altri terroristi in Siria. Harati è ora al comando di una brigata libica operativa in Siria, nel tentativo di distruggere il governo siriano e soggiogare la popolazione siriana. Tradizionalmente, ciò si chiama “invasione”.

Il Washington Post ha riferito di “missili dispersi” in Libia spediti ora sul campo di battaglia in Siria. Mentre giornali come il Guardian, nel suo articolo “Armi e MANPADS: i ribelli siriani ricevono missili antiaerei“, riportano che i missili vengono distribuiti in tutta la Siria, tentando di minimizzare qualsiasi connessione tra il saccheggio dell’arsenale della Libia e i terroristi di al-Qaida che li importano. Al contrario, il Times ha pubblicato le aperte rivendicazioni degli stessi terroristi, che ammettono di ricevere armi pesanti dalla Libia, tra cui missili superficie-aria. Nell’articolo del Times, “I combattenti libici esportano la loro rivoluzione in Siria“, viene riportato che: “Alcuni siriani sono più franchi a proposito del contributo che i libici forniscono. ‘Hanno armi più pesanti di noi”, osserva Firas Tamim che si è recato nelle zone controllate dai ribelli per t enere sotto controllo i combattenti stranieri. “Hanno portato queste armi in Siria, che vengono utilizzate in prima linea.” Tra le armi, Tamim ha visto missili superficie-aria di fabbricazione russa, noti come SAM SA-7. I combattenti libici in gran parte negano i trasferimenti di armi, ma a dicembre mi dicevano che stavano facendo proprio questo. ‘Stiamo raccogliendo armi in Libia’, ha detto al quotidiano francese Le Figaro un combattente libico in Siria. ‘Una volta fatto questo, dovremo trovare un modo per portarle qui’.”

Chiaramente l’intervento della NATO in Libia ha lasciato un vasto e devastante arsenale nelle mani degli estremisti settari, guidati dal LIFG, definito organizzazione terroristica da dipartimento di Stato USA, Nazioni Unite e autorità britanniche (pagina 5, .pdf), che oggi esporta armi e militanti nell’altro fronte della NATO in Siria. Confermando che terroristi e armamenti libici attraversano il confine turco-siriano con l’assistenza della NATO, è ormai chiaro che le armi pesanti, tra cui armi antiaeree, hanno attraversato il confine. The Guardian ha riferito nel suo articolo del novembre 2011, “Intatte le scorte di armi chimiche dei libici, dicono gli ispettori“, che: “Le scorte di iprite e di sostanze chimiche della Libia utilizzate per la fabbricazione di armi, sono integre e non sono stat e sottratte durante la rivolta che ha rovesciato Muammar Gheddafi, hanno detto gli ispettori”. Ma ha anche riferito che: “L’abbandono o la scomparsa di alcune armi ha suscitato il timore che tale potenza di fuoco possa erodere la sicurezza regionale, se cadesse nelle mani di militanti islamici o dei ribelli attivi nel nord Africa. Alcuni temono che potrebbero essere utilizzate dai fedelissimi di Gheddafi per diffondere l’instabilità in Libia. Il mese scorso Human Rights Watch ha esortato il CNT della Libia ad intervenire sul gran numero di armi pesanti, tra cui missili superficie-aria, che resta incustodito a più di due mesi dal rovesciamento di Gheddafi. Il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha detto che l’ONU dovrebbe inviare esperti in Libia per garantire che materiale nucleare e armi chimiche non siano caduti nelle mani sbagliate.”

E mentre gli ispettori sostengono che in Libia le armi chimiche sono nelle mani del ‘governo’ e non in quelle degli ‘estremisti’, è chiaro per ammissione del governo libico che esso stesso è coinvolto nell’invio di combattenti e armi in Siria. Resta da vedere la provenienza di queste armi chimiche. Se sembrano provenire dagli arsenali della Libia, la NATO, in particolare gli Stati Uniti e la Turchia, dovrebbero essere implicati nella fornitura di ADM ai terroristi di al-Qaida, il vero scenario che ha paralizzato l’occidente dalla paura, negli ultimi 10 anni, rinunciando alla libertà e versando il sangue di migliaia di soldati per impedirlo. L’implicazione dei terroristi appoggiati dall’occidente con le armi chimiche, indipendentemente dalla loro origine, costa all’occidente la sua già discussa legittimità, mette a repentaglio le sue istituzioni e colpisce ulteriormente la fiducia dei tanti alleati che vi investono sul piano politico, finanziari o, industriale e strategico. Tali alleati farebbero bene ad iniziare a cercare di uscirsene e di coltivare alternative esterne all’ordine internazionale voluto da Wall Street-Londra.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

https://aurorasito.wordpress.com/2013/03/20/gli-ascari-della-nato-usano-armi-chimiche-in-siria/

 

Sanità, i tagli e le favole

di Rosa Ana De Santis

Ora che finalmente lo spread sembra uscito dalle prime pagine dei giornali, sono i problemi reali a tornare prepotentemente all’attenzione della politica e delle istituzioni. La lista delle urgenze inizia senza dubbio dall’emergenza sanità che alcune regioni del Paese attanaglia in modo particolare. Il Rapporto OASI dell’università Bocconi offre un quadro drammatico con preoccupanti elementi di novità del sistema sanitario nazionale.

A fronte dell’aumento dei ticket, di 5 milioni di tasse locali in più, addizionali Irpef in aumento a iosa per evitare di finire con i bilanci in rosso, i servizi sanitari non hanno comunque tenuto il passo, costringendo sempre più cittadini a rivolgersi al privato, spesso con la beffa di pagare di meno per medesime prestazioni specialistiche.

Il marketing dei centri privati ai tempi della crisi batte il deficit del sistema sanitario nazionale o, per meglio dire, la tolleranza agli sprechi. Perché rimane questo, a detta della Fiaso (la Federazione di ASL e ospedali) il responsabile numero uno del disastro sanità.

La riqualificazione del management sanerebbe molto meglio i conti di quanto non abbiano fatto finora i tagli orizzontali e il cieco rigore finanziario. La direzione giusta, come indicato in sede europea a Dublino da tutti i ministri di sanità d’Europa, è quella di attribuire a questi stessi dicasteri la gestione della loro economia e finanz a.

Una scelta che nasce dall’ammissione condivisa, da una filosofia diremmo, secondo la quale investimenti nella ricerca e nella cura non possano finire nel computo del deficit nazionale, tantomeno la cura dei cittadini e la loro assistenza sanitaria che a tutto può servire tranne che a fare cassa e profitto in breve tempo a meno di non voler vedere tutti i malati cronici deceduti.


La rivoluzione necessaria per non far collassare il sistema sanitario nazionale non inizia dai numeri del debito, ma dall’approccio alla cura e da un ripensamento complessivo dei servizi fatto di territorialità, altissima specializzazione ed efficiente prevenzione: l’unica arma scientifica che può ridurre l’impatto economico – sul lungo periodo – della sanità. Quindi da criteri selettivi nella formazione e nel reclutamento del personale, da una migliore integraz ione di clinica e assistenza sanitaria, e non da ultimo da trasparenza. Infine rigore. Non quello modaiolo dei grafici della finanza, ma quello delle buone regole e delle tutele.

Quello che deve imporre a tanti medici della vecchia casta di non spartire più a part time l’ospedale con la clinica a sfregio di lasciare gli ambulatori in mano a ricercatori specializzati con contratti fantasma e pochi spiccioli. Di non tenere macchine diagnostiche di ultima generazione imballate perché non si ha modo di formare il personale addetto.

Tutto questo che, soprattutto da Roma in giù, colleziona le sue prove magistrali non è il frutto della povertà, ma di una montagna di denaro sprecata altrove e male, in una parola dell’amministrazione errata. Il responsabile non è la crisi, ma la politica.

La crisi è quella che spinge i privati a fare buon marketing dei propri servizi sanitari. L’incompetenza è quella che spinge sempre di più i cittadini a rinunciar e all’ospedale a causa delle infinite attese, a causa di un percorso di assistenza sanitaria che dal medico di base allo specialista arriva a singhiozzi e con scarsa chiarezza, a causa, infine, di una disperazione che sulla vita non accetta le ragioni della borsa, perché il diritto alla salute, in un paese civile, è quel costo altissimo che non importa quanto, ma tutti potranno pagare.

http://www.altrenotizie.org/societa/5391-sanita-i-tagli-e-le-favole.html