Puglia, scoppia la guerra del grano “La nostra pasta a stelle e strisce”

con gli “accordi” della NATO economica non sarà solo la pasta ad essere contaminata
http://www.statopotenza.eu/5949/tafta-una-nato-economica-contro-leurasia

L’ultimo carico è arrivato dall’Oregon, un’altra nave dal Messico sta scaricando da giorni, lunedì ne arriva una dal Canada. Coldiretti: “Pasta non italiana, cambiamo l’etichetta sulle buste”. Confindustria: “Import necessario”
di FRANCESCA RUSSI
Poco dopo le dieci del mattino ha attraccato al porto di Bari con un carico da 58mila tonnellate di grano. È ormeggiata al molo 16 la nave Santa Barbara proveniente dall’Oregon, stato della costa pacifica a nord della California, e ci rimarrà ancora per qualche giorno prima di ripartire per Ravenna. Il tempo di svuotare parte della stiva con le gru.

Alla Puglia sono destinate 37mila tonnellate del grano americano trasportato, il restante quantitativo, invece, è diretto al nord. Il mercantile statunitense è solamente uno dei tanti carichi di grano che arrivano ogni settimana nel porto del capoluogo pugliese. A pochi metri di distanza, infatti, c’è un cargo battente bandiera messicana che sta scaricando ormai da cinque giorni 43mila tonnellate e lunedì è previsto l’arrivo di un’altra nave dal Canada. In media gru e tramogge riescono a svuotare e caricare sui camion circa 89mila tonnellate al giorno.

Una volta riempiti, i tir si dirigono verso i pastifici pugliesi. Così dai cargo americani il grano finisce sulle tavole italiane. È con frumento estero, infatti, che si produce il piatto italiano per eccellenza, la pasta. Un curioso paradosso che ha scatenato una vera e propria guerra del grano. Da un lato ci sono i coltivatori, dall’altro gli industriali. “Chiediamo ufficialmente che sulle buste di pasta pugliese e italiana vengano rappresentate le 50 stelle della bandiera americana, al posto dei simboli dell’italianità – provoca il presidente della Coldiretti Puglia Gianni Cantele Ha più senso ed è più rispettoso nei confronti dei consumatori, considerata la passione degli industriali del nostro Belpaese per il grano americano”.

In Puglia si concentra oltre il 36% dell’attività molitoria nazionale, con la lavorazione di circa 80mila quintali al giorno di solo grano duro e altri 15mila di grano tenero. “Ma soltanto il 30 per cento della pasta prodotta in Puglia utilizza grano locale – fa i conti il direttore Coldiretti Antonio De Concilio – La certificazione italiana, se il territorio ha un valore, deve essere del prodotto e non del processo. Servono poi controlli perché il trasporto fa innalzare il rischio di contaminazioni”.

Gli industriali, però, non ci stanno.Senza grano estero la pasta italiana non si potrebbe produrre – replica Confindustria Bari e Bat la soluzione potrebbe essere quella di aumentare la produzione agricola di grano pugliese e di innalzarne la qualità. Non c’è altra via per soddisfare la domanda dell’industria e ridurre le importazioni di grano estero. La produzione nazionale di frumento duro risulta deficitaria rispetto ai fabbisogni dell’industria”.

Negli ultimi sei anni sono state prodotte circa 3,4 milioni di tonnellate di grano all’anno a fronte di un fabbisogno industriale di 5,3 milioni di tonnellate. “Al problema della quantità occorre aggiungere anche la questione della qualità del grano locale – vanno avanti gli imprenditori Confindustria invita i consumatori e non farsi ingannare da alcuni miti collettivi, come quello secondo cui tutto ciò che è coltivato in Italia sia necessariamente migliore di ciò che è coltivato altrove nel mondo”.

(19 ottobre 2013)
http://bari.repubblica.it/cronaca/2013/10/19/news/grano-68907213/

Le nuove regole proteggi-banche

non sò se fidarmi di quanto scritto da questo autore in particolare. Non è la prima volta che l’Inkiesta si presta a fare spot contro Orban e contro ad esempio la Bielorussia, insomma un servizio di demonizzazione dei nemici del sacro occidente delle multinazionali.

Ad ogni modo è una base per approfondire se è vero.

 Derivati, ora per le banche sarà più facile rischiare

Arrivano nuove garanzie sui derivati per gli istituti italiani. Ma i rischi sono tanti. Forse troppi

C’è una nuova possibile grana per l’Europa che riguarda le banche italiane. La decisione, contenuta in un Decreto legge collegato nella Legge di stabilità, di fornire una garanzia bilaterale per gestire i rischi derivanti da operazioni in derivati rischia di far impensierire tanto la Commissione Ue quanto la Banca centrale europea. La garanzia infatti se da un lato può agevolare la vendita di parte dei titoli di Stato italiani detenuti in portafoglio dalle banche italiane, dall’altro può essere un rischio per la stabilità in caso di nuove tensioni.

La scelta del Governo italiano era prevedibile. Il motivo è da ricercare in ciò che successe nei giorni neri dello spread, quando cioè il differenziale di rendimento fra Btp decennali e Bund tedeschi di pari entità era oltre quota 500 punti base. Le aste primarie dei bond governativi italiani rischiavano di andare deserti per via della scarsa fiducia delle banche straniere. Pertanto fu provvidenziale il supporto degli istituti di credito italiani, che foraggiarono il Tesoro. Quindi, l’Italia. Il tutto con l’aiuto della Bce che, tramite il lancio di due Long-term refinancing operation (operazioni di rifinanziamento a lungo termine, o Ltro), ha fornito la liquidità necessaria per completare gli acquisti dei Btp. In quel periodo, come ricordato dai dati Bloomberg, la domanda degli esteri alle aste di titoli di Stato arrivò a essere sotto quota 30% in alcuni casi. Troppo difficile collocarli, troppo rischioso spostare un’asta. La soluzione trovata con le banche italiane fu l’unica possibile.

Ora che il peggio è passato, occorre modificare quello che è diventato un peso. Il rischio di convertibilità dell’euro, sebbene in certi casi sia ancora presente, si è ridotto in modo significativo. E non c’è più bisogno che le banche italiane si accollino ancora questo fardello. Potranno quindi aggirare le regole di Basilea III, che richiedono un minimo di capitale per le operazioni in derivati. Il rischio di controparte? In mano alle banche, ovviamenteCosì facendo, invece, il rischio di controparte va alla Repubblica italiana, presso la quale gli istituti di credito depositeranno una somma a garanzia – ecco perché sarà una garanzia bilaterale – presso la tesoreria dello Stato. Dopodiché potranno completare operazioni in derivati, anche su bond governativi, con una facilità maggiore. Allo stesso modo saranno agevolate le vendite di Btp e Bot. Anche perché l’autarchia che sostenne l’Italia fra ottobre 2011 e aprile 2012 si è tramutata in un boomerang difficile da gestire. I bilanci di UniCredit e Intesa Sanpaolo, ma anche degli altri attori del sistema bancario italiano, sono carichi di bond governativi italiani e la loro gestione è diventata difficile. Meglio quindi svincolarsi e pensare ad altri tipi di investimenti, ma non solo.

 La possibile vendita di parte dei bond può aiutare le banche a fornire finanziamenti alle imprese in modo da agganciare la tiepida ripresa che si sta affacciando nell’eurozona. Tuttavia, ci sono almeno tre problemi. Il primo è a chi vendere questi titoli e cosa fare in caso si riproponessero delle criticità sistemiche. Le tensioni, specie dal lato politico, intorno all’Italia non sono ancora terminate e il rischio è che possano esserci altri sell-off sui bond italiani. Se così fosse, le banche dovrebbero riprendere la loro attività compiuta due anni fa. Il rischio di controparte sarebbe però appannaggio dello Stato. Ciò significa che i rischi dell’eventuale hedging di copertura in derivati dopo gli acquisti di bond italiani dalle aste primarie sarebbe a carico dell’Italia. È vero che ci sarebbe comunque il conto presso la tesoreria dello Stato, e che sarebbe valutato mark-to-market, ma in caso di violente turbolenze potrà bastare?

 Il secondo è che così si potrebbe alimentare un azzardo morale che poco serve in questo momento. Mentre con il bail-in, cioè il salvataggio bancario tramite le componenti interne dell’istituto in crisi, punta a essere un deterrente delle malversazioni del management, questa garanzia bilaterale statale può essere l’esatto opposto. Ancora non si conosce l’entità finale della garanzia che ogni banca dovrà depositare, ma fonti bancarie spiegano che non potrà essere troppo elevata, in quanto nessun attore può permettersi di tenere immobilizzati troppi asset. Se così sarà, gli istituti di credito potranno aver un incentivo, quello della garanzia statale, a spingere sull’acceleratore coi derivati. Tradotto: nuovi rischi.

Il terzo è che così facendo non si rompe quello che più di una volta il presidente della Bce Mario Draghi ha definito come uno dei maggiori dilemmi per l’eurozona, cioè il circolo vizioso fra banche e Stati. Il Governo ha deciso di introdurre questa garanzia bilaterale perché in linea con le richieste del Fondo monetario internazionale e, dice il testo della relazione del decreto in questione, grazie all’esperienza positiva in Svezia e Regno Unito. Non solo. Si sottolinea infatti che anche in Germania si sta studiando una misura analoga. Ma è proprio questa interdipendenza fra sistema bancario e Stati che ha quasi fatto capitolare l’eurozona a forza dei ripetuti bailout. E se di nuova finanza si vuole parlare, si deve soprattutto iniziare a rompere con il passato.

 Come reagiranno Commissione europea e Bce è un incognita. È probabile che si parli anche di questo, seppur in via informale, al prossimo Consiglio Ue che inizia dopodomani. Dato che si discuterà del futuro dell’eurozona sotto il profilo bancario, sarebbe meglio che l’Italia non si presenti con una misura che sa così tanto di passato.

  http://www.linkiesta.it/italia-derivati-garanzie-collaterali#ixzz2iZb78y1l

La Bielorussia di Lukashenko

splendido Lukashenko.Naturalmente un demone per i cantori dell’impero e dell’europa delle banche. I servitori della “democrazia occidentale” guidata dalla tecnocrazia bancaria sputano veleno, ecco due esempi
http://www.agi.it/estero/notizie/201310121931-est-rt10161-bielorussia_lukashenko_a_figlio_piccolo_racconto_storie_guerra

e qui un articolo del FQ sul sito dei radicali (tirapiedi Usa praticamente)
http://www.radicali.it/rassegna-stampa/lukashenko-ultimo-signore-della-morte-europa
Signore della morte, scrivono. Lasciando suggerire che abbia assassinato gente. Si riferisce alla pena di morte che mi pare esista anche nel paese tanto amato dai radicali e dal Fatto ma che non hanno niente da rimproverare al padrone per questo “peccato”.Meglio sfruttare l’argomento per attaccare gli altri da sottomettere.
Questo articolo de l’Inkiesta del 2011, sostiene che l’economia è disastrosa in Bielorussia (immagino serva l’intervento dei tecnocrati che hanno mostrato tanta competenza)
http://www.linkiesta.it/blogs/gorky-park/gazprom-al-supermarket-bielorusso
Spero sappiano fare le inkieste meglio di come sanno leggere i dati economici. Non è la prima volta che l’Inkiesta fa propaganda contro gli stati in viso agli Usa, magari era una marchetta.

La Bielorussia di Lukashenko

Eugenio Fontanini

 Qui si parte dal fatto che la mentalità, le tradizioni e lo stile di vita delle persone non possono essere modificate durante la notte. Non può essere possibile  gettare le persone non preparate nell’abisso del mercato.

Alexander Lukashenko, 2002

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Alexander Lukashenko è probabilmente il politico più diffamato nel mondo di oggi. Le ragioni di ciò non sono difficili da scoprire. Contrariamente alle chiacchiere sulla sua presunta “tirannia”, Lukashenko è sotto attacco a causa del suo successo.

Lukashenko è infangato dai media occidentali perché ha dimostrato il successo economico del modello socialista, o di quello che lui chiama il modello del “mercato sociale”, in contrapposizione al capitalismo libertario. Non vi è alcun dubbio che questo modello ha forti caratteri nazionali, è in genere filo-russo e ha rapporti economici e politici con l’Oriente, piuttosto che con l’Occidente. La Bielorussia è stata uno dei componenti più essenziali della vecchia Unione Sovietica. Ha una forza lavoro molto ben educata, specializzata in elettronica e mezzi di trasporto di carburante e di raffinazione. Questo la rende altamente competitiva e una minaccia per l’Occidente.

Il successo delle politiche economiche bielorusse sono eccezionali. Secondo le statistiche della Banca Mondiale aggiornate nel 2010, la Bielorussia ha evitato la recessione/depressione che ha coinvolto tutto l’Occidente. Le banche bielorusse, per lo più di proprietà dello Stato, hanno superato tutte le banche europee nel 2009. Le Banche statali hanno aumentato la loro capitalizzazione di quasi il 20 per cento.

Dal 2001-2008, la media della crescita economica bielorussa era quasi del 9 per cento, che è approssimativamente uguale a quella della Cina. Mentre le economie occidentali sono entrate in recessione nel 2010, l’economia bielorussa è cresciuta di circa il 6 per cento, con un aumento del 10 per cento della produzione agricola e un aumento del 27 per cento delle esportazioni. Il Reddito reale è cresciuto di circa il 7 per cento nel 2010.

Ma quali sono i motivi di questi successi? Questo articolo si propone di analizzare il pensiero lukashenkiano, attraverso le sue parole e le sue spiegazioni.

La dottrina ufficiale bielorussa in materia di sviluppo, dice questo:

La Bielorussia ha scelto di seguire il percorso di sviluppo evolutivo e ha respinto le prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale come la terapia d’urto e la selvaggia privatizzazione. Nel corso di molti anni di lavoro creativo, il modello bielorusso di sviluppo socio-economico è stato messo in atto – il modello che combina i vantaggi di economia di mercato e la protezione sociale efficiente. Il nostro concetto di sviluppo è stato elaborato in linea con la continuità storica e le tradizioni della gente. Il modello bielorusso mira a migliorare la base economica esistente, piuttosto che attuare una rottura immediata del precedente sistema. Il modello economico bielorusso contiene elementi di continuità nel funzionamento delle istituzioni dello Stato e in tutto il mondo si è dimostrato efficace.”

In un incontro con il Gabinetto e con altre importanti figure politiche e militari nel marzo del 2002, Lukashenko ha riassunto le sue idee politiche. Vale la pena citarle per esteso:

Quali sono le caratteristiche distintive del nostro modello?

Primo. L’autorità dello Stato forte ed efficiente. Salvaguardare la sicurezza dei cittadini, al fine di garantire la giustizia sociale e l’ordine pubblico, al fine di non permettere l’espansione della criminalità e la corruzione: questo è il ruolo dello Stato. Solo l’autorità forte riuscì a trascinare l’economia bielorussa fuori dal baratro economico.

I nostri vicini più prossimi a lungo andare si sono resi conto che, se non vi è una forte gerarchia di autorità, la liberalizzazione dell’economia nel periodo di transizione porta instabilità sociale e giuridica e un inaudito disordine. Essa si traduce in sregolatezza pubblica!

Quanto a noi, abbiamo avuto una chiara idea, proprio all’inizio, che l’espansione prematura delle relazioni di mercato non permetterebbe di risolvere radicalmente uno dei pressanti problemi esistenti. Al contrario, i nuovi problemi emergerebbero, generati dalla specificità dei rapporti di mercato. Ed è la stabilità politica che è una delle principali condizioni per la graduale integrazione nell’economia mondiale. Vorrei fare riferimento ad essa come una delle caratteristiche distintive e le conseguenze  del modello di sviluppo dell’economia bielorussa.

Qui si parte dal fatto che la mentalità, le tradizioni e lo stile di vita delle persone non possono essere modificate durante la notte. Non può essere possibile  gettare le persone non preparate nell’abisso del mercato.

La seconda caratteristica distintiva del nostro modello sta nel fatto che il settore privato può e deve essere in via di sviluppo a fianco del settore pubblico. Ma non a scapito degli interessi nazionali. Insisto: se sei un privato, non implica che puoi fare quello che vuoi. Gli interessi nazionali, lo Stato, devono essere la principale priorità e l’obiettivo principale per il lavoro di ogni cittadino, impresa o imprenditore la cui produzione è basata sulla proprietà privata.”

Nel suo discorso in occasione della celebrazione del nuovo anno 2009, Lukashenko ha aggiunto ulteriori dettagli alla sua ideologia:

Ci hanno urgentemente consigliato di posizionare l’economia sotto il comando delle regole del mercato di scambio mondiale. Ma abbiamo deciso di non fare affidamento a questi “consigli”.

Noi non siamo quelli che hanno provocato la crisi di oggi, che sta inviando onde d’urto in tutto il mondo. Al contrario, la crisi è arrivata come un risultato di qualcosa verso cui abbiamo sempre lottato contro.

Le parole centrali sono queste: “Sottolineo: se sei un privato, non implica che si dovrebbe fare quello che vuoi.” E ‘la nazione che viene prima. La nazione qui è la tradizione bilingue della Bielorussia tra il russo e bielorusso. Si basa su una distribuzione fondamentalmente egualitaria della terra e delle risorse, in nome della solidarietà etnica e nazionale. Il progresso economico non significa nulla se va a vantaggio solo di pochi. Il nazionalismo implica solidarietà, soprattutto in un paese piccolo e vulnerabile sotto costante attacco.”

Nel suo famoso saggio “Sulla scelta storica della Bielorussia,” gli aspetti più “etnici” della sua teoria politica sono esposti. In generale, lo scopo dello stato, in questo ambito, è quello di fornire una casa sicura per le tradizioni specifiche delle popolazioni che vivono all’interno di esso a fiorire. Questo include la cultura agraria, la vita urbana, le specifiche tradizioni etniche di polacchi, bielorussi e russi che vivono all’interno della Bielorussia. Il punto non è tanto che lo Stato è rappresentativo di una specifica tradizione nazionale, ma piuttosto che deve preservare le tradizioni nazionali dei popoli che vivono all’interno dei suoi confini. Non ci sono veri e propri stati etnicamente puri, e quindi,  la cosa migliore che lo Stato può fare è proteggere le tradizioni etiche e le variazioni regionali che esistono.

In un discorso del 2006, Lukashenko non ha risparmiato le sue emozioni:

La linea politica di sviluppo del Paese elaborato da noi ci ha dato ragione. Alti tassi di crescita economica, che la Bielorussia ha avuto per più di 10 anni, forniscono ottime prove. Basta confrontare: la nostra crescita annua del PIL nel periodo passato di pianificazione di cinque anni è stato del 7,5 per cento contro il 3,5 per cento della media mondiale.

I teorici occidentali non riescono a spiegare le ragioni di un tale successo. Il loro pensiero “democratico” non è in sintonia con il nostro.

Le ragioni, tuttavia, sono semplici. Non abbiamo sottratto la ricchezza del popolo, non abbiamo debiti onerosi. Abbiamo elaborato il nostro modello di sviluppo basato su riforme equilibrate. Senza alcuna disastrosa privatizzazione e senza alcuna terapia d’urto, abbiamo conservato tutte le cose migliori per la nostra economia e per le nostre tradizioni. Allo stesso tempo, stiamo imparando a lavorare in nuove condizioni di mercato, sfruttando l’esperienza di altre parti del mondo e tenendo conto delle moderne tendenze dell’economia mondiale. Un forte potere statale, una forte politica sociale e fiducia nella gente, sono i fattori che rivelano il segreto del nostro successo.”

Fino ad ora, abbiamo visto che Lukashenko rifiuta il liberalismo occidentale, ma comunque incentiva le aziende private. Col tempo,inizia a mutare la sua idea. In occasione della creazione di aziende sino-bielorusse in zone economiche speciali, inizia a parlare di “socialismo di mercato” e non più di “economia di mercato socialmente orientata“. Nel 2004 il presidente bielorusso ha detto che le fabbriche collettivizzate “devono essere mantenute perché sono le unità che proteggono sempre le persone, e le aiutano“. Nel 2000, Lukashenko è stato insignito dell’Ordine di Cuba di José Martí da Fidel Castro, che Lukashenko ha definito “un leader leggendario i cui pensieri e le convinzioni sono validi non solo per Cuba, ma per tutta l’umanità“. La Bielorussia sta svolgendo un ruolo importante nella modernizzazione dell’industria cubana e delle infrastrutture, con particolare collaborazione nei settori della salute e della scienza. Nel luglio 2006, Chávez ha dichiarato: La Bielorussia ha trasformato in realtà lo slogan di Lenin secondo cui dobbiamo porre fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Vediamo un modello di sviluppo sociale che qui abbiamo solo cominciato a stabilire. Dobbiamo difendere gli interessi dell’uomo e non gli interessi nazionali di capitalisti, ovunque si trovino, in Nord America o in Europa“. Infine, Lukashenko ha affermato nel 2005 (presso l’ONU a New York): “L’Unione Sovietica, nonostante tutti gli errori dei suoi dirigenti, è stata la fonte di speranza e di sostegno per molti stati e per i popoli.” Di recente Lukashenko ha detto esplicitamente di essere nostalgico dell’Urss. Nonostante tutte queste affermazioni, l’ideologia di Lukashenko continua ad essere poco chiara e sembra quasi che il capo di Stato non voglia prendere posizioni riguardo il comunismo, ma indubbiamente il modello economico e sociale bielorusso va studiato e preso in considerazione, perché ha portato notevoli successi.

http://www.statopotenza.eu/9041/la-bielorussia-di-lukashenko

N.A.T.O.LITANO, IL FIGARO DEL COLONIALISMO

Di comidad del 17/10/2013

 Si possono riscontrare delle costanti in tutti i casi di colonizzazione militare del territorio italiano. In ogni circostanza infatti le Regioni che “ospitano” gli impianti militari si trovano costrette a sostenere notevoli spese per supportare le basi militari con le necessarie infrastrutture. Sta succedendo in Campania, con la nuova base NATO di Giugliano, nella zona di Lago Patria, ed ovviamente capita anche per il MUOS che la US-Navy sta finendo di costruire a Sigonella. L’anno scorso il sindaco di Niscemi ha lamentato che non si è visto nulla degli aiuti al territorio contemplati nel protocollo d’intesa tra Ministero della Difesa e Regione Sicilia siglato nel 2011. Anzi, sarà la Regione Sicilia a dover sborsare finanziamenti per una serie di impianti ed infrastrutture, tra cui un eliporto, tutto questo attingendo ai fondi FAS.

I FAS, cioè i fondi del Tesoro per le aree sottoutilizzate, rappresentano un caso significativo – probabilmente solo uno dei tanti – di spesa militare occulta, cioè dissimulata sotto la veste di aiuti alle Regioni meno sviluppate. Spesso impiegati per finanziare opere idriche e di viabilità indispensabili per rendere operative le basi militari, i FAS figureranno invariabilmente nei bilanci dello Stato – e nei libri di Luca Ricolfi – come prova di quanto la spesa pubblica sia gravata dalla pigrizia delle Regioni meridionali.

La fiaba secondo cui invece sarebbero soprattutto gli Stati Uniti a dover sostenere finanziariamente l’Alleanza Atlantica, ha trovato un autorevole avallo in un discorso del 2 marzo 2010 del presidente Giorgio Napolitano. Si è trattato di un indirizzo di saluto pronunciato nella sede del Consiglio Atlantico di Bruxelles, davanti alle massime gerarchie della NATO. In quella occasione solenne, Napolitano ha caldamente invitato i governi europei ad infischiarsene della crisi finanziaria, e ad aprire, anzi a spalancare, i cordoni della borsa per sostenere tutte le spese militari che gli USA richiedono. In questo contesto, Napolitano non esitava a teorizzare esplicitamente il ruolo organico e subordinato dell’Unione Europea nei confronti della NATO, richiamandosi anche al Trattato di Lisbona.

Il discorso di Napolitano risulta interessante ed istruttivo anche per altri motivi. Anzitutto è stato pronunciato in un periodo in cui, almeno di facciata, il Buffone di Arcore sembrava occupare ancora saldamente la poltrona di Presidente del Consiglio, dato che la rivolta di Fini e l’apparizione sulla scena della “nipote di Mubarak” sarebbero avvenute solo alcuni mesi dopo. Eppure Napolitano parlava come se il vero capo del governo ormai fosse lui. La storia italiana di questi ultimi tre anni potrebbe essere riletta e reinterpretata anche solo a partire da questo documento, che ci mostra un Napolitano ben poco “garante” e tutto politico già all’inizio del 2010. Lo stesso Napolitano offriva una spiegazione di questa apparente anomalia, quando teneva a precisare che in Italia è il presidente della Repubblica a presiedere il Consiglio supremo di difesa, quindi a costituire l’interlocutore privilegiato del vero padrone, cioè la NATO. Il soprannome di NATOlitano quindi non è arbitrario o abusivo, ma assolutamente meritato. Occorre peraltro riconoscere che il Consiglio supremo di difesa è un organo di rilievo costituzionale (articolo 87), perciò coloro che vanno in brodo di giuggiole per la nostra “bellissima” Costituzione, dovrebbero ogni tanto rileggersela anche nei passi meno lirici e più crudi.

Davanti all’uditorio di Bruxelles Napolitano non è riuscito a trattenere la propria soddisfazione per il buon lavoro da lui svolto, proclamando che nulla avrebbe potuto opporsi ai progetti di espansione della NATO, dato che, almeno in Italia, non era prevedibile alcuna ondata di antimilitarismo che potesse mettere i bastoni tra le ruote. Napolitano ha usato, con cognizione di causa, la parola “antimilitarismo” e non quella di “pacifismo”, segno che per lui la militarizzazione rappresenta proprio il valore da difendere. Strano allora che il nostro non si sia mai accorto che l’occupazione del Canale di Sicilia da parte delle flotte USA e NATO non abbia mai bloccato la partenza di un barcone di “migranti” (o deportati?), oppure che le occupazioni NATO non riescano ad impedire il business dell’oppio in Afghanistan, o il traffico di organi umani in Kosovo, e neppure le discariche di rifiuti tossici a Giugliano. Non è che il “valore” che si vuol difendere, consiste appunto in questo intreccio tra militarismo e business illegali?

Ma dopo una frase del genere, verrebbe voglia di rileggere non soltanto la storia d’Italia degli ultimi tre anni, ma anche tutta la storia personale di Napolitano. Davvero egli sarebbe un transfuga del comunismo, passato dal sostegno all’invasione sovietica dell’Ungheria all’adesione entusiastica alla NATO? Oppure è sempre stato un agente sotto copertura?

Una delle formule più note del “Che Fare?” di Lenin è quella secondo cui la classe operaia da sola sarebbe in grado di esprimere esclusivamente una coscienza trade-unionista, mentre la coscienza politica di classe dovrebbe essere portata dall’esterno da intellettuali rivoluzionari. Sebbene successivamente ridimensionata dallo stesso Lenin, si tratta comunque della formula più invocata per sostenere la necessità di un partito comunista a guida delle masse. Sta di fatto che in Italia il PCI non soltanto non ha portato alla classe operaia quella tanto invocata coscienza politica, ma ha finito per privarla anche della coscienza trade-unionista, per non parlare poi del seppellimento di ogni coscienza antimperialistica. Nel 1977 il PCI spinse infatti la CGIL alla svolta dell’EUR, insieme con gli altri sindacati confederali, con il risultato di offrire come massima prospettiva all’azione sindacale quella di una concertazione tra governo e parti sociali. Nello stesso anno il PCI formalizzò anche la sua accettazione della collocazione “atlantica” dell’Italia. Il punto debole della teoria del partito si è così evidenziato nella estrema facilità di infiltrare i gruppi dirigenti; ed anche Stalin, di fronte alla occupazione massonica dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, invece del “Che Fare?”, adottò piuttosto il “lasciar fare”.

Altro aspetto interessante del discorso di Napolitano a Bruxelles/2010, è l’aspetto “creativo” della sua posizione di collaborazionista del colonialismo sull’Italia. Napolitano si pone cioè non come un semplice esecutore di ordini, ma esprime velleità di servitore factotum alla Figaro, capace di andare anche oltre le attese dei suoi padroni. A riguardo c’è da osservare che in questi ultimi tempi si è diffusa una nuova vulgata, secondo la quale tutte le direttive internazionali, a partire dalla famosa lettera della BCE del 5 agosto 2011, sarebbero state in realtà scritte a Roma. A Roma verrebbero elaborate anche le dichiarazioni del Fondo Monetario Internazionale sull’Italia, e sempre a Roma andrebbero ricercate le vere responsabilità del MUOS. Poco ci manca che ci si metta a cantare “der monno ‘nfame Roma Capoccia”.

Qui si tratta di uno dei casi in cui una mezza verità rischia di diventare una pericolosa scempiaggine. Da sempre infatti il colonialismo si basa sulla complicità attiva e “creativa” dei gruppi dirigenti locali, altrimenti meno di duecentomila Inglesi – tra soldati, affaristi e funzionari – non avrebbero potuto dominare e sfruttare più di trecento milioni di Indiani per oltre un secolo. Per “imperialismo americano” non si deve perciò intendere che gli USA siano in grado da soli di controllare tutto, ma che esiste una guerra mondiale dei ricchi contro i poveri in nome della santa causa di un welfare per ricchi; una guerra di classe nella quale però gli USA costituiscono il punto di riferimento ed il principale braccio armato di tutti i gruppi affaristici e reazionari del mondo. C’è quindi un ampio margine di manovra per i servitori, ed anche parecchie occasioni di competizione fra gli stessi servitori; ma sempre di servitori si tratta.

http://www.comidad.org/dblog/articolo.asp?articolo=575

Il “sistema Coop”: un hedge fund senza trasparenza e controllo

 Il recente articolo di Giorgio Meletti de Il Fatto Quotidiano ha finalmente posto l’attenzione (1222 commenti, 2500 condivisioni su Facebook, cui si aggiunge la tiratura del giornale) sulla vera natura di ciò che si nasconde dietro al noto marchio Coop della grande distribuzione: un hedge fund, un enorme massa di risparmio raccolto tra i consumatori e investito al di fuori del controllo e senza trasparenza verso i medesimi soci e risparmiatori.

 Apparentemente, il  “sistema Coop” è una associazione tra società cooperative di consumatori, classificabili in tre diverse tipologie: 9 Grandi cooperative, che gestiscono una rete di vendita estesa e articolata su territori regionali o interregionali;  14 Medie cooperative, che gestiscono una rete di negozi dislocati in ambito provinciale o interprovinciale; 96 Piccole cooperative, con un singolo o un numero limitato di punti vendita di dimensioni minori, dislocati in piccole località.

 I consumatori che si associano ad una di queste cooperative, pagando la quota del capitale sociale, pensano di far parte di una società attiva nella distribuzione alimentare. Molti fra questi soci-consumatori usufruiscono anche di alcuni servizi finanziari offerti dalla cooperativa, come il “prestito sociale”: un prestito che il socio concede alla cooperativa, registrato in un libretto di risparmio, che frutta un certo tasso di interesse annuale.

 Ebbene, dove viene investito il risparmio raccolto tramite il capitale e il prestito sociale? Nell’ammodernamento della rete distributiva? Per migliorare l’efficienza logistica e organizzativa? Nell’acquisto degli immobili dove si svolge l’attività di distribuzione, evitando così di pagare affitti tutti i mesi per chissà quanti anni (per inciso, è ovvio che l’affitto pagato al proprietario degli immobili sia di costo ben superiore al misero tasso di interesse riconosciuto sul prestito sociale)?

 Le attività del “sistema Coop” sono principalmente attività finanziarie, non industriali (come le merci, attrezzature, immobili…). Quali? Non è dato di sapere, nemmeno al socio (io sono socio di una di queste coop – e ovviamente ho votato contro l’approvazione di un simile bilancio).

Su 9 grandi Coop, solo 5 hanno reso disponibile il loro bilancio di esercizio 2012 sul sito internet (certo, potevo scaricarlo dalla Camera di Commercio, ma è questa la responsabilità sociale verso i soci e la comunità?). Leggendo i bilanci di quelle che lo hanno reso pubblico, si scopre che:

 1) I debiti finanziari verso i soci sono di importo circa doppio rispetto al patrimonio netto: rispettivamente, 7,9 miliardi contro 4,3miliardi (per darvi le proporzioni: il patrimonio di Banca Etica è di 72 milioni, quello del Gruppo Intesa SanPaolo 49 miliardi).

2) Le attività finanziarie sono circa tre volte il valore delle attività industriali nette.

3) Non considerando la disastrosa gestione finanziaria di UniCoop Firenze, l’utile della gestione finanziaria è circa 7 volte quello della gestione industriale.

 Nel “sistema Coop” non è prevista nè la trasparenza “con i miei soldi” (conoscere dove viene investito il risparmio  raccolto), nè quella “non con i miei soldi” (le attività che non si vuole finanziare). Strano modo di interpretare il vecchio, ma non dimenticato motto: La coop sei tu. No, io NON sono così, noi NON siamo così.

 E’ giunto il momento di chiedere la separazione giuridica tra attività industriale (ove ci indentifichiamo) e attività finanziaria delle Coop. E’ giunto il momento che anche l’amministrazione finanziaria (l’IVA sugli acquisti, aliquota Irap come quella applicata alle banche, ricalcolo dei parametri di mutualità prevalente….) e il Supervisore sul sistema finanziario (normativa di vigilanza prudenziale/patrimonio di vigilanza, requisiti di professionalità e onorabilità dei dirigenti, antiriciclaggio, concentrazione dei rischi, prospetti informativi per la sollecitazione del pubblico risparmio, dematerializzazione dei titoli, …) si accorgano che l’attività prevalente di queste cooperative non è più la “distribuzione al dettaglio di prodotti alimentari e affini”, ma i servizi finanziari.

 PS: per amor di trasparenza, qui potete scaricare i dati dei bilanci citati. Cari soci: chiedete conto agli amministratori che uso ne fanno del vostro risparmio: avete idea di quante iniziative di economia civile, per il bene comunepossono finanziare quei 12 miliardi di euro investiti (delle sole 5 grandi Coop qui analizzate) in attività finanziarie?