LE RIVOLUZIONI EUROPEE COMINCIARONO SEMPRE CON UNA RIVOLTA IN UN GHERIA. CHIUDE L’UFFICIO F.M.I. A BUDAPEST

mannaggia, che peccato non si possano mandare i carri sovietici a ripristinare la democrazia, ma quelli yankee son sempre pronti. O sono pronti già quelli della troika dell’Eurogenfor? Speriamo che la provvidenza aiuti i fratelli magiari a disfarsi di questa deriva autoritaria che ripudia quel noto ente di beneficenza qual’è il FMI che non sbaglia mai un conto “nell’interesse dei popoli”.

DI ANTONIO DE MARTINI

corrieredellacollera.com

 Italia, Polonia e Ungheria sono tre paesi “di passaggio”: l’Italia in senso nord-sud e gli altri due in senso ovest-est.

Deve essere anche per questo comune destino che ricordiamo anche al ginnasio con piacere la partecipazione di volontari ungheresi, agli ordini di Stefano Türr (1848) e György Klapka (1859) alle nostre lotte per l’indipendenza e citiamo nel nostro inno nazionale “il sangue polacco” che l’aquila bicipite “bevè col cosacco, ma il cor le bruciò”.

Sempre nel 1848 oltre 1100 volontari italiani combatterono per l’indipendenza ungherese agli ordini di Alessandro Monti.

 Sui bastioni di Buda c’è una lapide in memoria di un barone salernitano – di cui non ricordo ahimé il nome- che superò per primo i bastioni turchi per la liberazione della città.

Una amica polacca dell’ambasciata, mi ha assicurato che anche nell’inno nazionale polacco c’è un accenno diretto all’Italia e alle lotte comuni.

 Insomma siamo in simpatia da oltre duecento anni. Abbiamo trepidato per la loro sorte durante la rivolta ungherese del 1956 – su questo si spaccò il P.C.I. nei suoi elementi di punta – e riabbracciammo i fratelli ungheresi al crollo del patto di Varsavia.

 Ieri, 15 luglio, i magiari sembrano ancora una volta voler precedere tutti e indicare agli altri europei la strada da seguire, per reagire ribellandosi alla nuovaSanta Alleanza.

 Gyorgy Matolcsy, governatore della Banca centrale ungherese, ha inoltrato alla signora Christine Lagarde una lettera, invitandola a chiudere l’ufficio di Budapest del Fondo Monetario Internazionale (FMI) segnalando che non vi era più ragione per prolungarne la presenza e che il governo ungherese conta concludere il rimborso del prestito contratto in anticipo rispetto al termine del 2014 stabilito dagli accordi vigenti.

 L’FMI pare intenzionato a traslocare entro la fine di Agosto, anche perché il prestito negoziato nel 2011 ( Orban giunse al governo nel 2010) si arenò per la divergenza di vedute tra il premier e l’FMI.

 L’Ungheria aveva contratto – subito dopo lo scoppio della crisi finanziaria – nel 2008 un prestito con la trimurti FMI, UE, Banca Mondiale ( WB) per un importo massimo di 25 miliardi, di cui circa 15,7 effettivamente utilizzati.

 Il rapporto tra FMI e il governo ungherese presieduto da Viktor Orban è sempre stato tempestoso, al punto che i “soliti ambienti”, mai precisati ma sempre autorevoli, avevano lo scorso anno fatto circolare la voce che in Ungheria esisteva un concreto pericolo di ritorno al fascismo.

Orban ha posto sotto controllo la Banca Centrale, nazionalizzato il sistema pensionistico e posto una supertassa sulla grandi società e questo per l’Unione Europea è un peccato mortale cui ha fatto seguito la minaccia di scomunica.

 Si tratta di una minaccia non vana, visto che alcuni articoli della carta delle Nazioni Unite ( tra il 50 e il 54) prevedono espressamente che le Nazioni vincitrici della seconda guerra mondiale possano, invadere senza preavviso qualsiasi tra i paesi sconfitti ( l’Ungheria è tra questi), qualora , a insindacabile giudizio di anche uno solo dei vincitori, si ravvisasse un sintomo di rinascita del fenomeno.

 L’Ungheria ha avuto lo scorso anno un lieve miglioramento economico grazie a una forte immissione di nuovi cittadini ( 400.000) provenienti dai paesi vicini beneficiati da concessioni territoriali conseguenza della guerra mondiale.

 La relativa liberalizzazione della prima decade del secolo e l’energica conduzione indipendentista del governo Orban, hanno reso possibile il congiungimento di molti alla madrepatria ed una certa quota di inevitabile irredentismo che ha fatto seguito.

 Le frizioni col FMI sono la conseguenza della pretesa assurda del FMI di imporre politiche economiche ormai riconosciute errate anche dall’alto management del Fondo, ma che incomprensibilmente non vengono corrette; dalle esigenze elettorali dettate dalle ormai imminenti elezioni politiche e dalla politica indipendentista seguita dal governo che ha potuto attrarre nel paese uomini e capitali tagliati fuori dalla madrepatria.

 L’equivalenza tra fascismo e indipendenza nazionale viene perseguita a fini di propaganda dalle autorità di Bruxelles e da alcuni cretini di estrema destra, sia pure per opposte motivazioni.

Orban, tenendo ostinatamente la barra al centro, offre a tutti gli europei un esempio di come trovare una via di ripresa nazionale, mantenendo gli impegni comunque contratti, creare la ripresa mercé l’ottimizzazione e il controllo delle risorse a disposizione.

 Antonio De Martini

Fonte: http://corrieredellacollera.com Link: http://corrieredellacollera.com/2013/07/16/le-rivoluzioni-europee-cominciarono-sempre-con-una-rivolta-in-ungheria-chiude-lufficio-f-m-i-a-budapest-di-antonio-de-martini/#more-19974

17.07.2013

La top five dei conti offshore

ci sono evasori ed evasori. Quelli grossi, stranamente la stampa tanto indignata per lo scontrino del caffé non li vede.

By Edoardo Capuano – Posted on 08 luglio 2013

Soldi

Nella top five Svizzera, Isole Cayman, Lussemburgo, Hong Kong, Stati Uniti. Un quinto nel solo Regno Unito. Nelle casseforti elvetiche $2.100 miliardi appartenenti a stranieri: INFOGRAFICA

 Il 40% dei paradisi fiscali si trova nei paesi del G8, un quinto nel solo Regno Unito e nei suoi territori speciali oltremare.

 Nella top five dei conti offshore, si piazzano Svizzera, Isole Cayman, Lussemburgo, Hong Kong e Stati Uniti. Soltanto nelle casseforti elvetiche sono depositati $2.100 miliardi appartenenti a stranieri.

 E pensare che il premier britannico David Cameron nel 2012 aveva dichiarato di voler agire per combattere il fenomeno, osservando che “ci sono troppi posti, troppi paradisi fiscali dove gente e aziende fanno business insieme”.

 I paradisi fiscali costano ogni anno all’Unione Europea 1000 miliardi di euro di perdite in tasse evase. La stima proviene da uno studio dell’economista Richard Murphy («Closing the European Tax Gap»), esperto di contabilità presso Tax Research.

 

Clicca sulle immagini per ingrandire

 

Il rapporto, pubblicato a febbraio dell’anno scorso, è stato ripreso e citato da molti rappresentanti dei governi europei, così come dalla stampa e dalle organizzazioni non governative.

 

Fonte: wallstreetitalia.com
http://www.ecplanet.com/node/3925

Un’arma misteriosa terrorizza gli ammiragli statunitensi

LUGLIO 15, 2013

 Da qualche parte là fuori, qualcuno ha costruito qualcosa per cui l’US Navy è andata assolutamente fuori di testa

Robert Beckhusen War is Boring, 12 luglio 2013

YJ62Gli Stati Uniti hanno la più grande e cattiva marina del mondo. Ma una nuova e pericolosa arma misteriosa spaventa gli ammiragli statunitensi. Ciò secondo la recente approvazione di una spesa  massima di 65 milioni di dollari in tre anni tra il Naval Research Laboratory e l’azienda della difesa ITT Exelis. I fondi, secondo un documento dell’US Navy, sono destinati a 24 sistemi di guerra elettronica da imbarcare sulle navi militari degli USA che navigano nei pressi delle acque cinesi. Il motivo? Ciò è “necessario per contrastare un pericolo immediato alle operazioni della flotta navale”, ha dichiarato l’US Navy. Il comando operazioni vuole che le nuove difese siano attive dal marzo 2014. L’allerta urgente, apparso per primo su Military & Aerospace Electronics, è un avvertimento insolitamente forte per la flotta più potente del pianeta. Ufficiali dell’US Navy hanno detto alla rivista del pericolo posto da una “minaccia scoperta di recente” che ha spinto il comandante dell‘US Pacific Fleet, Ammiraglio Cecil Haney, ad accelerare il programma. L’US Navy non parla di ciò che la minaccia, quale Paese l’abbia sviluppata o quando sia stata scoperta dagli statunitensi. Richieste di commenti all’US Navy non hanno avuto risposta. Ma è possibile fare supposizioni. Come osserva la rivista di settore, “i sistemi di guerra elettronici imbarcati in genere sono progettati per rilevare e ingannare i radar delle minacce nemiche. In particolare, l’elettronica dei radar delle navi lanciamissili“. Ed è ragionevolmente sicuro supporre se si tratti di un nuovo missile, cinese.

Come affondare una nave statunitense

Per essere chiari, nessuno al di fuori dell’US Navy sa di certo cosa abbia così sorpreso il comando operazioni. Fino a quando l’US Navy non rivela esattamente ciò che la minaccia, si potrà solo indovinare. Oltre alla Cina, gli altri giocatori in questo scenario sono, naturalmente, la Russia, l’Iran e la Corea democratica. “Numerose possibilità che esploda assai rapidamente, si potrebbe costruire partendo da una tecnologia di matrice russa, cinese, iraniana e nordcoreana, e poi guardare i progetti originali ottimizzandoli e migliorandoli, o avere dei progetti del tutto nuovi“, dice a War is Boring Carlo Kopp, analista del think tank Air Power Australia. “Uno o tutti questi potrebbero costringere a un rapido aggiornamento.” “Non ci sono state altre rivelazioni su nuovi missili russi o cinesi, ma se  per esempio sono aggiornati e migliorati con nuova tecnologia dei missili già esistenti, ciò potrebbe non apparire sui media per settimane, mesi o anni“, dice Kopp. “Un cambiamento di questo tipo potrebbe costringere a un rapido dispiegamento di un nuovi jammer“, continua. “Questo è accaduto spesso durante la guerra fredda, quando scoprimmo quei sistemi che i sovietici ci nascondevano. Così c’era una folle corsa per recuperare.“

La velocità del nuovo programma di guerra elettronica e il suo dichiarato pretesto, potrebbero essere letti come segnali di allarme che l’US Navy resta indietro rispetto alle marine sue rivali. La Cina, per esempio, ha investito molto in ogni tipo di ordigni progettati per affondare le navi da guerra statunitensi nell’oceano. L’US Navy è sempre più sulla difensiva, le proprie armi non sono in grado di impedire ad aerei, navi e sottomarini di Pechino di avvicinarsi abbastanza per sparare missili contro le navi statunitensi. Un missile cinese lanciato verso una nave statunitense potrebbe volare a pelo d’acqua con un profilo basso, puntando sul suo obiettivo usando sensori multi-modali, come gli infrarossi e il radar. Ciò significa che il missile è molto difficile da individuare e fermare. Usando un jammer, l’AN/SLQ-32 è il modello principale dell’US Navy, una nave da guerra potrebbe  disturbare elettronicamente un missile in volo abbastanza per interromperne la fase di guida terminale, quando il missile è a solo pochi secondi di distanza dal bersaglio. Ma qualcosa è andato terribilmente storto se un missile nemico arriva così vicino. E’ per questo che l’US Navy tradizionalmente pone maggiore accento sulla distruzione del vettore di lancio. E’ meglio, secondo logica, rilevare e distruggere aerei, sottomarini o navi di superficie nemici prima che abbiano mai la possibilità di lanciare un missile. Una grande nave rumorosa è più facile da rilevare, ed e molto più facile da distruggere, di un missile che si può vedere solo per pochi secondi, se non lo si vede del tutto. Ma se gli Stati Uniti non possono nemmeno fare questo?

Ecco che arrivano i missili cinesi

La causa: nella corsa missilistica in corso nel Pacifico, solo la Cina potrebbe essere vincente. La più muscolosa di queste nuove armi cinesi è il missile balistico antinave DF-21D, che ha una gittata di oltre 3000 km. Se in una qualche futura guerra uno di questi missili venisse lanciato contro una nave da guerra degli Stati Uniti, non potrebbe esserci alcuna difesa contro di esso. La Cina sviluppa anche una versione navalizzata del missile da crociera aria-superficie DH-10, che può percorrere quasi 2.500 chilometri e colpire bersagli terrestri quali le basi statunitensi di Guam e Okinawa. Gran parte dell’arsenale di missili da crociera antinave della Cina è obsoleto, pieno di vecchi missili da crociera importati come Styx, Silkworm e Saccade. Il più potente missile antinave di Pechino è di fabbricazione straniera, il russo SS-N-22 Sunburn, un terrificante distruttore da Mach-3. Pechino ha anche un nuovo missile a corto raggio di produzione locale chiamato C-701 o YJ-62, più o meno equivalente al pilastro missilistico degli Stati Uniti, l’Harpoon. C’è una versione per navi di superficie del YJ-62, con un raggio operativo di circa 400 km, maggiore rispetto a quello dell’Harpoon standard, che è di 120 km. A parità di condizioni, in un testa a testa, un cacciatorpediniere cinese potrebbe sparare il primo colpo contro una nave degli Stati Uniti. E in Cina è in corso anche una grande spinta per costruire missili antinave nuovi e migliori. Pechino avrebbe incrementato l’impiego di speciali navi per test dotate di nuovi sensori che potrebbero essere comunicazioni satellitari o sistemi di controllo del tiro, o qualcosa di completamente diverso.

Tutta questa attività sull’altro lato del Pacifico ha messo gli USA in allarme. “Non siamo troppo sorpresi se l’US Navy si affretta in nuovi rischieramenti, essendo [gli statunitensi] cronicamente arretrati negli aggiornamenti del parco dei sistema EW di tutte e tre le armi, a causa dei finanziamenti deviati nella guerra globale al terrorismo, o qualunque scusa si adotti in questi giorni“, dice Kopp. L’US Navy ha da tempo intuito che sta passando dall’approccio offensivo a quello difensivo. Nel 2011, l’US Navy e la Defense Advanced Research Projects Agency, l’agenzia di ricerca aerospaziale del Pentagono, hanno consegnato 218 milioni dollari alla Lockheed-Martin per sviluppare un nuovo missile antinave a lungo raggio, o LRASM. La gittata precisa è sconosciuta e il missile non entrerà in servizio per altri due anni, al più presto. Certo, questo potrebbe non essere sufficiente per affrontare qualsiasi altra cosa rappresenti una minaccia alle navi statunitensi.

 

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Le major petrolifere controllano gli eurocrati

ma tu guarda….questi eurocrati che, ascesi al trono di Bruxelles acquistano l’aureola della santità grazie al lavorio incessante di adorazione svolto dalla stampa mainstream che vuole tutto quanto sia sovrannazionale come sacro e lindo ad un livello che noi lerci italiani mai potremmo capire…Eh già, 15 MILA lobbisti delle multinazionali, finanziarie, assicurazioni, banche etc di stanza proprio a Bruxelles sono lì solo per goderli il clima..

La britannica e l’anglo-olandese, British Petroleum e Shell, fanno pressione sulla Commissione europea per ottenere favori 

Andrea Perrone

La British Petroleum e la Shell sono accusate di aver tentato di influire e ottenere favori in cambio di lauti compensi forniti ai tecnocrati di Bruxelles e ad alcune associazioni legate alle istituzioni europee. Condizione questa non troppo difficile da realizzare visti gli interessi in gioco e l’atteggiamento degli eurocrati sempre disposti a sostenere le decisioni dei poteri forti.
Un portavoce del gigante petrolifero ha però dichiarato che le attività della major britannica sono completamente trasparenti per cui la Bp non intende e non ha inteso in alcun modo fare pressioni su qualcuno, tanto meno su Bruxelles.
“Segnaliamo i nostri costi di influenza diretta e elenchiamo anche le nostre appartenenze ad associazioni come Europia, Concawe, Eurogas”, ha dichiarato il portavoce della Bp.
Ma da parte sua, da Bruxelles il gruppo ecologista e ambientalista Amici della Terra Europa (Friends of the Earth Europe), ha precisato che sia Bp che la major petrolifera anglo-olandese Shell forniscono informazioni fuorvianti al registro per la trasparenza dell’Unione europea.
Le due compagnie petrolifere hanno aumentato i loro bilanci per effettuare pressioni su Bruxelles dichiarati nel Registro di sistema dopo che gli Amici della Terra hanno presentato una denuncia al mediatore Ue ai danni della Commissione europea nel 2012. L’associazione ambientalista sottolinea che il bilancio della Shell nel registro è passato da 400.000 euro a 4.000.000 di euro nel febbraio 2012. I rappresentanti del gruppo ecologista della sede di Bruxelles hanno precisato che le multinazionali del petrolio hanno aumentato anche le loro spese di finanziamento dichiarate nel Registro di sistema, a partire dal novembre 2012.
La Bp da parte sua ha fatto notare che le associazioni di settore – come Europia, Concawe e Eurogas – sono state enumerate nel registro e riportati anche i contributi che ricevono periodicamente.
“Se riportassimo i nostri contributi inviati a loro, ci sarebbe un doppio conteggio dei costi sul registro, che darebbe una visione distorta di sforzi e finanziamenti al settore”, ha precisato il portavoce della Bp.
La major che ha sede nel Regno Unito ha dichiarato di avere cinque eurodeputati sul suo libro paga, ma in realtà ne ha otto accreditati all’Europarlamento. La Bp ha voluto sottolineare che questa discrepanza è dovuta all’incertezza delle segnalazioni ricevute sul tempo pieno e tempo parziale, precisando che i registri non sono sempre aggiornati.
Gli Amici della Terra Europa già nel 2010 avevano cercato di ottenere il permesso dalla Commissione europea di divulgare documenti che rivelavano la reale portata degli sforzi in termini economici compiuti dalla multinazionale per ottenere dei vantaggi da Bruxelles.
La Commissione europea da parte sua ha negato l’accesso pieno, affermando nel febbraio 2011 che alcune delle informazioni richieste dal gruppo erano “irrilevanti”. Tuttavia gli Amici della Terra  non si sono dati per vinti e per tutta risposta hanno presentato una denuncia ai danni dell’esecutivo comunitario al mediatore europeo Nikiforos Diamandouros.
Il mediatore dell’Unione europea si è messo subito in movimento e ha pubblicato le conclusioni della sua indagine sulla denuncia dell’associazione ambientalista.
Diamandouros ha chiesto alla Commissione di migliorare la precisione e il monitoraggio del registro per la trasparenza. “Ciò include inoltre assicurare una guida migliore per le aziende e le organizzazioni che registrano sé stesse, in modo da garantire che le informazioni fornite siano accurate”, ha sottolineato il mediatore in una dichiarazione. Infine ha aggiunto che la Commissione “aveva fatto tutto quanto in suo potere per indagare sulle denunce e che le sue conclusioni erano ragionevoli”, ma Diamandouros ha criticato l’esecutivo comunitario per non aver spiegato in primo luogo perché ha respinto le argomentazioni di imprese pronte a concedere informazioni sensibili su loro operato.
Il portavoce della Commissione Ue per gli Affari istituzionali, Antonio Gravili, ha sottolineato che la decisione si riferisce ad avvenimenti che hanno avuto luogo prima di registrare in modo trasparente quello che era stato chiesto dall’associazione ambientalista.
“Pochissimi Paesi al mondo, tra cui gli Stati membri dell’Ue, hanno dei solidi sistemi per evidenziare la trasparenza di coloro che cercano di influenzare il processo decisionale”, ha sottolineato il mediatore.
Gli Amici della Terra, da parte loro, hanno sottolineato che la sentenza dimostra che un registro Ue fondato sulla trasparenza volontaria non è credibile.
Anche l’altra major coinvolta nel tentativo di controllar Bruxelles e i suoi Soloni, ovvero la Shell è stata contattata riguardo a questa vicenda sulle pressioni agli eurocrati, ma non ha ancora risposto. Il timore è quello di dover rivelare i nomi di chi usufruisce di lauti compensi da parte delle multinazionali del petrolio per sostenere i loro interessi e dall’altra il rischio di perdere il sostegno di alcuni personaggi influenti delle varie lobby economico-finanziarie in seno alla Commissione europea e all’Europarlamento, al servizio come è noto dei grandi potentati economici e non dei popoli europei, che non possono nominare i tecnocrati di Bruxelles.

16 Luglio 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=22010

Siria, lo scontro interno ai ribelli

MARTEDÌ 16 LUGLIO 2013 

di Mario Lombardo

 L’avanzata dell’esercito fedele al regime siriano di Bashar al-Assad in numerose località del paese mediorientale sta contribuendo ad aggravare le divisioni all’interno di un’opposizione armata alla quale l’Occidente sta cercando disperatamente di dare il proprio sostegno materiale per ribaltare le sorti del conflitto senza rafforzare le frange più estremiste.

 Lo scivolamento verso uno scontro aperto tra le varie fazioni che compongono l’opposizione al regime è apparso evidente la scorsa settimana con l’assassinio nella provincia occidentale di Latakia di un comandante del cosiddetto Libero Esercito della Siria. L’uccisione di Kamal Hamami è stata opera di una milizia integralista legata ad Al-Qaeda, denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria (ISIS), in seguito ad una disputa con uno dei leader locali di quest’ultima.

 Tra le varie motivazioni per l’accaduto riportare dai media, ci sarebbe una dichiarazione emessa dal Libero Esercito della Siria nella quale veniva affermato il rispetto delle minoranze alauita e cristiana nel paese. Alla base dello scontro tra bande rivali potrebbe però anche esserci il controllo dei posti di frontiera nel nord della Siria, da cui transitano armi e beni di prima necessità per la popolazione e che spesso i “ribelli” sfruttano per imporre pesanti tributi sul loro passaggio.

 Solo poche ore dopo l’assassinio del comandante Hamami, scontri a fuoco tra gruppi armati anti-Assad sono esplosi anche ad Aleppo, in particolare nella località di Bustan al-Qasr, nuovamente a causa di dispute legate al controllo dei vari quartieri della città. L’impopolarità delle milizie è stata poi confermata da una sorta di rivolta andata in scena qualche giorno fa e che ha avuto come protagonisti alcuni abitanti della parte orientale di Aleppo. Questi ultimi hanno infatti contestato duramente le formazioni “ribelli” che impedivano il transito di cibo e medicinali destinati ai loro familiari che vivono nelle aree sotto il controllo del governo.

 Questi ed altri scontri interni all’opposizione – come il bombardamento di un deposito di armi del Libero Esercito da parte dei jihadisti a Idlib nella giornata di sabato – indicano una più che probabile resa dei conti nel prossimo futuro tra le fazioni secolari più vicine all’Occidente e quelle di orientamento fondamentalista. Il quotidiano britannico Daily Telegraph, ad esempio, ha scritto che in seguito alla morte del comandante Hamami, il Libero Esercito della Siria starebbe preparando una ritorsione contro l’ISIS nella provincia di Latakia.

 La crescente aggressività dei gruppi integralisti è stata in ogni caso sfruttata dai vertici dell’opposizione “moderata” per lanciare nuove suppliche all’Occidente e, in particolare, agli Stati Uniti per accelerare il promesso invio di armi pesanti, così da emarginare le formazioni fondamentaliste e provare a contrastare l’offensiva in corso in quasi tutto il paese da parte del regime.

 Dopo avere ripreso il controllo della città di Qusayr al confine con il Libano nel mese di giugno, le forze di Assad sarebbero infatti ora sul punto di liberare Homs dalla presenza dei “ribelli”, mentre in questi giorni gli scontri si sono intensificati anche in alcuni quartieri di Damasco controllati dall’opposizione, tra cui quello di Qaboun. Sempre a Damasco, poi, un’autobomba fatta esplodere nei pressi di una stazione di polizia ha ucciso almeno 13 persone nella giornata di lunedì, allungando l’elenco delle vittime causate da attentati terroristici ad opera dei gruppi jihadisti.

 Le difficoltà che stanno attraversando le fazioni “ribelli” sono apparse in ogni caso evidenti anche dalla persistente incapacità a formare quello che dovrebbe fungere da governo provvisorio a Damasco dopo l’eventuale caduta di Assad. Ciò viene da tempo richiesto dai loro sponsor in Occidente e in Medio Oriente, così da dare una parvenza di efficienza e unità ad un’opposizione che rimane al contrario profondamente divisa tra le varie correnti che la compongono.

 Le divisioni sono peraltro la conseguenza non solo della loro sostanziale impopolarità tra la popolazione ma anche del conflitto tra i paesi che le sostengono e che operano per esercitare la maggiore influenza possibile in Siria.

 A questo proposito, la recente elezione a capo della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione di Ahmed al-Jarba è stata universalmente considerata come una vittoria per l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti ai danni del Qatar, rafforzata oltretutto dalle successive dimissioni di colui che avrebbe dovuto fungere da primo ministro, Ghassan Hitto, personaggio al contrario vicino allo stesso emirato e ai Fratelli Musulmani.

 Il rovescio patito dal Qatar nella competizione in corso per il dopo-Assad e l’installazione al vertice della Coalizione di un uomo di Riyadh sono legati con ogni probabilità anche al rovesciamento da parte dei militari del presidente islamista Mohamed Mursi in Egitto, anch’egli appoggiato da Doha, e suggeriscono forse un ripensamento generale della strategia dei governi occidentali, sempre più preoccupati per le conseguenze della loro politica irresponsabile che in due anni e mezzo ha fatto confluire in Siria decine di migliaia di guerriglieri integralisti che potrebbero addirittura finire per controllare un intero paese nel cuore del Medio Oriente.

 Un qualche ripensamento sulla fornitura di armi ai “ribelli” è stato espresso così dal primo ministro britannico, David Cameron, il quale lunedì si sarebbe finalmente reso conto dei vari effetti collaterali che comporterebbe una scelta simile. In primo luogo, hanno riportato i giornali del Regno Unito, Cameron ha riconosciuto il rischio concreto – per non dire la certezza – che le armi finirebbero nella mani delle formazioni jihadiste attive in Siria. Inoltre, senza probabilmente incidere sulle sorti del conflitto, la decisione coinvolgerebbe Londra in una vera e propria guerra, facendo aumentare sensibilmente il rischio per la sicurezza del paese.

 Sulla frenata di Cameron potrebbe avere influito non solo la resistenza della Camera dei Comuni di Londra ad approvare una misura che consenta al governo di inviare armi all’opposizione anti-Assad ma forse anche una notizia diffusa qualche giorno fa dalla Reuters che ha rivelato la presenza in Siria di centinaia di talebani pakistani (Tehrik-i-Taliban), impegnati a combattere a fianco dei “ribelli” sostenuti dall’Occidente.

 Anche negli Stati Uniti sembra regnare l’incertezza, visto che l’annuncio del mese scorso del presidente Obama di inviare armi ai “ribelli” è rimasto per ora senza seguito a causa delle perplessità di molti membri del Congresso a Washington, i quali continuano ad impedire lo sblocco delle forniture destinate all’opposizione siriana.

 Un articolo del Wall Street Journal di domenica scorsa ha anche rivelato come un gruppo di consulenti legali dell’amministrazione Obama abbia messo in guardia il presidente dalla possibile violazione del diritto internazionale se si dovesse dare il via libera alla spedizione di armi all’opposizione siriana. Una tale eventualità, commenta il quotidiano newyorchese, potrebbe addirittura legittimare una reazione di Assad nei confronti degli Stati Uniti.

 Il via libera alle armi, infatti, dovrebbe avvenire senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – dove Cina e Russia continueranno a porre il veto ad ogni risoluzione che apra la strada ad un intervento esterno in Siria – e metterebbe gli USA in una posizione legalmente ingiustificabile, vale a dire di sostenitori materiali di una parte coinvolta in una guerra civile in un paese estero.

 Un tale scenario finirebbe per produrre una situazione paradossale rispetto ai principi che ufficialmente ispirano le azioni di Washington, mettendo cioè gli Stati Uniti fuori legge e legittimando invece un’eventuale ritorsione armata di Assad contro obiettivi americani.

 Che una mossa di questo genere possa risultare contraria al diritto internazionale non comporta comunque l’abbandono di essa da parte americana. A Washington, anzi, sono in corso da tempo manovre pseudo-legali per fare apparire legittima non solo la decisione di fornire armi all’opposizione in Siria ma anche quella di imporre una fly-zone sul paese mediorientale o di sferrare attacchi aerei e bombardamenti mirati contro le difese del regime di Assad.

 La volontà degli USA di rispettare le norme del diritto internazionale è d’altra parte risaputa, così come lo è quella di Israele, le cui forze sottomarine lo scorso 5 luglio hanno per l’ennesima volta agito al di fuori di ogni giustificazione legale lanciando un nuovo attacco contro un obiettivo in territorio siriano, ormai il quarto dall’inizio dell’anno.

 A rivelarlo sono state fonti governative americane e britanniche, le quali hanno confermato come Tel Aviv – in assenza di qualsiasi provocazione dalla Siria – abbia colpito un deposito di missili anti-nave di fabbricazione russa in dotazione del regime di Damasco e conservato nella città costiera di Latakia.