IL NOCCIOLO DELL’IMMIGRAZIONE

E’ quello che sostenevo ieri e che riporto: Tutti questi paladini della ” povera gente” mai che abbiano pronunciato una parola contro i veri responsabili dell’immigrazione, specialmente africana. Le multinazionali, con la complicità dei governi locali e non, depredano, distruggono,inquinano, operano in maniera tale che gli abitanti siano sempre più poveri e che, alla fine, siano costretti ad emigrare.
Oro, diamanti, rame, coltan, petrolio, e tanto altro ancora se non venisse rubato basterebbe ed avanzarebbe per una vita più che dignitosa di tutte le popolazioni africane.

Contro le sanguisughe dell’Africa, mai una parola ! La strategia è chiara: far sentire in colpa i popoli europei per questo massacro perpetrato dalla finanza e dai mercanti, e , dall’altro lato, illudere quella povera gente che qui da noi ci sarebbe il paradiso terrestre e che siamo noi che non vogliamo dividerlo.

Solita strategia: distogli l’attenzione dalle cause vere.

Chi predica l’accoglienza è il vero razzista: vuole l’immigrato sfruttato nei campi e nelle fabbriche, ha bisogno di manodopera a basso costo e non sindacalizzata, magari da pagare in nero e reclutare da qualche caporale.

Ma queste cose probabilmente il Papa non le sapeva: adesso le sa. Vedremo cosa dirà.

Claudio Marconi

E’ mai possibile non appaia evidente come sia inutile, pretestuoso e perfino dannoso dibattere sull’immigrazione restando nei due termini contrapposti, cioè: proteggiamo il nostro paese dall’invasione barbarica con qualunque mezzo, o  apriamo le porte ai poveri lavoratori del terzo mondo….
Possibile, ma dico, possibile che a nessuno venga in mente di dibattere sul vero nocciolo della questione: questi disperati si gettano nel Mediterraneo e hanno prima di tutto un diritto negato: quello di non abbandonare le loro famiglie!
Quello di non abbandonare i loro paesi lasciandoli in balia delle multinazionali con vecchi, donne e bambini unici testimoni dello scippo sistematico delle loro risorse? Quello di non vedersi arrivare l’ipocrita carità delle adozioni internazionali, quando con una sola bistecca alla settimana qui, in meno, il bambino è già salvo.
 
Aiutiamoli a coltivare cibo che resti a loro disposizione e non che parta per nutrire i nostri maiali e manzi…o le povere mucche da latte. Aiutiamoli a studiare, a costruire strade e pozzi, a depurare la loro acqua e a far in modo che la vita là, sia sicura e piacevole per tutti…..
Ognuno di noi ha il diritto e dovere di poter vivere dignitosamente e di contribuire a rendere bello il suo paese. Migrare non è un diritto, è una pena. E’ andare a servire il paese di un altro….
Ma scommetto che di economia politica, ecologia della nutrizione, interessi mafiosi delle multinazionali dell’industria alimentare e impronta idrica nessuno ne parla, nè a destra nè a sinistra.
Mi fanno orrore certi ignoranti retrogradi e mi fanno schifo certi arroganti progressisti, due volte, perchè pensano di essere dalla parte del debole e sono dei miseri complici del sistema.
Scritto da: Daniela Billiani – Tratto da:

http://freeanimals-freeanimals.blogspot.it

http://www.frontediliberazionedaibanchieri.it/article-il-nocciolo-dell-immigrazione-119001051.html

Questa classe politica non è in grado di risolvere alcun problema.

http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=sWXu6jB3RKc#at=696

E’ essa stessa il problema. Il Governo delle Larghe Intese, voluto fortemente da lei, tutela soltanto lo status quo e gli interessi di Berlusconi, che in qualunque altra democrazia occidentale non sarebbe ammesso ad alcuna carica pubblica, e tanto meno in Parlamento.
La Nazione è una pentola a pressione che sta per saltare, mentre, ormai da mesi, il Governo Letta si balocca con il rinvio dell’IMU e la cancellazione di un punto dell’IVA senza trovare una soluzione. I numeri dello sfacelo sono sotto gli occhi di chiunque voglia vederli, e sono drammatici. Il tasso di disoccupazione più alto dal 1977, il crollo continuo della produzione industriale, che si attesterà a meno tre per cento nel 2013, la continua crescita del debito pubblico che è arrivato a 2.040 miliardi di euro, il fallimento delle imprese che chiudono con il ritmo di una al minuto, una delle tassazioni più alte d’Europa, sia sulle imprese che sulle persone fisiche, gli stipendi tra i più bassi della UE, il crollo dei consumi, persino degli alimentari, l’indebitamento delle famiglie.

E’ una Caporetto e sul Piave non c’è nessuno, sono tutti nei Palazzi a rimandare le decisioni e a fare annunci. Il Parlamento è espropriato dalle sue funzioni, la legge elettorale detta Porcellum è incostituzionale e i parlamentari sono stati nominati a tavolino da pochi segretari di partito. Il Governo fa i decreti legge senza che sia dato il tempo minimo per esaminarli e il Parlamento approva a comando. Non siamo più da tempo una repubblica parlamentare, forse neppure una democrazia.
Il debito pubblico ci sta divorando, paghiamo di interessi circa 100 miliardi di euro all’anno, che crescono ogni giorno. Solo quest’anno per non fallire dovremo vendere 400 miliardi di euro di titoli. Le entrate dello Stato sono di circa 800 miliardi all’anno, un euro su otto serve a pagare gli interessi sul debito. Né Berlusconi, né Monti, né Letta hanno bloccato la spirale del debito pubblico, che cresce al ritmo di 110 miliardi all’anno. Gli interessi sul debito e la diminuzione delle entrate fiscali, dovute al fallimento di massa delle imprese, alla disoccupazione e al crollo dei consumi, rappresentano la certezza del prossimo default.
Non c’è scelta. Il debito pubblico va ristrutturato. Gli interessi annui divorano la spesa sociale, gli investimenti, la ricerca. E’ come nella Storia Infinita, dove il Nulla divorava la Realtà: l’interesse sul debito sta divorando lo Stato Sociale. Si può rimanere nell’euro, ma solo rinegoziando le condizioni. O attraverso l’emissione di eurobond che ritengo indispensabile o, in alternativa, con la ristrutturazione del nostro debito, una misura che colpirebbe soprattutto Germania e Francia che detengono la maggior parte del 35% dei nostri titoli pubblici collocati all’estero. Non possiamo fallire in nome dell’euro. Questo non può chiederlo, né imporcelo nessuno. A fine 2011 i titoli di Stato italiani presenti in banche o istituzioni estere erano il 50%, le nostre banche grazie al prestito della BCE dello scorso anno, prestito garantito dagli Stati e quindi anche da noi, si sono ricomprati circa 300 miliardi dall’estero, tra titoli in scadenza e rimessi sul mercato, questo invece di dare credito alle imprese. E siamo scesi al 35%. E’il miglior modo per fallire. Quando ci saremo ricomprati tutto il debito estero e non avremo più un tessuto industriale collasseremo e la UE rimarrà a guardare, come è successo in Grecia. Ora disponiamo di un potere contrattuale, ora dobbiamo usarlo.

L’Italia ha l’assoluta necessità di aiutare le imprese con misure come il taglio dell’Irap, una tassazione al livello della media europea, con servizi efficienti e meno costosi, con la protezione del Made in Italy assegnato solo a chi produce in Italia e con l’eventuale applicazione di dazi su alcuni prodotti. Allo stesso tempo è urgente l’introduzione del reddito di cittadinanza, nessuno deve rimanere indietro. Ci preoccupiamo dei problemi del mondo quando non riusciamo ad assistere gli anziani e non diamo possibilità di lavoro ai nostri ragazzi che devono emigrare a centinaia di migliaia.

Reddito di cittadinanza e rilancio delle PMI sono possibili da subito con il taglio ai mille privilegi e alle spese inutili. Ne elenco solo alcuni.

Eliminare le province, portare il tetto massimo delle pensioni a 5.000 euro, tagliare finanziamenti pubblici ai partiti e ai giornali, riportare la gestione delle concessioni pubbliche nelle mani dello Stato, a iniziare dalle autostrade, perché sia l’Erario a maturare profitti e non aziende private come Benetton o, dove questo non sia possibile, ridiscutere le condizioni, eliminare la burocrazia politica dalle partecipate dove prosperano migliaia di dirigenti, nazionalizzare il Monte dei Paschi di Siena, eliminare ogni grande opera inutile come la Tav in Val di Susa e l’Expo di Milano, ridurre drasticamente stipendi e benefit dei parlamentari e di ogni carica pubblica, cancellare la missione in Afghanistan, fermare l’acquisto degli F35. Potrei continuare a lungo. Queste misure non possono essere prese dall’attuale classe politica perché taglierebbe il ramo su cui si regge.
Questo Parlamento non è stato eletto dagli italiani, ma dai partiti e dalle lobby. Non può affrontare una situazione di emergenza nazionale, di economia di guerra, perché deve rispondere ai suoi padrini, non ai cittadini.

Le chiedo perciò di fare abrogare l’attuale legge elettorale in quanto incostituzionale, di sciogliere il Parlamento e di ritornare alle urne. L’autunno è alle porte insieme al probabile collasso economico. I problemi si trasformeranno da politici a sociali, probabilmente incontrollabili. Non c’è più tempo. Lei ha volutamente tenuto sulle sue spalle grandi responsabilità quando avrebbe potuto e forse dovuto declinarle. Lei è ormai diventato lo scudo, il parafulmine di partiti che non hanno saputo né governare, né riformarsi e da ritenersi, nel migliore dei casi, degli incapaci. Non è questo il suo compito, ma quello di rappresentare gli interessi del popolo italiano.”

Quarto giorno di sciopero in Findus contro i licenziamenti

Cisterna di Latina – 9 luglio 2013 –  Di nuovo nessun accordo sindacale fra i lavoratori e la proprietà della Findus, società di surgelati con sede in Italia a Cisterna di Latina. Non potrebbe essere altrimenti: il sistema liberal ha creato dei veri e propri mostri; la Findus è di proprietà di una private equity inglese, vale a dire una società specializzata in alchimie finanziarie ed hedge funds.

Cosa dovrebbe interessare ad una società che ha come unico scopo il profitto l’industrializzazione del tessuto produttivo italiano? Che poi in questa industrializzazione passino anche gli stipendi per la sopravvivenza di centinaia di famiglie è solo un dettaglio.

A volte ci si chiede, anche troppo, perché siamo in crisi: a Latina e provincia la risposta è subito evidente. L’industria non è più italiana da anni, e questo non è un problema patriottico, bensì mancando l’interesse nazionale, la sovranità e pure la presenza dello Stato, l’unico scopo della produzione è il profitto. Questo crea piccoli problemi: se pure il lavoro crea profitto a Cisterna (per esempio), ma si scopre che sarebbe ancora maggiore negli Stati Uniti (altro esempio), chiaramente non essendoci nessuna etica e strategia l’industria scappa. Lasciando famiglie intere alla fame, e un Paese intero in condizioni pietose.

Sarebbe l’ora di lasciar perdere i cantori del liberismo, gli amici della libera impresa, che evidentemente ci hanno condotto al disastro, soprattutto per le nuove generazioni. L’unica salvezza è un ritorno dello Stato, non più guidato da lobbies e interessi particolari, ma uno Stato socialista che padrone della propria industria, crea ricchezza e progresso.

http://coriintempesta.altervista.org/blog/quarto-giorno-di-sciopero-in-findus-contro-i-licenziamenti/

Produzione industriale, siamo al 21° calo consecutivo

di MARIETTO CERNEAZ

Mentre Squinzi organizza le cenette private insieme a presidenti di Camera, Senato e Commissioni varie (bene ha fatto il rappresentante del M5S a non presentarsi) l’indice destagionalizzato della produzione industriale a maggio è aumentato dello 0,1% rispetto ad aprile. Corretto per gli effetti di calendario, l’indice è diminuito in termini tendenziali del 4,2% (i giorni lavorativi sono stati 22 come a maggio 2012). Insomma, la produzione industriale è ancora in calo.

Lo rileva l’Istat aggiungendo che nella media dei primi cinque mesi dell’anno la produzione è scesa del 4,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nella media del trimestre marzo-maggio l’indice ha registrato una flessione dell’1,3% rispetto al trimestre precedente. Gli indici corretti per gli effetti di calendario registrano, a maggio, diminuzioni tendenziali in tutti i comparti. Calano in modo significativo l’energia (-5,7%) e, in misura minore, i beni intermedi (-4,8%) e i beni strumentali (-4,1%). Registrano una flessione piu’ contenuta i beni di consumo (-3,0%).

Nel confronto tendenziale, a maggio 2013 i settori in crescita sono quelli della fabbricazione di computer, prodotti di elettronica ed ottica, apparecchi elettromedicali, apparecchi di misurazione e orologi (+3,3%), della produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+2,3%) e delle industrie alimentari, bevande e tabacco (+2,0%).  Il settore che, in termini tendenziali, registra in maggio la più ampia variazione negativa è quello della fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-15,3%).
http://www.lindipendenza.com/produzione-industriale-calo-recessione/?utm_source=rss&utm_medium=rss&utm_campaign=produzione-industriale-calo-recessione&utm_medium=referral&utm_source=pulsenews

Loro Piana diventa francese

Lvmh compra l’80 per cento dell’azienda
Dopo Cova un altro marchio italiano va all’estero

Hanno smentito fino all’ultimo minuto, «i soliti rumors», diceva Pierluigi Loro Piana a chi gli domandava qualcosa. Poi però si sono dovuti arrendere: Loro Piana, uno dei più prestigiosi marchi italiani nella lavorazione del cashmere e delle lane pregiate, è diventato di proprietà francese. Lvmh, il colosso del lusso che fa capo a Bernard Arnault, ha acquistato l’80 per cento del capitale per 2 miliardi di euro. Il via libera poco fa. «Condividiamo in effetti gli stessi valori, sia familiari che aziendali, la ricerca permanente della qualità e sono convinto che il nostro gruppo possa apportare un forte contributo al futuro della Loro Piana che possiede grandi potenzialità», ha dichiarato Bernard Arnault. Soddisfatti anche in casa Loro Piana: «Il gruppo diretto da Bernard Arnault è, in effetti, quello maggiormente in grado di rispettare i valori della nostra azienda, la sua tradizione ed il desiderio di proporre ai suoi clienti dei prodotti di qualità ineccepibile – commentano Sergio e Pier Luigi Loro Piana – il nostro marchio ne trarrà beneficio da sinergie eccezionali, sempre preservandone le tradizioni».
Loro Piana diventa francese: altro colpo all’industria italiana

VERSO LA FRANCIA – E’ l’ennesimo marchio italiano che passa in mani francesi. Lmvh in Italia possiede già Bulgari, Fendi, Pucci. Anche l’altro colosso francese, Kering-Ppr della famiglia Pinault, ha fatto molti acquisti in Italia: Gucci, Brioni, Pomellato. Nell’ultimo anno la stagione degli acquisti è ripresa in modo deciso. E’ di soli pochi giorni fa l’acquisto delle Pasticcerie Cova da parte dello stesso Lvmh, un dossier sul quale era anche Prada che, anzi, ha avviato un’azione legale contro la famiglia Faccioli proprietaria di Cova.
8 luglio 2013 (modifica il 9 luglio 2013)
http://www.corriere.it/economia/13_luglio_08/loro-piana-francese_154cf4ba-e7eb-11e2-898b-b371f26b330f.shtml

United Stasi of America

La notte di domenica 7 Luglio, l’artista tedesco Oliver Bienkowski ha proiettato sulla facciata meridionale dell’Ambasciata USA a Berlino lo slogan di cui sopra, che è stato visibile per alcuni istanti prima che la polizia lo bloccasse.
La Stasi, che a confronto sembra un gruppo di boy scouts, se lo sognava di essere capace di fare quello che gli Americani stanno facendo grazie alle moderne tecnologie a loro disposizione, ha dichiarato Bienkowski.
video al link
http://byebyeunclesam.wordpress.com/2013/07/10/united-stasi-of-america/?utm_medium=referral&utm_source=pulsenews

MENTRE IN ITALIA ….il re ed i suoi VASSALLI
http://byebyeunclesam.wordpress.com/2013/07/09/il-re-e-i-suoi-vassalli/#comment-6007

Bonino agli imprenditori: vi ho aperto una strada per l’Oman

Senza parole. Solo pochi giorni fa ha esternato che l’EU entro il 2050 avrà bisogno di 50 milioni di immigrati (sue parole) Se quelle poche aziende che rimarrano (vedi fallimenti e cessazioni e insolvenze ) che ci sono in Italia le cacciamo, che lavoro faremo noi e chi ne cerca uno tra coloro che vengono da fuori? Ma che cosa hanno in mente?

Pubblicato da ImolaOggiESTERI, NEWSlug 10, 2013

10 LUG – Una via maestra aperta dalla politica e che ora sta all’imprenditoria allargare e consolidare in un Paese, l’Oman, che ”ha una storia di cultura e rispetto del paesaggio che lo rende diverso da tutto il resto del Golfo”. Il ministro degli Esteri Emma Bonino e’ soddisfatta della visita a Muscat, la cui ”importanza” sta ”non solo nel consolidare rapporti gia’ costituiti, ma nell’aprire spazi di collaborazione nuovi in settori che a loro interessano e sui quali noi abbiamo una grande capacita”’. E in aereo, a conclusione del viaggio, Bonino – che e’ stata ”tante volte in Oman, anche da turista” – dice agli imprenditori: ”Ora tocca a voi”.
Che siano ferrovie o porti, restauro o musica, gli omaniti vedono non solo nei grandi gruppi ma anche ”nella piccola e media impresa italiana un punto di riferimento importante”, spiega la titolare della Farnesina, attenta a sottolineare quanto la particolarita’ di questo Paese stia anche nell’esistenza di ”un’alta borghesia acculturata” della quale e’ espressione un sultano ”visionario’ come Qaboos, invitato da Giorgio Napolitano a Roma. E che, oltre ad amare la musica e a costruire per questo la sontuosa Royal Opera House che vorrebbe aprire una cooperazione permanente con le istituzioni musicali italiane, punta a creare una ”classe media” sostenuta proprio dallo sviluppo delle piccole e medie imprese. Secondo Massimo Rustico, coordinatore per l’estero dell’Ance (Associazione nazionale costruttori edili), ”i nostri amici omaniti hanno un enorme bisogno di know how perche’ il tessuto industriale di questo Paese e’ fatto di piccole e medie imprese al di la’ di quei tre o quattro grandi gruppi” e per questo ”organizzeremo una missione con l’aiuto della Farnesina”.
Sulla stessa lunghezza d’onda la vicepresidente di ConfindustriaAssafrica e Mediterraneo, Maria Donata Gentile: ”Si e’ aperta una straordinaria opportunita’ di cui l’Italia ha bisogno e l’obiettivo e’ quello di supportare le piccole e medie imprese perche’ operino in sinergia con le omologhe locali”.
Di spazio, e tanto, ce n’e’ anche per i grandi gruppi, arrivati a Muscat con Emma Bonino. L’Oman sta realizzando un complesso piano infrastrutturale che mira a collegare in maniera integrata il Paese attraverso una rete di porti, aeroporti, strade, ferrovie. ”Se siamo bravi a metterci insieme coscienziosamente e fare una proposta concreta del sistema Paese – osserva Giuseppe Cafiero, vicepresidente di Astaldi – probabilmente si e’ aperta una porta per un grande sviluppo dei mercati italiani in Oman”. E Renato Casale, ad di Italferr che e’ in dirittura d’arrivo per una gara sullo sviluppo della rete ferroviaria, ricorda che nel corso della visita di Bonino e’ giunta la conferma che il settore, per Muscat, ”e’ una priorita”’. ”E’ senz’altro nostro interesse dare seguito rapidamente a quest’alleanza proficua tra il potenziale omanita e la nostra leadership tecnologica nel settore petrolifero”, aggiunge Valerio Maussier, direttore delle relazioni istituzionali di Tenaris. ”Vedere un Paese che fa dei programmi di crescita e’ un po’ di aria nuova, e non ci siamo piu’ abituati” sintetizza Duccio Astaldi, presidente di Condotte. (ANSAmed).
http://www.imolaoggi.it/?p=55671

Con aumento Iva famiglie meno abbienti più penalizzate

I disoccupati? A carico delle famiglie. Noi i soldi per il reddito di cittadinanza non ce lo abbiamo.

In termini assoluti saranno i percettori di redditi elevati a subire l’aggravio di imposta più pesante. Infatti, ad una maggiore disponibilità economica si accompagna una più elevata capacità di spesa.
 
La situazione si trasforma completamente se si confronta, come ha fatto l’Ufficio studi della CGIA, l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva sullo stipendio netto annuo di un capo famiglia. Ebbene, l’eventuale aumento dell’imposta peserà maggiormente sulle retribuzioni più basse e meno su quelle più elevate. A parità di reddito, inoltre, i nuclei famigliari più numerosi subiranno gli aggravi maggiori.
 
“Bisogna assolutamente trovare la copertura per evitare questo aumento – esordisce Giuseppe Bortolussi segretario della CGIA di Mestre – non si possono penalizzare le famiglie ed in particolar modo quelle più in difficoltà. Nel 2012 la propensione al risparmio è scesa ai minimi storici. Se dal primo ottobre l’aliquota ordinaria del 21% salirà di un punto, subiremo un ulteriore contrazione dei consumi che peggiorerà ulteriormente il quadro economico generale. E’ vero che l’incremento dell’Iva costa 4,2 miliardi di euro all’anno, ma questi soldi vanno assolutamente trovati per non fiaccare la disponibilità economica delle famiglie e per non penalizzare ulteriormente la domanda interna”.
 
Le simulazioni realizzate dalla CGIA riguardano tre tipologie famigliari (single, lavoratore dipendente con moglie e un figlio a carico, lavoratore dipendente con moglie e 2 figli a carico). Per ciascun nucleo sono stati presi in esame 7 fasce retributive: in relazione alla spesa media risultante dall’indagine Istat sui consumi delle famiglie italiane, su ognuna è stato misurato l’aggravio di imposta in termini assoluti e l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva su ogni livello retributivo.
 
In queste simulazioni si sono tenute in considerazione le detrazioni e gli assegni familiari per i figli a carico, le aliquote Irpef e le addizionali regionali e comunali medie nazionali. A seguito dell’aumento dell’aliquota Iva al 22%, si è ipotizzata una propensione al risparmio nulla per la prima fascia di reddito, pari al 2,05% per il reddito annuo da 20.000 euro, del 4,1% per quella da 25.000 euro e dell’ 8,2% per le rimanenti fasce di reddito. Quest’ultima percentuale corrisponde al dato medio nazionale calcolato dall’Istat nell’ultima rilevazione su base nazionale.
 
In buona sostanza si è ipotizzato che a fronte dell’aumento dei prezzi di beni e servizi a ridurre le spese saranno principalmente le fasce di reddito medio-alte. Infine, l’analisi della CGIA non ha considerato eventuali spinte inflazionistiche che una scelta di questo tipo potrebbe produrre.
 
1) Single
 
I 7 casi riguardano un lavoratore dipendente. L’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva sullo stipendio netto annuo si farà sentire maggiormente per le fasce meno abbienti. Infatti è dello 0,29% su un reddito annuo di 15.000 euro, si abbassa allo 0,27% su un reddito annuo di 55.000 euro. In termini assoluti l’aumento di imposta cresce man mano che aumenta il livello retributivo. L’aggravio oscilla tra i 37 e i 99 euro.
 
2) Lavoratore dipendente con moglie ed 1 figlio a carico
 
Nei 7 casi presi in esame l’incidenza percentuale dell’aumento è inversamente proporzionale al livello di reddito. E’ dello 0,33% per un reddito annuo di 15.000 euro, scende allo 0,30% per un reddito di 55.000 euro. In termini assoluti l’aggravio d’imposta, man mano che cresce il reddito, sale da 51 a 113 euro.
 
3) Lavoratore dipendente con moglie e 2 figlio a carico
 
Anche in questa tipologia famigliare l’incidenza percentuale dell’aumento dell’Iva è inversamente proporzionale al livello di reddito. Si attesta allo 0,34% su un reddito annuo di 15.000 euro, diminuisce fino a toccare lo 0,31% su un reddito di 55.000 euro. Man mano che cresce il reddito, in valore assoluto la maggiore Iva annua passa da 61 a 120 euro.
 
Da queste simulazioni emerge un altro risultato molto intuitivo: a parità di reddito, più aumenta il numero dei componenti di una famiglia, più si fa sentire il peso dell’aumento dell’Iva.
 
 Mestre, 2 luglio 2013

Inganno F-35 – Tutti gli inganni USA, dall’Efficienza, agli sperperi, al Controllo a Distanza

Martedì, Luglio 9th/ 2013
– L’Approfondimento di  C. Alessandro Mauceri –
Inganno F35 – Aerei Controllati dal Grande Fratello USA e usati per conto dei Padroni
F-35 – Uno sperpero senza fine appoggiato da tutti i partiti nell’ultimo ventennio
La clamorosa lievitazione dei Costi e la Conferma Malfunzionamenti, Uso imperialistico e da attacco e Controllo a distanza degli USA.
Italiani: dov’è finita la nostra dignita’? Sveglia!

Il Dilemma F35                                                                                                 

Roma – Qualche tempo fa, quando a gestire il governo era Mario Monti, nacque una polemica sull’acquisto da parte del Belpaese di 121 aerei da caccia, gli F35, dalla Lockeed. Subito sorsero discussioni sul fatto che in un momento di grave crisi, come quello che ancora oggi stiamo attraversando, spendere miliardi e miliardi di euro forse non  era necessario. Altri dissero che forse sarebbe stato meglio acquistare prodotti europei come l’Eurofighter, invece che aerei prodotti in America. In realtà i motivi del dissenso furono molti. Anche sulla scelta degli F35, caccia d’attacco, erano sorti molti dubbi. E poi perché l’Italia avrebbe dovuto comprare aerei prodotti negli Stati Uniti d’America da un’azienda diretta concorrente di una delle maggiori aziende produttrici di aerei militari, l’italiana Aermacchi? Tanto più che Aermacchi è parte del gruppo Finmeccanica, azienda a compartecipazione statale e che l’acquisto di quegli aerei avrebbe potuto avere effetti positivi, sia diretti che indiretti, su tutto il territorio.

USA – Il progetto F35 e l’Amministrazione Clinton                                     

In realtà l’origine di tutta questa vicenda sono da far risalire a un ventennio fa. Sì perché la storia degli F35 (come racconta Investireoggi) risalirebbe addirittura alla fine degli anni ’80 e agli inizi degli anni ’90. Fu in quel periodo, infatti, che, con l’URSS che non costituiva più una minaccia per gli USA, l’allora Presidente degli Stati Uniti, Bill Clinton decise che era ora, dopo decenni di spese folli dovute alla guerra fredda, di cominciare a risparmiare sugli armamenti. Quindi fece unificare i progetti per la produzione del nuovo aereo da combattimento nel programma JAST (Joint Advance Strike Tecnology). Nel 1996 il programma JAST cambiò nome in JSF, Joint Strike Fighter, e fu aperta la gara per passare alla produzione. Due furono i finalisti della competizione: la Boeing, con il modello chiamato X-32, e la Lockheed, che proponeva l’ X-35. Alla fine fu scelto il progetto della Lockheed, che prese il nome definitivo di F-35.

Cosa c’entra l’Italia? Chiedetelo a Prodi, D’Alema, Berlusconi… e…      

E l’Italia?  Cosa c’entra l’Italia con tutto questo? C’entra, eccome. Infatti, “partner di secondo livello” del progetto per la realizazione dell’F35 fu proprio l’Italia, con un impegno economico di 1 miliardo di dollari (oggi pare che le spese sostenute dal nostro Paese siano quadruplicate). Fu Romano Prodi, allora Presidente del Consiglio, a promuovere la partecipazione al progetto di realizzazione dell’F-35. Nel 1996, quando Ministro della Difesa era Giulio Andreatta, il progetto fu approvato sia con i voti sia del centro destra che con quelli del centro sinistra. Sì perché una delle caratteristiche che hanno caratterizzato questo progetto per tutto il ventennio scorso è stata la partecipazione positiva e indiscussa di maggioranza e opposizione. Poco tempo dopo, infatti, l’impegno del nostro Paese fu riconfermato da D’Alema, nuovo capo del governo, grazie  all’approvazione all’appoggio in Commissione Difesa di Forza Italia, dell’Ulivo e della Lega Nord. Anche il suo successore, Berlusconi, nel 2002, quando alla Difesa c’era Antonio Martino, appoggiò la partecipazione al progetto. E così ancora nel 2007, durante il secondo governo Prodi, che approvò il progetto che avrebbe impegnato l’Italia economicamente fino al 2046. E così via per tutti i governi (è bene sottolineare Tutti) sino ad arrivare al governo attuale.

La miracolosa lievitazione dei Costi… e la rinuncia dei paesi Ue              

Al di là di sviste a dir poco pacchiane scritte in alcuni rapporti, ma utili per dimostrare ai meno informati la necessità dell’acquisto da parte del nostro Paese, sin dall’inizio emersero alcuni problemi nella costruzione dei nuovi aerei. Problemi di cui chi ha lavorato alla progettazione, come l’Italia, avrebbero dovuto accorgersi immediatamente. Ma non fu così. Quindi, ritardo dopo ritardo (quasi che la partecipazione del nostro Paese al progetto avesse portato con se anche l’abitudine ormai consolidata di ritardare l’esecuzione di lavori pubblici e farne lievitare i costi), alla fine ogni singolo aereo arrivò a costare quasi il doppio di quanto si era previsto. Così che il progetto cofinanziato con 1 miliardo dei soldi dei contribuenti italiani, crebbe dai 20 miliardi iniziali ai 40 miliardi effettivi. Aumenti che resero necessario, in America, il ricorso alla legge Nunn McCurdy, che impone una riapprovazione politica dei programmi militari nel caso in cui il costo superi del 25% quello previsto all’origine. E in Italia di stanziare nuove somme. Era ormai evidente che il progetto era diventato ormai un quasi fallimento. Tanto che, a gennaio di quest’anno, Robert Gates, segretario della difesa americano, ha detto che gli USA non escludono che “se entro due anni i problemi tecnici agli F35 non saranno risolti il governo abbandonerà il progetto”. Infatti molti dei committenti (tra cui Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Canada e Australia), vista la qualità del prodotto e i suoi costi, rinunciarono all’acquisto.

La Conferma della Colonia… malgrado tutto!                                                  

E il Belpaese? L’Italia che aveva investito tanti soldi dei contribuenti nazionali nel progetto non poteva (o meglio, non voleva) uscirne e quindi, nel 2007, decise di confermare l’acquisto di 120 aerei, pur sapendo che la spesa iniziale prevista, 7 miliardi, sarebbe cresciuta. Nel frattempo anche la RAND Corporation, società di analisi strategiche che collabora col Dipartimento della Difesa USA, aveva criticato aspramente l’F-35, affermando che “in un conflitto reale non sarebbe stato in grado di competere con uno dei diretti concorrenti, il cacciabombardiere russo Su-35”. E anche sotto il profilo economico gli americani avevano compreso che l’F35 non sarebbe stato competitivo. Da uno studio della Marina americana emerse che i costi di manutenzione degli F35 sarebbero stati maggiori del 30-40% rispetto a quelli dei caccia allora in uso. Intanto il progetto, anche a causa dei suoi costi era diventato non più competitivo anche sul piano della concorrenza. Specie  considerando che sul mercato ha deciso di scendere anche la Cina con il suo nuovo caccia di quinta generazione Jian-31 (J-31). E ciò anche grazie alla collaborazione tra Cina e Russia, visto che nella prima versione del J-31, verranno utilizzati motori russi (RD-93).

AAA… Cercasi Art.11                                                                                                  

A dire il vero l’Italia, almeno stando a quanto previsto dalla Costituzione, non avrebbe mai dovuto partecipare a questo progetto. L’articolo 11 della Costituzione infatti dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.” E visto che gli F35 sono aerei da attacco e non solo da difesa. Come ha detto recentemente Giulio Marcon, deputato di Sel: “Si tratta di aerei che non servono per le missioni di pace e per difendere il Paese, ma solo per fare la guerra e oltretutto per portare ordigni nucleari”. Quindi, dato che, secondo la nostra Costituzione, il nostro Paese dovrebbe dotarsi di armi “da difesa” (come gli Eurofighter, scartati pur essendo più economici e privi di difetti) e non di aerei d’attacco come gli F35 che possono addirittura essere dotati di missili a testata atomica, il progetto F35 non avrebbe dovuto mai cominciare.

Malfunzionamenti ed altri accidenti   – l’Inganno di Mario Monti             

Intanto, però, hanno cominciato a diffondersi informazioni circa il fatto che l’F35 potrebbe avere, in particolari condizioni meteorologiche, dei malfunzionamenti. In questi casi sperare che l’azienda che ha cercato di vendere un aereo a un centinaio di milioni di dollari, prima ancora di consegnarlo, possa ammettere che non vola bene è mera utopia. Fatto sta che Monti, nel 2012, decise di ridurre l’ordinativo di F35 a “soli” 90. Naturalmente tutti hanno pensato che fosse uno sforzo del professore per ridurre gli sprechi per il nostro Paese. Ma come al solito la verità sta nei numeri. Dato che il costo degli F35 è cresciuto da 80 a 127 milioni cadauno, la manovra di Monti non è servita a ridurre i costi, ma solo a pagare con le somme disponibili quanti più aerei possibile. Del resto non avrebbe potuto trovare altri fondi visto che anche quelli per l’acquisto dei 90 ordinati sono stati ottenuti effettuando tagli al personale della Difesa. Non a caso la spendig review ha previsto di ridurre il personale della Difesa del 20% mandando a casa 43.000 unità, 30mila militari e 13mila civili. “Unità” che sono ora in buona parte disoccupati o pensionati (e quindi, in ogni caso, un costo per il Paese).

Inganno F-35 – Controllati dal grande fratello USA                                       

Nei giorni scorsi poi a mettere la ciliegina sulla torta (ma, per digerire un boccone amaro come questo, ci vorrebbe ben altro) ci ha pensato il ministro della Difesa, Mario Mauro, rilanciando, alla vigilia del dibattito parlamentare sugli F-35, l’ipotesi di acquistarne 131, invece dei 90 decisi da Monti. Facendo così lievitare in modo esponenziale le spese per la Difesa. Come se non bastasse, si è venuto a sapere qualcosa che ha dell’incredibile (e infatti le autorità si sono guardati bene sia dal confermarla che smentirla). Componente essenziale e insostituibile dei nuovi F35 sarebbe l’ALIS. In realtà ALIS è uno sistema che prevede il controllo remoto di un insieme di processi da terra, chiamato “Autonomic Logistics Global Sustainment (ALGS)”. Il “Country Point of Entry” italiano dell’ALIS dovrebbe essere la base italiana di Cameri. Ora, il problema è che il centro di controllo di questa sorta di “grande fratello” in grado di controllare a distanza (e quindi di renderli innocui) gli F35, ovvero gli aerei comprati dai nostri politici italiani (TUTTI) con i soldi degli italiani, è allocato alla Lockheed Martin di Fort Worth ed è sotto esclusivo controllo USA. Anche il centro ALIS di Cameri, infatti, è controllato direttamente dal Dipartimento della Difesa statunitense. “Ci troviamo di fronte – ha detto all’Adnkronos Gianandrea Gaiani, direttore di “Analisidifesa.it”- ad un aereo che, di fatto, sarà gestito dagli americani”.

Una montagna di euro buttati in guerre coloniali Usa                                 

Quindi, riepilogando, i politici che hanno gestito l’Italia negli ultimi vent’anni (senza esclusione tra maggioranza e opposizione) hanno speso una montagna di soldi che avrebbero potuto utilizzare per la Cultura (Pompei sta letteralmente cadendo a pezzi), per la Sanità e per l’Istruzione (basti pensare ai tagli fatti dal governo in carica), per comprare qualcosa di inutile, che funziona male e che, anche quando funziona bene, è controllata dai militari di un Paese terzo. Del resto come sorprendersi visto che oggi buona parte degli “strumenti per la difesa dell’Italia” vengono utilizzati per tutto meno che per la difesa del nostro Paese, vengono mandati in Iraq oppure in Afganistan o in tanti altri Paesi. Complessivamente sarebbero sono oltre 6.700 i militari italiani impegnati in missioni “internazionali” in 27 differenti aree del mondo.

Perfino ad Haiti e in Islanda …                                                                               

Ad esempio ad Haiti, dove è stata per mesi la nostra portaerei Cavour (ma che ci sta a fare al capo opposto del pianeta se doveva difendere l’Italia?), oppure, in Islanda impegnati nell’operazione “Cieli Ghiacciati”  della NATO, (in base alla quale chi ha la possibilità di mettere assetti a disposizione di altri partner lo deve fare). L’Italia ha già speso 2,5 miliardi in 10 anni e molti ancora dovrà spenderne. La domanda a questo punto è: quanti soldi sarà necessario sperperare prima che gli italiani capiscano che, da oltre un ventennio, chi gestisce la cosa comune non lo fa nel loro interesse?

C. Alessandro Mauceri  (Copyright © 2013 Qui Europa)
http://www.quieuropa.it/inganno-f-35-tutti-gli-inganni-usa-dallefficienza-agli-sperperi-al-controllo-a-distanza/

I Tedeschi cattivi cattivi

I Tedeschi cattivi cattivi
10 mercoledì lug 2013
Pubblicato da Ars Longa in Economia

Quando qualcuno ha diffuso la notizia che la Finlandia avrebbe l’intenzione di uscire dall’euro mi sono ricordato di un money game che Thomas Friedman pubblicò sul New York Times alla fine del 1996. Immaginate – diceva Friedman – una Finlandia che ha i conti in ordine ma li ha perché si basa su due soli settori: telefonia e carta. Immaginate che uno dei due settori vada in crisi. Che vada in crisi la Nokia o che i russi dopo anni di difficoltà tornino sul mercato della carta e spazzi via come birilli svedesi, norvegesi e – appunto – finlandesi. La Finlandia dentro l’euro non può battere moneta e quindi non può svalutare il cambio. Se vuole sopravvivere deve fare esattamente due cose: o esce dall’euro o comincia ad abbassare i salari.Non essendoci una politica fiscale europea i finlandesi dovrebbero andarsi a cercare lavoro altrove. Money game. Come vedete vi cito un giornalista e non un articolo di qualche convegno o di qualche economista. Il problema c’era e bastava capire l’abc.
Il problema non è l’intuibilità dei problemi di un cambio fisso. Il problema non è neppure la sovranità nazionale sulla moneta. I Tedeschi non ne avevano bisogno. A loro interessava il sistema del Mercato Unico che funzionava benissimo anche senza moneta unica. I tedeschi sapevano benissimo che bisognava andare cauti. Due dirigenti politici della CDU: Wolfgang Schäube e Karl Lammers lanciarono l’idea della Kerneuropa. Un euro nel quale per almeno due anni dovessero stare fuori Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. E di questa idea era Chirac, l’allora ministro delle finanze Wagel, gli olandesi. L’articolo 105 del Trattato di Maastricht prevedeva (e prevede) che la priorità assoluta debba essere data alla stabilità dei prezzi. L’articolo 107 prevedeva e prevede l’indipendenza della BCE. Il Patto di Dublino del 1996 obbligava i paesi membri a mantenere il rapporto deficit/PIL nel tetto massimo del 3%. L’Articolo 104c, comma 11 stabiliva e stabilisce meccanismi di punizione in caso di sforamento. Punizioni che sono, di fatto, la perdita della autonomia economica del paese trasgressore. L’idea di Kerneuropa non era male. Ma noi, gli spagnoli, i portoghesi decisero di raggiungere i criteri stabiliti entro il 1997. La ragione era semplice: la distanza tra le valute del sud europa e il marco in termini di tassi diminuiva quando si faceva concreta la possibilità di una adesione immediata. Si temeva che ritardare l’entrata avrebbe comportato perdita di fiducia dei mercati. Lo spread sarebbe aumentato e la possibilità in due anni di salire sul treno dell’euro in corsa si sarebbe allontanata perché il rapporto deficit/PIL sarebbe ancora aumentato. Bisognava fare in fretta e salire subito sul treno.
Qualcuno si dimentica che nel maggio del 1996 i tedeschi non volevano che la lira rientrasse nello SME-2. Che ci fu una lunghissima e aspra trattativa. Il Frankfurter Allgemeine Zeitung preconizzava che, per sfuggire alle regole, gli italiani avrebbero creato “patti di interesse con gli altri paesi in difficoltà”. L’euro, preconizzavano, sarbbe stato più debole del marco. Ma non era per passare da una valuta forte ad una debole che i tedeschi accettavano di entrare nell’Euro. Nel novembre del 1996 il Sole24Ore pubblicava una inchiesta dalla quale risultava che i cittadini tedeschi non avrebbero voluto un euro con dentro gli italiani. Il 5 aprile del 1997 al consiglio Ecofin di Noordwijk il ministro delle finanze Tetmeyer disse. “la convergenza dei tassi di interesse a lungo termine riflette le politiche economiche e la gestione fiscale. Ma se la convergenza fosse basata solo sulle aspettative che certi Paesi diventino membri dell’unione monetaria, ciò potrebbe diventare pericoloso per i paesi interessati”.
Non vi sto dicendo questo per dirvi che i tedeschi non ci volevano nell’Euro. Questa è storia e dovrebbero conoscerla anche gli econometristi di Pescara. Non sto dicendo che nell’Euro ci siamo voluti entrare per forza o per amore noi, consapevoli di tutte le regole. Anche questo è un fatto ovvio. Quel che vi sto dicendo è che i Tedeschi l’Euro non lo volevano ma l’Euro è stato il prezzo per riunificare il Paese. Quando i Tedeschi annunciarono la loro intenzione di riunificare le due Germanie Mitterand era letteralmente imbestialito. Andò in visita ufficiale a Kieve, incontrò Gorbaciov chiedendogli esplicitamente che l’Unione Sovietica agonizzante si opponesse. Poi andò in Germani Est e pubblicamente annunciò che la Francia sosteneva l’esistenza in vita della Germania Orientale. Tutto questo succedeva nel dicembre del 1989. Poi – neppure fosse il miracolo di Lourdes – nell’aprile 1990 Kohl e Mitterand firmarono un protocollo bilaterale nel quale Parigi e Berlino annunciavano la loro intenzione di far compiere all’Unione Europea un passo in avanti. L’Euro in cambio della riunificazione. E Berlino accettò la proposta francese ma pretese alcune garanzie che sono poi quelle del Trattato di Maastricht. Ma le garanzie chieste dalla Germania – appunto – non sono state scritte di nascosto. Stavano lì. Nessuno ha costretto nessuno. E non si vede perché la Germania avrebbe dovuto accettare di passare da un Marco forte ad un Euro debole senza regole. Il tentativo di far fare anticamera all’Italia e agli altri Paesi del sud Europa attraverso il progetto della Kerneuropa mirava a ridurre il sapore di una polpetta indigesta per i Tedeschi.
2013. Ha perfettamente ragione Brancaccio quando lancia l’avvertimento a proposito dei “fire sales” ed ha profondamente ragione quando nota che alla Germania interessa l’Unione Europea e non l’Euro. Gli italiani vogliono far saltare la moneta unica? Magari! Sai che festa a Berlino. Magari se la fanno saltare senza predisporre quelle due o tre cose di base che ancora Brancaccio sottolinea (indicizzazione dei salari, ripristino temporaneo dei controlli amministrativi sui prezzi “base”, politiche di limitazioni degli scambi) anche meglio. Perché pensare di uscire da un quadro neoliberista semplicemente chiudendo la porta e lasciando la luce accesa, uscire dall’Euro come da ragazzini succedeva quando il padrone del pallone decideva di andarsene a casa è un assurdo (e non mi viene in mente altro eufemismo per non dire di peggio). Uscire dall’Euro non è una operazione facile facile, un “basta volerlo”, un prendere coscienza dell’implicito nazismo del sistema in cui ci siamo ficcati a tutta velocità. Ed è una operazione da asilo mariuccia suonare la trombetta e chiamare a raccolta contro gli “alamanni”. Perché se esci male ti ritrovi anche peggio. Ma non per le ragioni che gli euroentusiasti vagheggiano. L’armageddon non ci sarà per il semplice fatto di uscire dall’Euro. Ci sarà invece perché se venisse realizzata l’uscita come è stata realizzata l’entrata, a pagare il prezzo di tutto sarebbero sempre gli stessi poveracci che rimarrebbero con tutta la scatola di cerini in fiamme tra le mani. Uscire dall’Euro senza una chiara strategia del “come” fidandosi delle taumaturgiche possibilità della “sovranità monetaria” (che poi è un altro concetto bufala perché non esiste più una effettiva sovranità nazionale monetaria nel mercato globale) è la corsa dei lemming verso la scogliera. Uscire dall’Euro rimanendo nell’Unione, dire insomma “abbiamo scherzato, riportiamo l’orologio al 1999” riscuoterebbe forti applausi a Berlino. Ci accompagnerebbero alla porta sorridendo a pacche sulle spalle. Non è l’Euro al tramonto ma l’Unione Europea nelle sue premesse teoriche. Ma questo non si può cogliere se non si è capaci di fare una seria analisi che vada al di là degli slogan da talk show. C’è una complessità là fuori che investe e richiede competenze complesse. Non ci sono solo aspetti economici da dominare con qualche sequenza di dati autoesplicanti. Ci sono questioni storiche, geopolitiche, sociali intrecciate le une con le altre. Ed ogni risposta semplice ad un problema complesso o è un atto di arroganza o un progetto in malafede, o tutte e due le cose insieme insieme.
http://irradiazioni.wordpress.com/2013/07/10/i-tedeschi-cattivi-cattivi/#comment-629