L’INCENDIO SIRIANO DIVAMPA, ANCHE SE NON SI VEDE

Data: Martedì, 24 settembre

 

DI GIULIETTO CHIESA

lavocedellevoci.it

 Si è spento l’incendio siriano?

La risposta è no. Per molti motivi che, sommati, dovrebbero indurci a tenere la guardia alta. Riassumiamo ciò che è accaduto in questo convulso mese di settembre, dopo il presunto bombardamento chimico della periferia di Damasco del 21 agosto. Scrivo “presunto”, non perché esso non c’è stato. Esso si è verificato, ma ci sono mille e 400 ragioni circa per dubitare delle sue dimensioni (tanti quanti sono i morti dichiarati dal governo USA e mai verificati da alcuno); della sua localizzazione (incredibilmente in un sobborgo di Damasco, a circa 15 minuti d’auto dal centro, secondo la testimonianza di Gian Micalessin, inviato a Damasco del Giornale); delle sue reali dimensioni; dei suoi autori.

 Non intendo tornare su quest’ultimo aspetto del problema, se non per ricordare che in primavera la signora Carla Del Ponte, ex procuratore generale del Tribunale Penale Internazionale, ben connessa con l’Amministrazione USA, rivelò pubblicamente, nella sua veste di operatore ONU, che qualcuno aveva fornito armi chimiche ai ribelli. Non venne detto chi aveva fornito quelle armi, né a chi fossero state date esattamente, vista la galassia di formazioni banditesche che compongono o coabitano all’interno del cosiddetto Free Sirian Army. Ma da quel momento furono evidenti e chiare due cose: che si stava preparando una grande “false flag operation” (operazione sotto falsa bandiera) che sarebbe stata utile per una improvvisa escalation della guerra. E che questa notizia era stata fatta trapelare da qualcuno – probabilmente da settori dell’Amministrazione americana – che intendeva ostacolare l’operazione.

 L’altro aspetto che a me sembra chiaro è che – come bene ha scritto Robert Fisk – non è stato Bashar el-Assad a usare armi chimiche, poiché se avesse avuto queste intenzioni le avrebbe messe in atto contro uno dei centri occupati dai ribelli, a nord. E quando era in difficoltà militari, non quando era all’offensiva. Invece, molto stranamente, il bombardamento è stato fatto su Damasco. Cosa più incongruente di questa era impossibile immaginare. Come ricordò Micalessin, in diretta su Radio 24-Il sole 24 ore, citando un comandante militare governativo sul luogo, se il vento avesse improvvisamente cambiato direzione, la stessa capitale sarebbe stata gassata. Attribuire a Bashar un tale autolesionismo è acrobazia logica alla quale possono credere solo Giovanna Botteri e tutti i maggiori commentatori italiani, che – come al solito senza né verificare, né ragionare – si sono affrettati a sposare la tesi del “dittatore assassino”, colpevole senza alcun dubbio e riserva di avere gasificato i suoi sudditi. Un fantastico coro di servi, già tutti pronti ad applaudire il volo dei missili Tomahawk americani.

 Avevamo e abbiamo (ci sono numerosi documenti e testimonianze a confermarlo, naturalmente sul web e non nel mainstream) ogni buona ragione per condividere l’opinione che Vladimir Putin ha espresso lo scorso 19 settembre: «È stata una provocazione, certamente una provocazione malvagia e ingegnosa». La Russia ha sicuramente informazioni molto precise e addizionali: gli esecutori hanno fatto uso di una tecnologia “primitiva”, consistente – ha aggiunto Putin – di vecchie armi dei tempi sovietici che non sono più neppure in dotazione dell’esercito regolare siriano. Notizie analoghe erano emerse da giornali britannici fin dallo scorso gennaio e Megachip le aveva riprese nel pieno della polemica settembrina.

 Putin reagiva duramente al rapporto, fintamente salomonico, degl’ispettori dell’ONU, affermando che la Russia aveva forti argomenti per ritenere che i responsabili dell’attacco chimico fossero i ribelli antigovernativi. E qui veniamo ai giorni nostri e ai prevedibili sviluppi. La mossa di Putin per fermare l’operazione militare è equivalsa, scacchisticamente parlando, a una mossa del cavallo: accusate Assad di usare armi chimiche? Bene, io l’ho convinto a consegnarle tutte. Dopo il no del parlamento britannico, e il grido di Papa Francesco (“attenti che corriamo il rischio della terza guerra mondiale”), questo ha costretto Obama a fermare la macchina.

 Passando dagli scacchi al calcio, il punteggio del match Putin-Obama è stato 10 a 0. Ma era solo il primo tempo. E, ai bordi del campo americano non c’è solo il trainer Obama. C’è l’Iran e c’è, per esempio, Netanyhau. Il presidente Rohani vede la frenata di Washington e dichiara che l’Iran non intende fare la bomba atomica, che lui vorrebbe incontrare Obama, e manda gli auguri agli ebrei per una loro festa religiosa. Netanyhau replica che Rohani è un lupo travestito da agnello. Tutto piuttosto chiaro. Israele continua la propria guerra “sottotraccia”. Protetto, in questo, dal silenzio dei media occidentali. Bombardò la Siria nel gennaio di quest’anno, colpendo un convoglio che avrebbe trasportato missili SA-17 terra-aria di fabbricazione russa; bombardò di nuovo in maggio, per due giorni, colpendo rifornimenti militari in provenienza dall’Iran (missili terra-terra Fateh 110); bombardò ancora il 5 luglio colpendo un deposito di razzi a Latakia. Un comportamento, come si vede, molto pacifico e rispettoso delle regole internazionali. Se la Siria avesse fatto un centesimo di atti analoghi avreste sentito non solo le grida di tutti i giornali occidentali, ma il rombo dei bombardieri della NATO.

 Che succede ora? Che l’attacco aereo-missilistico americano-israeliano-inglese-francese-turco è rimandato a data da destinarsi, in attesa che si smorzino i dissensi in Europa, e che la voce di Papa Francesco sia dimenticata. Ma la guerra è in via d’intensificazioneIl ponte aereo che rifornisce i mercenari è in pieno rilancio. Riprende cioè la tattica precedente: mettere in ginocchio la società siriana, la sua economia, le sue possibilità di difesa. Si vuole provocare il collasso economico e sociale interno, con l’obiettivo di costringere Bashar alla fuga, o di far scoppiare un colpo di stato, o di ucciderlo.

 Le cifre parlano di un vero e proprio tracollo economico di Damasco. In due anni di guerra alimentata dall’esterno (non è una guerra civile, ma una vera e propria aggressione) la disoccupazione è quintuplicata. In un paese di 20 milioni di abitanti i disoccupati sono oltre 2,5 milioni. Il resto lavora quando può. La sterlina siriana è crollata a un sesto del suo valore pre-guerra. Si calcola che le distruzioni di edifici pubblici, ospedali, infrastrutture superino i 15 miliardi di dollari. Il prodotto interno lordo del paese è circa un terzo di quello che era due anni fa: fabbriche distrutte a centinaia, un’agricoltura rasa a zero, i pozzi petroliferi fuori uso e molti in mano ai ribelli, le riserve di valute estere passate da 18 miliardi di dollari a 4 miliardi. Mancano medicinali quasi dovunque. Unici paesi che forzano il blocco dei rifornimenti sono la Cina, l’Iran e la Russia, ma i percorsi sono tutti sotto minaccia.

 In queste condizioni la sopravvivenza del regime è oltremodo precaria. È quasi miracoloso che Bashar Assad sia ancora vivo, se si tiene conto che gli jihadisti, insieme ai servizi segreti dei nemici esterni, mettono bombe perfino nella capitale e sicuramente hanno squadre di commando pronte a colpire al minimo varco lasciato aperto. È scontato che i suoi movimenti, le sue comunicazioni, la sua catena di comando, sono tutti sotto permanente controllo da parte dei satelliti americani. Se resiste è perché continua a mantenere non solo l’appoggio della minoranza alauita, ma perché ha ancora un vasto consenso popolare, sia dei cristiani delle varie confessioni, sia di una parte della maggioritaria popolazione sunnita. Ma chiunque capisce che, con il peggiorare delle condizioni di vita della gente, il consenso finirà per essere eroso.

 E in questo contesto che avverrà la lunga e impossibile trattativa sugli arsenali chimici della Siria. Impossibile perché non li si potrà smantellare, né trasferire in breve tempo. Entrambe le cose si possono fare in pace, non in guerra. Si negozierà a lungo, senza risultati. Ma non ci sarà tregua.

 Resta l’evidenza dei fatti: la strategia del logoramento “lento”, che era stata formulata in precedenza, è stata abbandonata da Obama all’inizio dell’estate.Qualcuno ha deciso l’accelerazione verso l’escalation. Perché? Con ogni evidenza Washington, Riyadh, il Qatar, hanno fretta. Cosa li preoccupa e li stringe da vicino?

 Forse un imminente aggravarsi della crisi finanziaria internazionale, che suggerisce di “bruciare i libri mastri” in un grande falò il più presto possibile?

Impossibile sapere con precisione. Salvo una cosa: Israele ha già tracciato la sua “linea rossa” nei confronti dell’Iran. Le aperture di Rohani non la sposteranno. Tutti gli altri seguono, compreso Obama.

 Dunque, se le cose stanno così, e visto che ora non si può bombardare Damasco perché il mondo sarebbe contrario, allora aspettiamoci grandi novità sul piano militare, sul terreno dove Obama non vuole mettere piede. O, forse, da qualche altra parte, in Europa per esempio.

 Giulietto Chiesa

Fonte: http://megachip.globalist.it

Link: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=86984&typeb=0&L%27incendio-siriano-divampa-anche-se-non-si-vede

23.09.2013

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ECCO PERCHE’ ALL’ITALIA CONVIENE USCIRE DALL’EURO

http://www.informarexresistere.fr/2013/09/25/ecco-perche-allitalia-conviene-uscire-dalleuro/

– DI ALBERTO BAGNAI –

La nuova lira si potrebbe svalutare del 30% sulle monete forti, ma nell’arco di almeno un anno. E i nostri prodotti tornerebbero competitivi sui mercati mondiali

Che nell’euro così com’è molte cose non vadano nessuno ormai lo contesta. Il dibattito si sposta su come riformare la moneta unica o come abbandonarla. Quest’ultima opzione suscita grandi timori, non tutti fondati. Prima di parlarne, osservo che il punto dirimente è quello politico, non quello tecnico. Faccio un esempio: per i tedeschi entrare nell’euro ha significato abbandonare una valuta forte, il marco. Perché questo non ha causato panico? Semplicemente perché si era raggiunto un consenso intorno all’idea che l’euro avrebbe comunque portato benefici.

Allo stesso modo oggi per gli italiani tornare alla lira significherebbe abbandonare una valuta forte, l’euro. Se però ci si convincesse, a torto o a ragione, dei benefici di un’uscita dall’euro, si creerebbero le condizioni politiche per una transizione senza panico.

Come ho spiegato ne Il tramonto dell’euro, l’obiezione secondo cui l’uscita è impossibile perché i trattati non la prevedono è infondata. La convenzione di Vienna stabilisce che un trattato può essere risolto, anche in assenza di clausole espresse, quando mutino i presupposti in base ai quali esso è stato concluso (è il principio rebus sic stantibus). L’attuale disastro fornisce una base giuridica sufficiente per un recesso. Lo ammette la stessa Bce in un documento del 2009.

Un altro principio è quello della Lex monetae: uno stato sovrano ha il diritto di decidere in quale conio sono definiti i contratti che cadono sotto la sua giurisdizione. Nel nostro codice civile questo principio è disciplinato dagli articoli  1277 e seguenti. L’uscita avverrebbe quindi tramite una ridenominazione in nuove lire dei contratti regolati dal diritto italiano. A quale cambio? L’opzione più semplice da gestire è che si usi un cambio uno a uno. Lo stipendio passerebbe da 1500 euro a 1500 nuove lire, la rata del mutuo da 500 euro a 500 nuove lire, ecc.

Ma allora non cambierebbe niente? No, qualcosa cambierebbe: il passaggio al nuovo conio sarebbe seguito da un riallineamento del cambio sui mercati valutari. Una rivalutazione dei Paesi «forti» e una simmetrica svalutazione della nuova lira, che restituirebbe respiro al nostro export con effetti positivi su reddito e occupazione.

La svalutazione non ci schiaccerebbe sotto il costo delle materie prime? Non è detto. Secondo gli studi più recenti (li trovate nel mio blog, bagnai.org), il riallineamento atteso è dell’ordine del 30%, distribuito lungo l’arco di almeno un anno. Certo, in capo a un anno le materie prime costerebbero  un 30% in più. Ma le materie prime sono solo una componente del costo del prodotto finito. Ad esempio, il riallineamento del cambio non influirebbe sul costo del lavoro in valuta nazionale.

E poi, chiedo, un imprenditore preferisce pagare un po’ di più le materie prime, ma ricominciare a fatturare, o essere «protetto» dalla valuta forte che però gli impedisce di vendere all’estero? I tanti suicidi cui assistiamo danno una risposta fin troppo eloquente.

Nel caso dei carburanti, poi, la componente fiscale è preponderante. Per questo motivo si osserva che solo un terzo di una svalutazione si traduce in un incremento del prezzo alla pompa. Con una svalutazione del 30%, l’incremento atteso del prezzo alla pompa sarebbe di circa il 9%, distribuito in più di un anno (ne abbiamo avuti di maggiori con l’euro).

Secondo gli studi occorre un anno perché il 36% di una svalutazione si trasferisca sui prezzi interni. Ha torto chi dice che se svalutassimo del 30% saremmo tutti più poveri del 30% in una notte! Del resto, da un anno a questa parte l’euro ha guadagnato circa l’8% sul dollaro. Vi sentite molto più ricchi? No, perché la spesa di tutti i giorni non la fate negli Usa, ma in Italia.

D’accordo, si obietta, ma comunque il debito estero andrebbe pagato in valuta forte, e saremmo schiacciati dall’onere del debito! Non è corretto. Solo i contratti regolati dal diritto estero subirebbero questa sorte. Non ricade fra questi la maggior parte dei titoli pubblici. Va bene, ma allora i mercati, penalizzati dalla svalutazione, non ci isolerebbero, rifiutandoci altro credito? Non è detto. Molti avrebbero voglia di tornare a investire in un paese che riprendesse a crescere, e se ora abbiamo bisogno di capitali esteri è perché l’austerità di Monti e Letta ha distrutto reddito, risparmio e produttività degli italiani.

Ma (si obietta) la «liretta» sarebbe attaccata dalla speculazione! Siamo proprio sicuri? Quanto più la lira perdesse di valore, tanto più le merci italiane diventerebbero a buon mercato. Le banche centrali dei nostri concorrenti starebbero quindi ben attente a evitare un eccessivo deprezzamento della nuova lira.

Il discorso andrebbe certo approfondito, ma una cosa spero emerga: viste alla luce della razionalità economica, molte obiezioni sollevate per incutere terrore agli elettori perdono vigore. È giunta l’ora che la lucidità e la valutazione dell’interesse del Paese prevalgano sull’emotività e su un malinteso «sogno» europeo.

Alberto Bagnai
Professore associato di politica economica
(Università D’Annunzio, Pescara)

 

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/economia/1315427/Ecco-perche-all-Italia-conviene-ancora-uscire-dall-euro.html

Virano: “C’è il rischio di una deriva paraterroristica”

http://torino.repubblica.it/cronaca/2013/09/25/news/virano_rischio_deriva_paraterroristica-67229078/

Per il commissario governativo il rischio “I sindaci No tav devono trattare, altrimenti c’è il pericolo di una deriva paraterroristica. Perchè la Tav non interessa più in quanto tale ma è diventata un simbolo dell’antagonismo internazionale

di PAOLO GRISERI

“Fino a quando i sindaci contrari all’opera non accettano di negoziare il nodo non si scioglie. La Torino – Lione è diventata il simbolo di antagonismo internazionale con deriva para terroristica. Sono gruppi autoreferenziali. La Tav non interessa a loro. Fanno bene i sindaci a prendere le distanze dalla violenza ma questo non basta ancora. Devono sedersi a trattare” ha detto il commissario governativo Mario Virano, oggi, al cantiere della Tav a Chiomonte in Val di Susa, dove è atteso il ministro dell’Interno Angelino Alfano.

PIANGE IL TELEFONO

Stamane vado di fretta e ve la farò breve.

La notizia che si legge sui giornali italiani è che Telecom, tra non molto, parlerà spagnolo. Ma la notizia che non leggerete mai sulla stampa italiana è che l’acquirente, ossia Telefonica, verosimilmente, per portare a compimento l’operazione, verrà finanziata da qualche banca spagnola -già fallita- e salvata con i soldi dei contribuenti Italiani attraverso il fondo salva stati e banche ESM, al quale  l’Italia partecipa con 125 miliardi di euro, presi a debito sui mercati. Di come l’Italia abbia contribuito al salvataggio delle banche spagnole, lo abbiamo spiegato QUI.

 Ricapitolando, per rendervela ancora più semplice, possiamo dire che TELEFONICA (società spagnola), attraverso la controlla TELCO, acquista TELECOM (Società Italiana). La quale Telefonica, avendo necessità di capitali  per compiere l’operazione, verosimilmente, si farà finanziare da qualche banca spagnola. La quale banca spagnola, a sua volta, è stata salvata con i soldi dei contribuenti italiani attraverso il fondo ESM. I quali contribuenti, per poter conferire  i soldi nel fondo ESM  (e da questo alle banche spagnole che finanziano l’acquisto di Telecom da parte di Telefonica), essendo straccioni,  sono stati spremuti di tasse per rendersi presentabili sul mercato e per ottenere la fiducia degli investitori che hanno prestato i soldi all’Italia, a fronte del pagamento di lauti interessi.

Chiaro, no?

 Potete anche evitare di leggere i dettagli riportati nel pezzo che segue, tratto da Il Sole 24 Ore. Le cose importanti le avete già lette sopra.

Telefonica sale dal 46 al 66% di Telco dopo l’aumento di capitale da 323 milioni e realizzerà un secondo aumento di capitale da 117 milioni, dopo l’ok dell’Antitrust in Brasile e Argentina, per arrivare al 70% della holding. Lo si legge nella nota della compagnia spagnola. Ieri il titolo Telecom ha chiuso in rialzo del 3,4% a 0,59 euro. Telefonica manterrà i diritti di voto in Telco spa all’attuale 46,1% anche dopo i due aumenti di capitale (che porteranno la sua quota al 70% della holding). Lo si legge nella nota della compagnia spagnola secondo cui dal 1 gennaio 2014, dopo l’ok dell’Antitrust di Brasile a Argentina, i diritti di voto potrebbero salire al 64,9%.

“Siamo soddisfatti di aver concluso questo accordo che è in linea con i nostri obiettivi di rafforzamento patrimoniale e che ci permette di guardare con ottimismo alla distribuzione di un dividendo soddisfacente a fine anno”. Questo il commento del ceo di Generali, Mario Greco, all’accordo con Telefonica per il riassetto di Telco che controlla Telecom. Generali rende inoltre noto che la svalutazione netta della quota Telco sarà di circa 65 milioni e sarà registrata nel terzo trimestre del 2013. L’accordo definisce infine in modo chiaro i possibili periodi di uscita da Telco – il primo a giugno 2014; il secondo a febbraio 2015 – e riduce i rischi patrimoniali derivanti dallôeventuale futura cessione a Telefonica.

Opzione per Telefonica di salire al 100% di Telco, la holding che controlla Telecom con il 22,4% del capitale, dal primo gennaio 2014. In base all’accordo sottoscritto questa notte tra gli spagnoli di Telefonica e i soci itliani presenti in Telco, Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca, “a decorrere dal primo gennaio 2014, Telefonica avrà la facoltà (opzione call) di acquistare per cassa tutte le azioni dei soci italiani in Telco, ad un prezzo determinato valorizzando la partecipazione di Telco in Telecom Italia al maggiore tra 1,1 euro e il prezzo di mercato delle azioni al momento dellôesercizio della opzione call”. Lôesercizio dellôopzione sarà soggetto allôottenimento da parte di Telefonica di tutte le autorizzazioni regolamentari e antitrust. “In caso di esercizio della opzione call, Telefonica sarà obbligata ad acquistare, a valore nominale, anche tutte le quote residue del prestito obbligazionario emesso da Telco detenute dai soci italiani a fronte del pagamento di un corrispettivo composto per il 50% in contanti, e per il restante 50%, a scelta di Telefonica, in contanti e/o in azioni di Telefonica”.

Con la cessione di Telecom a Telefonica, ormai apparentemente dietro l’angolo, termina definitivamente l’era della telefonia tricolore, visto che più nessun operatore presente in Italia sarebbe a controllo nazionale. Ecco i momenti salienti della storia delle principali compagnie di telefonia mobile, nate in Italia e poi cedute ad azionisti stranieri

– VODAFONE: ha origine con Omnitel, fondata il 19 giugno 1990 da Olivetti, Lehman Brothers, Bell Atlantic e Telia. Nel 1999, Olivetti, a seguito dell’acquisizione di Telecom Italia, provvede alla cessione, richiesta dalle norme sulla concorrenza, delle sue partecipazioni in Omnitel e Infostrada a Mannesmann. La partecipazione di Mannesmann in Omnitel sale dunque al 53,7%. Mannesmann, poi, vende nel 2001 il settore delle tlc, così Omnitel passa sotto il controllo di Vodafone Group; assume la denominazione di Omnitel-Vodafone nel 2001, di Vodafone-Omnitel nel 2002 e, infine, nel 2003, l’attuale denominazione di Vodafone Italia. Tuttavia, il 2 settembre 2013, Verizon Communications ha annunciato di aver raggiunto un accordo per acquistare la partecipazione di Vodafone, il 45%, per 130 miliardi di dollari in un accordo atteso entro il primo trimestre del 2014. Tale accordo prevede che Gruppo Vodafone acquisti l’altro 23% in possesso di Verizon in Vodafone Italia. In questo modo, entro il 2014, Vodafone Italia sarà interamente di Vodafone.

– WIND: Wind Telecomunicazioni nasce alla fine del 1997 grazie all’investimento di Enel, France Télécom e Deutsche Telekom. Nel 2001 c’è poi l’acquisizione di Infostrada da parte di Enel, azionista di maggioranza, e nel 2002 diviene operativa la fusione per incorporazione di Infostrada in Wind. Nel luglio del 2003 Wind Telecomunicazioni è tutta italiana: Enel ne diventa l’unico azionista acquistando il restante 26,6% da France Télécom. Nel 2005 il gruppo Enel cede la quota di maggioranza di Wind Telecomunicazioni al magnate egiziano Naguib Sawiris, già proprietario della Orascom. Il 4 ottobre 2010 Weather Investments (ora Wind Telecom S.p.A., controllata da Naguib Sawiris) e il gruppo russo VimpelCom annunciano con un comunicato la loro fusione, a seguito della quale, VimpelCom assumerebbe il controllo del 51,7% di Orascom Telecom Holding e del 100% di Wind Telecomunicazioni.

 – TRE: 3 Italia appartiene alla multinazionale cinese Hutchison Whampoa. Il gruppo 3 è il più grande gruppo di telefonia mobile al mondo per numero di clienti in tecnologia Umts e, soprattutto, è stato il primo a lanciare tale tecnologia in Europa. Nata il 18 novembre 1999 con il nome Andala Umts, grazie a Franco Bernabè (10%) e Renato Soru (con Tiscali al 90%), ha ottenuto nel 2000 la licenza Umts vincendo la relativa gara. A seguito di tale ottenimento, sempre nel 2000, entrano nuovi soci nella compagine azionaria, ma il 12 agosto il 51% viene acquisito da Hutchison Whampoa Limited: Hwl salirà poi all’88,2% nel giro di due anni. Ha lanciato i servizi Umts il 3 marzo 2003 con il marchio 3.

 Da Dagospia

TELECOM: ALTRO CHE CONCORDIA, LA STORIA DELLA COMPAGNIA TELEFONICA È EMBLEMATICA DEL DECLINO DEL BELPAESE

 Oggi si guarda alla prossima scadenza del patto tra gli azionisti di Telco, la holding che controlla Telecom, e al consiglio di amministrazione del 3 ottobre, come all’inizio di una nuova era. Eppure, quindici anni di lenta agonia suggeriscono scetticismo e, forse, rassegnazione.

 LA MADRE DI TUTTE LE PRIVATIZZAZIONI

Telecom Italia nasce con la privatizzazione del 1997 voluta dal governo Prodi. E parte con un difetto d’origine: uno Stato dirigista o, ancor peggio, che vorrebbe esserlo, ma non ne è capace. A prescindere dal colore dei governi. Così le privatizzazioni si fanno solo per far cassa e perché lo impone l’ingresso nell’euro. Pertanto Telecom viene collocata come un monopolio integrato, perdendo l’occasione per creare concorrenza in un settore agli albori della liberalizzazione e nella sua fase di massima crescita.

GUIDO ROSSI

 Ma il Tesoro riesce ad incassare 12 miliardi di euro per il 42%, più di quanto oggi valga l’intera società. E si perde l’occasione per promuovere il mercato dei capitali, perché lo Stato vuole pilotare il controllo in mani amiche. Si sceglie l’approccio del nocciolo duro, con Agnelli primo azionista (e un investimento risibile, come d’abitudine) e Guido Rossi presidente.

 Per facilitargli il controllo, non si convertono le azioni di risparmio (senza diritto di voto), sopravvissute fino a oggi. Cambiano i vertici: Rossignolo e poi Bernabè (l’attuale presidente, non suo figlio). Ma l’interesse dei nuovi azionisti privati è solo di incassare il dividendo della rendita monopolistica. E l’azienda rimane un pachiderma sonnacchioso e pieno di soldi.

BERLUSCONI DALEMA COLANINNO

 I CAPITANI CORAGGIOSI

L’avvento dell’Euro, nel 1999, elimina la barriera del rischio di cambio, spalancando all’Italia le porte del mercato internazionale dei capitali. Cade così uno dei principali vincoli strutturali alla crescita nel nostro Paese: fino ad allora, il risparmio nazionale era obbligatoriamente incanalato verso il finanziamento del debito pubblico; e poiché il rischio lira scoraggiava l’ingresso degli stranieri, i gruppi italiani dovevano operare in uno stato di razionamento dei capitali, dal quale Mediobanca, che agiva da surrogato al mercato finanziario, traeva la propria forza. Con l’Euro tutto questo finisce.

 Colaninno & Co. sono rapidi a sfruttare questa opportunità, e raccogliere all’estero gli ingenti prestiti necessari a lanciare un’Opa su Telecom. Quello che poteva essere l’inizio di un mercato dei capitali efficiente, dove il controllo delle aziende va a chi è più bravo a gestirle, scardinando dirigismo e capitale di relazioni, e permettendo ai gruppi italiani di crescere in competizione con quelli stranieri, si trasforma presto in una cocente delusione: invece di fondere holding e società operative create per scalare Telecom, concentrarsi sulla gestione industriale e ripagare l’enorme debito contratto, i capitani coraggiosi si comportano da vecchi capitalisti nostrani, perpetuando la lunga catena societaria creata con l’Opa per valorizzare il premio di controllo nella holding Bell (lussemburghese, naturalmente).

 GIANNI LETTA PAOLO CUCCIA E MARCO TRONCHETTI PROVERA

FRANCO BERNABE AD TELECOM

 La preoccupazione resta il controllo, con il minimo dei capitali e il massimo del debito. Ma la bolla della dot.com scoppia, e con essa le valutazioni insensate che il mercato attribuiva alle telecomunicazioni. Per Colaninno & Co. è un brusco risveglio: il valore di Telecom crolla, ma i debiti rimangono; e i creditori bussano alla porta. In Italia, però, c’è sempre qualcuno pronto a strapagare il controllo (coi soldi di banche amiche) pur di soddisfare voglie di impero.

 LA VOGLIA DI IMPERO DI TRONCHETTI

Liquido perché baciato dalla fortuna durante la bolla Internet, Tronchetti Provera vede nelle difficoltà dei capitani coraggiosi l’occasione per costruire il proprio impero. Ma l’ambizione acceca. Nel 2001 strapaga il controllo di Telecom; naturalmente il premio va alla Bell (quasi tax free), non al mercato come da italica abitudine. E perpetua gli errori di Colaninno & Co., esercitando il controllo con una catena societaria ancora più lunga (Olimpia al posto di Bell, più Pirelli, Camfin eccetera), e ancora più debito, ovviamente con il sostegno di Intesa e Unicredit, socie in Olimpia.

 ANDREA RAGNETTI E ROBERTO COLANINNO

 Poi infila una serie incredibile di errori. Per far fronte ai debiti vende tutte le attività che la Telecom dei capitani coraggiosi aveva acquistato all’estero, in mercati a forte crescita (unica decisione giusta); salvo poi accumularne di più per fondere Tim con Telecom, puntando prevalentemente sulla telefonia mobile in Italia: un mercato in via di saturazione, a bassa crescita e sempre più concorrenziale. E non investe nella banda larga, perdendo il treno di Internet. Così, nel 2006, Tronchetti si trova nella stessa situazione di Colaninno & Co. nel 2001: il valore di Telecom in calo irreversibile; troppo debito; e i creditori alla porta. Ma questa volta non c’è un altro aspirante imperatore in Italia, così Tronchetti cerca di vendere agli americani di AT&T o al messicano Slim. Orrore!

 LUCIANO LAMA E GIANNI AGNELLI

 L’OPERAZIONE DI SISTEMA

In Italia, come nel gioco dell’oca, ogni tanto si torna al via. Nel 2006, Prodi è nuovamente al Governo e il sempreverde animo dirigista impone la salvaguardia di una azienda “strategica per il paese”. Se però il mercato dei capitali non funziona (meglio, non lo si crea) e l’Europa impedisce allo Stato di intervenire, ci si inventa “l’operazione di sistema”. Al comando torna Guido Rossi (quello del 1997), con il compito far uscire indenne Tronchetti e creare un patto per mantenere il controllo in mani italiane.

 Ancora una volta, prioritari sono debito, controllo e relazioni con il Governo: le prospettive del settore, e quale sia il modo migliore per valorizzare l’azienda, sono aspetti marginali. Chi allora meglio di Banca Intesa, autoproclamatasi banca di sistema, insieme al salotto buono di Mediobanca e Generali, per un’operazione di sistema gradita al Governo? Con la spagnola Telefonica, comprano il controllo da Olimpia, rinominata Telco (senza che il mercato veda un euro), facendo uscire Tronchetti prima che l’avventura Telecom lo porti al dissesto. E finanziano l’operazione a debito. Nulla cambia nella struttura finanziaria (troppo debito) e proprietaria (controllo in una holding fuori mercato).

 GIANNI LETTA TRONCHETTI PROVERA

  ENRICO CUCCIA X

 Telefonica è straniera, ma non conta: la Spagna ha un capitalismo come il nostro e ci si intende. E poi ha una quota di minoranza. Ma in questo modo le si concede di fatto un diritto di prelazione sul controllo futuro, magari a prezzo di saldo. Infatti sembra che oggi Intesa, Mediobanca e Generali, non potendo più permettersi le perdite che le operazioni di sistema inevitabilmente generano, stiano cercando di vendere a Telefonica la loro quota in Telco (naturalmente fuori mercato); a una frazione di quanto avrebbero incassato cinque anni fa. Come con Air France in Alitalia, o Edf in Edison: le operazioni di sistema non mi sembrano capolavori di astuzia.

 LA LENTA AGONIA

Nel 2007, il comando torna a Bernabè (quello del 1998). Da allora sfoglia la margherita. Il debito è rimasto quello di 13 anni prima, ma i ricavi dalla telefonia in Italia, dove l’azienda è concentrata, sono in declino irreversibile e non generano cassa bastante a rimborsarlo. Ci vorrebbe un forte aumento di capitale, ma i soci non hanno soldi. Anzi, vogliono uscire. E, in ogni caso, non si saprebbe come remunerarlo adeguatamente. Non si può vendere Tim per consolidare un mercato nazionale troppo frazionato perché evidenzierebbe una perdita colossale derivante dall’abbattimento del valore dell’avviamento a bilancio.

 AGNELLI ENRICO CUCCIA

 Vendere il Brasile, che pure è ai massimi, significherebbe fossilizzarsi in un mercato in declino. Non ci sono i soldi per investire nella rete e ci sarebbero problemi a remunerare gli investimenti anche perché la regolamentazione impone di spartirne la redditività con i concorrenti. Né si può venderla, perché la Cassa depositi sarebbe il solo compratore accettabile per il governo: una sorta di nazionalizzazione antistorica e impraticabile; e Telecom perderebbe l’asset con le migliori prospettive. Fare l’azienda a pezzi e offrirli sul mercato globale al migliore offerente, approfittando dell’attuale ondata di fusioni e acquisizioni nel mondo equivarrebbe, nella lingua italiana, a una bestemmia.

 ENRICO CUCCHIANI GIOVANNI BAZOLI

 IL MORTO CHE CAMMINA

Non capisco la frenetica attesa con cui si attende la fine del patto in Telco a fine settembre e l’ennesimo “nuovo piano industriale” (quanti ne sono stati presentati?) nel consiglio del 3 ottobre. Non può essere risolutivo perché il problema, ancora una volta, non è una questione prettamente finanziaria, di controllo, o di chi sia al vertice; ma di un’azienda priva di prospettive, ancorata a un paese senza crescita, incapace di stare al passo con i rapidi e repentini cambiamenti del settore. Definire Telecom un morto che cammina, ridotto in questo stato da una vicenda che è lo specchio delle storture del Paese, sembra quasi un eufemismo.

 Da Lettera43

 Nella notte la fumata bianca. Telecom è diventata spagnola, passando in mano a Telefonica. Colpa (o merito) dell’accordo che la compagnia spagnola ha raggiunto con Mediobanca, Generali e Intesa per salire dal 46,2 al 66% delle azioni della Telco, la società controllante della compagnia italiana dei telefoni con il 22,4%. Telefonica ha anche un’opzione per crescere ancora con un secondo aumento di capitale da 117 milioni, dopo l’ok dell’Antitrust in Brasile e Argentina, per arrivare al 70% della holding. Poi potrà anche arrivare al 100% entro il 2014.

Per il momento si tratta di un affare da 324 milioni (tanto incasseranno i grandi azionisti) che non solo priva l’Italia del suo ultimo asset nelle telecomunicazioni, ma di fatto crea una serie di criticità.

1. Per comandare basta il 22,4%

 Per governare la Telecom, una public company con l’azionariato molto diffuso, basta il 22,4% delle azioni, che è la quota posseduta da Telco.

Telefonica, salendo al 66% della controllante, si è di fatto imposta come maggiore azionista, e nel 2014 potrà addirittura rilevare tutta Telco. Quest’ultima è una società finanziaria (una scatola cinese, come si dice in gergo) finora governata da Generali (30,6%), Mediobanca (11,6%) e Intesa Sanpaolo (11,6%), impegnate nelle ultime settimane in una lunga trattativa con gli spagnoli – che ne detenevano già il 46,2% – e conclusa solo nella notte tra lunedì 23 e martedì 24 settembre.

2. In sei anni svalutazione da 2,82 a 1,09 euro

 Da quando nel 2007 fu costituita Telco, il valore delle azioni di Telecom Italia è precipitato. La holding composta da Telefonica, Generali, Mediobanca e Intesa, ha acquistato in parte le quote della vecchia Olimpia pagando un prezzo di 2,82 euro per azione a Marco Tronchetti Provera, mentre alcuni soci, come Generali e Mediobanca, hanno conferito in Telco titoli Telecom che avevano in carico a un prezzo superiore a 2,7 euro per azione.

A causa degli aumenti di capitale e di alcune svalutazioni dei titoli in portafoglio, le perdite accumulate dagli azionisti di Telco in sei anni superano la cifra di 1,3 miliardi.

I buchi nel bilancio Telecom hanno influito sul valore delle azioni possedute dalla controllante: nel 2008 il prezzo di carico dei titoli era già sceso a 2,18 euro. Poi, nel 2011, un altro calo a 1,5 euro. Infine, nel febbraio 2012, l’ultima svalutazione a 1,2 euro.

Alla vigilia del passaggio di mano, in Borsa il titolo Telecom valeva 0,59 euro, ma Telefonica ha ora valutato ogni azione 1,09 euro, destinati alle tasche dei tre grandi gruppi finanziari italiani.

3. Nessun premio per i piccoli azionisti

 A perderci, ancora una volta, sono soprattutto i piccoli investitori, che dall’operazione non traggono alcun vantaggio economico, se non parzialmente dalla crescita in Piazza Affari. Il titolo è infatti volato in Borsa nella chiusura del 23 settembre, guadagnando il 3,4% sulla scia delle voci che davano ormai vicina la conlusione della trattativa. E anche in apertura del 24 si sono registrati forti rialzi, ma è ancora da valutare il comportamento nei giorni successivi a  quello della grande euforia.

Da quando è stata fondata, Telco non ha mai remunerato i suoi azionisti, e ha richiesto due ricapitalizzazioni da parte dei soci che dovevano sostenere gli aumenti di capitale di Telecom.

Telefonica, tra l’altro, non sembra una compagnia così solida, oberata di debiti, alle prese con la crisi spagnola. D’altra parte si sa, se Roma piange, certamente Madrid non ride.

4. Telefonica ha più debiti di Telecom

 I conti di Telecom sono in sofferenza, ma quelli di Telefonica lo sono ancora di più. Ai circa 40 miliardi di debito della società italiana se ne aggiungono quindi un’altra cinquantina. Nonostante un secondo trimestre 2013 con ricavi superiori alle attese, gli spagnoli sono in calo rispetto all’anno precedente, con una riduzione del 6,8% del fatturato a 14,4 miliardi di euro, contro stime ancor più negative che prevedevano un arrivo a 14,1 miliardi.

C’è poco da stare tranquilli, comunque, perché il trend rimane non buono, sebbene secondo alcune fonti il debito del gruppo iberico sia sceso di poco sotto la soglia critica dei 50 miliardi, a quota 49,8, e Telefonica annunci di puntare ai 47 miliardi di debito entro la fine dell’anno.

D’altra parte la stessa Telco, che in Borsa ha una valutazione di 1,56 miliardi, ha sul groppone pesanti debiti: 1,05 miliardi dei quali solo con il sistema bacario.

5. Gli investimenti in banda larga sono una chimera

 Per questi motivi è difficile ipotizzare che arrivino i tanto attesi e necessari investimenti sulla banda larga e sullo sviluppo della rete italiana (peraltro non previsti dall’accordo di cessione). I margini di profitto nel settore per gli operatori europei sono in calo da tempo, e il livello degli investimenti pro-capite in ricerca e sviluppo nelle telcomunicazioni, in Europa, è inferiore di oltre il 30% rispetto a quelli americani.

Eppure, in particolar modo in Italia, sarebbe essenziale puntare sulla banda larga. Ma né Telecom né tantomeno Telefonica ne hanno la forza. Per questo, forse, lo scorporo della rete auspicato (o anche imposto) dall’Agcom potrebbe essere indispensabile.

Nel frattempo gli analisti prevedono che Telefonica, per finanziare l’acquisto, provvederà a vendere Tim Brasile, l’asset estero più importante e di maggior valore della società italiana.

http://www.vincitorievinti.com/2013/09/piange-il-telefono.html?utm_source=pulsenews&utm_medium=referral&utm_campaign=Feed%3A+vincitorievinti%2FhYpR+%28VINCITORI+E+VINTI%29

 


Tav, visita lampo di Alfano in arrivo duecento soldati

http://torino.repubblica.it/cronaca/2013/09/25/news/tav_dopo_il_capo_del_ministro_al_cantiere_arriva_alfano-67208472/?ref=HREC1-2

Stamani visita lampo del ministro dell’Interno in Valsusa a pochi giorni dall’arrivo di altri militari a presidio dell’area di Chiomonte. il ministro dell’Inbterno: “Lo Stato protegge le sue opere”

di ERICA DI BLASI
Tav, visita lampo di Alfano in arrivo duecento soldati

Sono Venuto al cantiere della Tav a pochi giorni dall’avvio della fresa che scaverà il tunnel della Torino-Lione per dire che lo Stato c’è e che difende le sue opere” Così spiega il ministro dell’Interno Angelino Alfano appena entrato nel cantiere del treno ada alta velocità. Il  numero uno del Viminale è arrivato in visita all’area della Maddalena, nel territorio di Chiomonte, dove si sta costruendo la galleria geognostica di sette chilometri, propedeutica al tunnel di base lungo 54 chilometri. Alfano è accompagnato dal commissario di governo Mario Virano, dal capo della Polizia, prefetto Alessandro Pansa,  dal prefetto di Torino Paola Basilone, dal governatore Roberto Cota, dal presidente della provincia di Torino Antonio Saitta, e dai sindaci di Chiomonte e Susa, Renzo Pinard e Gemma Amprimo“Quello di Chiomonte – ha ribadito il ministro – è un cantiere di interesse strategico, l’opera è stata votata dal Parlamento e si è già inziato a realizzarla”. Ma che ne sarà del cantiere in caso di crisi del governo? “Il cantiere è stato deciso da altri governi – risponde Alfano – è frutto di un trattato internazionale e non c’è motivo di credere che si possa fermare in caso di crisi dell’attuale governo”.

Il ministro visita il tunnel dove l’altro ieri è entrata la fresa che tra una ventina di giorni comincerà a scavare la montagna, già perforata per i primi 220 metri con tecniche tradizionali.

Virano: “I sindaci devono trattare”

Non solo: Alfano incontrerà anche gli operai che lavorano allo scavo della galleria e che spesso sono stati vittima di minacce da parte di esponenti “no Tav”. Il ministro dell’Interno avrà modo anche di vedere la talpa al lavoro: la grande fresa, ribattezzata Gea, è ormai dentro la montagna e nel giro di pochi giorni, presumibilmente ai primi di ottobre, comincerà a scavare dove finorà hanno lavorato a mano gli uomini, dando così un’accelerata ai lavori. La visita di Alfano arriva appena cinque giorni dopo la tappa in Valsusa del capo della polizia Alessandro Pansa. Un segnale per dimostrare ciò che proprio Pansa aveva detto sabato al cantiere: “L’attenzione da Roma verso quest’opera è massima”. 

La talpa durante il rodaggio

Non solo: una settimana fa proprio il Viminale ha annunciato che dal 10 ottobre altri duecento soldati raggiungeranno la Valsusa, rafforzando così il contigente di uomini chiamato a difendere il cantiere dai potenziali attacchi dei “No Tav” e, in particolare, delle frange anarcoinsurrezionaliste del movimento. E proprio il movimento No Tav sembra non volersi arrendere a questa “militarizzazione della Valle”. Il comitato di Susa-Mompantero ha annunciato una raccolta di firme e il movimento sta ipotizzando una nuova marcia di protesta a metà mese proprio a Susa.

(25 settembre 2013))

 

SYRIA – Chaliand sur la Syrie

SYRIA COMMITTEES/ GERARD CHALIAND : « LA GUERRE CIVILE A ETE PROGRAMMEE DES LE DEPART  POUR DESTABILISER LE REGIME »

 Syria Committes Website /

Avec France 5 – SANA  – PCN-SPO / 2013 09 24 /

http://www.syria-committees.org/

https://www.facebook.com/syria.committees

http://www.scoop.it/t/pcn-spo

 

Le grand géopolitologue français Gérard Chaliand dit quelques vérités sur la Syrie …

Chaliand, sur France 5, dans l’émission “C dans l’air” du 14 juin 2012 sur le thème « Hollande et Obama sous le même drapeau », rappelle quelques vérités dérangeantes sur la “guerre civile” – qui est en réalité une guerre d’agression impérialiste – programmée par la France et autres puissances en Syrie.

 Video sur l’émission :

http://www.youtube.com/watch?v=fAoiK3khtwE&feature=player_embedded

 #

Ce n’est pas la première fois que Gérard Chaliand donne un coup de pied aux thèses de ceux qui sont pressés d’en finir avec l’un des chefs d’État figurant depuis longue date sur la liste des personnalités à liquider selon Washington et Tel Aviv.

 En effet, le 21 février 2012 Gérard Chaliand affirmait déjà sur FRANCE CULTURE ce qui suit, qui tranchait totalement avec les déclarations d’Alain Juppé et d’Hillary Clinton :

« La guerre civile a été programmée (par des forces extérieures) dès le départ (du conflit), pour déstabiliser le régime qui représente les minorités, par une coalition extérieure dont les parrains sont la France et le Qatar (…) Cela devant pousser «  Sunnites contre Chiites, l’Iran étant l’adversaire numéro un… l’objectif pour frapper l’Iran devant passer par l’affaiblissement de Bachar el-Assad. »

 Et de préciser :

« S’ils (les rebelles) ne sont pas aidés par l’extérieur cela se calme ».

 Puis, faisant allusion au fait que les bandes armées djihadistes sur le terrain sont difficiles à cerner, car liées à al-Qaida, il a ajouté :

 « Les bons ne sont bientôt plus les bons…Les puissances ne savent plus qui aider. L’opposition est sans visage. Il y a des antagonismes. »

«  L’affaire (la déstabilisation) ne va pas cesser » …

 SYRIA COMMITTEES Website

 http://www.syria-committees.org/syria-committees-gerard-chaliand-la-guerre-civile-a-ete-programmee-des-le-depart-pour-destabiliser-le-regime/

La Spezia: Giovane urla “Ci vorrebbe una rivoluzione”.. denunciato!

http://osservatoriorepressione.blogspot.it/2013/09/la-spezia-giovane-urla-ci-vorrebbe-una.html

 
 
 

25 settembre 2013

 A La Spezia un ragazzo grida «Ci vuole la rivoluzione» mentre passa il capo della polizia. Rischia un anno per «grida sediziose».

 

Attenzione a escalamare qualcosa sull’opportunità di una rivoluzione. Attenzione a farlo al passaggio del capo della polizia. Si rischia un anno di galera per «grida sediziose». Rifondazione Comunista della Spezia esprime piena solidarietà al ragazzo spezzino che, nel corso della visita di venerdì scorso in questura del capo della polizia Alessandro Pansa, ha gridato «Ci vuole la rivoluzione».

«Riteniamo molto grave il trattamento attuato dalle forze dell’ordine nei confronti di un libero cittadino che ha semplicemente pronuciato una frase, senza per altro offendere nessuna delle autorità presenti. Il “reato di opinione” è un retaggio fascista che evidentemente si fa fatica a rimuovere, così come la “lesa maestà”. Un altro esempio di quanto la nostra democrazia sia malata e abbia bisogno di una seria iniezione di ricostituente», dice il Prc della città ligure in un comunicato. 

Secondo Rifondazione, l’episodio va compreso nel clima in cui «la Costituzione repubblicana, «che protegge il diritto alla libera espressione, sta per essere affondata da un governo di nominati, di condannati e di “larghe intese. «Se questo assalto non verrà fermato, le conseguenze saranno presto pagate ancora più care dai cittadini. Le istituzioni tutte dovrebbero pensare di più a difendere la nostra carta costituzionale che accusare le persone di reati inesistenti mentre altri personaggi, ben più altolocati, offendono ripetutamente e impunemente lo stato e le istituzioni stesse, magari in diretta tv a reti unificate».

Il malcapitato spezzino si aggiunge alle 17mila persone che in questo paese hanno condanne pesanti e altri guai giudiziari per reati d’opinione o comunque legati al conflitto sociale. E’ sempre più attuale la campagna per l’amnistia sociale lanciata dall’Osservatorio contro la repressione. 

A pensarci bene, però, una rivoluzione ci vorrebbe proprio.

 
Checchino Antonini da Popoff

Greenpeace et l’Arctique

 LUCMICHEL. NET/  QUE FAIT GREENPEACE DANS L’ARTIQUE RUSSE ?

 Luc MICHEL / En Bref / avec Ria Novosti – PCN-SPO /

2013 09 25 /

 Les autorités russes ont annoncé ce mardi l’ouverture d’une enquête pour “piraterie”, un crime passible de lourdes peines, contre des militants de Greenpeace qui avaient abordé une plateforme du géant russe gazier Gazprom en Arctique, dans la zone de la Mer de Barentz appartenant à la Russie.

 Cette annonce intervient tandis que le navire de Greenpeace, l’Arctic Sunrise, a été arraisonné et remorqué jusqu’à la rade de Mourmansk (nord-ouest) par les autorités russes. L’enquête a été ouverte pour “piraterie en groupe organisé”, un crime passible en Russie de 15 ans de détention. “Tous ceux qui ont participé à l’attaque de la plateforme devront répondre de leurs actes, indépendamment de leur nationalité”, a précisé mardi matin le Comité d’enquête dans un communiqué.

 Mais quel est le dessous des cartes de cette affaire ? Au-delà de la sympathie qu’usurpe depuis plusieurs années l’ONG Greenpeace …

Ceux qui me connaissent – et connaissent ma vraie biographie, pas celle des médias de l’OTAN – savent que l’écologie radicale a toujours fait partie de mes combats, dès le début des Années 70. A première vue, les combats de Greenpeace rejoignent mes péoccupations. Et le style activiste de l’ONG a été le mien dans les vingt-cing première années de mon action politique.

Simplement aujourd’hui Greenpeace est devenue une imposture occidentale. Et le parcours de certains de ses fondateurs, en Belgique notamment, les a conduit à intégrer le Système américano-occidental (à l’instar des politiciens écologistes passés en 30 ans de la gauche pacifisme au conservatisme vert-kaki et libéral)…

 Greenpeace (de l’anglais : paix verte) est une organisation non gouvernementale internationale de protection de l’environnement présente dans plus de quarante pays à travers le monde. Fondée au Canada et dont le siège est à Amsterdam. Greenpeace se présente comme « un groupe de propagande et d’action luttant contre ce qu’il estime être les plus grandes menaces pour l’environnement et la biodiversité sur la planète ».

Greenpeace prétend « concentrer son attention sur les problèmes globaux qui menacent l’environnement au sens large et qui constituent des enjeux planétaires : changements climatiques, consommation énergétique, prolifération nucléaire, dégradation de la biodiversité, pollutions génétiques, dissémination des produits toxiques »…

 QUI UTILISE CETTE ONG ET POUR QUEL INTERETS ?

 Mais il y a aussi la face obscure de l’organisation.

Dans son livre QUI A TUE L’ECOLOGIE ? (Éditions Les Liens qui Libèrent), Fabrice Nicolino dénonce l’évolution de Greenpeace vers une organisation capitaliste dirigée essentiellement par des professionnels et non plus par des militants. Il donne l’exemple de l’ancien directeur général de Greenpeace France, Pascal Husting, qui a longtemps travaillé dans le monde de la finance. Les “recruteurs d’adhérents” ne sont pas tous des bénévoles ni nécessairement des adhérents de Greenpeace, mais des salariés formés et rémunérés directement par Greenpeace. Des critiques qui rappellent les thèses du sociologue néo-machiavélien Roberto Michels sur la « tendance oligarchique » des organisations développées…

 Mais il y a plus.

Dans son action Greenpeace se confronte aux états et aux multinationales, dérange des intérêts et des projets. On connaît l’engagement de l’ONG contre l’Etat français, au temps où il s’inscrivait dans la politique gaulliste d’indépendance nationale et de refus des blocs. Une politique qui, précisément, rencontrait l’hostilité de Washington …

En Artique, l’action de Greenpeace contre la Russie intervient au moment où la zone continentale est devenue une source de tensions entre les Occidentaux – USA et NATO – et la Russie. L’Artique est avec l’Afrique un des enjeux fondamentaux du XXIe Siècle. Et les Occidentaux y contestent les droits de la Russie. L’action de Greenpeace tombe à pic (et a été menée au risque d’une catastrophe environnementale) et ce n’est sans doute pas un hasard …

 Luc MICHEL

 http://www.lucmichel.net/2013/09/24/lucmichel-net-que-fait-greenpeace-dans-lartique-russe/

_________________________

 Luc MICHEL /

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Twitter  https://twitter.com/LucMichelPCN

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Website  http://www.lucmichel.net/

 # PCN-TV/ RUSSIAN ARTIC: RUSSIA AGAINST ‘GREENPEACE PIRACY’

 PCN-TV avec RT – PCN-SPO /

2013 09 24 /

https://www.facebook.com/PCN.NCP.TV 

https://vimeo.com/pcntv

 Russia launches piracy case over Greenpeace oil rig ‘attack’, to prosecute ‘regardless of nationality’ …

 Video sur :

https://www.facebook.com/photo.php?v=1415574988660663

 Russia has launched a criminal case into suspected piracy on the high seas over Greenpeace activists scaling an Arctic offshore oil rig, in Russian Artic domain, before being arrested by border guards. The organization dismissed the allegations as ‘absurd’.

 Greenpeace staged a protest at the Prirazlomnaya oil rig in the Barents Sea (Russian terrotory) last week, saying that if an oil spill happened there it would cause enormous damage to the environment. A border guard unit of the Russian Federal Security service arrested 30 activists, including the two who scaled the installation, and towed the ship (full of electronic equipments) to the shore.

 Curiously the action of The Western NGO Greenpeace is appearing when Western powers of USA and NATO are contesting the Russian interests in Artic …

 PCN-TV & PCN-SPO / RT

 

No Tav, aggravate le misure cautelari per Forgi

http://www.infoaut.org/index.php/blog/no-tavabenicomuni/item/9067-no-tav-aggravate-le-misure-cautelari-per-forgi

altNella giornata di ieri i carabinieri hanno notificato un inasprimento delle misure cautelari a Davide ‘Forgi’, uno dei due giovani No Tav detenuti in carcere per tre settimane dopo l’arresto dello scorso 30 agosto e sottoposti da pochi giorni ad arresti domiciliari.

Entrambi, con l’alleviamento delle misure dal carcere alla detenzione in casa, avevano il permesso di ricevere visite e comunicare con l’esterno, ma si sa che quando ci sono di mezzo i No Tav valgono regole diverse! Nei giorni scorsi, infatti, durante un controllo i carabinieri hanno identificato alcune persone che in quel momento si trovavano all’interno della casa, amici e compagni di lotta di Forgi recatisi lì per salutarlo e riabbracciarlo dopo la detenzione.

Tanto è bastato ai Pm titolari dell’inchiesta per richiedere al Gip (il quale ha prontamente accolto la richiesta) un inasprimento della misura cautelare cui Forgi è sottoposto, giustificandolo col fatto che il contatto tra Davide e persone legate al movimento No Tav rappresenti un rischio oggettivo (!) per la programmazione di attacchi contro il cantiere del Tav. Da ieri, quindi, niente più visite nè comunicazioni di alcun tipo.

A quanto pare la Magistratura, i cui incubi sono ormai da tempo affollati dall’ossessione dei No Tav, si ostina ad attaccarsi a qualsiasi elemento per costruire improbabili castelli giudiziari coi quali giustificare operazioni repressive ed inasprimenti di pena che sempre più hanno il sapore di inutili accanimenti contro chi ha fatto propria la scelta di prendere parte al movimento No Tav e la porta avanti con coerenza e determinazione.

Forgi Libero! No Tav liberi!

Clarea News

http://www.tgvallesusa.it/?p=2428&fb_

WRITTEN BY: GABRIELLA TITTONEL – SEP• 25•13

Gabriella_19_no tav Clarea no galleria 24 9 2013 002Splendido pomeriggio d’autunno quello di oggi in Clarea, con boschi che stanno volgendo i colori nell’immutabile grigio del suolo rasato e del metallo dei vasconi nel vallone del cantiere. Pomeriggio dai tanti passi di visitatori, passi curiosi di persone richiamate dalla grande novità annunciata il giorno precedente, quella dell’entrata nel tunnel della rotante testa del talpino Robbins.

Testate giornalistiche, televisive, andirivieni di microfoni e di riprese: tutto ciò ha fatto parte del lunedì appena trascorso, tutti aggrappati alla notizia, poi sfumata, dei primi passi del gigante nel ventre della montagna…

Gabriella_19_no tav Clarea no galleria 24 9 2013 006Ma il lunedì è un giorno faticoso e il talpino non s’è mosso neppure di mezzo metro, preferendo godersi lo splendido sole, il lavorio degli umani intorno e probabilmente anche lo sguardo attento dei visitatori dall’altra parte delle reti… La cosa gli piace sicuramente molto perché anche oggi Robbins è stato fermo al suo posto, con tanti tecnici impegnati sulla sua coda, sempre più lunga, indaffarati a saldare, montare, controllare…

Pare comunque che per almeno altri quindici giorni Robbins potrà riposare. Poi si vedrà… L’autunno intanto avanza… Per molte creature del bosco inizierà il letargo… Anche per Robbins accadrà?

Gabriella Tittonel

24.09.13