La minaccia di Pyongyang

di Michele Paris

L’inizio di questa settimana ha segnato un ulteriore pericoloso passo avanti nell’escalation di minacce e contro-minacce nella penisola coreana tra Pyongyang e il governo di Seoul sostenuto dagli Stati Uniti. A scatenare nuovamente le ire del sempre più isolato regime del giovane leader Kim Jong-un sono state le ulteriori sanzioni contro il suo paese approvate settimana scorsa dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in risposta al test nucleare nordcoreano di febbraio, seguite dall’avvio delle annuali esercitazioni militari tra la Corea del Sud e il contingente americano nella penisola.

 

Innalzando sensibilmente i toni delle consuete minacce, il regime stalinista di Pyongyang aveva avvertito Seoul e Washington a non procedere con le esercitazioni, in caso contrario la Corea del Nord si sarebbe riservata di esercitare il proprio diritto a condurre un attacco nucleare preventivo per difendere il paese.

 

Con la partecipazione di 10 mila soldati sudco reani e 3 mila americani, l’esercitazione “Key Resolve” è invece regolarmente iniziata nella giornata di lunedì, aggiungendosi a quella denominata “Foal Eagle”, scattata il primo marzo scorso e destinata a durare fino alla fine di aprile. I comandi delle forze armate di Sud Corea e Stati Uniti hanno fatto sapere di avere avvertito Pyongyang dell’esercitazione già il 21 febbraio scorso, anche se la nuova iniziativa nel bel mezzo della grave crisi diplomatica in atto è comunque suonata come un’ulteriore provocazione per il regime di Kim.

 

Lunedì, infatti, per tutta risposta quest’ultimo ha annunciato due misure che rischiano di aggravare le tensioni già ben al di sopra dei livelli di guardia. Dando seguito alla minaccia lanciata qualche giorno fa, il principale quotidiano nordcoreano, Rodong Sinmun, ha riferito che il regime avrebbe “dichiarato nullo” l’armistizio del 1953 che pose fine alla guerra di Corea.

 

Inoltre, secondo quanto ripo rtato dall’agenzia di stampa sudcoreana Yonhap, Pyongyang avrebbe anche interrotto la linea telefonica diretta con il vicino meridionale nella città di confine di Panmunjom, situata a pochi chilometri dal complesso industriale di Kaesong, dove operano alcune compagnie di Seoul sfruttando manodopera nordcoreana a basso costo.

 

Le autorità sudcoreane, da parte loro, nei giorni scorsi avevano risposto alle minacce con toni ugualmente aggressivi, anche se il nascente governo della neo-presidente Park Geun-hye nelle ultime ore ha emesso una serie di comunicati relativamente concilianti.

 

Ad esempio, il nuovo ministro degli Esteri, Yun Byung-se, ha affermato di volere “trasformare questa fase di scontro e diffidenza in un’era di fiducia reciproca e di cooperazione con la Corea del Nord”. Il neo-ministro dell’Unificazione, invece, pur ammette ndo le difficoltà nel “discutere altre questioni mentre il Nord lancia minacce”, ha dichiarato che il suo governo prenderà in considerazione la ripresa degli aiuti umanitari verso Pyongyang.

 

Gli avvertimenti e le minacce nordcoreane, in ogni caso, sono tutt’altro che nuove, soprattutto in concomitanza con le provocatorie esercitazioni militari congiunte tra Seoul e Washington.

Inoltre, secondo la maggior parte degli analisti, la Corea del Nord non possiede ancora la necessaria tecnologia per lanciare un attacco preventivo con testate nucleari contro la Corea del Sud né, tantomeno, contro gli Stati Uniti. Un’iniziativa di questo genere, oltretutto, scatenerebbe una durissima reazione da parte dei due paesi alleati, determinando con ogni probabilità la fine del regime di Kim Jong-un.

 

L’atteggiamento sempre più provocatorio di Pyongyang sembra piuttosto indicare un certo grado di disperazione nel tentativo di bilanciare esigenze di politica interna con la necessità ultima di giungere ad un qualche accordo con gli Stati Uniti per porre fine all’isolamento e all’arretratezza in cui versa il paese.

 

I più recenti segnali di una disponibilità a trattare con Washington sono stati infatti lanciati in qualche modo ancora nelle ultime settimane, quando Kim ha ospitato nel mese di gennaio il CEO di Google, Eric Schmidt, a ssieme all’ex ambasciatore USA presso l’ONU, Bill Richardson, nonché più recentemente l’ex stella dell’NBA, Dennis Rodman, al quale avrebbe detto tra l’altro di confidare addirittura in una chiamata del presidente Obama.

 

Qualsiasi minima apertura da parte di Pyongyang continua però ad essere respinta fermamente dalla Casa Bianca, da dove si insiste ad imporre come condizione preventiva per la riapertura del dialogo lo stop al programma nucleare nordcoreano. Il governo di Washington, d’altra parte, ha tutto l’interesse a vedere aumentare le tensioni nella penisola di Corea, dal momento che l’aggravarsi della situazione giustifica un maggiore impegno delle forze armate americane in questa parte del globo, ufficialmente per difendere Seoul ma in realtà con l’obiettivo di aumentare le pressioni sulla Cina nell’ambito della cosiddetta “svolta” asiatica dell’amministrazione Obama.

 

Pechino, infatti, si ritrova in una situazione sempre più delicata in seguito all’aggravamento delle tensioni al suo confine nord-orientale. Le provocazioni di Pyongyang sono chiaramente viste con apprensione crescente dal regime cinese, tanto che quest’ultimo ha dato il proprio sostegno anche all’ultimo round di sanzioni ONU seguite al terzo test nucleare nordcoreano, visto che la situazione sempre più tesa nella penisola di Corea consente appunto agli Stati Uniti di mantenere una significativa presenza nel paese alleato e di adoperarsi per la costruzione di uno scudo anti-missile diretto principalmente, anche se non ufficialmente, contro la Cina.

 

L’eventuale ottenimento di armi atomiche efficaci da parte nordcoreana provocherebbe inoltre una probabile corsa al nucleare nella regione, in particolare da parte dei due principali alleati di Washington: Giappone e Corea del Sud. Di questa possibilità s i discute già da qualche tempo a Seoul e a Tokyo, sia in risposta al programma militare di Pyongyang che nell’ambito delle dispute territoriali tra la Cina e svariati altri paesi dell’Asia orientale, anch’esse alimentate dall’offensiva diplomatica e militare statunitense nel continente.

 

Allo stesso tempo, Pechino non intende però rompere del tutto con la Corea del Nord, così da mantenere una certa capacità di influenzare a proprio vantaggio le decisioni di Pyongyang grazie soprattutto alle relazioni commerciali bilaterali relativamente solide. Un crollo del regime di Kim provocherebbe d’altra parte uno sgradito flusso di profughi entro i confini cinesi e una più che probabile riunificazione della penisola sotto l’influenza americana.

 

In ultima analisi, dunque, il deterioramento in atto dei rapporti tra le due Coree è in primo luogo il risultato della strategia americana volta ad isolare Pyongyang e a contenere l’espansionismo cinese. Una pol itica sconsiderata quella dell’amministrazione Obama, che continua a spingere inevitabilmente Kim Jong-un e il suo entourage ad adottare una linea sempre più dura nei confronti di Washington e del vicino meridionale, facendo aumentare vertiginosamente le probabilità di un rovinoso conflitto nella penisola di Corea a 60 anni di distanza dalla fine della guerra che continua a divedere i due paesi.

http://www.altrenotizie.org/esteri/5377-la-minaccia-di-pyongyang.html

Ministro francese: Macchè dittatore! Chávez è stato come De Gaulle

Il ministro francese Victorin Lurel, intervistato da Europe 1, ha respinto la definizione di “dittatore” riferita a Chávez da parte di media. Di ritorno da Caracas, dove Lurel aveva rappresentato il governo francese alle esequie del defunto presidente venezuelano, si è smarcato dall’intossicante campagna mediatica e dalle banalizzazioni in voga nei media e negli ambienti politici europei. Il ministro e amico di Hollande ha messo i puntini sulle i: «Tutt’altro che dittatore! Hugo Chávez è stato Charles De Gaulle e Léon Blum. Chávez è stato De Gaulle 

perché è stato capace di un cambiamento fondamentale delle istituzioni venezuelane ma è stato anche Léon Blum, e con ciò intendo il Fronte popolare, perché ha incarnato la lotta contro l’ingiustizia. Sono sicuro che mi sarà rimproverato, ma penso che il mondo guadagnerebbe ad avere molti dittatori come Chávez che, durante 14 anni, ha promosso e rispettato i diritti dell’uomo».

A parte il principe ereditario di Spagna, l’Unione Europea e i governi nazionali hanno inviato a rappresentarli personaggi di terza fila, con l’eccezione della Francia che ha inviato il ministro Lurel. Hollande non si è sbagliato perchè alle esequie di Chávez hanno partecipato 33 capi di Stato e 55 delegazioni. La Russia, Cina, India e Brasile erano presenti con esponenti di primo piano, e questo significa che il polo emergente geoeconomico del BRICS non sottovaluta, nè si lascia fuorviare, dalla psy-ops occidentali. La presenza minimalista dei governi europei parla chiaramente del miopismo delle attuali classe dirigenti e del  totale appiattimento sulle posizioni USA che -nella fattispecie- ha brillato con una solitudine continentale. 

 

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Bersani, quei pregiudizi su Hugo Chávez

 “Non vorrei che dopo Berlusconi arrivasse Chávez…”, ha detto Pierluigi Bersani alle prese con la situazione politica di questo travagliato post elezioni 2013. Tralasciando il contesto in cui il leader del PD ha proferito queste parole, rimane evidente il fatto che il termine di paragone è stato infelice. Hugo Chávez non è stato un burlone millantatore come l’ex Premier che gli italiani mostrano di amare tanto. Chávez è stato un dirigente politico che ancora vivo era già una leggenda. Se così non fosse, non avrebbe lasciato il suo popolo in lacrime: da quando è morto, le finestre del suo Paese sono tutte chiuse. Questo significa che la gente lo amava. Il Venezuela lo ricorderà per sempre. E giacché ha incarnato l’ora del riscatto della sinistra venezuelana dono anni di sconfitte, forse meriterebbe più considerazione anche da quella che ancora osa definirsi sinistra italiana.

Vogliamo solo qui ricordare che quando il Venezuela era in mano alla democrazia indebitata fino all’osso con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi, i poveri e gli indigenti erano il 70% (49 e 21%) della popolazione. Nel Venezuela bolivariano del dittatore populista Chávez, tanto inviso a Bersani, ne restano meno della metà (27 e 7%). Chávez liberò il suo Paese dal giogo del FMI e ha moltiplicato del 2.300% gli investimenti sulla ricerca scientifica. Come se ciò non bastasse, con l’aiuto decisivo di oltre 20.000 medici cubani, ha costruito da zero un sistema sanitario pubblico in grado di dare risposte ai bisogni di tutti. Questi sono dati oggettivi inconfutabili. E non bisogna essere rivoluzionari o etichettati politicamente per riconoscere certi meriti, basta solo essere intellettualmente onesti. Oggi Hugo Chávez entra nella storia e a decretarlo è il suo popolo. Cosa c’è in questa verità che non è chiaro a Bersani?

http://elegitto.blog.kataweb.it/?p=5683

 

Il Fisco fa il pieno: aumentano del 2,8% nel 2012!

12 marzo 2013 Di L’indipendenza

di MARIETTO CERNEAZ

Il paradosso è il seguente: da un lato la crisi sta mordendo ed impoverendo pesantemente gli abitanti di questo paese, dall’altro le entrate fiscali in crescita nel 2012, causa la “cura” Monti. L’anno scorso – secondo il dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia – le entrate tributarie erariali si sono attestate a 423,903 miliardi di euro, con una crescita del 2,8% rispetto all’anno prima. Le entrate mostrano “una crescita tendenziale ancora più sostenuta”, pari al 3,2%, se per un confronto omogeneo il risultato è calcolato al netto dell’imposta sostitutiva sul leasing immobiliare una tantum dell’aprile 2011.

La crescita delle entrate rispetto al 2011, sottolinea il Tesoro, è dovuta “agli effetti delle principali misure correttive adottate a partire dalla seconda metà del 2011, che hanno contribuito sul risultato del 2012 per oltre 21 miliardi di euro (Imu quota erario, aumento aliquota ordinaria Iva, aumento accise, modifiche tassazione rendite finanziarie, aumento addizionale Ires settore energetico, ecc.)”. ”Al netto del gettito acquisito per effetto di queste misure – aggiunge il ministero dell’Economia – il risultato del 2012 sarebbe stato inferiore a quello del 2011 di circa il 2,5%, sostanzialmente in linea con il peggioramento del quadro congiunturale”.

Il contributo più importante al risultato positivo delle entrate erariali – si legge nella nota del ministero dell’Economia – viene dalle imposte dirette che hanno chiuso il 2012 con +10,686 miliardi rispetto al 2011 (+4,9%) per un ammontare complessivo di 228,776 miliardi). Le imposte indirette si sono, invece, attestate sostanzialmente allo stesso livello del 2011 (+1,011 miliardi pari a +0,5%) per un ammontare complessivo di 195,127 miliardi.  Il gettito Irpef nel 2012 – prosegue la nota – é cresciuto dell’1,1% (+1,865 mld), per effetto dell’andamento positivo delle ritenute sui redditi dei lavoratori dipendenti privati (+2,4%) e dell’autoliquidazione (+5,8%) a fronte della sostanziale stabilità delle ritenute sui redditi dei dipendenti pubblici e sui redditi da pensione (+0,1%) e del calo delle ritenute d’acconto sui redditi dei lavoratori autonomi (-4,5%) che risentono degli effetti della congiuntura negativa.

Se l’Imu ha contribuito per svariati miliardi ad ingrossare la borsa statale, dall’altro – a dimostrazione di come i consumi stiano frenando –  il gettito Iva è calato complessivamente dell’1,9%.

da L’indipendenza

 


 

http://www.rischiocalcolato.it/2013/03/il-fisco-fa-il-pieno-aumentano-del-28-nel-2012.html