Mali, Hagel e i Rothschild

febbraio 1, 2013

Dean Henderson, 31 gennaio 2013

Ieri, per inviare un messaggio al Comitato per le Forze Armate del Senato degli Stati Uniti, Israele ha bombardato un convoglio sul confine Siria/Libano. Sembra aver funzionato. Questa mattina, i falchi-galline presenti in tale commissione, come McCain e Inhofe, erano occupati a mettere sulla graticola la nomina di Obama a segretario alla Difesa del senatore Chuck Hagel (R-NE), sulla sua indefessa fedeltà alla madrepatria Israele e al complesso militare-industriale.
Nel frattempo, i bankster Illuminati della City di Londra, guidati dai Rothschild che gestiscono quel circo altrimenti noto come Israele, cercano di arraffare più risorse globali, e questa volta nel paese nord africano del Mali. A febbraio i ribelli tuareg del nord del Mali, con l’aiuto dei resti di al-Qaida addestrati e armati dalle agenzie di intelligence dei Rothschild, MI6 e Mossad, per rovesciare il governo di Gheddafi della vicina Libia, attaccavano le truppe governative nella città di confine algerina di Tinzaouaten.
I  tribali secolari tuareg, rappresentati dal Movimento di Liberazione Nazionale Azawad, chiedono da decenni una maggiore autonomia dal governo centrale di Bamako. Eppure sono sempre stati contenti di rimanere nella loro patria, nel nord del Mali. Ma le forze libiche di al-Qaida nel Maghreb, che si fanno chiamare Ansar al-Din, hanno chiesto l’imposizione della legge islamica nel nord del Mali, e poi misteriosamente hanno attaccato verso sud. Perché, se stavano tentando di trasformare il nord del Mali in un santuario di al-Qaida (come la propaganda “ufficiale” ci dice),  attaccare il governo centrale del Mali e far saltare la loro copertura? Questi islamisti sono anche responsabili, con l’aiuto degli Emirati Arabi Uniti, dell’attacco contro l’ambasciata degli Stati Uniti a Bengasi, dove è rimasto ucciso l’ambasciatore statunitense Christopher Stevens con altri tre, montando il vecchio trucco della destabilizzazione M16/M ossad a nome dei vampiri di risorse della City dei Rothschild di Londra (vedasi il mio libro “Big Oil & i suoi banchieri”).
Parlando, la settimana scorsa, al Centro Bunche Ralph, il capo di AFRICOM, Generale Ham, ha ammesso che gli Stati Uniti avevano addestrato molti dei ribelli coinvolti nel colpo di stato in Mali del 2012, tra cui il loro leader, capitano Amadou Sanogo. Il 18 aprile 2012 il democraticamente eletto, per due volte, Presidente Amadou Toumani Toure è stato costretto a dimettersi poco prima delle elezioni presidenziali in cui non poteva candidarsi. È interessante notare che tutti gli altri vincitori potenziali in quelle elezioni, erano contrari a qualsiasi  intervento straniero in Mali per “respingere” la ribellione di “al-Qaida“.
Nonostante i sentimenti anti-intervento del popolo del Mali, subito ci furono le grida dall’ECOWAS e dal Consiglio di sicurezza dell’ONU sulla necessità di inviare truppe straniere in Mali. L’11 gennaio i francesi, ex padroni coloniali, hanno fatto proprio questo. Allora perché i francesi intervengono in Mali, ma non nella Repubblica Centrafricana, il cui governo è stato attaccato dai ribelli? La vera ragione della provocazione di al-Qaida, era rendere “necessario” l’intervento straniero per impadronirsi delle ricche risorse minerarie recentemente scoperte nel sottosuolo del Mali. Già terzo produttore africano di oro, il Mali è anche ricco di diamanti, uranio, ferro, manganese, bauxite, litio, fosfato, lignite, rame, gesso e marmo. L’esplorazione petrolifera è recentemente aumentata in Mali e la nazione ha il potenziale per diventare una importante via di comunicazione tra l’Africa sub-sahariana e l’Europa.
Con l’ennesimo furto di risorse da parte dei Rothschild, questa volta in gran parte pagata dai generosi contribuenti della classe media francese, la conferma di Chuck Hagel può essere vista come un evento causale. Se confermato, potremmo vedere sia un significativo allontanamento da Israele che dei sostanziali tagli al Pentagono. Bombardamenti di frontiera, escalation e altre minacce a parte, è il momento di sciacquare via dalla siepe i terroristi israeliani, e seguirne la puzza per tutta la catena alimentare arrivando alla feccia che i Rothschild mantengono per eseguire queste provocazioni.

Dean Henderson è l’autore di quattro libri: Big Oil & i loro banchieri nel Golfo Persico; I quattro cavalieri, le otto famiglie e le loro reti d’intelligence, del narcotraffico e del terrorismo globali, The Grateful Unrich: Revolution in 50 Countries, Das Kartell der Federal Reserve, e Stickin ‘in to the Matrix . Potete iscrivervi gratuitamente alla sua rubrica settimanale Left Hook @ Deanhenderson.wordpress.com

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora


http://aurorasito.wordpress.com/2013/02/01/mali-hagel-e-i-rothschild/

 

Siria, l’aggressione di Tel Aviv

di Michele Paris

Nonostante i ripetuti avvertimenti da parte di alcuni dei paesi confinanti con la Siria circa il pericolo di possibili incursioni nei loro territori di un regime ormai disperato, alla fine a rendersi protagonista di un’aggressione deliberata nell’ambito del conflitto in corso da quasi due anni nel paese mediorientale è stato, non troppo sorprendentemente, Israele.

Confermando come il governo di Tel Aviv costituisca la vera principale minaccia alla stabilità della regione, alcuni aerei israeliani hanno infatti condotto un bombardamento in territorio siriano nella giornata di mercoledì, anche se l’obiettivo dell’attacco rimane tuttora avvolto nel mistero.

Secondo quanto affermato da fonti interne al governo americano, il quale era stato informato in anticipo dell’operazione, i velivoli israeliani avrebbero colpito un convoglio che trasportava equipaggiamenti militari destinati a Hezbollah, in Libano.

Per il regime di Bashar al-Assad, invece, l’obiettivo sarebbe stato un altro. L’agenzia di stampa ufficiale SANA, citando il comando delle forze armate siriane, ha descritto la distruzione di un “centro di ricerca scientifico” situato a Jamraya, alle porte di Damasco, dove si lavorava per “innalzare i livelli di resistenza e auto-difesa”.

Secondo questa versione, condivisa anche dai vertici di Hezb ollah, oltre ai danni all’edificio sarebbero state uccise due persone che vi lavoravano, mentre cinque sarebbero i feriti. Durissima, com’è ovvio, è stata la condanna proveniente da Damasco, da dove l’incursione è stata definita “una palese violazione della sovranità e dello spazio aereo siriano”.

L’attacco israeliano sembra aver fatto aumentare, forse volutamente, il rischio di un allargamento del conflitto, come è apparso evidente anche dal commento preoccupato della Russia. Il Ministero degli Esteri di Mosca ha affermato giovedì di voler fare chiarezza sull’accaduto, bollando il bombardamento come “una seria violazione della carta delle Nazioni Unite”. Nello scorso fine settimana, inoltre, l’altro principale alleato internazionale di Assad – l’Iran – aveva a sua volta lanciato un avvertimento tramite Ali Akbar Velayati, consigliere dell’Ayatollah Ali Khamenei sulle questioni di politica estera, sostenendo che “un attacco contro la Si ria verrebbe considerato come un attacco contro l’Iran”.

Israele, come di consueto, non ha rilasciato alcun commento in proposito, poiché farlo avrebbe comportato l’ammissione di un atto palesemente illegale e non provocato. I governi di Tel Aviv, d’altra parte, non sono nuovi a questo genere di operazioni.

Sempre in Siria, Israele aveva bombardato una presunta installazione nucleare nel 2007, mentre lo scorso ottobre, sempre senza alcuna conferma ufficiale, l’obiettivo era stata una fabbrica di armi a Khartoum, la capitale del Sudan.

In ogni caso, il più recente attacco sembra essere stato preparato da alcuni giorni, visto che l’esercito del Libano ha affermato mercoledì che aerei israeliani nell’ultima settimana avevano aumentato sensibilmente le loro attività nello spazio aereo di questo paese. Inoltre, da svariati giorni il governo Netanyahu stava suonando l’allarme sulla sorte dell’arsenale di armi chimiche a disposizione di Assad, minacciando di intervenire direttamente in Siria nel caso fosse emersa prova che queste armi potessero finire nelle mani di terroristi islamici o di Hezbollah.

Il pretesto delle armi chimiche è stato di nuovo riproposto in quest’ultimo periodo anche da Washington e da altri governi occidentali, verosimilmente per tornare ad offrire all’opinione pubblica internazionale un motivo per un possibile intervento esterno in Siria, visto da molti sempre più necessario per sbloccare la situazione alla luce dell’incapacità dei “ribelli” di dare la spallata finale al regime di Damasco.

Secondo l’opinione di vari commentatori citati dai media occidentali in questi giorni, Israele avrebbe agito in particolare per il timore che Assad stesse inviando a Hezbollah, oltre ad armi chimiche, sofisticati missili anti-aereo SA-17. Questa eventualità, infatti, ostacolerebbe non poco l’attività di Israele nei cieli del Libano, anche se ad alcuni appare improbabile che un regime sotto assedio decida di privarsi di un sistema così efficace in un simile frangente.

Se così fosse, Tel Aviv avrebbe commesso mercoledì un atto di guerra illegale e non provocato contro un paese sovrano ufficialmente per evitare che un altro paese sovrano – il Libano – venisse in possesso di strumenti di difesa volti a impedire sempre a Israele di invadere a piacimento il suo spazio aereo o di lanciare eventuali attacchi aerei in maniera indisturbata.

Per quanto riguarda poi il pericolo dei jihadisti attivi in Siria, gli scrupoli israeliani appaiono quanto meno insoliti, dal momento che questi ultimi sono da tempo già armati e finanziati più o meno direttamente proprio dall’alleato americano, ma anche da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. Ugualmente, non sembra del tutto da escludere che questi gruppi possano già avere a disposizione anche armi chimiche, provenienti dall’arsenale di Gheddafi e giunte nel paese mediorientale assieme ai guerriglieri che hanno combattuto in Libia con il sostegno della NATO.

Il bombardamento di Israele, al di là del bersaglio colpito, sembra dunque avere più probabilmente come possibile scopo il tentativo di provocare una reazione da parte di Damasco, così da aprire un nuovo fronte in cui impegnare il regime e allargare il conflitto in corso, in modo da ridare fiato alle forze di opposizione e fornire una giustificazione ad un intervento diretto nel paese ai loro sponsor occidentali e nel mondo arabo.

Assieme ai continui attacchi suicidi dei gruppi estremisti presenti in Siria, inoltre, un ulteriore segnale di debolezza dei ribelli è giunto sempre mercoledì proprio dal leader della cosiddetta Coalizione Nazionale delle Forze della Rivoluzione Siriana e dell’Opposizione, Moaz al-Khatib, ex dipendente della Shell e già imam della famosa moschea degli Omayyadi di Damasco.

Dal suo profilo su Facebook, Khatib ha infatti per la prima volta mostrato una certa disponibilità al dialogo con rappresentanti di Bashar al-Assad in vista di una nu ova fase di transizione, a condizione però che il regime liberi qualcosa come 160 mila detenuti e rinnovi il passaporto dei dissidenti da lungo tempo in esilio all’estero. L’inaspettata uscita di Khatib ha suscitato le immediate critiche di altri esponenti dell’opposizione, costringendolo a correggere il tiro e ad affermare che quelle così espresse erano solo opinioni personali.

Alla luce del massiccio impegno messo in atto dagli Stati Uniti e dagli altri governi che si adoperano per abbattere il regime di Damasco, appare al momento improbabile che un qualche negoziato tra Assad e i ribelli possa essere avviato. Tuttavia, le aperture di Khatib dimostrano le inquietudini e la frustrazione diffusa tra i vertici dell’opposizione per un conflitto in continuo stallo e per il ruolo sempre più importante che stanno assumendo nel paese le milizie integraliste.

In questo inquietante scenario, perciò, appare più che plausibile che alcuni membri dell’opposi zione stiano iniziando a pensare ad una soluzione di compromesso che, pur mantenendo sostanzialmente inalterato il sistema di potere dell’attuale regime, dia almeno una parvenza di cambiamento e, soprattutto, assicuri loro un ruolo di primo piano nel futuro sempre più incerto della Siria.

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http://www.altrenotizie.org/esteri/5309-siria-laggressione-di-tel-aviv.html

 

Mali: una guerra per nasconderne un’altra

Mercoledì 30 Gennaio 2013 20:01 

 

di Thierry Meyssan

“L’appetito vien mangiando”, dice il proverbio. Dopo aver ricolonizzato la Costa d’Avorio e la Libia, e dopo aver cercato d’impadronirsi della Siria, la Francia mira di nuovo al Mali per arrivare anche all’Algeria.

Durante l’attacco alla Libia, Francia e Gran Bretagna hanno fatto ampio uso degli islamisti per combattere le forze armate di Tripoli, poiché i separatisti della Cirenaica non erano interessati a rovesciare Mu‘ammar Gheddafi una volta che Bengasi fosse diventata indipendente. Al momento della caduta della Libia, sono stato personalmente testimone dell’accoglienza dei leader di AQIM (al-Qa‘ida nel Maghreb Islamico) da parte dei membri del Consiglio nazionale di transizione presso il Corinthia Hotel, il quale era stato messo in sicurezza da un gruppo inglese specializzato, venuto appositamente dall’Iraq. Era ovvio che il successivo obiettivo del colonialismo occidentale sarebbe stata l’Algeria, e che AQIM avrebbe avuto un ruolo, ma non immaginavo che il conflitto potesse essere utilizzato per giustificare un’ingerenza internazionale.

Parigi ha così immaginato uno scenario nel quale la guerra penetrerà in Algeria attraverso il Mali. 
Poco prima della presa di Tripoli da parte della Nato, i francesi sono riusciti a corrompere e raggirare alcuni gruppi tuareg. Hanno avuto il tempo di finanziarli ampiamente e di armarli, ma era già troppo tardi per far giocare loro un ruolo sul terreno. Una volta finita la guerra, ritorneranno nel loro deserto.

I Tuareg sono un popolo nomade che vive nel Sahara centrale e ai bordi del Sahel, un grande spazio comune tra la Libia e l’Algeria, il Mali e il Niger. Se in effetti hanno ottenuto la protezione dei primi due Stati, sono invece stati abbandonati dagli ultimi due. Pertanto, sin dagli anni Sessanta, hanno continuato a mettere in discussione la sovranità del Mali e del Niger sulle loro terre. Naturalmente, i gruppi armati dalla Francia hanno deciso di utilizzare le loro armi per raggiungere le loro rivendicazioni in Mali. Il Movimento Nazionale per la Liberazione del Azawad (MNLA) ha preso il potere in quasi tutto il Mali settentrionale dove esso ha sede. Tuttavia, un piccolo gruppo di tuareg, Ansar ed-Din, legato ad AQIM, ha approfittato della possibilità per “imporre la Shari‘a” in alcune località [sulla dibattuta questione della “applicazione della Shari‘a”, si veda la nota 3 di quest’articolo, NdT].

Il 21 marzo 2012, uno strano colpo di stato è stato perpetrato in Mali. Un misterioso “Comitato per il recupero della democrazia e della restaurazione dello Stato” (CNRDRE) ha rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré e ha dichiarato di voler ripristinare l’autorità del Mali nel nord del paese. Ciò si è tradotto in una grande confusione, i golpisti non essendo in grado di spiegare come la loro azione avrebbe migliorato la situazione. Il rovesciamento del presidente è tanto più strano se si pensa che le elezioni presidenziali erano state programmate cinque settimane più tardi e che il presidente uscente non si sarebbe ripresentato. Il CNRDRE è composto da ufficiali addestrati negli Stati Uniti. Esso ha impedito lo svolgimento delle elezioni e ha trasmesso il potere ad alcuni candidati, in questo caso il francofilo Dioncounda Traore. Questo gioco di prestigio è stato legalizzato dalla CEDEAO, il cui presidente è nient’altro che Alassane Ouattara, messo al potere un anno fa grazie dell’esercito francese in Costa d’Avorio.

Il colpo di stato ha accentuato la divisione etnica del paese. Le unità scelte dell’esercito del Mali (formate dagli Stati Uniti), con un commando tuareg, hanno aderito alla ribellione con armi e forniture.
Il 10 gennaio, Ansar ed-Dine, supportato da altri gruppi islamici, ha attaccato la città di Konna. Ha lasciato dunque il territorio tuareg per espandere la “legge islamica” nel sud del Mali. Il Presidente di transizione Dioncounda Traore ha dichiarato lo stato di emergenza e ha chiesto aiuto alla Francia. Parigi è intervenuta quindi nelle ore seguenti per evitare la presa della capitale Bamako. Prevedendo la situazione, l’Eliseo aveva già posizionato in Mali uomini del 1° Reggimento Paracadutisti di fanteria della Marina (“La Coloniale”) e il 13° Reggimento di paracadutisti “Dragoni”, alcuni elicotteri del COS, tre Mirage 2000D, due Mirage F-1, tre C135, un C130 Hercules e un Transall C160.

In realtà, è improbabile che Ansar ed-Dine abbia rappresentato una minaccia reale, perché la vera forza di combattimento non sono gli islamisti, ma i nazionalisti tuareg, i quali non hanno nessuna ambizione nel sud del Mali.

Per condurre il suo intervento militare, la Francia ha chiesto aiuto a molti stati, tra cui l’Algeria. Algeri si è trovata così intrappolata: o accettava di cooperare con l’ex potenza coloniale o si assumeva il rischio di un reflusso islamico sul suo territorio. Dopo qualche esitazione, ha accettato di aprire il suo spazio aereo al transito francese. Ma alla fine, un gruppo islamista non ben identificato ha attaccato un sito di estrazione del gas della British Petroleum, nel sud dell’Algeria, accusando Algeri di complicità con Parigi nell’affare maliano in questione. Un centinaio di persone sono state prese in ostaggio, non solo algerini e francesi. L’obiettivo è ovviamente quello di internazionalizzare il conflitto portandolo in Algeria.

La tecnica d’interferenza francese è una copia di quella dell’Amministrazione Bush: utilizzare dei gruppi islamici per creare conflitti, poi intervenire ed installarsi sul luogo col pretesto di risolverli. È per questo che la retorica di François Hollande fa eco a quella della “guerra al terrore”, tra l’altro abbandonata da Washington. Si ritrovano in questo gioco sempre i soliti protagonisti: il Qatar detiene alcune azioni di grandi società francesi con sede in Mali, e l’emiro di Ansar ed-Dine è vicino all’Arabia Saudita.

Il “piromane-pompiere” è anche un apprendista stregone. La Francia ha deciso di rafforzare il suo dispositivo anti-terrorismo col piano Vigipirate. Parigi non ha paura di azioni islamiste provenienti dal Mali sul suolo francese, ma del reflusso jihadista dalla Siria. In effetti, nel corso di due anni, la DCRI ha promosso il reclutamento di giovani musulmani francesi per combattere con l’Esercito Siriano Libero (ESL) contro lo Stato siriano. A causa della disfatta dell’ESL, questi jihadisti stanno tornando al loro paese d’origine in cui potrebbero essere tentati, solidali con Ansar ed-Dine, di utilizzare le tecniche di terrorismo che hanno imparato in Siria.

Fonte: Reseau Voltaire, 21 gennaio 2013 (traduzione di Europeanphoenix.it ©)

http://europeanphoenix.it/component/content/article/8-internazionale-/517-mali-una-guerra-per-nasconderne-unaltra

 

Musy

 

Questa foto è stata pubblicata la mattina del 21 marzo 2012 sul quotidiano on line LaStampa.it…


E’ bene ricordare il gesto da pennivendoli, quel giorno, quando spararono a Musy. Immediatamente l’attentato fu accostato al movimento NOTAV, visto che Musy è un “sitavvardo”, pubblicando in prima pagina la foto di Musy mentre discuteva con Alberto Perino e sullo sfondo le bandiere NO TAV.
Oggi sono finalmente arrivati a scoprire il balordo – per ora usiamo la definizione “presunto” – Francesco Furchì, 49 anni, ragioniere torinese candidato nella liste della stessa coalizione di Musy…PIU’ LONTANO DAI NOTAV DI COSI’ SI MUORE (battutaccia…).
ORA LE PUBBLICHE SCUSE DA PARTE DI LA STAMPA SAREBBERO D’OBBLIGO…ma non succederà mai.

Barbarie e Crimini Contro l’Umanità: L’Imperialismo francese in Africa

Giovedì, Gennaio 31th/ 2013

– Mère Agnès-Mariam – Una testimonianza contro le barbarie

Barbarie e Crimini Contro l’Umanità: L’Imperialismo francese in Africa

14 Colonie Africane di Schiavi per l’Eliseo: Benvenuti nel “Nuovo Ordine Mondiale”

Comunicato Stampa di Mère Agnès-Mariam:Una testimonianza contro le barbarie, le ingannevoli

“Primavere Arabe & Co” e il Colonialismo francese in Africa.

Ecco il  ( Demoniaco ) Nuovo Ordine Mondiale

 Costa d’Avorio                                                                                                                      

 Dies ist, wie Frankreich 14 afrikanische Länder unter der  – YouTube

www.youtube.com/watch?v=obxfn-… (VIDEO IN LINGUA ITALIANA)

 Un Film-Documentario con testimonianze agghiaccianti sulla Crudeltà dell’Imperialismo Occidentale in Africa

(nel caso specifico quello francese) e sulla Falsità di quelle che i media occidentali chiamano “Primavere Arabe“.

Vedi Siria, Libia, Egitto, Afghanistan, Iraq, Congo, Mali, Palestina, Costa d’Avorio.  Solo per fare alcuni esempi.

 Probabilmente alla fine di questo video, a ragione, molti tra voi si vergogneranno  di essere europei ed occidentali…..

e ciò malgrado la strumentale e pretestuosa recente assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea, ritirato dai Presidenti di Parlamento Europeo, Consiglio Ue e Commissione.

Malgrado qualcuno dica che in Europa da oltre cinquant’anni a questa parte regni la Pace. Ma dov’è questa Pace? Forse il sangue

degli Africani o dei Mediorientali è diverso dal sangue europeo?

Molti tra voi, dunque, si vergogneranno come ci vergogniamo noi ora. 

 Quel che vedrete è la semplice e scioccante crudeltà del Nostro Quotidiano. Una verità nascosta ed occultata dai

cosiddetti Media “Democratici” e da tutte quelle organizzazioni e ONG cosiddette “pacifiste” che non sono altro che le complici

sentinelle dei burattinai di questdemoniaco Nuovo Ordine Mondiale.

 Una preghiera: 

Fate girare questo filmato sul web e diffondetelo presso tutti i vostri amici.

Non possiamo far finta di niente rispetto a tutto ciò…

E poi presto o tardi potremmo essere tutti sulla stessa barca. Grazie

(Redazione “Qui Europa”)

http://www.quieuropa.it/barbarie-e-crimini-contro-lumanita-limperialismo-francese-in-africa/

Il razzismo del Mali e l’onore della Francia

 Da newsring 

Le rappresaglie dell’esercito nazionale del Mali contro la comunità Tuareg del nord, dove i soldati sono arrivati grazie all’operazione francese Serval. suscitano  preoccupazione in ambito internazionale.  “A Seribala, non lontano da Niono, un testimone oculare ha descritto l’esecuzione da parte dei soldati del Mali di due civili Tuareg e del saccheggio delle loro case” scrive su Le Monde Philippe Bolopion responsabile delle relazioni di Human Rights Watch con l’Onu.  Sostiene che questi eventi mettono a rischio l’onore della Francia: “Il pericolo? L’esercito francese apre la strada del Nord alle truppe del Mali, affamate di vendetta,  che commettono o tollerano abusi contro i civili e i prigionieri accusati di aver appoggiato il  nemico”, dice l’ex corrispondente presso le Nazioni Unite.

Non c’è dubbio che la Francia si trova in una tenaglia. Non può escludere l’esercito del Mali dalle operazioni poiché il suo intervento sarebbe immediatamente qualificato come aggressione a una nazione sovrana. Non può lasciare il campo perché l’esercito del Mali, a più riprese sconfitto sia dai Tuareg dei MNLA che dagli islamisti ,ha sete di vendetta sulla popolazione, nonostante a suo tempo questa abbia subito, e non chiesto, l’arrivo degli jihadisti.

Per proteggere i suoi interessi nel vicino Niger –  in concreto la via aperta per l’esportazione dalle miniere di uranio dell’Areva – Hollande ha lanciato un’operazione che sta portando e porterà a lungo una recrudescenza dei conflitti etnici.


Occorre ricordare che la popolazione, in maggioranza Mandinga, di pelle nera del sud Mali ha sempre visto di malocchio sia la componente araba che quella Tuareg, di pelle bianca, che costituisce la maggioranza del nord, la regione povera e trascurata dell’Azawad.

Al seguito delle truppe regolari arriva la milizia Ganda Koy, una formazione razzista regolarmente armata dal governo negli anni addietro, nemica tradizionale dei Tuareg.

Sia Amnesty che Repoter senza frontiere hanno già denunciato crimini contro la popolazione, vedere fonti in  Northern MALI: the abuses of the army on the population are not new

Non è chiaro come potrà uscirne a testa alta la Francia, tanto più che l’arrivo delle truppe dei paesi vicini, sotto l’ombrello della missione affidata dall’Onu, porterà in Mali contingenti restii a collaborare sotto un comando unitario. Al momento, il capo dell’esercito congiunto dei pae4si dell’Africa Occidentale è  Alassane Quattara, l’uomo insediato da Sarkozy alla presidenza della Costa d’Avorio, dopo la cattura e l’invio alla Corte Penale Internazionale di Laurent Ggabgo. L’esordio della presidenza di Ouattara è stato segnato da uccisione e torture sulla popolazione civile, rivalsa contro veri o presunti sostenitori del suo predecessore.

 ****

Per l’origine della ribellione Tuareg dell’Azawad  veder INDIPENDENZA, sogno e lotta dei TUAREG del Mali-

1a parte

2a parte

e

Fermare Sarkozy dal mandare in pezzi l’Africa Occidentale



http://mcc43.wordpress.com/2013/01/31/il-razzismo-del-mali-e-lonore-della-francia/

Israele “sterilizza” le donne etiopi

Oltre quaranta donne, originarie dell’Etiopia, sono state sottoposte con la forza al Depo-Provera, un’iniezione contraccettiva 

Francesca Dessì

Israele, “la più grande democrazia del Vicino Oriente”, come viene definita dai Paesi occidentali e dai media embedded, “sterilizza” le donne etiopi. È quanto affermato dal quotidiano israeliano Haaretz, nella sua edizione del 12 dicembre 2012 (http://www.haaretz.com/opinion/israel-s-ethiopians-suffer-different-planned-parenthood.premium-1.484110#) riferendosi alla situazione degli immigrati etiopi riconosciuti come ebrei da Tel Aviv, i cosiddetti “falascia”.
“È difficile da credere ma in Israele nel 2012 le donne etiopi sono sottoposte con la forza al Depo-Provera, un’iniezione contraccettiva” si legge nell’articolo, che prosegue: “Questa iniezione non è un contraccettivo comunemente prescritto. (…) Di solito è riservato alle donne che soffrono di disabilità o che sono malate”.
Il giornale israeliano si rifà all’inchiesta pubblicata di recente dal programma “Vacuum documentary ” condotto da Gal Gabay, e trasmesso sulla Televisione Educativa israeliana, in cui si afferma che “il trattamento è imposto su un gran numero di immigrati etiopi”. Secondo il ricercatore Reuven Sava, che ha condotto l’indagine, più di quaranta donne sono state sottoposte, contro la loro volontà, all’iniezione di Depo-Provera, un medicinale molto forte che, come si può leggere tranquillamente su internet, viene usato per curare tumori, per la castrazione chimica e nelle terapie iniziali per cambiare sesso. Il Depo-Provera, che ha diverse controindicazioni, tra cui l’osteoporosi e a lungo andare la sterilità, ha una storia inquietante. Secondo una relazione dell’organizzazione Sha L’Isha, l’iniezione contraccettiva è stata sperimentata, tra il 1967 e il 1978, nello Stato della Georgia, negli Stati Uniti, su più di 13mila donne povere, la metà delle quali erano nere. La maggior parte di loro, che non erano a conoscenza della sperimentazione, si sono ammalate. Molte altre sono morte. Medicinali contraccettivi come il Depo-Provera sono stati utilizzati spesso da Washington per ridurre il tasso di natalità dei poveri.
Nel 1960, gli Usa erano preoccupati per l’aumento della popolazione del Puerto Rico. Nel 1965 si è riscontrato che il 34% delle donne portoricane tra i 20 e il 49 anni erano state sterilizzate.
Nel caso di Israele, si tratta di politiche “repressive” e “razziste” contro gli immigrati e contro gli “ebrei neri”. Lo si evince dalla storia: tra il 1980 e il 1990 migliaia di ebrei etiopi hanno trascorso mesi o anni nei campi di transito in Etiopia e in Sudan. Centinaia di loro sono morti perché “la più grande democrazia del Vicino Oriente” gli ha impedito di entrare nel Paese in quanto “non era il momento giusto”, non c’erano “le condizioni per integrarli” o meglio ancora “non erano sufficientemente ebrei”. Si è mai sentito parlare di ebrei neri?
Ancora oggi, gli immigrati falascià sono intrappolati nei campi di transito a causa della contorta burocrazia israeliana che cerca di “sfiancarli” prima di farli entrare nel Paese, sistemandoli in centri di integrazione, veri e propri ghetti, dove le donne ricevono le iniezioni di Depo-Provera e i bambini vengono mandati in “strutture di educazione speciali”. Secondo l’indagine condotta da “Vacuum documentary” e ripresa da Haaretz, il tutto avviene contro la loro volontà. Secondo l’American Jewish Joint Distribution, le dichiarazioni delle donne etiopi sono “sciocchezze”. Ma diverse organizzazioni umanitarie hanno lanciato l’allarme sul razzismo che negli ultimi tempi ha preso piede in Israele.
Ai primi di giugno il parlamento israeliano ha approvato una legge che prevede fino a tre anni di reclusione senza processo per gli immigrati illegali che saranno sorpresi in Israele. Si tratta perlopiù di africani, che fuggono dalla guerra (causata quasi sempre dall’Occidente) e che cercano rifugio al di là del Sinai. Si tratta di una legge che le associazioni per i diritti umani hanno già bollato come “contrarie” alla convenzione Onu sui rifugiati e a numerosi trattati internazionali che Tel Aviv, in quanto firmatario, è chiamata a rispettare. Ma la comunità internazionale non ha proferito parola in merito, nemmeno quando Tel Aviv ha espulso 1500 sud-sudanesi dal Paese trovando una becera giustificazione: “Gli immigrati minacciano l’identità ebraica” e “prendono il lavoro degli israeliani”. Parola del ministro degli Interni, Eli Yishai, secondo cui “bisogna mettere alle sbarre tutti gli immigrati clandestini” per “consentire ai cittadini israeliani nel sud di Tel Aviv e altrove di vivere in modo appropriato… in tranquillità e sicurezza”.
 

19 Dicembre 2012 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18461

Devi aprire un’impresa? Stai alla larga dall’Italia…

By Edoardo Capuano – Posted on 29 gennaio 2013

Secondo un rapporto diffuso qualche mese fa dalla Banca Mondiale, emergerebbe che nel nostro Paese è davvero difficile avviare una nuova iniziativa imprenditoriale e l’Italia, in questo ambito, si posizionerebbe addirittura dopo lo Zambia.

Sempre secondo quanto ci dice la Banca Mondiale, le difficoltà che si riscontrano nella creazione di un’impresa sarebbero attribuibili a taluni adempimenti amministrativi che, normativamente, chi avvia un’impresa deve assolvere, ed anche ai costi “amministrativi” per avviare la fase di start up.

Pur condividendo, in toto, quanto affermato dall’istituzione finanziaria, se è vero che in Italia è molto difficoltoso avviare un’impresa, altrettanto vero è che, in taluni casi, è molto difficile mantenerla e farla vivere.

Sebbene l’iniziativa imprenditoriale, almeno sulla carta, non sia negata a nessuno e pur esistendo non pochi cavilli burocratici da assolvere sia all’atto della costituzione, sia durante la vita dell’impresa, talvolta risulta impossibile esercitare un’attività per una serie di fattori che costituiscono la vera e propria discriminante dell’essere imprenditori.

In questo articolo mi limiterò a parlare di alcune problematiche fiscali che, secondo la mia opinione, costituiscono un vero disincentivo nel fare impresa, proponendomi di approfondire in seguito, con ulteriori articoli, altre tematiche comunque rilevanti ai fini del nostro ragionamento.

Al di là del più noto e certamente più discusso tema del livello del prelievo fiscale, che è sicuramente ai massimi livelli, e certamente strangolante per le imprese italiane rispetto ai concorrenti esteri, in questo articolo, mi vorrei soffermare su alcune circostanze ben poco note all’opinione pubblica e neanche troppo cavalcate dai media. In primo luogo va osservato che in Italia vige un sistema di imposizione fiscale e di pagamento di tributi, che rappresenta un vero e proprio disincentivo per chi vorrebbe avviare un’iniziativa imprenditoriale o semplicemente una attività economica.

Ciò, poiché, come noto, nel corso di un determinato periodo temporale, peraltro abbastanza ristretto ed individuato dal fisco a ridosso dei mesi estivi, fino ad arrivare ai primi mesi autunnali, ogni imprenditore è tenuto a versare all’erario quanto dovuto in termini di tasse (Irpef, Ires, Irap, contributi Inps) sia a titolo di saldo relativo all’anno passato, sia a titolo di acconto per l’anno in corso. Ebbene, tale pratica, secondo la mia opinione, rende l’inizio dell’attività imprenditoriale particolarmente difficoltosa e ne costituisce un vero e proprio disincentivo per l’impatto che ha il prelievo fiscale, soprattutto nei primi anni di attività. Un esempio potrà aiutarci a ben comprendere di cosa stiamo parlando.

Ipotizziamo che un imprenditore,attraverso la sua ditta individuale, abbia avviato la sua attività all’uno gennaio del 2011 e alla fine dell’anno, il suo bilancio, presenti un utile di 50.000,0 euro, al lordo di imposte.

Ebbene, il nostro imprenditore, nel periodo che intercorre tra giugno e novembre del 2012, stando alle regole fiscali del TUIR, dovrà versare all’erario quasi tutto l’utile realizzato nel 2011. Ciò, in quanto, stando al dettato normativo, egli dovrà versare, entro il 30 novembre, sia il saldo per l’anno 2011 (circa 25000 tra imposte e contributi), sia l’acconto per l’anno 2012 che, con le dovute distinzioni e peculiarità per ogni tipo di imposta e contribuzione, è di circa il 100% dell’imposta dovuta a titolo di saldo dell’anno precedente, e quindi ulteriori 25000 euro a titolo di acconto per il 2012 salvo differirli in avanti ma pagando le relative sanzioni.

Stando così le cose, comprenderete agevolmente quanto sia disincentivante, per un aspirante imprenditore, avviare un’attività sapendo, già in origine, che i guadagni realizzati nel primo anno dovranno essere versati totalmente al fisco, già nel mezzo del secondo anno di impresa. Senza considerare poi che, nel secondo anno, le cose potrebbero andare in maniera diversa ed essere peggiori rispetto al primo esercizio, compromettendo l’esistenza dell’impresa che si troverà comunque a fare i conti con le (non) ragioni del fisco.

In tal senso, l’impatto impositivo che si manifesta già nel secondo anno di attività, oltre costituire un vero pericolo per l’esistenza dell’impresa, sottrae cospicue risorse dalla gestione dell’attività, compromettendone anche la possibilità di favorire processi di investimento, basilari soprattutto nei primi anni di vita dell’impresa.

Un ulteriore aspetto disincentivante legato alle tematiche fiscali, che in genere colpisce ogni imprenditore, è costituito dall’aleatorietà di ciò che è dovuto al fisco durante la vita di impresa. Invero, tutti governi fin qui succeduti, ci hanno abituato all’impossibilità di prevedere una corretta pianificazione fiscale nell’impresa che, a parer mio, resta ugualmente importante ed imprescindibile per fare una buona attività di impresa. La mancanza di una normativa chiara, univoca e organica a livello fiscale, unita alla necessità delle finanze pubbliche di poter contare sempre su un maggior gettito fiscale e la ricerca sempre spasmodica di nuove risorse, hanno stimolato la miopia dei governanti che hanno quasi sempre adottato soluzioni dettate dallo stato di bisogno, e comunque non conformi a logiche di certezza normativa e stabilità (nel tempo) della disciplina fiscale, venendo meno, talvolta, a patti con i contribuenti.

Insomma, si ha come la sensazione (che poi tanto sensazione non è) che si sia andati avanti arraffando un po’ qua e un po’ la, dove si è potuto, senza guardare troppo al futuro e senza occuparsi di quali sarebbero stati gli effetti prodotti da tali pratiche. Questo modus operandi, oltre a favorire l’infedeltà fiscale del contribuente, ha reso ancor più complesso orientare i consulenti fiscali e tributaristi nell’interpretazione di norme fiscali in perpetuo mutamento e, talvolta, contraddittorie rispetto all’intero apparato normativo.

Non è un caso, infatti, che dinanzi le commissioni tributarie pendano ormai centinai di migliaia di contenziosi che, stando ai dati forniti della stessa agenzia, il più delle volte, vedono soccombere l’amministrazione finanziaria con un notevole aggravio di costi per lo stato. Senza considerare poi i costi sostenuti dagli imprenditori che, oltre ad anticipare o sostenere – talvolta- le spese di giudizio, patiscono anche un notevole aggravio di tempo nella soluzione della controversia. Tempo prezioso sottratto alla propria attività e allo sviluppo della propria impresa. La mancanza di una visione di luogo periodo nella legiferazione su tematiche fiscali, unita ai livelli di imposizione fiscale ai limiti della sostenibilità e della schizofrenia, ha contribuito, non poco, a favorire fenomeni evasivi ed elusivi. Tanto è vero che, come noto, l’infedeltà fiscale italiana è un primato (in negativo, si intende) in tutto il contesto europeo.

La costruzione di un impianto normativo privo di logiche aderenti a principi di certezza normativa, e universalità di interpretazione della norma, che si sostanzia, di fatto, nella coesistenza di una moltitudine di norme non organiche, talvolta contraddittorie, che lasciano spazio a diversi profili di interpretazione che talvolta sono alla base di contestazioni e giudizi nelle varie corti tributarie, non costituiscono un incentivo a fare impresa. Al contrario, rappresentano un ostacolo alla corretta e normale gestione imprenditoriale, alla pianificazione fiscale, e favorisce fenomeni evasivi e tanto più elusivi. È evidente che un’architettura normativa uniforme ed organica, contribuirebbe anche ad una minore spesa in capo agli enti proposti ad accertare e contrastare fenomeni di evasione fiscale.

Ad aggravare la situazione appena descritta c’è da dire che il quadro normativo con cui il fisco procede con l’attività di accertamento, non sembra, almeno per il momento, essere rispettoso ed equo nei confronti del contribuente, posto il fatto che, ad esempio, gli studi di settore, determinano i ricavi di ciascuna impresa in modo statistico e talvolta indiscriminato, senza possibilità di considerare le peculiarità tipiche di ciascuna impresa, se non davanti alle corti tributarie; posto che, talune osservazioni, minimamente non vengono accolte durante la fase del contraddittorio. Inoltre, sempre in tema di studi di settore, la valenza probatoria di questo strumento di accertamento è stata più volte smentita anche da una pluralità di sentenze che hanno disorientato l’amministrazione stessa che più volte è intervenuta a riposizionare il modus operandi durante le fasi di accertamento dei propri ispettori.

Il quadro appena descritto, pur sintetizzando in maniera semplice alcune criticità del fisco, ci rappresenta, almeno in parte, un ambiente fortemente disincentivante per la creazione di impresa e sopratutto per la sua sopravvivenza. In un contesto come quello attuale, dove si sta assistendo allo sterminio di migliaia di imprese, appare del tutto irrealistico poter pensare che le imprese cessate e/o delocalizzate, possano essere rimpiazzate da nuove iniziative imprenditoriali, stando all’ostilità del fisco e all’irragionevolezza della pretesa tributaria.

Autore: Paolo Cardenà / Fonte: vincitorievinti.com



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