VERTICE ITALIA – FRANCIA, SCIBONA (M5S): “Hollande e Renzi firmano il nulla”.

http://www.marcoscibona.it/home/?p=1011

Una delle poche cose chiare che abbiamo capito dalle risultanze del vertice è che vendono la pelle delle talpe prima di averle accese infatti gli scavi attualmente in corso in Italia e in fase di avvio in Francia sono esclusivamente geognostici (e come tali finanziati dalla UE).

Lo scavo del tunnel di base continua a non essere avviato e assistiamo all’ennesimo rinvio da parte dei Governi. Le indagini geologiche devono essere, per logica e per come ha imposto il CIPE nella delibera 19/2015, terminate prima della realizzazione del tunnel di base. E oggi, la fine delle indagini, è ancora molto lontana.

Oggi, in audizione al Senato, nessuno ha sciolto i dubbi e le perplessità illustrate dagli Amministratori Valsusini, al posto della solita kermesse i nostri governanti rispondano agli interrogativi dei cittadini!

Marco Scibona – Senatore M5S, Segretario 8a Commissione Permanente Lavori pubblici, comunicazioni.

“BERTA CACERES, nel segno del Che”

Giovedì 10 marzo, dalle 18.00, in Piazza SS Apostoli a Roma,  con attivisti del movimento No Triv e altri teniamo una veglia per Berta Caceres, leader indigena e popolare, assassinata dai sicari del regime golpista installato dagli Usa in Honduras.
MONDOCANE

“Svegliamoci, svegliamoci, umanità! Non c’è più tempo, le nostre coscienze siano scosse alla vista dell’autodistruzione fondata sulla depredazione capitalista, razzista e patriarcale! Bertha vive!”  (Olivia, Berta, Laura, Salvador, figli di Bertha Caceres, leader indigena e internazionalista, uccisa a Tegucigalpa)

Giustificato forse dal precipitare sempre più travolgente di accadimenti gravissimi, di portata epocale, in Medioriente, Africa, Europa, sento però sulla coscienza il peso di aver trascurato da tempo un paese e un popolo a me carissimi e di cui avevo vissuto e raccontato le vicende a partire dal colpo di Stato del 2009 con cui l’imperialismo yankee ha voluto distruggere la sua rivoluzione e rimetterlo in ginocchio (docufilm “HONDURAS, IL RITORNO DEL CONDOR”).

Un peso piombatomi addosso come un colpo in pieno petto alla notizia dell’assassinio di Berta Càceres, compagna e amica, grande, eroica, imperterrita, leader indigena e nazionale dell’Honduras. Combattente per la liberazione del suo popolo a partire dai primi anni ’90, quando fondò il COPINH, Consiglio delle Organizzazioni Popolari e Indigene dell’Honduras. Leader del popolo in resistenza con rinnovata determinazione dopo il golpe organizzato dagli Usa e, specificamente, da Hillary Clinton, Segretaria di Stato con  Obama, nel 2009. Un brutale, sanguinoso colpo di Stato che rovesciò il legittimo governo del presidente Manuel Zelaya. Un presidente che, avendo guardato alle esperienze di liberazione dal giogo colonialista nordamericano del Venezuela e degli altri Stati progressisti latinoamericani, aveva osato tirare il paese fuori dalla condizione di reietta repubblica delle banane, tagliare le unghie alle multinazionali e all’oligarchia locale che ne erano i sicari e avvicinarsi ai paesi antimperialisti e socialisti dell’A.L.B.A.. Un colpo di Stato sostenuto e approvato. nel suo svolgimento sanguinario e nel suo seguito stragista. dal primate cattolico, cardinale Oscar Rodriguez Maradiaga, per questi meriti poi messo da papa Bergoglio a capo della Commissione per la Riforma della Chiesa. Nientemeno.

Alla serial killer Hillary Clinton, oggi salutata come la candidata democratica alla presidenza che eviterebbe agli Usa il destino del degrado reazionario prospettato da Trump, va imputato anche l’assassinio di Berta che, pure, da poco era stata insignita del prestigioso Premio Goldman, il Nobel ambientalista, Dopo l’assassinio, celebrato con le sue fragorose risate, di Muammar Gheddafi, linciato dai suoi mercenari, dopo quelli di tutte le guerre sollecitate o condotte da questa belva umana, dopo le migliaia di uccisi o fatti scomparire dalla repressione dello Stato gangster honduregno, fatto nascere da Washington per simulare il ritorno alla democrazia dopo il colpo di Stato. Usurpatori che, rimosso e deportato Zelaya, soffocavano la formidabile resistenza popolare, protrattasi per mesi, in un bagno di sangue,

Attraverso elezioni fraudolente, condotte sotto la minaccia delle baionette dei golpisti, Washington installò al potere i suoi sicari, prima Porfirio Lobo Sosa e poi Juan Orlando Hernàndez, espressione degli interessi neocoloniali yankee garantiti  dall’oligarchia compradora honduregna. Una mezza dozzina di famiglie miliardarie, capeggiate dai famigerati Facussé, che nel passato avevano spolpato il paese e collaborato con le più feroci dittature apparse in Centroamerica, potè tornare all’antica collaborazione con le multinazionali nella comune depredazione del poverissimo paese: monoculture della palma d’olio, devastazioni minerarie, disboscamenti, centrali idroelettriche, sfruttamento del petrolio, espulsione di popolazioni dal loro habitat ancestrale. Le stesse che avevano collaborato con i gangster Usa alla creazione dei tagliagole Contras per abbattere la rivoluzione sandinista in Nicaragua. Una delle operazioni più scellerate dell’imperialismo, affidata al campione degli squadroni della morte, John Negroponte. Esatto, proprio il datore di lavoro del giovane Giulio Regeni, poi spedito al Cairo e vittima di una manovra di diffamazione dell’Egitto.

Berta Caceres è stata ammazzata a casa sua, all’una di notte del 2 marzo, da sicari del regime e delle imprese che combatteva. Il fratello è stato ferito. Rimagono orfani, insieme a tutto un popolo, e non solo nella sua componente originaria, i quattro figli, Olivia, Bertha, Laura e Salvador. Avevo incontrato Berta tante volte, sia per le interviste che poi ho inserito nel docufilm “Honduras, il ritorno del Condor”, sia per stare insieme a discutere delle prospettive della rivoluzione honduregna, con altri amici del Fronte della Resistenza che avevano ospitato me e il collega Marco. Ci eravamo precipitati in Honduras pochi giorni dopo il golpe, il 29 giugno del 2009, e ci siamo rimasti per settimane, registrando per il nostro documentario lo svilupparsi dello scontro tra i golpisti e, poi, i loro successori “eletti” e una resistenza popolare che giornalmente scendeva in strada a sfidare la ferocia dei militari e dei loro squadroni della morte negropontiani, i “Tigre”.

Della direzione di questa resistenza di popolo, Berta fu, a mio avviso, la protagonista prima, accanto a tante altre figure di sindacalisti, politici dell’opposizione, attivisti dei diritti umani, dirigenti e masse indigene. Da esponente delle rivendicazioni dei settori indigeni, i più esclusi e deprivati, assurse subito a leader nazionale contro il golpe e poi contro la dittatura travestita da democrazia. Era tra i dirigenti del Fronte la personalità ideologicamente più matura, più consapevole delle implicazioni del golpe nel contesto della nuova offensiva Usa contro le esperienze antimperialiste e socialiste del grande movimento di emancipazione della “Patria Grande”. Quella offensiva che, con la caduta dell’Argentina in mano all’estrema destra filo-yankee, con la sconfitta parlamentare del chavismo in Venezuela, con i tentativi di destabilizzazione in Ecuador e Boilivia, aveva avuto il suo preludio nel golpe honduregno.

Percorsi, grazie alle indicazioni e ai contatti fornitimi da Berta e da altri militanti, come Lorena Zelaya, il paese da cima a fondo, dalle comunità afro-latinoamericane depredate del loro habitat naturale per far posto agli insediamenti turistici di lusso (da quelle parti si svolge l’oscenità dell’ “Isola dei famosi”), alle vaste terre boschive dell’Ovest e del Nord, terra del popolo Lenca  e di Berta.

Ovunque si incontravano realtà sorte sotto la breve presidenza di Zelaya e a cui la resistenza al golpe aveva dato ulteriore impulso, a dispetto della repressione che vedevamo diventare ogni giorno più  brutale e cruenta, con intere comunità sottoposte a coprifuoco, irruzioni, rastrellamenti, arresti e processi arbitrari, spesso costrette alla fuga e all’esilio. Strutture della resistenza su vari piani, dell’organizzazione campesina per la coltivazione e commercializzazione in comune dei prodotti, della formazione autogestita di scuole per esclusi e analfabeti, una formidabile radio dei Lenca a la Esperanza, fonte di informazione alternativa locale e internazionale, motore delle mobilitazioni per opporsi alle incursioni dei repressori. Una radio che il regime sabotava, chiudeva ogni due per tre e che tornava ogni volta a trasmettere, addirittura, con l’impianto sigillato, dai computer nella selva.

Da giornalista di strada, sulle vie percorse dalle persone a piedi, le vie della liberazione, l’esperienza dell’Honduras è stata una delle più belle, incoraggianti: la capacità di un popolo di dire la sua contro tutto e contro tutti, di un popolo da niente, ignoto e ignorato dal mondo, con meno soldi in tasca dell’ultimo scugnizzo, fuori dalle cronache e dai racconti dei viaggiatori, però pieno di musiche e di colori, ricchissimo di cuore e di mente su una terra saccheggiata e desertificata dai predatori alla ricerca di oro, che sia legname, minerale, acqua, zolla, una terra da riportare alla vita, da restituire ai suoi diritti e ai suoi frutti umani. Con  questo popolo de piè, in piedi, come dicono da quelle parti, abbiamo cantato i canti del riscatto cubano, latinoamericano, indigeno, consumato i pasti nelle mense dei volontari impegnati nel contrasto agli affamatori, ingoiato negli occhi e nella gola i gas degli sguatteri in divisa del padroncino gaglioffo locale e del padrone cannibale di fuori, schivato le pallottole d’acciaio rivestite gentilmente di gomma. Ed è perenne il ricordo di quella grata, al secondo piano di una scuola elementare, da cui usciva un coro di bimbi e pioveva in strada sulle colonne degli sgherri di regime che davano la caccia ai manifestanti: “Nos tienen miedo porque no tenemos miedo”, ci temono perché non li temiamo, uno slogan che dal 2009 continua a risuonare in tutto l’Honduras.

Il COFADEH è l’associazione per i diritti umani che fin dagli anni che precedettero la svolta progressista e democratica di Zelaya, sosteneva le vittime dei regimi totalitari installati da Washington e servi della famigerata multinazionale United Fruits e ne denunciava e perseguiva legalmente i colpevoli. Berta Caceres mi presentò Berta Oliva, che la dirigeva. Una piccola donna pulsante di energia, di passione e indignazione. Era la vedova di un giovane militante assassinato negli anni ’90. Quando andammo a intervistarla trovammo una folla di donne in attesa, quale ferita dalle percosse degli sbirri, quale con un figlio ingiustamente carcerato, quale con la casa distrutta dai paramilitari paralleli alle forze della dittatura. Le pareti di tutte le stanze erano tappezzate di immagini di vittime del prima e del dopo-Zelaya. Centinaia, quasi tutte giovani, moltissime donne. Le due Berta, Oliva e Caceres lavoravano di conserva, insieme ad altre donne erano l’avanguardia della resistenza. Come si poteva constatare in altre parti del continente che si era messo in cammino, la nuova America Latina anticapitalista, antimperialista e antipatriarcale, era donna.

Erano passate alcune settimane dal golpe e, a Tegucigalpa, piazze e strade davanti all’ambasciata Usa erano ininterrottamente presidiate da folle calate dai borghi poveri sulle colline, mentre la grande via che dall’Università portava al centro era bloccata dalle barricate degli studenti. Incontrai Berta Caceres nella sede del sindacato, quartiere generale del Fronte Nazionale di Resistenza Popolare (FNRP), dove le varie organizzazioni riunite nel Fronte preparavano azioni di contrasto ai golpisti e poi ai loro successori pseudo-democratici ed elaboravano il programma per una nuova assemblea costituente, richiesta principale del movimento. Ricordo le parole di quella che mi era subito apparsa come la leader più matura, con la più attenta preparazione ideologica e la perfetta consapevolezza dei mandanti dell’attacco al suo paese e a tutta l’America Latina, dei loro strumenti e obiettivi. Una militanza indigenista e femminista che, però, si inseriva,  senza sterili settarismi, nel contesto dello scontro in corso tra popoli, capitalismo e imperialismo.

La nuova costituzione dovrà sancire i diritti della donna, diritti politici, economici, sociali. Il diritto all’autodeterminazione riproduttiva, cose che in nessun modo l’attuale costituzione riconosce. Abbiamo avuto compagne e compagni che sono morti nella lotta per questi diritti

Noi siamo discendenti dei popoli indigeni che hanno compiuto la più grande resistenza alla conquista. Questo non è mai stato riconosciuto, mai compreso, neppure dalla sinistra. L’imperialismo e la destra non si riposano. Li abbiamo sopravalutati e siamo rimasti come in letargo. Nella crisi generale del capitalismo, loro hanno bisogno delle nostre risorse, la biodiversità, il petrolio, la nostra cultura, i nostri saperi ancestrali. Perciò non rinunceranno. Ed è questo il tempo in cui il movimento sociale di sinistra, antimperialista, deve consolidare e rafforzare il suo processo di emancipazione. Deve essere una risposta non solo locale o regionale, ma internazionale, globale, contro il capitalismo”.

Ho poi di nuovo visto Berta nel bel mezzo di una manifestazione davanti all’hotel in cui l’OSA stava cercando di mediare, chiaramente sotto direzione Usa, per far passare il processo elettorale. Bertha, diversamente dalla componente sindacale del Fronte, non credeva alla possibilità che sotto l’oligarchia, che aveva preso il potere con la violenza, istruita e diretta dagli yankee rintanati a Palmarola, nella più grande base Usa del Centroamerica (la cui chiusura era stata ventilata da Zelaya), alle forze dell’emancipazione potesse essere riconosciuta la vittoria elettorale. Difatti da lì a poco, la farsa elettorale allestita dai golpisti confermava l’assunto che, con una destra fascistizzante e filo-Usa al controllo, nessun’alternativa di sinistra avrebbe mai vinto elezioni.  Ecco cosa la mia telecamera strappò a Berta, mentre in un caffé ci stavamo riparando dai gas.

Come popolo abbiamo il diritto di opporci con ogni mezzo a chi ci reprime, di porre condizioni ai tiranni. Vogliamo abbattere i dittatori, non vogliamo l’impunità per gli assassini del popolo honduregno. Non riconosciamo elezioni che sono solo un circo politico inteso a legittimare questo golpe. Non sarebbe solo tradire il popolo honduregno, ma tutte le lotte di emancipazione in questo continente e nel mondo”.

La coscienza internazionalista di questa grande rivoluzionaria latinoamericana e indigena, dovrebbe far riflettere le tante sinistre o pseudo-tali delle nostre parti il cui internazionalismo si è ridotto allo scimmiottare e riecheggiare i modelli interpretativi della realtà forniti dai poteri dell’oppressione e rilanciati da opportunisti e falsari autoproclamatisi difensori di diritti umani. Diritti umani che con quelli per  cui ci si è battuti e ci si batte in Honduras non hanno niente da spartire. Forte di questo retroterra politico e culturale, Berta non condivise la successiva decisione del Fronte, sostenuta dalla componente sindacalista e contrastata da quella indigena e studentesca, di mutarsi da movimento unitario e polifonico di massa in partito politico, “Libre”, e di concorrere alle elezioni del 2013. Promosse, con la sua organizzazione e altre, la continuità e l’intensificazione della lotta di massa e della costituzione di poteri alternativi sul territorio e in tutti gli ambiti della vita pubblica, per impedire allo Stato autoritario di consolidarsi.

Libre”, capeggiato dalla moglie di Manuel Zelaya, Xiomara, perse le elezioni grazie a brogli scandalosi, dimostrati e denunciati anche da organismi internazionali.  E il paese ripiombò in mano a un’oligarchia spietata nello sfruttamento e nella repressione, ma fortemente sostenuta ed elogiata  da Washington. L’Honduras divenne la prima tappa della megaoffensiva condotta dall’imperialismo contro i governi e i popoli latinoamericani che si erano sottratti alla mordacchia militare ed economica di chi aveva sempre considerato il subcontinente suo cortile di casa e fornitore gratis di materie prime. Il modello da moltiplicare era il Messico, consegnato, con la cosiddetta “guerra alla droga”, alla militarizzazione contro ogni forma di dissenso, al narcotraffico delle stragi e al saccheggio delle multinazionali. Il Messico del “Nafta”, trattato di “libero” scambio con gli Usa, precursore del TTIP con cui Washington e Wall Street intendono incatenare l’Europa  a una totale subalternità.

Le multinazionali tornarono a infierire su territori, comunità, risorse. La repressione ha reso l’Honduras il paese in cui si viene ammazzati di più al mondo. Soprattutto ambientalisti, difensori dei diritti umani, militanti indigeni, quadri dei movimenti sociali. In un’impunità che rasenta quella del Messico e riguarda il 92% dei delitti contro civili. Uno dei progetti più devastanti e offensivi con riguardo a uno stato di diritto e alla sua sovranità, fu quello, sponsorizzato da imprese Usa e avvallato dal regime, di creare una serie di città-modello su terre sottratte ai loro abitanti. Insediamenti di lusso, fortini dell’élite, totalmente esclusi dalla giurisdizione civile, penale e amministrativa dello Stato, dove plutocrati USA avrebbero potuto installare le proprie residenze e i propri business, liberi da ogni condizionamento legale, sociale, ambientale. Un TTIP in miniatura.

Negli ultimi tempi la battaglia di Berta e del Copinh si era andata concentrando sulla difesa dei territori ancestrali degli indios Lenca, nel nord-ovest boschivo del paese, dove le multinazionali, con il sostegno della Banca Mondiale, procedevano a disboscamenti, costruzione di grandi bacini e dighe, centrali elettriche, spesso finalizzate ad alimentare devastanti interventi minerari. Tutto con conseguente esproprio violento dei contadini e cancellazione delle loro comunità. Berta, a dispetto di costanti minacce di morte, di violenze contro i suoi attivisti, di arresti sotto false pretese, si mise a capo anche di questa lotta. Riuscì a sventare un progetto di diga e centrale idroelettrica costringendo alla ritirata la Sinohydro, massima impresa mondiale nella costruzione di dighe.

Ultimamente il Copinh e Berta si battevano contro la privatizzazione del Rio Gualcarque, terra sacra agli indigeni,  e contro la costruzione della diga di Agua Zarca, sempre in territorio Lenca. Il vice di Berta, Tomas Garcia, impegnato nelle stesse lotte, era stato ucciso nel 2013. Ma Berta era andata avanti. Fino  a quando la vendetta degli stupratori della sua gente e del suo paese non ha raggiunto anche lei. Ammazzato con una fucilata, proprio nei giorni in cui ero lì, anche Walter Trochez, giovanissimo, ma stimatissimo difensore dei diritti umani e gay. Intanto l’Italia onorava l’Honduras con il campione GLBT Vladimir Luxuria che vagolava per l’Isola dei Famosi con le mutande di Valeria Marini in testa. Titolone di “Liberazione” in prima pagina: “Forza Vladimir!” E’ la nostra sinistra..

Abbiamo perso una combattente senza pari dello schieramento antimperialista, una donna forte, intelligente, buona. L’Honduras ha perso una sposa, una madre, una figlia. Noi piangiamo Berta insieme al suo paese orfano e ne grideremo il nome contro l’ambasciata dell’Honduras a Roma. Là dove non vedremo di certo i bravi pacifisti e nonviolenti, impegnati a protestare contro l’Egitto e contro l’uccisione di uno che lavorava con tale John Negroponte,  comandante di squadroni della morte e massacratore del popolo che Berta difendeva. Coincidenze e contraddizioni della storia. Ci rimane solo di sperare che l’invocazione dei figli di Berta, citata in apertura, venga raccolta. Non solo dagli honduregni, ma dal popolo che Berta considerava il suo, quello che nel mondo viene calpestato, si alza de piè, non s’arrende. Un altro fiore dell’America Latina ci ha dimostrato come i/le Che Guevara non muoiono mai.

Come la UE e il governo Renzi vi porteranno via la casa

Europa dei popoli, la Ue toglie la casa a cittadini europei (greci, spagnoli, italiani) ma accoglie tanto..
venerdì, 4, marzo, 2016
 
Si tratta dell’ennesimo “regalo” alle banche da parte dell’Unione Europea e del Governo Renzi , ai danni del popolo.
 
europa-criminale
Il pretesto è quello del recepimento della Direttiva europea sui mutui, la 2014/17/UE A.G. n. 256.
 
Per favorire il recupero dei crediti inesigibili da parte delle banche, il Governo Renzi ha infatti cancellato l’art. 2744 del codice civile che vieta il cosiddetto “patto commissorio” e cioè “il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore”.  Il superamento di questo divieto consente quindi alle banche di entrare direttamente in possesso dell’immobile e metterlo in vendita per soddisfare il proprio credito qualora il mutuatario non abbia provveduto al pagamento di sole 7 rate di mutuo, anche non consecutive.
 
Per dirla con parole semplici, UE e Governo italiano hanno ancora una volta legalizzato l’usura!
 
Questo meccanismo criminale, l’ennesimo per la verità, è previsto espressamente dall’art. 120 quinquiesdecies, comma 3, ossia che le parti del contratto possono convenire espressamente al momento della conclusione del contratto di credito o successivamente, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione del debito, fermo restando il diritto del consumatore all’eccedenza… come se banca e cittadino fossero sullo stesso piano nel negoziare la concessione di un mutuo e relativo contratto (Fonte: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/Casa-chi-salta-sette-rate-di-mutuo-rischia-esproprio-24260b85-3329-46fe-b08d-8b70f6b31cd1.html).
 
In pratica la banca avrà – senza eccessive formalità di procedura ma addirittura ex lege – il diritto di espropriare la casa al cittadino che, per qualsiasi motivo, ritardi il pagamento di sole 7 rate di mutuo (anche non consecutive). Considerata la crisi economica ormai permanente, la non sicurezza del lavoro e la durata dei contratti di mutuo che non sono quasi mai inferiori a 25-30 anni, le probabilità che in tutti questi anni il cittadino ritardi il pagamento di 7 rate di mutuo è altissima!
 
Tuttavia, pur essendo la norma a totale vantaggio delle banche, in questo periodo qualche povero disperato – per assurdo – potrebbe addirittura avvantaggiarsi della norma medesima a causa proprio della falcidiante crisi economica, e quindi non subire l’ulteriore beffa della svalutazione dell’immobile in sede di vendita all’asta! Ma, al di là di questo piccolo vantaggio, le intenzioni del Legislatore europeo e di quello italiano sono quelle di favorire unicamente banche e capitale.
 
Questo è l’ennesimo CRIMINE che l’Unione Europea e il Governo italiano compiono ai danni della povera gente e ad esclusivo vantaggio dei banchieri e del capitale internazionale.
 
La legge nazionale di recepimento della Direttiva europea non è ancora stata approvata. Ma “abbiate fede”… lo sarà! CE LO CHIEDE L’€UROPA!
 
Ma non è finita qui. Ascoltate questo VIDEO  e Vi renderete conto a chi serve, nell’immediato, la misura di cui sopra. Si tratta di persona molto vicina al nostro Presidente del Consiglio:
 
 
Adesso tutto è molto più chiaro.
 
A buon intenditor, poche parole!
 
Giuseppe PALMA – autore di
 
FIGLI DESTITUENTI. I gravi aspetti di criticità della RIFORMA COSTITUZIONALE

Turchia. Continua l’attacco ai media dell’opposizione

ma Erdogan è un paladino dei diritti umani, si spende così tanto per ridare la libertà ai siriani, Assad è il mostro, ci racconta la società civile, Erdogan un faro della democrazia…..
 
Mar 06, 2016
 
Polizia-turca-contro-dimostranti
Polizia turca contro dimostranti
 
Ieri sera la polizia ha disperso con la forza centinaia di manifestanti che si erano radunati fuori la sede del quotidiano Zaman a Istanbul per protestare contro la decisione di un tribunale turco di porre sotto amministrazione controllata il gruppo a cui fa capo il giornale.
 
Da Redazione Nena News – Al Sultano turco i media di opposizione proprio non piacciono. L’ultimo inquietante episodio è accaduto ieri sera quando un ingente schieramento di agenti di polizia ha disperso con lacrimogeni e cannoni ad acqua centinaia di manifestanti fuori la sede del quotidiano d’opposizione Zaman a Istanbul.Vedi video: Youtube.com/Watch
 
Le forze di sicurezza hanno abbattuto un cancello e sono entrati nell’edificio scortando i manager nominati ieri da una corte. Nel blitz sono stati cacciati anche i dipendenti che lavoravano all’ultimo numero del giornale.
 
Per cercare di comprendere quanto accaduto ieri sera, però, bisogna fare un passo indietro di qualche ora. In mattinata un tribunale di Istanbul aveva deciso di porre sotto amministrazione controllata il gruppo editoriale che controlla Zaman (il più venduto in Turchia con circa 650.000 copie al giorno). Il motivo? I legami che il quotidiano ha con il magnate e imam Fethullah Gulen, ex alleato del presidente turco Recep Tayyip Erdogan e oggi suo nemico giurato. Secondo quanto stabilito dalla corte, gli amministratori giudiziari dovranno ora nominare una nuova direzione editoriale. La sentenza di ieri aveva immediatamente suscitato proteste fuori e dentro la Turchia dove, negli ultimi anni, il panorama informativo è sempre più dominato da canali televisivi e giornali pro-governativi. Lo scorso ottobre altri 4 media di proprietà di una compagnia legata a Gulen erano stati messi sotto amministrazione controllata e, nei fatti, trasformati in organi di stampa del governo.
 
La decisione giudiziaria di ieri giunge a distanza di due giorni dalla sentenza della Corte costituzionale turca che ha scarcerato dopo 92 giorni di prigione Can Ducar e Erdem Gul, rispettivamente direttore e caporedattore del quotidiano Cumhuriyet. Scarcerato, ma non assolto: sui due reporter, infatti, pende tuttora l’accusa di spionaggio e sostegno ad una organizzazione terroristica. Se ritenuti colpevoli, Ducar e Gul rischiano due ergastoli a testa. A monte sta la denuncia presentata dallo stesso Erdogan nel giugno del 2015, un mese dopo la pubblicazione su Cumhuriyet di video e articoli sulla consegna di armi da parte dei servizi segreti turchi a gruppi jihadisti impegnati in Siria.
 
Prima del blitz della polizia, in un discorso rivolto ai suoi colleghi, il caporedattore di Zaman, Abdulhamit Bilici, aveva definito la decisione della corte un “giorno nero per la democrazia”. Giornalisti e lavoratori del quotidiano avevano protestato con cartelloni su cui era scritto “non toccate il mio giornale” e intonando cori come “la libertà di stampa non può essere silenziata”. Il passaggio del gruppo Zaman ad una amministrazione controllata aveva suscitato subito durissime reazioni internazionali. “La considero una violazione estremamente grave della libertà di stampa. Ciò non dovrebbe avere luogo in una società democratica” ha detto Nils Muiznieks, il Commissario del Consiglio europeo per i diritti umani. “Questa è l’ultimo di una seria inaccettabile e ingiustificata di attacchi alla stampa in Turchia”.
 
merkel-erdogan-Ankara
Merkel con Erdogan
 
Sulla stessa lunghezza d’onda Reporter senza Frontiere. L’organizzazione non governativa ha attaccato Erdogan per essersi mosso “dall’autoritarismo ad un vero e proprio dispotismo”. L’osservatorio statunitense Freedom House ha rincarato la dose esortando gli Usa e l’Unione Europea a far sentire la propria voce. Bruxelles, in particolare, è stata accusata dalla ong americana di rimanere in silenzo di fronte alle violazioni dei diritti umani e del peggioramento delle libertà in Turchia per il ruolo cruciale svolto da Ankara nel fermare l’ondata di migranti verso il Vecchio continente. “La nomina di un’amministrazione controllata alla direzione di Zaman è una flagrante violazione sia della legge che della libertà di stampa” ha detto Daniel Calingaert, il vice presidente di Freedom’s House.
 
Nonostante le critiche che negli ultimi anni le piovono addosso, Ankara continua nel suo duro giro di vite contro le voci contrarie al suo governo. In particolare contro il movimento di Gulen che è accusato dal governo Akp di aver orchestrato nel dicembre 2013 accuse di corruzione contro ministri e persone vicine ad Erdogan nel tentativo di rovesciare il governo. Da allora il gruppo del religioso turco è considerato dalle autorità locali una organizzazione terroristica. Gulen, in esilio negli Stati Uniti dal 1999, è sotto processo per “aver tentato di rovesciare il governo”.
 
Intanto, con una decisione non meno preoccupante rispetto a quella che ha colpito Zaman, la polizia ha arrestato ieri nella città turca di Kayseri quattro esponenti della compagnia Boydak Holding (anch’essa ha legami con il religioso turco). Secondo l’accusa, la società avrebbe fornito sostegno finanziario al movimento di Gulen. L’agenzia di stato Anadolu riferisce che gli arrestati sono il presidente della Boydak Holding, l’amministratore delegato e due membri del consiglio di amminstrazione.
 
Fonte:  Nena News

Siria: Rivolta della popolazione a Raqqa contro l’ISIS

ma come? Ci hanno raccontato che questi tagliagole, ops, ribelli moderati della primavera araba rappresentavano il popolo contro il brutale dittatore?!?!
 
Mar 06, 2016
 
Bandera-de-Siria-en-Raqqa
Siriani inneggiano alla Repubblica Araba Siriana
 
Rivolta della popolazione nella città di Raqqa, nel nord della Siria, che si trova ancora sotto il controllo dei gruppi terroristi dell’ISIS e che veniva  considerata la capitale dello Stato Islamico.
In alcuni quartieri di Raqqa sono iniziate manifestazioni spontanee a sostegno dell’esercito di Assad, che in seguito si sono trasformate in violenti scontri con i terroristi islamici. Secondo le testimonianze, i manifestanti sono riusciti ad uccidere un gran numero di jihadisti.
I cittadini della città di Raqqa, l’auto-proclamata “capitale” del Daesh (ISIS) si sono ribellati contro i fondamentalisti ed hanno issato le bandiere della Siria in alcuni quartieri, segnala “Sputnik” riferendosi alle testimonianze del posto.
Secondo le testimonianze, le bandiere siriane sono apparse sugli edifici di 5 quartieri di Raqqa. Dopodichè i cittadini sono scesi in massa nelle strade scandendo slogan a sostegno dell’esercito siriano, riporta “Sputnik”.
 
Dopo l’inizio della manifestazione tra i dimostranti e i terroristi islamici sono iniziati cruenti scontri. Gli insorti di Raqqa sono riusciti ad uccidere un gran numero di terroristi del Daesh.
 
I testimoni hanno inoltre riferito all’agenzia russa che nella giornata di ieri nelle strade ci sono stati scontri armati tra i terroristi. Le forze del Daesh hanno bloccato le vie d’uscita della città per impedire ad un centinaio di disertori di fuggire.
 
Raqqa, l’autoproclamata “capitale” del Daesh, si trova nel nord della Siria, sulle rive del fiume Eufrate. La città fu conquistata dai jihadisti nel 2013. Dopo essere finita sotto il controllo dei terroristi, le forze governative siriane hanno cercato di riconquistare la città, anche con l’ausilio delle forze aeree, ma le sortite non hanno portato al successo. Una divisione dell’esercito di Assad, dislocata nei pressi di Raqqa, è stata isolata dal resto delle forze governative. Nel 2014 il Daesh aveva completamente stroncato la sua resistenza, debellando completamente la presenza delle forze governative.
 
Oggi è in corso l’offensiva su Raqqa effettuata congiuntamente dalle forze governative siriane e dalle truppe delle milizie curde.
 

La Turchia addestra mercenari da infiltrare in Crimea

è per questo che chiede 3 miliardi di euro alla Ue? Cioè a noi?
 
Mar 06, 2016
 
Turchi-istruttori-in-Ucraina
Forze speciali turche
 
Istruttori militari dell’esercito turco si sono stabiliti in una zona nel sud dell’Ucraina che confina con la Crimea per addestrare mercenari.
Gli istruttori militari turchi, che hanno lo scopo di addestrare un gruppo di mercenari, hanno preso posizione e creato un campo di addestramento nella regione meridionale di Jerson, nelle immediate vicinanze della Crimea, in accordo con quanto dichiarato da  Ruslan Balbek, il vice primo ministro di tale penisola.
 
“Disponiamo di informazioni affidabili sul fatto che un gran numero di istruttori militari sono arrivati dalla Turchia e si sono stabiliti nella regione di Jerson. Stanno cercando di creare una base per l’addestramento di mercenari per combattere in campo aperto e nelle zone urbanizzate”, ha informato Balbek.
 
Secondo l’esponente della Crimea, le esercitazioni avranno l’appoggio della organizzazione Majis che raggruppa i tartari di Crimea (unico organo esecutivo dei tartari di Crimea) che, di fatto, si oppone all’integrazione della Crimea nel territorio russo.
 
Balbek ha denunciato la “condotta polemica e provocatoria” del governo di Ankara che, a suo giudizio, cerca di destabilizzare la situazione politica in Ucraina e la cosa peggiore è che opera in forma indipendente e senza la conoscenza delle autorità di Kiev.
“Riteniamo”, aggiunge il vice primo ministro, “che arriveranno a Jerson gruppi estremisti provenienti dalla Turchia così come i terroristi che combattono nelle file dei gruppi takfiri dell’ISIS,  in alcuni paesi del Medio Oriente, inclusi Siria ed Iraq”.
 
Inoltre si prevede la possibilità che questi gruppi estremisti, una volta nella zona, possano condurre attacchi diretti contro le stesse autorità ucraine e possano sgomberare il percorso verso un nuovo colpo di Stato.
In un primo momento, il leader autoproclamato dei tartari di Crimea, Lenur Islyamov , ha informato che il Ministero della Difesa della Turchia stava fornendo aiuti per la formazione di un bataglione tartaro per attaccare la penisola.
 
Islyamov-leade-tartaro
Lenur Islyamov- leader dei tartari
 
Le relazioni tra la Russia e la Turchia attraversano il peggiore momento per causa dell’abbattimento di un aereo russo sul confine siriano da parte dell’aviazione turca che appoggiava i gruppi terroristi che operano in Siria.
 
Nota: Non ci sarebbe da meravigliarsi se la Turchia di Erdogan, colui che si sente il “neo sultano ottomano”, dovesse creare delle provocazioni ai confini della Federazione Russa cercando di far infiltrare terroristi e mercenari nella penisola di Crimea allo scopo di destabilizzare la regione, esattamente la stessa tecnica adoperata dalla Turchia in Siria.
 
Non è chiaro se la Turchia, paese NATO, opera di propria iniziativa o con l’avallo della NATO e di Washington. Di sicuro il gioco di Ankara potrebbe rivelarsi molto pericoloso.
 
Fonte: Hispan Tv
 
Traduzione e nota: Luciano Lago

Italia-Francia, No Tav a Venezia contro il vertice. Barche tentano di sfondare la ‘zona rossa’

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/03/08/news/no_tav_barca_venezia_renzi_hollande-135017215/?ref=HREC1-4

Italia-Francia, No Tav a Venezia contro il vertice. Barche tentano di sfondare la 'zona rossa'
(ansa)

Sono arrivati in circa 500, da tutto il Nord Italia, nel giorno del vertice a Palazzo Ducale con il premier Renzi e il presidente francese, Hollande. Le imbarcazioni delle forze dell’ordine usano idranti per contenere le ‘incursioni’ delle piccole imbarcazioni e impedirgli di sbarcare in piazza San Marco

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Venezia, 'battaglia' nel Canal Grande tra No Tav e forze dell'ordine

Venezia, ‘battaglia’ nel Canal Grande tra No Tav e forze dell’ordine

http://www.repubblica.it/cronaca/2016/03/08/foto/venezia_tav-135022702/1/

08 marzo 2016

 
Sono arrivati in circa 500, da tutto il Nord Italia, per dire no alla Tav, no alle trivelle, no alle Grandi Navi, nel giorno del vertice Italia-Francia a Palazzo Ducale con il premier Matteo Renzi e il presidente francese, Francois Hollande.Nella città sull’acqua, la manifestazione si è svolta a piedi, e in barca. Metà dei manifestanti sono saliti sui numerosi barchini che li attendevano, attraccati, sulla rive del Canal Grande. Volevano superare la zona rossa, arrivare più vicini al vertice. C’è stato uno scontro in acqua, ma senza particolari conseguenze, nel bacino di San Marco. I manifestanti hanno lanciato lacrimogeni, la polizia ha usato gli idranti.

Renzi-Hollande a Venezia: fumogeni dai manifestanti no Tav

Navi della Guardia costiera, della Guardia di Finanza e della polizia hanno tentato di disperdere i manifestanti al termine del Canal della Giudecca, parte Sud di Venezia. Nel bacino di San Marco, ormeggiata a qualche metro, un’enorme nave della Guardia costiera. L’obiettivo delle forze dell’ordine era non far sbarcare la protesta in piazza San Marco. Dalle barche e dalla riva le stese voci, gli stessi slogan. Contro la polizia, contro i partecipanti al vertice.

Italia-Francia, No Tav a Venezia contro il vertice. Barche tentano di sfondare la 'zona rossa'

 “Non esistono zone rosse, questa è la nostra città e non possono prendersela quando vogliono e trasformarla in un palcoscenico per il loro teatrino”, dichiara Marco del comitato No Grandi Navi: “Manifestiamo contro un vertice che non vogliamo, in cui verrano stretti accordi che non vogliamo. Renzi e Hollande parleranno di guerra in Libia, dell’inutile alta velocità tra Torino e Lione, di grandi opere. Noi non le vogliamo, queste grandi opere ed è un insulto che ne vengano a parlare qui, dove stiamo ancora pagando la più inutile di tutte le grandi opere, il Mose”.

Italia-Francia, No Tav a Venezia contro il vertice. Barche tentano di sfondare la 'zona rossa'

Il capoluogo veneto ha sancito una sorta di gemellaggio tra i No Tav piemontesi e i sostenitori contro le navi in laguna, per ribadire il loro dissenso. Bandiere ‘No Tav’, musica a tutto volume e vari cartelli, da ‘Il tribunale dei popoli condanna il sistema delle grandi opere inutili e imposte’ a ‘Preserviamo il nostro futuro difendendo scuole e territorio’ o ‘No devastazioni e saccheggio. No grandi navi. No Tav’. Un corteo di 5 chilometri, partito dalla stazione e arrivato a Punta della Dogana passando per le Zattere. Fra i manifestanti e Palazzo Ducale, sede del vertice previsto alle cinque, c’è sempre stato il Canal Grande.

La manifestazione che doveva concludersi alle 13, è finita poco dopo. Nel corso dei due cortei, quello a piedi e quello in barca, i manifestanti, davanti a una chiesa alle Zattere, hanno incrociato un funerale e gli slogan sono si sono spenti per diversi minuti in segno di rispetto.

Israele si prepara ad una terza guerra contro il Libano

Mar 06, 2016
 
Soldados-de-Israel-en-la-frontera-con-Libano
Soldati Israeliani alla frontiera con Libano
 
Il regime di Israele si sta preparando per lanciare una terza guerra contro il Libano ed il Movimento di Resistenza del Libano Hezbollah, come informano i media libanesi.
Il giornale libanese Al-Akhbar ha pubblicato Sabato informazioni ricevute da fonti statunitensi secondo le quali ci sono piani israeliani per lanciare un altra guerra contro il Libano, seguendo l’esempio delle misure prese contro Hezbollah dall’Arabia  Saudita.
 
Come dettaglia l’informativa, il regime di Tel Aviv si sta preparando ad una guerra, visto che “le autorità israeliane non vogliono continuare a restare in silenzio davanti alla presenza di Hezbollah in Siria e il suo considerevole rafforzamento sul campo di battaglia”.
 
Le fonti statunitensi, quelle che hanno fatto queste rivelazioni nel corso di un viaggio delle autorità libanesi a Washington, affermano che, mentre la priorità dichiarata di Washington nel Medio Oriente presuppone la lotta contro il gruppo terrorista takfiri dell’ISIS (Daesh in arabo), gli israeliani mettono il loro obiettivo su Hezbollah, movimento che vedono come un “pericolo concreto” per la loro sopravvivenza.
Nello scorso mese di Dicembre, Giora Eiland, ex presidente del Consiglo di Sicurezza Nazionale del regime israeliano, ha dichiarato che una eventuale guerra contro il Libano non dovrebbe puntare soltanto contro Hezbollah ma anche contro tutto il Libano. Vedi: Times of Israel
 
Ieri Sabato, le fonti citate dal portale web israeliano Debka File, hanno informato che caccia israeliani hanno realizzato simulacri di attacchi aerei contro il territorio libanese. Queste esercitazioni militari sono state effettuate su Baalbek, nell’est del Libano, vicino alle zone dove si trovano le installazioni di addestramento e gli arsenali di Hezbollah.
 
Tutto questo ha luogo mentre, in varie occasioni, i responsabili dell’intelligence israeliana hanno avvisato che Hezbollah potrebbe sorprendere il regime di Tel Aviv con un massiccio attacco di rappresaglia per i crimini israeliani commessi contro le popolazioni della Palestina e del Libano. Nel Gennaio passato, l’armata israeliana ha assicurato che Hezbollah già adesso conta con missili da crociera e antinave tipo Yajont, forniti dalla Russia, cosa che costituisce una grave minaccia per il regime di Israele.
A sua volta l’ex ministro israeliano delle questioni militari, Ehud Barak , ha riconosciuto il potere militare di Hezbollah ed ha avvisato che il regime di Israele non ha la capacità di fare fronte ai 100.000 missili di cui dispone il movimento di Resistenza.
Una informativa della rivista statunitense Foreign Policy, divulgto il Sabato, sottolinea che Hezbollah avrebbe la capacità di recuperare i territori palestinesi occupati dal regime israeliano in una prossima guerra.
 
Secondo alcune fonti, Israele vuole approfittare del conflitto in Siria in cui sono fortemente impegnate le formazioni di Hezbollah per colpire alle spalle il movimento di resistenza libanese.
La strategia di Israele è emersa chiaramente anche dalle ultime dichiarazioni del ministro della Difesa israeliano Moshe Yaalon, il quale aveva di chiarato di considerare il vero pericolo per Israele costituito da Hezbollah e dalla Siria, alleati dell’Iran.   Vedi: Il ministro di Israele: in Siria meglio lo Stato Islamico che l’Iran
 
Gli avvenimenti di questi ultimi anni e le guerre di destabilizzzazione portate avanti dagli USA e dai loro alleati hanno messo fuori gioco due dei paesi ostili e fra gli avversari più temibili che Israele aveva nella regione: l’Iraq e la Siria. Entrambi i paesi oggetto di aggressione da parte dgli USA e dei loro alleati, il primo in forma diretta e il secondo per mezzo di un esercito mercenario finanziato anche da sauditi, turchi e dal Qatar.
Evidente quindi che, per sentirsi sicuri, gli israeliani dovrebbero annientare il terzo incomodo che è fortemente cresciuto in capacità militare in questi ultimi anni: il movimento di Hezbollah.
 
Fonti:     Hispan TV
 
 
Traduzione e sintesi : Luciano Lago

E’ allarme suicidi in bergamasca, crisi economica ha aumentato il fenomeno

lun, Mar 7th, 2016
C’è chi si lancia sotto un treno in corsa, chi si lascia cadere da un ponte o chi prende una corda e si impicca. Negli ultimi mesi il fenomeno dei suicidi è, purtroppo, in costante aumento in Bergamasca. Solo nella giornata di mercoledì 2 marzo due ragazzi di 25 e 30 anni, a poche ore distanza, l’hanno fatta finita gettandosi dal ponte di Paderno d’Adda, ormai noto teatro di gesti simili.
Il giorno prima, un 59enne si era fatto investire da un treno alla stazione di Bergamo. Modalità simile a quella con cui dallo scorso maggio si sono tolti la vita quattro uomini, non ancora quarantenni, tra le fermate ferroviarie di Calcio e Romano.
Proprio nella Bassa, giovedì, è stato il turno di un artigiano di 39 anni, trovato impiccato nella sua fabbrica. Tristi storie di vita, ognuna con i propri problemi, accomunate da un finale tragico.
Per cercare di capirne di più ne abbiamo parlato con un esperto, il dottor Stefano Callipo, psicologo, responsabile del Centro di Prevenzione del Rischio Suicidario e responsabile L.P.R.S.S..(…)
 
Leggi tutto su bergamonews

BIELLA: 300 FAMIGLIE SENZA CASA, MA RENZI DÀ 9,5 MILIONI PER OSPITARE PROFUGHI

quanto è stato erogato per i disoccupati? Non rendono quanto MAFIA CAPITALE, si comprende la mobilitazione in difesa di questa MAFIA, i suoi picciotti oggi sono le mille sigle della società civile
 
FEBBRAIO 7, 2016
camuffati da profughi
 
Il dato delle 300 famiglie senza un tetto lo dà Roberto Simonetti, esponente locale della Lega
Viviamo in una società al contrario, dove il cittadino viene tartassato da chi ha eletto e l’eletto aiuta i non biellesi a loro scapito. Un mondo al contrario appunto, voluto da una sinistra mondialista che guarda dappertutto tranne all’uscio della porta di casa. Casa che ora sta diventando un miraggio anche per le famiglie biellesi, che a fronte della crisi non riescono più a soddisfare le proprie spese di residenza e vengono così messi alla porta.
 
Anche dalle strutture pubbliche. Lavoratori licenziati prossimi alla pensione che per la Formero mai vedranno, famiglie indigenti che silenziosamente, con dignità lottano quotidianamente mentre i servizi sociali non riescono, per mancanza di soldi al fondo solidarietà, a risolvere i loro problemi. In più ora l’Agenzia case popolari, da quando la sinistra governa dappertutto, sfratta i bisognosi ed ha smesso di costruire nuove realtà abitative.
 
Il welfare biellese più o meno è così diviso: 10 milioni per il Consorzio IRIS, 8 milioni per il CISSABO e 9 milioni e mezzo per l’accoglienza degli immigrati. Una cifra esagerata, enorme, spropositata quest’ultima dell’accoglienza rispetto ai fondi destinati ai biellesi e che non risolverà mai il problema alla radice, ed anzi ne implementerà solo la perpetuazione.
 
E’ bene che la politica si fermi un attimo, ragioni, e trovi soluzioni sopratutto per i biellesi prima, e poi per gli altri. Soluzioni per gli immigrati da trovare “a casa loro”, non per disinteressarsi del problema, ma per risolverlo alla radice. Aiuti umanitari nelle zone di guerra, controlli per i richiedenti asilo al di là del mediterraneo, politiche internazionali per lo stop alle guerre civili.
 
Se l’Occidente non aiuterà così la parte del mondo più povera ed in difficoltà ma cercherà invece di inglobarla in sè stessa, troverà una soluzione diametralmente opposta rispetto allo spirito che lo muove: anche l’occidente si impoverirà a tal punto da non aver più la possibilità di aiutare nessuno, ne sè stesso, nè gli altri. Chi ci governa quindi, si fermi un attimo e ragioni. Gli spot elettorali lasciamoli alle pubblicità dei detersivi.
 
Biella, bando da oltre 9 milioni di euro per richiedenti asilo
Saranno erogati nel 2016 per l’accoglienza annuale di 750 migranti
 
Oltre 9 milioni di euro. A tanto ammontano i fondi che saranno erogati nel 2016 per l’accoglienza di 750 migranti che la Prefettura ha stimato di ospitare nel comprensorio biellese dal primo gennaio al 31 dicembre.
Il bando per l’accoglienza e il sostegno dei richiedenti asilo è stato pubblicato la scorsa settimana e scadrà il 25 gennaio. Obiettivo dell’iniziativa, stringere un accordo con più operatori per affidare il servizio di accoglienza di 750 stranieri, 420 dei quali attualmente ospitati nelle strutture gestite da Filo da tessere, Nuvola, Pacefuturo e Pietra Alta Servizi.
Una stima per difetto, destinata ad essere aggiornata in corso d’opera, che include i richiedenti asilo inseriti nei centri di accoglienza e quelli alloggiati nella ex sede Atap, i pakistani ospitati dalla Caritas e i migranti che in futuro arriveranno nel Biellese. Dunque 350 posti in più rispetto a quelli esistenti in provincia. Ma la lista, come è ovvio, non tiene conto di quei migranti che, con ogni probabilità, la Prefettura di Torino destinerà in futuro al Biellese e neppure di quelli che, per conto prorprio, giungeranno nel compresorio.
  
UN ARTICOLO DEL 2014 PER RINFRESCARE LA MEMORIA
28/11/2014 06:04
Rifugiati, gli affari d’oro delle coop Assistere meno di 4.800 migranti costa 45 milioni di euro a Roma. 
E in Prefettura istituito l’albo dei noleggiatori per trasportarli nei centri
 
La pubblica amministrazione chiama, le coop corrono. È accaduto con lo Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo) ed anche col circuito di accoglienza parallelo gestito direttamente dalla Prefettura di Roma, che a luglio ha pubblicato l’ultimo bando con uno stanziamento a sei zeri: 10 milioni di euro, in soli cinque mesi (agosto-dicembre 2014), per «la collocazione in strutture idonee di 2.358 stranieri comprensivi di 1.278 migranti già presenti nella provincia di Roma». Rifugiati che si aggiungono agli ospiti Sprar distribuiti tra Roma e provincia, 2.581 unità nel triennio 2014-2016 per un costo totale annuo di 35.732.000 euro.
L’AFFARE DELLE COOP
Già a inizio anno, il 9 gennaio 2014, la prefettura di Roma – in piena emergenza sbarchi – aveva allertato le varie realtà locali: «A seguito del continuo incremento di arrivi di cittadini stranieri – si scriveva sulla circolare – il ministero dell’Interno ha rappresentato l’esigenza di provvedere all’allestimento di ulteriori centri ed acquisire la disponibilità di enti pubblici o associazioni del privato sociale esperte nel settore, che dovranno comunicare tempestivamente la propria disponibilità». Affidamento diretto del servizio a colpi di convenzione per un importo «massimo di 30 euro oltre Iva e che comprenda, oltre a vitto e alloggio, la gestione amministrativa degli ospiti, la mediazione linguistica, la fornitura di biancheria, tessera telefonica di 15 euro all’ingresso».
IL NUOVO BANDO
Il giro di soldi che si trascina dietro l’ondata di sbarchi, inarrestabile, ha imposto un nuovo corso, cioè quello della gara pubblica. In quest’ottica, abbiamo anticipato, la prefettura di Roma a luglio ha pubblicato uno schema di accordo quadro tuttora in vigore che disciplina attività e «onorario» delle coop che si sono aggiudicate il bando, cinque in totale e tutte operative tra Roma e provincia. In questo caso la quota destinata all’accoglienza «in strutture idonee di presunti 2.358 cittadini stranieri» aumenta da 30 euro oltre Iva a «35 euro oltre Iva (base d’asta) corrispondente al prezzo pro-capite giornaliero comunicato dal ministero dell’Interno – si legge sul bando – Il gestore si impegna a garantire vitto non in contrasto con i principi e le abitudini alimentari degli ospiti, alloggio, servizi di assistenza generica alla persona, sanitaria, di pulizia», ed anche «l’erogazione di un pocket money pari a 2.5 euro al giorno sotto forma di buono, per schede telefoniche, biglietti del trasporto, sigarette». Totale della gara, aggiudicata al massimo ribasso, 10 milioni 68mila euro, che sommati ai 35 milioni Sprar trasformano i numeri dell’accoglienza in qualcosa di insostenibile: 45 milioni di euro per assistere, a conti fatti, nemmeno 4.800 persone in pochi mesi.
RIFUGIATI MINIERA D’ORO
Roma, tra Sprar e prefettura, ha fatto il pieno di rifugiati, nonostante questo non tutti i posti a disposizione sono esauriti: «Tra Roma e provincia – spiegano gli addetti ai lavori – manca ancora circa 1/4 degli arrivi previsti, per esempio la prefettura si organizza a cascata: se ha ancora posto la prima cooperativa che si è aggiudicata il bando, li mandano lì, altrimenti a scendere si rivolgono alle altre con strutture idonee». Il bando stesso stabilisce un tetto massimo, per ciascuna struttura ricettiva, di 100 ospiti, è comunque evidente che – trattandosi di quote al giorno per persona – l’obiettivo è accogliere quanti più migranti possibile. Dimostra l’affare, del resto, anche il fatto che nell’ambito del circuito Sprar le stesse coop aggiudicatrici dell’appalto contribuiscano a sostenere economicamente l’iniziativa: sul totale di 35 milioni 732mila euro all’anno, 2014, 2015 e 2016, stanziati da ministero e Europa, una parte (7 milioni 234mila euro) la pagano proprio i gestori dei centri.
SERVIZIO TAXI
È capitato, e capita, che la prefettura chieda ai vari enti gestori mezzi per trasferire i rifugiati tra i vari centri: «Chiamiamo i pullman – confermano da una coop – poi ci fanno fattura a parte». A fine ottobre, sempre palazzo Valentini, ha pubblicato un avviso relativo «all’istituzione di un albo noleggiatori a cui affidare incarichi per il trasporto di migranti dai posti di frontiera ai centri di accoglienza della provincia». Rivolto «alle ditte in possesso di licenza comunale per l’esercizio del servizio di noleggio da rimessa con conducente», si quantificano anche le tariffe: da 1,40 a 2,60 euro al chilometro in base a tratta e passeggeri.
Erica Dellapasqua
  
migranti7