Trivelle, la Cgil contro il referendum: “Rischiamo posti di lavoro”

si sà, come la Cgil mai nessuno ha difeso tanto i lavoratori, per questo hanno approvato dalla Treu alla Biagi, fino al Job act senza fare troppo rumore, disturbare sì, ma entro certi limiti. Sia mai che le lobbies si indispettiscano
 
Il segretario dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, prende posizione a un mese dal voto: “Di petrolio e gas ci sarà ancora bisogno, si rischia di perdere posti di lavoro”. Ma la Cgil in Basilicata va controcorrente. La Consulta boccia i ricorsi delle Regioni
 
di LUCA PAGNI
09 marzo 2016
 
trivelle
MILANO – “In un mondo attraversato dall’ombra della guerra e con il rischio di un coinvolgimento fortissimo dell’Italia, sarebbe un errore strategico, fatale per il nostro paese vietare l’estrazione di idrocarburi”. A poco più di un mese dal referendum indetto da comitati locali e ambientalisti che cercano di porre un freno all’attività della ricerca di idrocarburi in Italia, il fronte dei “trivellatori”, dopo lo stop della Corte costituzionale al ricorso delle regioni, trova un nuovo alleato. Con un intervento pubblicato nelle pagine dei commenti del quotidiano “Unità”, il segretario nazionale dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, prende nettamente posizione contro il referendum. E lo fa con una serie di argomentazioni di carattere politico-economico, dietro alle quali è comprensibile leggere tutte le preoccupazioni del sindacalista per la possibile perdita di posti di lavoro.
 
Miceli lo sostiene senza girarci troppo intorno. Partendo dal presupposto che nell’Adriatico le estrazioni si faranno lo stesso anche se verranno impedite in Italia (in Croazia, Montenegro e Grecia sta già avvenendo), il segretario della Filctem sostiene che ci saranno “imprese che chiuderanno i battenti” con “emigrazione verso altri lidi di frotte di ingegneri e di complesse infrastrutture tecnologiche e logistiche che rischiamo di perdere, insieme a migliaia di posti di lavoro dell’indotto, nelle quali primeggiamo perché è un lavoro che sappiamo fare, una volta tanto tra i primi nel mondo”.
 
Ma non c’è solo l’aspetto occupazionale. C’è anche quello politico a sostegno della posizione contro il referendum. Miceli, nel suo intervento, sostiene che siamo ancora lontani “dal superamento dell’energia da fonte fossile”. Detto in altri termini, di gas e petrolio c’è ancora bisogno e siccome si può estrarlo in Italia perché ricorrere alle importazioni che sarebbero più costose? “Noi speriamo che gli impegni presi a Parigi vengano rispettati, perché il mondo è malato e si stente l’urgenza di una inversione di rotta che ha bisogno di nuove tecnologie per avverarsi. Ma possiamo permetterci un disarmo unilaterale?”
 
Così, Miceli arriva a sostenere, di fatto, alcune decisioni del governo Renzi su grandi opere di interesse nazionale, con le quali ha affidato al potere centrale più competenze rispetto al passato: “E’ giusto affidare temi complessi come quello dei titoli concessori utili alle estrazioni di petrolio e di gas a uno strumento come il referendum? E’ legittimo – conclude il suo ragionamento il sindacalista della Cgil – diffondere il dubbio che l’Italia sia un paese nel quale, oggi per la burocrazia e domani per il costo dell’estrazione, non convenga investire perché è un Paese a legislazione emotiva e quindi è bene guardare fuori dal perimetro nazionale?”
 
Ma non tutti nella Cgil la pensano allo stesso modo. In Basilicata, il sindacato guidato da Susanna Camusso si è espresso a favore dei referendari: “Le trivellazioni, il petrolio, le fonti fossili – si legge in un documento approvato da tutte le segreterie lucane della Cgil – rappresentano un passato fatto di inquinamento,  dipendenza energetica, interessi e pressioni decisionali delle lobby, conflitti, devastazione ambientale e della salute, cambiamenti climatici. Noi vogliamo – si legge ancora – un futuro basato sull’efficienza energetica e le fonti rinnovabili distribuite, un’economia sostenibile e equa, la piena occupazione e la democrazia partecipativa. Vogliamo che il nostro Paese acceleri la transizione energetica, si doti di un piano industriale strategico per lo sviluppo sostenibile e di un piano per la decarbonizzazione che contribuisca a realizzare l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5° sancito nell’accordo della conferenza sul clima di Parigi”.
 
Il perché della contraddizione all’interno della Cgil è spiegabile: a livello nazionale le preoccupazioni con la possibile riduzione di investimenti e quindi di posti di lavoro complessivi, mentre a livello locale la Cgil deve tener conto delle proteste per lo sfruttamento della Val d’Agri dove si trovano i più grandi giacimenti di idrocarburi d’Europa sulla terraferma. Da tempo le polemiche riguardano il fatto che i giacimenti non hanno portato quei benefici al territorio della Basilicata, sotto forma di occupazione e royalties.
 
Il referendum, ricordiamo, si terrà il 17 aprile per per proporre “l’abrogazione della norma che concede di protrarre le concessioni per estrarre idrocarburi entro 12 miglia dalla costa italiana fino alla vita utile del giacimento. Se il referendum approverà l’abrogazione, le concessioni giungeranno alla scadenza prevista.

Jobs act, la Francia presenta riforma come quella italiana: licenziamenti facili e meno potere ai giudici

invidio molto ai francesi la loro capacità di mobilitarsi, a prescindere da quale governo ci sia. In Italia non si muove nulla, il governo amico potrebbe anche compiere stragi tanto la società civile non solo non si indignerebbe, ne occulterebbe anche le prove.
  
job act
Il testo approderà al Consiglio dei ministri francese solo il prossimo 24 marzo, ma le mobilitazioni contro la legge sono già partite
 
di Stefano De Agostini | 9 marzo 2016
 
Facilitare i licenziamenti, ridurre i ricorsi davanti al giudice, aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. Anche la Francia si appresta a varare la sua riforma del Codice del lavoro: in Italia c’è chi l’ha già ribattezzata il “Jobs act alla francese”, a causa dei diversi punti di contatto con la legge targata Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Ma non mancano le differenze: i francesi stanno cercando di tutelare il dipendente dal bombardamento di mail lavorative e dal rischio di perdere diritti sociali insieme al posto di lavoro. E la nostra riforma del lavoro in questo senso sembra essere inerte, se non andare nella direzione opposta. Il testo approderà al Consiglio dei ministri francese solo il prossimo 24 marzo, ma le mobilitazioni contro la norma sono già partite. Il 9 marzo a Parigi si tiene una grande manifestazione nazionale contro il progetto del governo, forte di una petizione che ha già superato il milione di firme per fermare la legge. “La riforma francese risponde alle stesse esigenze di quella italiana, cioè una liberalizzazione del mercato del lavoro e una maggiore libertà nei licenziamenti – spiega Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico del centro studi Adapt – Ma si differenzia dal Jobs act soprattutto per la maggiore apertura alle parti sociali e per l’importanza data alla contrattazione collettiva”.
 
Licenziamenti più facili, dunque. Se in Italia il mantra era abolire la reintegrazione del lavoratore, in Francia non era questo il tema del dibattito, in quanto il ritorno al lavoro era già obbligatorio solo in caso di discriminazione. D’altra parte, il progetto di legge francese amplia il ventaglio di causali per giustificare i licenziamenti di tipo economico: si parla di momenti di difficoltà come un calo degli ordini o vendite per diversi trimestri consecutivi e perdite di esercizio per diversi mesi, ma anche di trasferimenti di tecnologia o riorganizzazione aziendale necessaria per salvaguardare la sua competitività. Inoltre, in caso di licenziamento illegittimo, se finora l’importo dell’indennità era deciso in autonomia dal giudice, a partire dai sei mesi di stipendio e senza un tetto massimo, ora la legge intende porre dei limiti sia alla discrezione dei magistrati sia all’ammontare dell’assegno: le indennità andranno da tre a quindici mensilità, in base all’anzianità di servizio del lavoratore. “Come nel Job act – spiega il professor Tiraboschi – l’obiettivo è di togliere spazi di incertezza interpretativa nel codice del lavoro, che dà molto potere al giudice di decidere se un licenziamento è legittimo o meno. E poi c’è anche l’idea di rendere il licenziamento meno costoso per l’azienda”.
 
Inoltre, la riforma francese spingerà l’acceleratore sulla contrattazione di secondo livello, aziendale e individuale. Se oggi un dipendente non può lavorare più di 10 ore al giorno, con la contrattazione collettiva potranno arrivare a dodici. E se la settimana media segue il modello delle 35 ore medie, con un massimo di 48, dopo la riforma si potrà arrivare fino a un massimo di 60, in casi eccezionali. Cambierà anche il regime degli straordinari. Rimane il minimo del 10% di retribuzione in più, ma gli imprenditori avranno maggiore libertà ad abbassare l’importo fino a questa soglia, sempre attraverso accordi sindacali. E ancora, si apre alla possibilità di stringere accordi espansivi, per sviluppare il lavoro, e di validare le intese attraverso referendum all’interno delle aziende. La spinta ai contratti decentrati non è compresa nel pacchetto del Jobs act italiano, ma quella è la direzione segnata: sindacati e Confindustria dovranno trovare un accordo per riformare la contrattazione, altrimenti agirà il governo con una legge. “Ma finora il governo italiano – puntualizza Tiraboschi – è intervenuto prescindendo dalla contrattazione collettiva, considerando il sindacato solo un impiccio, un elemento negativo. In Francia, invece, il dialogo sociale è considerato un valore”.
 
Ma il testo francese si differenzia dal nostro Jobs act anche per l’idea del cosiddetto “conto personale di attività”. “Quando si cambia lavoro – prosegue il giuslavorista – capita spesso di perdere diritti assistenziali, previdenziali, sanitari. Il progetto francese, benché non ancora definito, è di creare un conto personale in grado di trasferire questi diritti acquisiti da un posto di lavoro all’altro”. Nel Jobs act, invece, il sostegno a chi perde l’occupazione passa attraverso l’Anpal, l’Agenzia nazionale per il lavoro, e i percorsi dei centri per l’impiego, un disegno che a un anno dalla riforma rimane ancora al palo nella sua attuazione.
 
Infine, le riforme italiana e francese divergono nel diverso approccio al tema dei controlli. Se in Italia il Jobs act ha permesso all’impresa di monitorare gli strumenti elettronici (pc, tablet, smartphone aziendali) usati dal dipendente, il progetto di legge francese va in direzione opposta. L’idea del governo è di salvaguardare diritto alla disconnessione, cioè la garanzia di non essere subissati di mail lavorative all’infuori dell’orario prestabilito. E il professor Tiraboschi sottolinea un’altra differenza a livello di metodo: “Il progetto francese è stato a lungo discusso da esperti e parti sociali, attraverso la produzione di rapporti sui vari temi. Questo ragionamento e questa riflessione non li ho visti in Italia. Nel Jobs act, all’improvviso sono comparsi una legge delega e dei decreti attuativi scritti a tavolino”.
 
di Stefano De Agostini | 9 marzo 2016

Tav. Il solito muro di gomma

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VALSUSA NOTIZIE

Voci indipendenti dalla Val Susa

 

Proteste a Venezia e audizione in Senato dei tecnici ma niente ferma il Partito della Devastazione. La parola torna ai cittadini che dovranno prendere in mano il proprio destino in attesa di auspicabili cambiamenti politici decisivi. La grande responsabilità dei 5 Stelle.

Inserito il 9 marzo 2016

RenziHollande

di Fabrizio Salmoni

Con il consueto disinteresse che rasenta il disprezzo per le tasche e la salute dei cittadini, Il Bomba e Tartufon a Venezia hanno ieri firmato il “protocollo addizionale” che darebbe il via alle procedure per iniziare a lavorare al tunnel di base della Torino-Lione nel 2019 (!), più o meno quando le stampanti 3D contribuiranno a ridurre ulteriormente il bisogno di trasportare “solidi” tra Torino e Lione.

Dall’altra parte del Canal Grande e sull’acqua dello stesso, una presenza combattiva di comitati e organizzazioni ambientaliste testimoniava che una minoranza agguerrita e attiva li marcava stretti impegnandosi addirittura in un breve scontro navale regolato a suon di idranti.

A Roma, negli stessi istanti, si teneva l’audizione alla Commissione Trasporti del Senato dei tecnici dell’Unione dei sindaci valsusini “tra l’indifferenza generale” come riferiva realisticamente il senatore 5 Stelle Scibona. Significativamente, il comunicato odierno del Movimento No Tav non fa accenni a reazioni, riscontri e non fa commenti.

scimmiette

In sostanza: il solito muro di gomma di fronte alle istanze dei valsusini e ai dati solidi da loro portati a fronte di slogan ormai sdrusciti dei partiti. “”C’è stata una decisione politica” aveva detto qualche settimana fa il Commissario Foietta ai consiglieri regionali piemontesi 5s che lo incazavano sugli stessi temi. E questo deve bastare. Tradotto: non ci interessano i dati, non ci interessa “dialogare” come abbiamo sempre dichiarato ma mai veramente attuato, non ci interessa se il progetto non serve, se fa male alla salute, se va a incidere pesantemente su un debito pubblico che anche l’Europa ci rinfaccia. Non ce lo chiede neanche l’Europa, come abbiamo sempre strombettato, ed è ormai evidente a tutti: l’Europa si limita a dare contributi limitati su richiesta dei due Stati e della lobby politico-imprenditoriale interessata. L’opera si deve fare e basta. La politica ha sempre bisogno di alimentare il suo sistema di potere, specie in tempi di magra.

A parole è “irreversibile”, nei fatti sarà tutto da vedere: quale decisione politica non è soggetta a revisione e ripensamenti quando si rivelino altre priorità o altri rischi per i decisori? Da Berlusconi a oggi gli italiani hanno imparato che per questi politici la parola vale zero e viaggiano a vista, pronti anche a modificare la Costituzione a maggioranza relativa se pensano che possa servire. E poi comunque ci dovrà essere una ratifica parlamentare in un momento in cui il partito di governo, ormai identificabile come responsabile diretto della devastazione, è in grave difficoltà. Diviso in bande che si combattono ferocemente per spartirsi poltrone, poltroncine (fin nelle Circoscrizioni) e fette di potere, avventurieri che si affidano a cinesi e sottoproletari per prevalere al loro stesso interno (cosa saranno capaci di fare alle elezioni?). Arresti, corruzioni, spudorate menzogne quotidiane ormai insopportabili per chiunque da ogni schermo televisivo, dai giornali e dai social.

Farà in tempo questo governo, tra gli sballottamenti delle amministrative e il referendum istituzionale, a ratificare queste ennesime clausole preliminari prima di andarsene?

Quale grande responsabilità cade da oggi sul Movimento 5 Stelle che si candida a governare Torino, Roma e prossimamente il Paese! Già molti valsusini si chiedono se avranno forza e volontà sufficienti a fermare il Tav e a cambiare la politica delle Grandi Opere Inutili: a parte i valorosi parlamentari piemontesi, la candidata sindaco 5S Appendino, finora non ha mai pronunciato la parola Tav in campagna elettorale e questo suscita sospetti; se si eccettua Di Battista, la cui presenza è stata gradita alla manifestazione dell’8 Dicembre, anche gli altri parlamentari 5S sembrano non accorgersi di quanto sia importante fermare la Torino-Lione. L’aspettativa sui 5S in Valle è enorme, fin troppo considerando che alcuni comitati No Tav si sono trasformati dall’oggi al domani in Meet Up o comitatini elettorali dedicandosi alla politica istituzionale e quasi dimenticando la loro natura originaria. Tutto è utile, per carità, ma forse non tutto è opportuno.

La parola dunque torna sul terreno ma l’impressione è che si debba aspettare che si voti a Torino per rivedere un’opposizione rilevante. Sarà importante che il Pd perda e imploda per riprendere slancio. Grande è la responsabilità dei 5 Stelle!

(F.S. 9.3.2016)

OBAMA DIRIGE, LA FRATELLANZA SUONA, QUALCUNO STONA

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/03/obama-dirige-la-fratellanza-suona.html

MONDOCANE

MARTEDÌ 8 MARZO 2016

Se riusciamo a far sporgere il capino dalle slavine di informazione artificiale  che giorno dopo giorno, da schermi e pagine stampate mainstream, ci travolge, forse riusciamo a intravedere ancora qualche brandello di realtà. Qui si espone un’ipotesi, tra le tante verità incontrovertibili che ci sommergono, che mancherà di pezze d’appoggio granitiche, ma ha il pregio, imparato da Maria Montessori, di trarre un minimo di logica dal collegamento dei dettagli.
 
C’è un direttore d’orchestra, da qualche tempo è quello a stelle e strisce con stella di David sul cappello. E c’è un’orchestra che a volte suona in armoniosa sintonia, a volte perde il sincrono perché qualcuno va per conto suo e stona. Succede quando un settore dell’orchestra prende l’abbrivio e inserisce uno spartito diverso sul leggìo.E pare succedere ora, con un’orchestra in dissonanza tra due gruppi di musicanti che anziché andare di conserva, come il direttore vorrebbe, suonano l’uno contro l’altro.
 
Fuor di metafora, fanno gruppo e si muovono compatti all’attacco Turchia, Qatar e Tripoli, cavalli di razza di una Fratellanza Musulmana cui il direttore, o regista, memore dei servizi storicamente forniti dalla confraternita al colonialismo, aveva voluto affidare la risistemazione del Medioriente, nel segno di un islamismo integralista, lontano dalle fregole nazionaliste, sovraniste, laiche e addirittura socialisteggianti, degli Stati tempratisi nel fuoco delle lotte di liberazione. Di contro c’è il gruppone Casa di Saud, Emirati, Oman e frattaglie minori del Golfo che non è che siano apostati senzadio, ma sulla religione e sul petrolio vorrebbero non essere infastiditi nella loro egemonia. E a tal punto detestano la Fratellanza da essersi addirittura schierati dalla parte di quel laicone, amico di Putin (con il quale, del resto i sauditi hanno avuto ripetuti abboccamenti, il Qatar no, guai!) e bau bau massimo dei Fratelli Musulmani, che è il presidente dell’Egitto, Abdelfatah Al Sisi.
 
 
C’è ragione per sospettare che gli avvenimenti funesti degli ultimi giorni possano essere l’esito  di queste divergenze. Una specie di controffensiva della Fratellanza messa in grave difficoltà in Siria, dagli insuccessi suoi e dei suoi succedanei Al Nusra e Isis, in Egitto dalla rivolta popolare che ha eliminato dalla scena l’imam ultrà Morsi e favorito l’ascesa di Al Sisi, in Libia dagli unici che paiono poter prendere in mano la situazione e sono l’Egitto, i laici di Tobruk e il generale “neo-gheddafiano” Haftar.  Mettiamo in fila azioni e reazioni.
 
I turchi abbattono un Sukhoi e i Fratelli, o loro cugini di primo o secondo grado, un Boeing, entrambi russi, il primo sulla Siria, l’altro sul Sinai egiziano, due paesi a governo antislamista. Botta ai siro-russi, botta terrificante al turismo che sostiene l’Egitto. Niente da fare: esce fuori che l’Egitto si avvia verso una bonanza economica e fertili rapporti internazionali a vasto raggio grazie alla scoperta di un oceano di gas davanti alle sue coste. E che ci lavora con l’italiana ENI. E che Renzi, commesso viaggiatore dell’ENI, trascurando le fatwe dei Fratelli, va in Egitto e ci combina grossi affari. Visto che sul posto con i manager e a Tobruk con le Forze Speciali sono già arrivati i francesi, eterni guastafeste in Libia.
 
I Fratelli scatenano una campagna terroristica da un capo all’altro dell’Egitto. Ne fa le spese anche il consolato d’Italia al Cairo. Appunto. Ne fa le spese, appunto, anche un altro pezzo d’Italia, Giulio Regeni, a mezzadria però con gli angloamericani  McCole e Negroponte, spione e serial killer. Più inclini questi, per mandato storico, ai Muslim Brothers che non al generale che si dice erede di Nasser. In Italia tutti coloro che hanno polluzioni notturne sognando la Casa Bianca, o il Tempio di Salomone, aprono un fuoco di sbarramento sul demonio egiziano la cui malvagità farebbe impallidire di invidia Gengis Khan e Pinochet. Parigi, che da tempo tra il petro-sultano del Qatar e il gas-presidente d’Egitto ha scelto il secondo (anche per la comune vista sulla petrolifera Libia), il terrorismo islamista se lo fabbrica da sola. I Fratelli veri ne restano fuori. Con l’Italia si può, con i francesi è più rischioso.
 
 
Ma Roma, Palazzo Chigi, l’ENI, non demordono. Farsi sfuggire il boccone energetico egiziano, proprio mentre a casa nostra un possente movimento popolare No Triv, ora pure referendario, mette in discussione la distruzione del territorio nazionale tramite trivelle e piattaforme, scherziamo? E allora vengono fatti trovare morti, tra versioni deliranti che si scontrano tra di loro come palline impazzite sul biliardino, due italiani, Failla e Piano, tecnici ENI. La pallina più pazza è quella del chiodo che avrebbe permesso ai due sopravvissuti di scardinare una porta e ritrovarsi liberi in strada. Tutto succede a due passi dal municipio di Sabrata, dove si aggirano quelli dell’Isis e regnano i cugini musulmani dei Fratelli Musulmani di Tripoli. Gli uni fianco a fianco con gli altri. Una faccia una razza. Giustiziati? Colpiti nello scontro a fuoco? Armati anche loro? Scudi umani? Dice che sono stati quelli dell’Isis, e chi se no. 
 
A questo punto, da quelle parti restano appena i quattro gatti dei servizi e delle Forze Speciali. Ma i 5000 armigeri, ripetutamente annunciati dalla fregolosa Pinotti, vengono bloccati a mezz’aria da una presa acrobatica di Renzi. Dati i buoni rapporti Roma-Cairo, era da supporre che sarebbero serviti a sostenere la campagna già avviata a Bengasi da Haftar. Ma due morti e altri due a rischio di fare la stessa fine hanno fatto correre il premier da Barbara d’Urso, dove si decidono le sorti del mondo, e a compiere quel testacoda, da “guerra alla Libia” a videogioco. I Fratelli fanno paura.
Ma i Fratelli di Tripoli e del Qatar non si fidano. Dopo essere stati per mesi in prima fila a invocare  l’intervento straniero “contro l’Isis” (sarebbe come se la ‘ndrangheta chiedesse ad Alfano di infierire su Cosa Nostra), immaginando che l’intervento avrebbe favorito loro su quelli di Tobruk, subodorato che Roma non è ancora del tutto convinta, la menano per le lunghe nella restituzione dei corpi dei due nostri infelici connazionali. Possiamo immaginare, insieme ai superesperti che blaterano fantasie da schermi e giornali, che intorno alla triste vicenda di Failla e Piano e quella tormentata di Calcagno e Pollicardo, si arrovellino e contendano meriti e demeriti bande di briganti, settori degenerati delle milizie di Misurata, berberi filo-Tobruk calati a valle, guardie municipali di Sabrata, l’Isis che si vendica su di noi giacchè non può picchiare gli americani che li hanno disfatti con le bombe. Ma se non è zuppa è pan bagnato. La guerra è tra i Fratelli Musulmani con rispettivi sponsor statali, turchi e Qatar in testa (ma anche Israele, capirai: da teocrati a teocrati…), ed Egitto e rispettivi amici (con cui pure briga Israele, da sempre con i piedi in tutte le staffe).
 
E gli Usa? Nulla è lineare neanche qui. Un po’ con i turchi nella Nato e nell’intento di sconvolgere l’Europa con i rifugiati, un po’ contro i turchi con i curdi siriani che gli fanno costruire una base e un aeroporto anti-Assad in Siria in cambio di protezione e secessione. Quanto alla Libia, in un modo o nell’altro la vogliono, magari spartita tra francesi, britannici, loro, e una pompa di benzina all’Italia. Di prammatica preferiscono gli Islamisti con i sottoprodotti Isis e Al Nusra, che poi sono un’impresa comune tra loro e tutti gli altri. Probabilmente, ancorati alla tradizione, nonostante i recenti rovesci subiti dai Fratelli in Egitto, Siria e Iraq, preferiscono quelli che non hanno la fisima degli Stati Nazione e tantomeno del panarabismo (ancora gli scotta quell’esperienza). Anche perché è dalla religione che fioriscono le migliori lobotomie di massa e i più efficienti regimi totalitari.
Ecco perché l’ambasciatore Usa Philips, dalle bocche di fuoco del Corriere, ha sparato schiaffazzi a Renzi per non avere ancora attraversato il Canale di Sicilia in armi. In direzione di Tripoli, però, non di Tobruk. E il discolo fiorentino?  Qualcuno, a vederne l’andirivieni  tra guerra e pace, tra minacce dei Fratelli e minacce del padrino Usa, tra il Cairo e Tripoli, s’è chiesto se si trattava di un mini-Craxi a Sigonella, o del solito Arlecchino dei due padroni. Poi lo si è  ritrovato in classe, ma sotto il banco, a promettere alla professoressa D’Urso di essere buono. Buono un po’ con l’uno, un po’ con l’altro, come è virtù nazionale. La quadra sarebbe beccarsi il gas egiziano, e al tempo stesso non far incazzare la Fratellanza (e chi la pompa). Bisogna vedere come la prende Mr. Philips.
 
Comunque, amici, sono ipotesi perché, come diceva Lorenzo, “di doman non v’è certezza”.
Pubblicato da alle ore 19:54

I DOCUMENTI SUL TAV E SULLE GRANDI OPERE SARANNO PUBBLICI

http://www.beppegrillo.it/movimento/parlamentoeuropeo/2016/03/grazie-al-m5s-i-docu.html

Oggi è la fine per i furbetti delle grandi opere, proprio nel giorno in cui Renzi incontra Hollande sotto una selva di proteste degli attivisti NOTAV. Il Movimento 5 Stelle – coi portavoce Marco Valli e Marco Zanni – nel corso della plenaria di Strasburgo, è riuscito a far approvare alcuni emendamenti che invitano la Commissione Europea a rendere pubblici tutti i documenti attinenti al progetto di collegamento ferroviario ad alta velocità TAV Torino-Lione e ai relativi finanziamenti. Più in generale, la richiesta di presentare una proposta per rendere obbligatoria la pubblicazione di tutti i resoconti finanziari e i progetti relativi alle grandi opere pubbliche, compresa la documentazione relativa ai subappaltatori.

La mancanza di trasparenza, infatti, è un’occasione ghiotta per i soliti furbetti che frodano e corrompono. D’ora in avanti ci sarà massima trasparenza nelle valutazioni ex ante della procedura di selezione dei progetti da finanziare, sia all’interno che all’esterno dell’Unione. Grazie al Movimento 5 Stelle dall’Europa arriva un forte segnale, indirizzato a tutte le “ombre” che nel corso di questi anni sono riusciti a speculare sul TAV, a danno dei cittadini.

Ecco gli emendamenti approvati:
– 56 bis.: esprime preoccupazione per la mancanza di piena trasparenza riguardo al finanziamento dei grandi progetti infrastrutturali; invita la Commissione a valutare la presentazione di una proposta intesa a rendere obbligatoria la pubblicazione di tutti i resoconti finanziari e i progetti relativi alle grandi opere pubbliche, compresa la documentazione relativa ai subappaltatori.

– 56 ter.: chiede alla Commissione di rendere pubblici tutti i documenti attinenti al progetto di collegamento ferroviario ad alta velocità Lione-Torino e ai relativi finanziamenti.

– 63 bis.: chiede l’inclusione obbligatoria di una valutazione ex ante del valore aggiunto ambientale, economico e sociale nella procedura di selezione dei progetti da finanziare, sia all’interno che all’esterno dell’Unione, e che i risultati di tali valutazioni nonché i parametri utilizzati siano resi pubblici e pienamente accessibili.

 https://youtu.be/vGdhAMnFITw

 https://youtu.be/Mysu5zMtYxE

No Triv e No Tav protestano a Venezia durante il vertice Italia-Francia. Scontri con la polizia

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/03/08/no-triv-e-no-tav-protestano-a-venezia-durante-il-vertice-italia-francia-scontri-con-la-polizia/2528134/

No Triv e No Tav protestano a Venezia durante il vertice Italia-Francia. Scontri con la polizia

Cronaca

Nel giorno dell’incontro tra Renzi e Hollande manifestanti di diversi gruppi hanno contestato la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa, contro le estrazioni petrolifere e il passaggio delle grandi navi in Laguna. Getti d’acqua per disperdere il corteo di barche, che ha risposto con fumogeni

di  | 8 marzo 2016

Il fronte del No si è dato appuntamento a Venezia nel giorno in cui il primo ministro italiano Matteo Renzi incontrerà il Presidente francese Françoise Hollande (il vertice Italia Francia è previsto per le 17). Quella che si è svolta l’8 marzo in Laguna è stata una manifestazione congiunta organizzata da gruppi diversi: i manifestanti che si oppongono al passaggio delle grandi navinella laguna veneziana si sono uniti ai gruppi No Triv che protestano contro le estrazioni petrolifere e ai No Tav, che invece contestano la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità in tra Torino e Lione. In proposito l’Eliseo, dal canto suo, ha diramato un comunicato in cui definisce “essenziale per le relazioni” tra i due Paesi la costruzione del collegamento ferroviario. venezia 8 marzo

 video di Roberta de Rossi
 
Momenti di tensione durante la manifestazione. Manifestanti a bordo di barchini hanno cercato di superare il limite della ‘zona rossa’, nello specchio d’acqua davanti al bacino di san Marco, predisposta per il vertice italo-francese e sono stati respinti dai getti d’acqua dagli idranti dei mezzi d’acqua delle forze dell’ordine. Dai barchini in risposta sono stati lanciati in aria dei fumogeni rossi. Alcuni manifestanti hanno spinto delle bandiere contro la motovedetta della Guardia di Finanza.  Le navi della Guardia costiera, della Guardia di Finanza e della Polizia hanno cercato di far seguire l’itinerario obbligato, impedendo ai manifestanti di arrivare nella zona rossa e disperdendo coloro che lanciavano fumogeni, anche contro le navi delle forze armate, al termine del Canal della Giudecca, parte Sud di Venezia. L’obiettivo delle forze dell’ordine è non far sbarcare la protesta in piazza San Marco. Il corteo navale, secondo quanto deciso con le forze dell’ordine, termina a Punta della Dogana, di fronte al Palazzo Ducale che ospiterà i due leader e i loro ministri, dall’altra parte del bacino di San Marco.Fumogeni e slogan di protesta come “Il tribunale dei popoli condanna il sistema delle grandi opere inutili ed imposte” hanno animato la manifestazione, che si è conclusa poco dopo le 13:30.
di  | 8 marzo 2016

TAV, PLANO E I SINDACI ASCOLTATI IN SENATO: “LA TORINO-LIONE È INUTILE”

http://www.valsusaoggi.it/tav-plano-e-i-sindaci-ascoltati-in-senato-la-torino-lione-e-inutile/

ValsusaOggi

Giornale online indipendente – Diretto da Fabio Tanzilli – redazione@valsusaoggi.it

     03/08/2016  

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RICEVIAMO DALL’UNIONE MONTANA VAL SUSA

Una delegazione di sindaci della Valle di Susa: Sandro Plano, Emilio Chiaberto, Dario Fracchia, Paolo Chirio, Enzo Merini, l’Assessore di Rivalta Gianna Demasi, i Tecnici dell’Unione montana: Alberto Poggio, Luca Giunti e Sergio Ulgiati, sono stati ascoltati dalla 8° Commissione Lavori Pubblici del Senato, presieduta dal senatore Altero Matteoli.

Nel corso dell’incontro hanno ribadito le critiche al progetto di una nuova linea ferroviaria esponendo i dati di Alpinfo – Istituto Svizzero che studia i traffici sui valichi alpini.

Dalle analisi emerge che il corridoio est-ovest sta perdendo importanza e che l’ipotesi di un tunnel di base appare priva di fondamento, dato che la ferrovia attuale è scarsamente utilizzata.

Hanno evidenziato che gli inquinanti rilevati nell’aria di Torino supera largamente in più occasioni i limiti di sicurezza, mentre in Valle di Susa le soglie sono rispettate.

Hanno toccato il tema lavoro affermando che svuotando le montagne non si riempiono i capannoni industriali. Hanno anche criticato le modalità di progettazione che denotano poca chiarezza negli obiettivi, confusione sulla scelta degli itinerari, contraddizioni sui tempi, incertezze sui costi e sui finanziamenti da reperire.

Sono stati anche evidenziati i reali problemi del nostro Paese: scuola, alluvioni, terremoti e sanità e si è ribadito che non si accetta la logica delle risorse speciali che non siano quelle possibili e necessarie a qualsiasi Comune italiano per sperare in un futuro accettabile per il proprio territorio.

I tecnici hanno approfondito le tematiche riguardanti il sottoutilizzo della linea attuale e la mancanza di prospettive di questo progetto, ormai “vecchio” nella concezione, a fronte di sistemi di comunicazione che utilizzano internet e di trasporto dei manufatti e dei materiali, basati sul “just in time”.

La Commissione ha chiesto informazioni sul livello di protesta della popolazione contro il progetto e i sindaci hanno sostenuto che la situazione è tutt’altro che normalizzata. Permane immutata una forte critica al progetto da parte dei residenti, delle Amministrazioni della Valle di Susa, di Rivalta, Alpignano e Venaria.

L’audizione si è conclusa con un invito dei sindaci a riconsiderare il progetto approfondendolo a livello tecnico e a prendere in considerazione “l’opzione zero”.

Renzi-Hollande a Venezia, Sinistra Italiana: polizia esagera

8 marzo 2016

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Riceviamo e pubblichiamo una nota di Mattia Orlando – Sinistra Italiana Venezia sulla manifestazione No Tav e No Grandi Navi.

Dalla fondamenta di Punta della Dogana, assistiamo con stupore e disappunto all’inutile dimostrazione di forza messa in atto dalle forze dell’ordine nei confronti dei manifestanti nel Bacino di fronte a Piazza San Marco. A diverse ore dall’inizio del meeting Renzi-Hollande, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza hanno schierato unità di tutti i tipi, armate con idranti ad alta pressione, dando vita ad una vera e propria battaglia navale per impedire a dei manifestanti pacifici di raggiungere le acque antistanti alla piazza centrale della nostra città. Una piazza dichiarata “zona rossa” per i veneziani e riservata ai due capi di stato, affichè essi possano disporre di una gradevole location dalla quale organizzare la prossima guerra, della quale il Paese e perfino il Parlamento nulla sanno. Già presente fra i manifestanti, Sinistra Italiana di Venezia non può che essere solidale con organizzatori e presenti, assicurando fin d’ora che si impegnerà a presentare un’interrogazione parlamentare al ministro dell’interno sull’accaduto, attraverso il deputato di zona on. Giulio Marcon.
Chiediamo al contempo al premier Renzi di non nascondersi in zone rosse militarizzate, bensì di spiegare ai cittadini se questo Paese stia andando incontro ad una guerra, di come lo farà e soprattutto del perché. Gli chiediamo inoltre di trovare migliori impieghi per le massicce forze impiegate oggi a difendere quel perimetro da innocue bandiere, possibilmente quello di inchiodare i tanti speculatori che ancora oggi si nutrono della carne di questa città e che non chiedono altro che un nuovo Tresse da scavare.

Mattia Orlando
Sinistra Italiana Venezia

(p.h. LaPresse)

Turchia, casi di violenza e tortura contro i profughi al confine con la Siria

naturalmente i bravi dirittoumanisti agli amici non rimproverano nulla
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© REUTERS/ Marko Djurica
06.03.2016
I profughi siriani si lamentano della brutalità delle guardie di frontiera turche. I medici locali affermano che è aumentato il numero dei siriani rimasti uccisi dopo i tentativi di attraversare illegalmente la frontiera turca, scrive l’Independent.
 
Le guardie di frontiera turche attaccano i rifugiati siriani che cercano di attraversare illegalmente il confine, scrive l’Independent riferendosi alle testimonianze dei profughi e degli attivisti dei diritti umani.
 
Famiglie siriane, che recentemente hanno lasciato Aleppo a seguito dei cruenti combattimenti tra le forze governative e le forze jihadiste, raccontano che le guardie di frontiera turche hanno aperto il fuoco quando i rifugiati cercavano di passare il confine, mentre la gente riuscita a passare subiva torture e violenze.
 
Le stesse autorità turche riconoscono che le guardie di frontiera spesso sparano dei “colpi di avvertimento”, dal momento che spesso il confine viene attraversato da contrabbandieri e foreign fighters, scrive il giornale britannico riferendosi ad un alto funzionario turco.
 
Tuttavia i siriani stessi sono convinti che le misure repressive della Turchia servono per “spingerci nelle mani dei trafficanti avidi e senza scrupoli, mentre le guardie di frontiera abusano della forza contro coloro che sono in cerca di salvare la propria vita”, scrive l’Independent.
 
“Amnesty International” ha riportato in precedenza che nell’ospedale della città siriana di Azaz, situata vicino al confine turco, arrivano ogni giorno almeno 2 civili feriti dopo il tentativo di entrare nel territorio della Turchia.
 
In precedenza l’Unione Europea aveva preteso da Ankara di contenere il flusso di profughi dalla Siria verso l’Europa, ma allo stesso tempo di garantire la sicurezza di coloro che scappano dal Paese devastato dalla guerra per salvarsi.
 
Ankara dichiara pubblicamente di aderire alla “politica della porta aperta” relativamente ai siriani, ma gli attivisti dei diritti umani locali sostengono che le frontiere sono chiuse e vengono lasciati passare solo coloro che hanno urgente bisogno di assistenza medica.

Esercitazione Nato Cold Blade, l’Alleanza si allena per la guerra in climi artici

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 07.03.2016
 
L’obiettivo dichiarato della nona edizione della Cold Blade, ovvero lama ghiacciata, è quello di testare l’efficienza degli equipaggi, dei mezzi e soprattutto delle procedure miliari in ambienti estremi e ostili alla presenza umana. L’esercitazione durerà sino al prossimo 18 marzo.
 
L’esercitazione della Nato, svoltasi nel 2015 in Italia, è prevalentemente incentrata sull’operatività degli squadroni di elicotteri da soccorso e combattimento che compongono il variegato parco mezzi del Patto Atlantico. Quest’anno, secondo i dati diffusi dall’Agenzia Europea di Difesa, parteciperanno all’esercitazione 14 elicotteri (tra cui sei elicotteri NH90 battenti bandiera finlandese, e due elicotteri CH-53GA provenienti dalla Germania), 170 mezzi di terra e circa 350 tra donne e donne provenienti sia dalle forze armate finlandesi, sia dalle guardia di frontiera di Helsinki che da personale delle nazioni partner (per l’Italia saranno presenti quattro istruttori).
 
L’esercitazione Cold Blade, che nel suo complesso si sviluppa in tre fasi (ovvero: Cold Blade 2016, Northern Griffin 2016 e Eno 2016), ha dunque come finalità principale l’addestramento e il miglioramento dell’attitudine operativa sia del personale a bordo degli elicotteri (previsti anche atterraggi e approcci “white-out”, e navigazione supportati dai visori Nvg), sia delle forze speciali che opereranno nell’estremo ambiente subpolare, dove saranno previste prove di sopravvivenza nel rigido ambiente lappone.
 
La fase denominata Northern Griffin, invece, vedrà l’entrata in azione delle teste di cuoio finlandesi, estoni e degli Stati Uniti concentrate su attività di sopravvivenza, ricognizione e combattimento, mentre durante la fase Eno verranno utilizzati gli elicotteri finlandesi MD-500 in servizio nell’area della Lapponia nord occidentale.