“Per i cattolici no Tav «la prima violenza è arrivata dallo Stato»

14 genn 16 – Marco Margrita

 «È una forma di reazione alla militarizzazione e ai soprusi della politica, che certo noi non condividiamo, ma che riteniamo umana»

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http://www.tempi.it/per-i-cattolici-no-tav-la-prima-violenza-e-arrivata-dallo-stato#.Vpk9MirhBN0

…In un’intervista collettiva al settimanale diocesano, che li punge sul tema della violenza, spiegano che «il cantiere deriva da un’azione di forza e questo non va dimenticato. Va anche specificato che la prima violenza è arrivata dallo Stato, che ha colpito duramente chi dissentiva. Se l’azione di protesta diviene un problema di ordine pubblico, questo è dovuto al fatto che la politica non ascolta più la gente, ed i governanti si chiamano fuori dal confronto con il popolo, e delegano alla polizia un compito che dovrebbe essere loro. Il movimento No Tav è un insieme di anime che agiscono autonomamente. Non ci arroghiamo il diritto di giudicare, piuttosto cerchiamo di dissuadere i nostri fratelli dagli atteggiamenti violenti».
La violenza, secondo i Catto-NoTav, «è una forma di reazione alla militarizzazione e ai soprusi della politica, che certo noi non condividiamo, ma che riteniamo umana. Dal canto nostro, ci impegniamo a diffondere la non violenza. Ma chi insegna, oggi in Italia a reagire in modo non violento? La buona scuola di Renzi? Non ci pare. Nel frattempo, ci sembra che si sia messa in atto una vera scuola di repressione al libero pensiero, usando la Valle come luogo di esperimenti privilegiato»…
.”

http://www.tempi.it/per-i-cattolici-no-tav-la-prima-violenza-e-arrivata-dallo-stato#.Vpk9MirhBN0

(Nella prima parte dell’articolo c’è un’analisi sulla situazione del movimento e sindaci)

“IMMIGRATO NO TAV A RISCHIO ESPULSIONE: PROTESTA IN CENTRO MILANO”

Marcelo Jaria, uno dei 53 imputati del processone

14 gen 2016 Giorno :

Un uomo dell’Ecuador rischia di essere espulso dall’Italia a causa di una condanna per gli scontri del 2011

Milano, – Un corteo in centro Milano a sostegno di Marcelo, un uomo dell’Ecuador che rischia di essere espulso dall’Italia a causa di una condanna per gli scontri del 2011 tra “No Tav” e forze dell’ordine. Sono circa 200 gli antagonisti che hanno percorso il tragitto dal Palazzo di Giustizia e l’università Statale.

La manifestazione, alla quale hanno preso parte rappresentanti del comitato abitanti del quartiere Giambellino-Lorenteggio, è iniziata stamani con un presidio in Tribunale, perché era attesa una decisione sul permesso di soggiorno dell’immigrato.

L’udienza è stata però rinviata a febbraio….”

http://www.ilgiorno.it/milano/tav-corteo-protesta-1.1645099

LA TALPA “FEDERICA” per galleria geognostica di Saint Martin La Porte

14 genn 16 Stampa :

“LA POTENZA DI OTTO AUTO DA FORMULA 1 PER LA TALPA “FEDERICA” CHE PORTA ALLA TORINO-LIONE

La fresa Federica presentata in Borgogna: scaverà i 9 chilometri della galleria geognostica di Saint Martin La Porte, in direzione dell’Italia

Federica scaverà i 9 chilometri della galleria geognostica di Saint Martin La Porte, in direzione dell’Italia….

La previsione è di completare i lavori del tunnel geognostico in circa 5-8 anni; lavori finanziati per il 50% dall’Europa, il 25% dalla Francia e il 25% dall’Italia.

Saranno impiegate circa 450 persone, compresi i lavoratori nei subappalti….  

Il nuovo cantiere di Saint Martin La Porte parte dal fondo della discenderia esistente, lunga 2.400 metri, e consentirà di raggiungere a circa 80 metri di profondità il livello del futuro tunnel di base….

I lavori a Saint Martin La Porte comprendono anche lo scavo di una discenderia complementare di 1,8 chilometri, realizzata dal punto metrico 500, cioè a 500 metri dall’entrata della discenderia esistente.

Questa galleria permetterà di aggirare una zona geologicamente complessa al fine di poter realizzare il decimo chilometro nell’asse della canna sud.

Ad oggi sono stati già scavati, con metodo tradizionale, 618 metri di questa discenderia complementare….” 

http://www.lastampa.it/2016/01/14/cronaca/la-potenza-di-otto-auto-da-formula-per-la-talpa-federica-che-porta-alla-torinolione-Eb0PBr5WjAx96Byy4aaSCO/pagina.html

14 genn 2016 Repubblica :

Torino-Lione, otto motori da Formula 1 per scavare l’ultimo tratto del tunnel

http://torino.repubblica.it/cronaca/2016/01/14/foto/torino-lione_otto_motori_da_formula_1_per_scavare_l_ultimo_tratto_del_tunnel-131269029/1/?ref=twhl&utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

Un’altra data importante per la Tav Torino-Lione: la fresa che scaverà in Francia i 9 km dell’ultima galleria geognostica (ma già nell’asse e del diametro del futuro mega tunnel da 57 km) è stata consegnata oggi, nello stabilimento della Nfm Technologies a Le Creusot, in Borgogna, a Telt, la società incaricata di costruirla e gestire la linea ferroviaria ad alta velocità, ed al raggruppamento di imprese impegnate nel cantiere in Savoia a Saint Martin la Porte.

La fresa, battezzata Federica, ha una potenza di quasi 5 megawatt, pari a 8 motori di Formula 1, ha un diametro di 11,21 metri, è lunga 135 metri e pesa 2.400 tonnellate; è dotata di 76 cutters rotanti.

La fresa Federica verrà smontata e portata in cantiere con 35 trasporti eccezionali e 100 camion. A Saint Martin il rimontaggio in galleria inizierà a marzo e si concluderà a giugno.  

“La storia della Torino-Lione ha avuto pagine dolorose ma adesso si volta – ha detto Mario Virano, direttore generale di Telt – adesso c’è un libro aperto pieno di fascino”

Francia, l’opposizione al megaelettrodotto ha origini remote

Come spesso accede l’opposizione ha un confine. Oltralpe non viene mai riportata la notizia. Manifestazioni di piazza, sabotaggi, repressione, blocchi prefettizi e arresti hanno occupato i primi tre mesi invernali. No THT il simbolo francese.

di Valsusa Report

Dalla fine di ottobre l’opposizione ha visto il via dei lavori di deforestazione, nessun avvertimento, il via al megaelettrodotto ha un percorso di linee di tensione molto elevati nell’alta Valle della Durance (tra Gap e Briançon). Le prime sentinelle avvertono i movimenti dei lavoratori, ma alcuni passi li hanno già fatti. I rimedi giurisdizionali i consigli comunali come in Italia, servono, ma non bloccano mai nulla, e “non passa giorno senza che l’avversario a il progetto si manifestano in diversi punti della valle”, come dichiarato in interviste francesi alle tv locali dal “Collectif ”.

No THT (3)

Passeggiate e picnic portano l’8 novembre 600 persone in strada, insieme la bloccano a dei lavoratori diretti nelle loro zone di lavoro. I tentativi di intimidazione dei governanti, è anche qui molto diffusa. Persone prese alla stazione per un controllo di identità, si rifiuteranno poi di fornire le loro identità. In televisione compare per una comunicazione il Prefetto Besnard che emana un manifesto recante l’interdizione a qualsiasi manifestazione contro la THT per 3 mesi.“E sì, nelle Hautes-Alpes, come altrove, lo stato di emergenza consente poi di accentuare la repressione e gli obblighi, fornendo alle forze in divisa sul campo ogni discrezionalità”, tradotto dal comunicato francese.

No THT (6)

In risposta, gli oppositori si sono organizzati, blocchi delle strade per il sabotaggio e sabotaggi dei mezzi da cantiere sono avvenuti costantemente. Traduciamo un loro comunicato stampa di una giornata d’opposizione avvenuta in novembre 2015:

Qui ci sono i verbali di Martedì, 24 novembre. L’appuntamento è stato dato alle 13h
“Siamo riuniti qui in più di cinquanta persone nel parcheggio di coaguli a St. Clement sur Durance, siamo decisi a sfidare i divieti del prefetto delle Alpi, che vieta tre mesi al movimento di protesta NoTHT. Dopo qualche discussione sulla strategia per bloccare il sito, prendiamo la pista che ci porta nella zona all’ennesimo saccheggio di RTE. Raggiungiamo prima di tutto un’escavatrice che stava perfeziondo il suo scavo, e lo blocchiamo. E poi si va un po più alto in un sito di taglio degli alberi, seguiamo, al passaggio, pezzi di albero lasciati sulla pista . Miloud, il caposquadra per RTE, è seccato. Fabrice RG si unisce a lui sudato e senza fiato … e ne approfitta per pronunciare alcune minacce nei confronti dei manifestanti. Lo stato di emergenza gli dona una sensazione di potenza ineguagliabile. Ritorna il sito online, è stato bloccato per più di un’ora, i compagni di lotta appostati più in basso sulla strada ci avvertono dell’arrivo dell’ufficiale giudiziario (pagati per gentile concessione di RTE per costruire casi e ci aspettiamo nuove prove), insieme l’arrivo di una dozzina di veicoli della gendarmeria. In tutto, più di 34 poliziotti sono contati nelle diverse strade d’accesso al sito. Decidiamo tutti insieme di scendere giù da un altro sentiero. Arriviamo nella frazione di coaguli, sappiamo che i poliziotti sono in attesa sul parcheggio dove ci sono molte persone. Abbiamo deciso collettivamente di rifiutare l’identificazione e fare un blocco. Camminiamo, i poliziotti sono posizionati di fronte a noi, affermano che essi sono obbligati ad effettuare un controllo d’identità. Gli viene detto che non ci sarà questa volta. Usiamo il “metodo dei gomiti” e restiamo in silenzioso davanti alla polizia. Non è confortevole, ma libri a mano, loro non sanno cosa fare. Abbiamo osservato alcuni minuti. Improvvisamente abbiamo deciso di tornare indietro e andare a bere qualcosa … il caldo!!!, la gente ci ha invitato a rinfrescarci con i vicini del villaggio. La solidarietà è la più bella cosa che può instaurarsi tra di noi. E bello. Discutiamo, ci idratiamo, anche tè, caffè, i nostri bambini che ci accompagnano bevono i loro biberon di latte caldo. IL cordone dei poliziotti fuori. Poi intorno 04:45, la maggior parte dei poliziotti blu se ne vanno, dicendo che hanno informazioni sufficienti per completare con successo il loro piano quinquennale di “fichage”. Si torna sulla strada, in carovana.

Nel pomeriggio, abbiamo ricevuto una telefonata dalla Prefettura. Il Prefetto da a Avenir Haute Durance e NoTHT Collettiva un incontro per mercoledì con la sola condizione che non vi sia alcuna dimostrazione in Gap per quel Mercoledì … è fantastico. Il compromesso non è difficile da accettare. La strategia fanfaronante del giovedi scorso è arrivata alla fine della ricreazione, non sembra più pertinente per il signor Prefetto. Un comunicato stampa ai media locali e una azione di blocco nello stesso giorno, e così si pone l’equilibrio al potere!

Inoltre, giunge la notizia che il Tribunale Amministrativo di Marsiglia ha bloccato il cantiere sito al campo d’aviazione di St Crépin (base logistica per RTE THT). E ci fa sorridere. Senza questa base completata, non possono lavorare gli elicotteri per il trasporto dei piloni. Sarà lungo, molto a lungo, per RTE il completare queste linee THT

Diventerà un nuovo pantano per lo Stato, come a Notre Dame des landes … moltiplicare i fronti in questa vecchia puzzolente democrazia … presa in ostaggio da una manciata di énarques, banchieri e commercianti d’armi.

Il tempo delle vacche grasse è finita!
Solo la lotta paga! Nuove azioni a venire! La resistenza continua! “

No THT (4)

Non solo, i primi mesi invernali hanno avuto una sollevazione popolare molto intensa che ha così portato a diverse azioni importanti per rallentare l’avanzata della mega linea di corrente ad alta tensione, linea che si innesta in un corridoio europeo e che arriverà anche in Italia secondo il progetto THT. Gestito da  S.p.a per il nostro paese, attraverserà la Valle di Susa e continuerà su Torino portando la corrente delle centrali nucleari. Un’infrastruttura, a dire dei proponenti, “essenziale e necessaria”, riscontrata dagli oppositori “inutile e non necessaria” basti pensare che il fabbisogno elettrico italiano è sovradimensionato di più del doppio, in soldoni importiamo già oggi più del necessario. Questo surplus energetico comunque risiede come pagamento nella bolletta elettrica che lo si usi o meno, serve a pagare i costi di gestione delle strutture per la fornitura elettrica.

No THT (2)

Inseriamo di seguito la traduzione della campagna invernale, non ancora finita, dell’oltralpe in lotta, presa dal loro sito:

Questa cronologia non è completa, molte altre azioni hanno avuto luogo: blocchi di cantiere, di strade d’accesso, posa di striscioni, segnaletica di cantiere cancellata, raduni e tag.

  • 19-20 settembre: fine settimana contro il THT. Domenica, una manifestazione ha raccolto 500 persone. I cancelli del cantiere dell’eliporto RTE St Crépin sono abbattuti dai manifestanti. La strada Nazionale bloccata due volte. Un RG inseguito dai dimostranti. Alcuni tag decorano l’area circostante l’aeroporto.
  • 30 ottobre: Blocco del sito in St Apollinaire con una dozzina di persone. Entrambe le macchine fermate: zucchero sarebbe stato versato nei loro serbatoi.
  • 3 novembre: Blocco a Réallon in quaranta persone. A 3 persone vengono controllati i documenti d’identità.
  • 8 novembre: a piedi intorno al cantiere di Réallon, e assemblea. 600 persone presenti. Batterie di tronchi sono distribuiti sulle piste.
  • 10 novembre: Blocco Réallon. Una persona è convocato alla stazione di polizia di Embrun. La gente si riunisce nel pomeriggio per sostenerlo. Bloccato del cantiere dei 63000V a San Martino Queyrières, una ventina di persone.
  • 11 novembre: Raduno a Puy Sanière: Picnic, assemblea. NO THT viene scritto con le pietre.
  • 12 novembre: Blocco a San Martino Queyrières con quindici persone. 80 oppositori vanno al Consiglio Comunale de l’Argentiere.
  • 13 novembre: Alcuni oppositori vanno al Consiglio Comunale di Réotier (Réotier è il comune che si è fatta pagare una compensazione di € 250.000 da RTE)
  • 18 novembre: Blocco del cantiere di Puy Sant’Eusebio in venti persone. Le persone si rifiutano di affermare la propria identità alla polizia. Tronchi, grandi pietre sono in equilibrio sulle piste. Il poliziotto non avrà nessuna identità e si vendicherà convocando una persona che portava fuori la spazzatura.
  • 23 novembre: Il prefetto ha vietato tutte le manifestazioni contro la THT. I trattori per la deforestazione sono stati sabotati nella notte tra il 18 e il 19.
  • 24 novembre: Blocco del cantiere in San Clemente sur Durance. Cinquanta persone. Trenta poliziotti che cercano di controllarli. Rifiuto collettivo, i bloccatori-e sono un unico blocco. Nessun controllo. Il Prefetto Besnard concede una riunione il giorno successivo presso la sede Gap.
  • 25 novembre: Il prefetto annulla la riunione delle macchine, sono state sabotate durante la notte.
  • 2 dicembre: Tre blocchi di cantiere nella valle si verificano nello stesso tempo. A Puy Sanière, San Clemente, e Chorges dove i manifestanti rallentando l’arrivo di un camion di cemento (per la fusione dei tralicci di fondazioni). Polizia con caschi e scudi e con carico e gas. Una persona è arrestata e rilasciata.
  • 7 dicembre: Un camion della società Allamano che ha costruito le strade per il cantiere aveva i suoi pneumatici tagliati, e le sue finestre rotte a l’Argentiere.
  • 9 dicembre: una sessantina di persone bloccano per diverse ore un convoglio nazionale di prefabbricati per la creazione di uffici per RTE all’aerodromo di St Crépin. Il cantiere per la deforestazione nel pomeriggio è bloccato a Châteauroux les Alpes.
  • 12 dicembre: un incontro proibito dalla prefettura vede la partecipazione di quasi 200 persone a Gap.

Hautes-Alpes: Dimostrazioni No THT, blocchi di cantieri continueranno. Questo è stato il messaggio di lunedi del Collettivo THT NO, e viene vigorosamente contesta la decisione del prefetto del Dipartement Haute Alp, Pierre Besnard, che vieta le manifestazioni per tre mesi. Il prefetto accusa l’anti EHV di sabotaggio multiplo in loco. Il gruppo si incontra e duramente vuole mantenere la pressione.

notht affiche

La battaglia in Francia nelle Haute Alp è appena iniziata, mentre da più di un anno e mezzo, vicino al confine con la Spagna un altro gruppo di oppositori tiene a freno i campi eolici che devasterebbero il loro territorio, un territorio che ha già il passaggio della linea THT con in luogo un trasformatore inquinante e nocivo. Nessuno ne parla ma per mantenere attivo il passaggio di corrente così alto, ogni tanti km c’è bisogno di una stazione di sostegno identificata in un trasformatore. Sono già numerose le enciclopedie tecniche che spiegano la nocività e la cancerogenità di questi siti.

V.R. 14.01.16

Padre Alex Zanotelli: «Contro la Tav serve la rivolta popolare»

http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/trento/cronaca/2015/11/09/news/padre-alex-zanotelli-contro-la-tav-serve-la-rivolta-popolare-1.12415119Il missionario comboniano esprime solidarietà ai movimenti che hanno protestato a Mattarello

TRENTO. Parole durissime e chiare quelle di padre Alex Zanotelli, a cui è stato chiesto un parare sui fatti accaduti a Mattarello . E il missionario non si è fatto pregare nell’esprime la piena solidarietà ai manifestanti, pur bocciando la pratica della violenza. Ma chiama esplicitamente alla “resistenza di popolo”. «Se il popolo tutto quanto si oppone a questa cosa, non potranno fare nulla. Ma serve che tutti si schierino, in modo pacifico ma fermo».

Zanotelli, oltre a esprimere «piena solidarietà», ha anche aggiunto: «Meno male che i trentini si sono svegliati e sono scesi in campo. Piena solidarietà a questi movimenti. Chairamente io sono un non violento, ma bisogna trovare tutte le astuzie di questo mondo per ingarbugliare questo sistema. Noi non abbiamo bisogno di violenza o di scontri abbiamo bisogno di resistenza popolare. Non devono essere solo alcuni comitati che la fanno, ma dev’essere il popolo che scende in piazza insieme. Contro il popolo, il potere politico non può nulla perchè ha paura delle masse popolari».

«Realizzare un traforo di quelle dimensioni – prosegue padre Alex Zanotelli – in un periodo climatico così delicato vuol dire andare a toccare le falde acquifere e provocare un danno enorme. Basti guardare cos’è successo in Abruzzo a forza di scavare. È arrivato il momento che la gente, tutta insieme, scenda in piazza per dire basta. Basta anche alla Valdastcio, basta alle strade: ma non siamo ancora stufi di strade? Già il pianeta non ci sopporta più, quando saremo 9 miliardi dove troveremo le risorse?».

Kaliningrad, la fortezza di Mosca in Europa: progettata per colpire il cuore della Nato, Pentagono “Situazione estremamente grave”

14/01/2016

(di Franco Iacch) – Se scoppiasse una crisi tra l’Europa e la Russia, Mosca potrebbe instaurare una no-fly zone che si estenderebbe da Kaliningrad fino a coprire un terzo dello spazio aereo polacco. Il sistema difensivo che i russi hanno predisposto a Kaliningrad, è progettato in risposta all’espansione della NATO ed all’imminente entrata in servizio dello scudo di difesa missilistica degli Stati Uniti in Europa. L’Air Force teme le difese aeree integrate che Mosca ha schierato a Kaliningrad, enclave russa tra Polonia e Lituania, con accesso diretto al mar Baltico.
Il dispiegamento è iniziato nel 2012, ma soltanto nelle ultime settimane l’esercito americano ha intuito la reale portata del dispiegamento in atto a Kaliningrad, tanto da spingere il comandante delle forze aeree degli Stati Uniti in Europa, il generale Frank Gorenc, a parlare di una “situazione estremamente grave”. I russi hanno schierato a Kaliningrad probabilmente il meglio della loro attuale tecnologia militare: dagli S-400 Triumphai missili balistici Iskander-M. Sistemi integrati quindi, per un asset A2 / AD (anti-accesso/area di diniego).

Hanno tutto il diritto di schierare qualsiasi sistema nel loro territorio – ha aggiunto Gorenc al Times – ma tutte quelle piattaforme sono pensate per rendere inaccessibile un ambiente in un contesto che abbiamo iniziato a prendere seriamente in considerazione.

Per il Pentagono, i russi hanno implementato a Kaliningrad un sistema stratificato ed integrato di difesa aerea e missilistica. Secondo le stime del Pentagono, i russi hanno schierato radar di allarme precoce e battaglioni armati con sistemi S-300/S400. Quest’ultimo, se entrasse in servizio attivo, potrebbe imporre una no-fly zone tale da coprire un terzo dello spazio aereo polacco.

Il Cremlino ha schierato a Kaliningrad tre brigate d’élite completamente equipaggiate. Forze meccanizzate supportate da una brigata di artiglieria, basata come potenza primaria su 54 sistemi di grosso calibro. La 7054 Air Base ospita quasi cinquanta velivoli tra elicotteri pesanti e caccia. A Kaliningrad, Mosca ha schierato anche la 152a brigata missilistica del Distretto Occidentale equipaggiata con i missili balisticiIskander-M.

Il sistema missilistico Iskander–M, prodotto dalla Kolomna KBM, è stato ufficialmente adottato dall’esercito russo nel 2006. La versione interna o ‘M’ ha una gittata massima dichiarata di 480 km (in fase di test la possibilità di estendere il raggio ben oltre i 500 km) con una CEP o probabilità di errore circolare di 10 metri.

L’Iskander è stato progettato per eludere i più avanzati sistemi di difesa aerea, compreso lo scudo spaziale americano. Capace di una velocità massima di 7mila km/h, l’Iskander nella fase terminale del volo si affida ad una guida optoelettronica, compiendo brusche manovre per eludere le difese aeree e rilasciando esche per ingannare i radar nemici. E’ corretto definire il sistema missilistico Iskander come una delle armi più letali dell’arsenale russo: progettato come un sistema balistico ad alta precisione, ma ottimizzato per l’utilizzo a distanza ravvicinata, sotto le 500 miglia. I missili possono essere lanciati in 16 minuti ed in quattro minuti in caso di prontezza operativa. Il secondo missile (solo per la versione interna) può essere lanciato in meno di 50 secondi.

Se scoppiasse una guerra, Kaliningrad sarebbe estremamente vulnerabile agli attacchi. Isolata dalla Russia se non per via mare (in caso di conflitto i collegamenti ferroviari sarebbero inaffidabili), è considerata sacrificabile nella nuova strategia russa, ma è stata fortificata per arrecare il massimo delle perdite ad un attacco della NATO. La “nuova” Kaliningrad, non è stata progettata per resistere ad un’ipotetica invasione (i rinforzi russi dovrebbero attraversare la Bielorussia e la Lituania), ma per proteggere il lancio dei missili nucleari contro le strutture di comando in Europa.

La risposta dell’Air Force nell’affrontare tali minacce nel brevissimo tempo esiste: testate nucleari con potenza scalare trasportate dagli F-35.

(foto: TASS)

Come Don Chisciotte – PRIVATIZZAZIONI: COSI’ CI SIAMO FATTI RUBARE TUTTO !

Postato il Venerdì, 15 gennaio
DI VALERIO LO MONACO
byoblu.com
 
La storia delle privatizzazioni e dei privatizzatori che hanno svuotato questo Paese di ogni sua ricchezza, trasformandolo da settima potenza economica mondiale a un grande discount per ricchi speculatori senza scrupoli. Il racconto di Valerio Lo Monaco, direttore della Voce del Ribelle.
 
Buongiorno Claudio e buongiorno a tutti i lettori del tuo blog! Verso la fine di novembre, il Ministro dei Trasporti, Graziano Del Rio, ha rilasciato una dichiarazione. Ha detto che, nel corso del 2016, il 40% delle Ferrovie dello Stato verrà privatizzato.  O meglio: Ferrovie dello Stato verrà quotata in borsa e in borsa saranno messi appunto il 40% delle azioni. Una postilla a questa operazione, epsressa nel classico “bizantinismo” del linguaggio politico, è il fatto che Ferrovie dello Stato si riserva di mantenere il controllo delle infrastrutture, cioè vale a dire della rete ferroviaria, mentre invece la veicolazione dei mezzi su questa rete ferroviaria, perlomeno per il 40%, verrà ulteriormente privatizzata.
 
Questa è solo l’ultima, in ordine di tempo, di tutta una serie di privatizzazioni che sono state fatte nel corso degli anni. I criteri che vengono veicolati per giustificare le privatizzazioni sono da una parte quello di fare cassa (perché avendo un debito pubblico alle stelle, avremmo bisogno di vendere) e dall’altro lato quello di consentire un migliore utilizzo di opere pubbliche, di beni pubblici, di asset pubblici che invece, se gestiti dallo Stato, verrebbero gestiti male. Ma vediamo, in nome di questi criteri, cosa è stato fatto nel corso degli anni.
 
Il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro
 
Una prima data storica che va assolutamente scolpita nella testa è quella del 1981/82, perché sancisce il divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro. All’epoca il Governo era quello di Forlani e di Spadolini, membro del gruppo Bilderberg, e Banca d’Italia era allora diretta da Carlo Azeglio Ciampi. Però l’uomo chiave di questa operazione si chiamava Beniamino Andreatta, che fu colui che sancì il divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia. In parole povere, fino a quel momento la Banca d’Italia era obbligata a comperare i Titoli di Stato, mentre da quel momento in poi i Titoli di Stato italiani furono immessi sui mercati. Il che vuol dire che il tasso d’interesse al quale venivano venduti non era più deciso internamente, tra il Tesoro e la Banca d’Italia, ma lo decideva qualcun altro. Se guardate un qualunque grafico del livello del debito pubblico nel tempo, si vede a occhio nudo che dal 1982 fino al 1990 il nostro debito pubblico ebbe un’impennata colossale, cosa che poi servirà per giustificare la vendita degli asset di cui stiamo parlando. Se fino ad allora si parlava di duecento miliardi, a un certo punto, dopo l’immissione dei Titoli di Stato sui mercati, il debito pubblico schizza letteralmente, in meno di un decennio, a circa 1.600 miliardi, quindi cifre tutto sommato prossime a quelle odierne.
 
Il panfilo Britannia
 
Secondo momento chiave, all’interno di questa storia – e qui entriamo effettivamente nel punto critico delle privatizzazioni – si situa invece nei primi anni novanta. Carlo Azeglio Ciampi – ancora lui – ci impone di rimanere ancorati allo SME. Poi arriva il famoso incontro informale (informale un piffero, direi) sul panfilo Britannia a Civitavecchia. Su quel panfilo salirono tanti esponenti italiani ed è lì che fa la sua comparsa, in una posizione di un certo rilievo, Mario Draghi, che all’epoca era a capo del Ministero del Tesoro. Pensate un po’: abbiamo dato a suo tempo il Tesoro in mano a colui che, poco dopo, lo avrebbe ceduto ad altri. Insomma, non è che fossimo stati poi così tanto lungimiranti. Come che sia, sul Britannia c’erano non solo Mario Draghi, ma anche Ciampi (Banca d’Italia, ancora lui!), Beniamino Andreatta (ancora lui!), Mario Baldassarri, c’erano i vertici dell’IRI e di tutta un’altra serie di importanti asset strategici italiani. Ma c’erano soprattutto gli investitori: c’era Barclays, c’era Goldman Sachs, nella quale poi ritroveremo Draghi come vice presidente, forse per meriti acquisiti proprio di quella circostanza. E nel passaggio dal Tesoro a Goldman Sachs non vorrete mica dirmi che qualche conflitto di interessi non si potrebbe ravvisare! Ma che successe su quel panfilo? Si diede il via alle privatizzazioni: da lì in avanti moltissimi asset pubblici strategici italiani vennero smembrati e venduti, o meglio sarebbe a dire “svenduti”, a tutta una serie di investitori internazionali e alla finanza internazionale.
 
Da Soros a Romano Prodi
 
Immediatamente dopo succedono tre eventi: intanto c’è l’attacco di Soros alla Lira, grazie al quale lo speculatore statunitense riuscì a portarsi a casa circa un miliardo di dollari. Dopodiché ci fu tangentopoli, che segnò la fine della prima Repubblica. E ci furono gli attentati a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino, il primo dei quali – si sa oramai con certezza – a suo tempo aveva scoperto degli ingenti flussi di denaro, con l’intervento mafioso, che transitavano verso alcuni ambienti della finanza internazionale.
 
Fu allora che un altro nome assurse alla ribalta delle cronache: Romano Prodi. Già attivo fin dal 1982, almeno fino al 2007 possiamo considerare l’intera attività di Romano Prodi racchiusa in un’unica missione: quella di svendere o addirittura regalare ad alcuni suoi alleati – chiamiamoli così – tra i quali Carlo De Benedetti ( l’uomo chiave del quotidiano “La Repubblica”), tutti gli enti pubblici dello Stato, operazione resa finalmente possibile grazie (guarda un po’!) al Governo Amato, che trasformò la maggior parte degli enti statali in società per azioni, con un decreto legge del 1991 (vedete che le date si cominciano ad allineare?), in modo che l’élite finanziaria e la speculazione potessero ovviamente aggredirli.
 
Prodi e De Benedetti sono due uomini chiave: il primo fu a capo dell’IRI, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale per sette anni. La sua attività, in quel tempo, fu quella di smembrare l’IRI e di spacchettarlo al fine di venderne i pezzi al miglior offerenti. De Benedetti è stato uno di questi: ha acquistato a prezzi di realizzo alcuni asset storici, che vediamo a breve, rivendendoli a venti volte il prezzo di acquisto. Prodi, tanto per dirne una, mentre era a capo dell’IRI, concesse incarichi miliardari alla sua stessa società di consulenza che si chiamava Nomisma, in un evidente conflitto di interessi a fronte del quale quello attuale tra il Ministro Boschi e Banca Etruria fa sorridere. Eppure, Prodi assurse alle cronache come “il salvatore della Patria”, perché era l’unico in grado di organizzare una coalizione politica in grado di opporsi a Berlusconi. Ma questa è un’altra storia…
 
Lo smembramento dell’Iri
L’IRI, fondato negli anni trenta, era un istituto fondamentale: l’Istituto per la Ricostruzione Industriale. Alcuni elementi industriali dello Stato dovevano assolutamente essere sotto il controllo pubblico, proprio perché di utilità strategica dal punto di vista pubblico. Tra gli asset che facevano parte dell’IRI c’erano ad esempio Alitalia, il settore delle autostrade, la Banca Commerciale Italiana, il Banco di Roma, il Credito Italiano, Fincantieri, Finelettrica, Finmare, Finmeccanica, Finsider, Finsiel, Italstat, Rai, Sme e Stet. In pratica, intorno all’IRI erano rappresentati gli interessi fondamentali dello Stato italiano: il settore alimentare, il settore aerospaziale, il settore delle auto, quello delle costruzioni navali, della chimica, dell’editoria, della finanza, dell’informatica, della microelettronica, della metallurgia, delle telecomunicazioni e dei trasporti. L’IRI venne letteralmente smembrato! Fu un record mondiale per l’epoca: parte delle numerose aziende statali all’epoca detenute dall’IRI (che veniva definita “galassia IRI”, “carrozzone IRI”, senza capirne l’importanza strategica) vennero cedute ai privati. Si trattava di aziende gloriose del nostro Stato, erano asset strategici e vennero cedute. La Nestlé nel 1993 si comprò tra le altre Motta e Alemagna; Benetton e GS a Carrefour, nel 1995; Telecom che andò a finire nel ’97 alla famiglia Agnelli, poi a Colaninno, Pirelli, Benetton ancora una volta e poi a Telefonica (gruppo spagnolo); Autogrill e Autostrade per l’Italia, finite ancora a a Benetton nel 1999; operazioni che hanno fruttato plusvalenze enormi;  ENI ed ENEL, che vennero privatizzate del 70%, nel 1995 la prima, e nel 1999 la seconda.
 
Basterebbero gli ultimi due nomi per capire cos’abbiano determinato ai giorni nostri queste privatizzazioni selvagge: aprite l’ultima bolletta della luce. Nel ’93 il Credito Italiano finirà nel nuovo gruppo Unicredit, la BNL nel gruppo Paribas nel ’98, la Banca Commerciale Italiana che nel ’94 viene venduta a Banca Intesa e poi a San Paolo; il Banco di Roma; l’IMI; Finsider; Finmeccanica privatizzata nel ’93 e prima ancora FIAT, nel 1986.
 
Gli uomini chiave di questa seconda fase (la prima, abbiamo detto fu quella di Beniamino Andreatta, del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro) sono Mario Draghi, direttore del Tesoro dal ’91 al 2001, poi finito in Goldman Sachs (chissà perché, chissà per quali meriti) e poi addirittura alla Banca Centrale Europea; Carlo Azeglio Ciampi, passato dalla Banca d’Italia addirittura alla Presidenza della Repubblica; Massimo D’alema e Romano Prodi, presidenti del Consiglio e così via.
 
Le conseguenze delle privatizzazioni
 
Ci sono almeno tre conseguenze, di queste privatizzazioni selvagge. La prima, banale: una volta che un asset dello Stato viene venduto ai privati, non è più tuo, nel senso che se appartiene allo Stato, è parte del patrimonio di ciascuno di noi.  La seconda: il prezzo di utilizzo dell’eventuale servizio (parliamo ad esempio di ENEL ed ENI) viene alienato. È vero che anche prima si pagava un corrispettivo a una società, ma essendo tale società di Stato era in realtà un pagamento che tu facevi e che però rientrava nelle casse dello Stato e quindi, in quota parte, anche nelle tue tasche. Invece, nel momento in cui viene trasferito ai privati, è evidente che quel pagamento finisce nelle tasche di chi possiede quell’asset. La terza conseguenza è che cambia il prezzo di utilizzo di quel servizio. Anche qui, basta prendere una qualsiasi bolletta di ENEL ed ENI e si può facilmente verificare se ci abbiamo guadagnato o perduto. Fino a che un asset è pubblico, il prezzo viene fissato, di fatto, dallo Stato; nel momento in cui diventa privato, il prezzo di quel servizio viene fissato dal proprietario che, volendoci guadagnare, lo alza.
 
Conclusioni
 
Va smantellata – e bisogna ficcarselo in testa a martellate – la narrazione alla base di qualunque privatizzazione, ovvero innanzitutto che sia necessario fare cassa”. È evidente che saremo sempre costretti a fare cassa nel momento in cui continuiamo a essere indebitati, ma se torniamo indietro, dal punto di vista storico, possiamo capire perché siamo indebitati: ci siamo indebitati maggiormente dal momento in cui i nostri Titoli di Stato sono diventati appannaggio dei mercati. Il processo è diabolico: i mercati, quindi le élite finanziarie, la speculazione, ci continuano a indebitare e ci tengono indebitati sempre di più. Da qui la cosiddetta necessità di fare cassa; da qui la cosiddetta necessità di continuare a svendere gli asset strategici di Stato. E chi li acquista? La stessa élite finanziaria che è all’origine del nostro debito pubblico. Quindi prima ci indebitano e poi ci costringono, di fatto, per via politica, a vendere a loro i nostri asset strategici.
 
Il secondo elemento della narrazione alla base delle privatizzazioni è che “il privato sia sempre meglio del pubblico” (ndr: vederela balla dello Stato palloso e del privato rivoluzionario). Tutto parte dal fatto che il pubblico viene gestito male e quindi sarebbe necessario che a gestire questi asset siano i privati. I quali, siccome hanno bisogno di generare profitti dalla loro gestione, certamente saranno in grado di gestirli meglio. Si tratta di una logica ridicola, per non dire disastrosa, perché nel momento in cui ci si accorge – il che è vero – che gli asset pubblici vengono gestiti male, la soluzione non dovrebbe essere “e allora vendiamoli ai privati“: la soluzione dovrebbe invece essere “e allora rimuoviamo chi li gestisce e facciamoli gestire meglio“. Altrimenti da qui non se ne esce!
 
Questi due elementi narrativi inducono nella percezione collettiva la bontà delle privatizzazioni. Siccome oggi oramai dovremmo essere coscienti che questa bontà non c’è stata e che abbiamo avuto tutto da perdere dalle privatizzazioni, dimostrando che questa narrazione, costantemente veicolata dai media di massa, è falsa, dovremmo essere in grado di capire la situazione nel suo complesso e quindi rigettare con sdegno e forza qualsiasi dichiarazione, come quella di Del Rio da cui siamo partiti, che è solo l’ultima a favore delle privatizzazioni.
 
Valerio Lo Mnaco
 
 
 
14.01.2016

L’insostenibile disgusto del moralismo economico

E’ risaputo che in Africa il leone e la gazzella sono sempre indaffarati in una incessante attività podistica. Questo continuo correre non è certo motivato dall’intenzione di perdere peso anzi, per il leone il fine è quello di evitare di perderne troppo, per la gazzella, invece quello di evitare di perderlo del tutto.
 
Sì, è dura, la vita in questi paraggi: la notte scorsa, ad esempio, siamo stati svegliati dai belati strazianti del gregge del vicino, nel cui recinto era entrato un leopardo, il quale, essendo assai più efficiente e produttivo degli agnelli (la virile bellezza del liberismo perfetto), se n’è pappato uno e ne ha lasciati altri tre agonizzanti sul terreno. E dire che il proprietario di questi ultimi aveva collocato diverse barriere architettoniche attorno al recinto (reti e filo spinato), per cercare di limitare il darwiniano laissez faire della natura. Il leopardo, ha avuto comunque la meglio, come peraltro esige la volontà del dio di Calvino che ha decretato che la grazia bacia solo i più forti (in effetti è il motivo per il quale sono più forti. Darwin e Calvino erano alquanto tautologici).
 
Il giorno successivo, assieme alla nostra consorte, incuranti del fatto che in quei luoghi vigesse la legge della giungla (pur essendo una savana), decidemmo di andare a fare una passeggiata fuori dal luogo recintato nel quale eravamo ospitati. Sul cancello l’askàri (come si pronuncia nelle zone anglofone) ci ammonì premurosamente di tornare non più tardi delle sei del pomeriggio, perché “quando si avvicina il tramonto, iniziano ad uscire gli animali pericolosi”. In effetti, oltre alla sicura presenza del leopardo della notte scorsa (il quale, peraltro, aveva già fatto provviste), si vedevano i segni di parecchi altri liberisti della savana.
 
Dopo qualche ora di cammino sotto il sole cocente, giunse la fatidica “ora che volge il disio ai naviganti e ‘ntenerisce il core” e noi, col cuore un po’ intenerito dalla trepidazione, ci affrettammo sulla via del ritorno, con le orecchie tese in ascolto di eventuali rumori sospetti, non si sa mai che qualche “fiera a la gaetta pelle” decidesse di farsi un’escursione anticipata.
 
A un certo punto incrociammo una piccola mandria con due bambine masai che la portavano al pascolo. Le due bimbe erano proprio piccine. Chiedemmo loro l’età: l’una aveva sette anni e l’altra cinque. Visto che erano appena partite dal villaggio, sicuramente sarebbero tornate dopo il tramonto. Noi adulti avevamo già un po’ di paura, visto che il sole stava calando e loro, ad un’età che, dalle nostre parti non vanno manco in bagno da soli, non avevano alcun timore di affrontare l’oscurità della savana. Già, la vita è dura in questi paraggi.
 
Tornando verso casa, dopo esseri congedati dalle due pastorelle, mi giunse alla mente, come una specie folgorazione (anche se eravamo piuttosto distanti dalla via di Damasco) una frase che si attagliava alla condizione delle due pargole appena incontrate: “Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali […] dev’ essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna”.
 
Il lettore si domanderà chi sia lo sfortunato essere che ha pronunciato tali parole, pensando a quale sorte di “durezza del vivere” egli abbia dovuto affrontare, per trasudare cotanto livore nei confronti di un intero continente, abitato evidentemente da persone assai più privilegiate di lui.
 
Be’, l’autore di questa frase fu -nientemeno che- il compianto ex ministro (e ex-quasi-tutto) Tommaso Padoa Schioppa. Sì, proprio lui, quello dei “bamboccioni”. Tra l’altro, costui era il rampollo dell’allora amministratore delegato delle Assicurazioni Generali: un vero e proprio pedigree da sciuscià (da shoe-shiner, ovvero lustrascarpe). Insomma uno che la “durezza del vivere” l’ha sicuramente provata sin da piccolo perché, modestamente, “bamboccione” lo nacque e, come tale, ha impropriamente proiettato il proprio vissuto definendo con quel nomignolo un’intera generazione.
 
Curioso, no? Pensate un po’ che razza di figure si fanno, applicando le categorie morali – o meglio, moralistiche- all’economia. Noi, che siamo compassionevoli, proviamo una certa pena pensando al compianto, che certo non è stato fortunato come le pastorelle di cui sopra che, certamente, tutte le sere godono di quel dolce sonno dato dalla fatica di “una giornata bene spesa” che dà lieto dormire”, di cui parlava Leonardo. Già, egli non ha mai fatto qualcosa di così utile come il portare le vacche al pascolo, ma ha speso la vita nei meandri di banche e istituzioni finanziarie, allo scopo di portare la “durezza del vivere” al prossimo (peraltro a lui remoto).
 
Ben comprendiamo il suo dramma e giustifichiamo finanche il livore di questo Calvino dei nostri tempi, che desiderava che le esistenze altrui fossero sacrificate all’altare del mercato, summum bonum dei moralisti per procura. Tanto, assiso sul trono di privilegi verso i quali il destino l’aveva ingiustamente indirizzato, era ben conscio che quella durezza che auspicava per gli altri non l’avrebbe mai sfiorato.
 
di Pier Paolo Dal Monte
 

14 gennaio 2016 Requisitoria e arringa dei difensori per i 5 no tav per il 15 sett 11

14 gennaio 2016 TG Maddalena :

Requisitoria e arringa dei difensori per i 5 no tav accusati di reati come furto (di una manichetta!), violenza a pubblico ufficiale, resistenza e violazione dell’ordinanza che limitava l’accesso all’area dalla quale si è svolta la diretta alla trasmissione Piazzapulita su LA 7, il 15 settembre 2011.

….Pedrotta: …..Io ritengo che la responsabilità degli imputati sia provata per i reati come sono stati contestati, con le aggravanti così come contestate e chiedo le seguenti pene:

Abbà continuazione tra i reati contestati, 9 mesi di reclusione.
Rossetto: 6 mesi di reclusione
Patané: 6 mesi di reclusione
Cientanni: 6 mesi di reclusione
Anselmo: 6 mesi di reclusione
Arduino:….Quindi per Arduino furto, (di una manichetta) concedibili le generiche con giudizio di equivalenza considerata incensuratezza e comportamento processuale, è l’unico che si è sottoposto all’esame, quindi condanna a 6 mesi e 500 euro di multa,….
 

http://www.tgmaddalena.it/no_tav_processo_piazzapulita/

 
Chi c’era e si ricorda?

possiamo rivedere la puntata di Piazza Pulita de LA 7 del 15-SET-2011

piazza pulita

http://www.dailymotion.com/video/xr6idb_piazza-pulita-de-la-7-del-15-set-2011_news