Washington Times: la Cina si prepara a intervenire in Siria al fianco di Mosca e Damasco

14/01/2016

Il quotidiano The Washington Times, citando fonti delle forza armate statunitensi, rivela che Pechino, preoccupata per il numero crescente di combattenti cinesi nelle file dello Stato Islamico, si appresta ad unirsi ai paesi che lottano contro questo gruppo estremista in Siria. “La Cina – ha scritto il quotidiano – potrebbe unirsi alla lotta contro il gruppo terrorista radicale dello Stato Islamico “. Il Washington Times ipotizza che la Cina preferirsca aderire alle operazioni militari delle forze russe e siriane e non a quelle guidate dagli Stati Uniti insieme all’Arabia Saudita e al Qatar. La ragione di Pechino risiede nella consapevolezza che gli attacchi della coalizione a guida americana sia illegittimi e fuori dal diritto internazionale, perchè avvengono senza l’autorizzazione delle autorità siriane.

Inoltre, sottolinea il giornale a stelle e strisce, la Cina non sarebbe disponibile a schierarsi militarmente con chi ha condotto operazioni che fino a oggi sono risultate del tutto inefficaci nella lotta al terrorismo. C’è inoltre il concreto sospetto che Washington e alcuni suoi alleati stiano rifornendo di armi e altri aiuti lo Stato Islamico al fine di ritardare l’avanzamento delle truppe siriane e irachene.

Non è ancora noto se la Cina invierà in Siria truppe di terra o soltanto aerei e navi da guerra. In ogni caso quello che sembra certo è che si è aggiunta alle discussioni sulle operazioni militari nel paese arabo al fianco delle autorità e dei comandi militari di Russia, Siria e Iran. La notizia  di The Washington Times ricalca quella diffusa nel settembre dello scorso da alcune fonti libanesi attraverso l’agenzia di stampa AKI.

L’analista Cristina Lin ha affermato che la Cina potrebbe essere costretta a fare questo passo a causa della presenza di circa 3.500 terroristi cinesi, gli uiguri*(residenti nella regione del Xinjiang), nella città siriana di Yish a Shugur , che è stata conquistata nei mesi scorsi da al Nusra ed è diventata una roccaforte del Partito Islamico del Turkestan il cui portavoce, Abu Ridha a Turkistani, in un video ha invitato gli uiguri a combattere in Siria contro il governo di Damasco.

Gli uiguri hanno ricevuto armi sofisticate, le stesse che lo Stato Islamico ha ricevuto in Iraq, e in molti hanno già aderito alle milizie del califfato. Se il numero dei terroristi uiguri tra le fila dell’IS e di al Nusra dovesse aumentare, evidenzia l’analista, Xinjiang potrebbe diventare il prossimo Afghanistan. L’attentato dello scorso anno a Bangkok è stato attribuito dagli investigatori proprio a terroristi collegati con militanti uighuri.

La Cina, di fronte a questa minaccia crescente, ha approvato una risoluzione per “portare la lotta contro i terroristi uiguri in altri paesi”,  il che significherebbe portare le truppe in Siria per combattere i gruppi jihadisti al fianco degli alleati russi, siriani e iraniani. Se il governo di Damasco dovesse chiedere espressamente l’aiuto di Pechino nella lotta contro il terrorismo, tutto ciò sarebbe conforme al diritto internazionale e non comporterebbe alcuna violazione del principio di non ingerenza.

*Gli Uiguri sono un’etnia turcofona di religione islamica che vive nel nord-ovest della Cina, soprattutto nella regione autonoma dello Xinjiang, insieme ai cinesi Han. Gli uiguri costituiscono la maggioranza relativa della popolazione della regione (46%).[4] Un altro gruppo di uiguri vive nella contea di Taoyuan della provincia dello Hunan (Cina centro-meridionale). Gli uiguri formano uno dei 56 gruppi etnici ufficialmente riconosciuti in Cina.

 

“INDAGATO IL PAPÀ DELLA BOSCHI”

"INDAGATO IL PAPÀ DELLA BOSCHI"La voce che rimbalza dal Palazzo

La voce rimbalza al Csm dopo le dichiarazioni del procuratore di Arezzo Roberto Rossi e lette le relazioni degli ispettori di Bankitalia. “Il papà della Boschi sarà presto indagato”. Ne parla Il Giornale che spiega come a Palazzo dei Marescialli si dia per scontato  l’iscrizione nel registro degli indagati. Al centro dell’audizione al Csm c’era stata la posizione del titolare delle inchieste aretine e la sua eventuale incompatibilità con l’incarico di consulenza giuridica alla Presidenza del Consiglio. Se il vicepresidente Boschi ha una posizione rilevante nelle indagini di Arezzo, la mancanza del pm sarebbe più conceta.

Il ruolo di papà Boschi –  Il punto centrale – come scrive Il Giornale – appare la presenza di Boschi nella Commissione consiliare informale formata da presidente, due vicepresidenti e pochi consiglieri che, per gli ispettori di Bankitalia, prendeva le decisioni più importanti senza informare il Cda e senza una verbalizzazione.  Su questo punto Rossi, nell’ audizione, è caduto in contraddizione. Alle domande esplicite ha risposto che Boschi non c’ era, ma che l’ organismo-ombra era nella precedente gestione giudata Giuseppe Fornasari, indagato ad Arezzo prima del suo successore. Nell’ ultima relazione di Palazzo Koch, invece, si parla chiaramente di questa specie di direttorio in relazione del consiglio d’ amministrazione insediatosi a maggio 2014, proprio quando Rosi divenne presidente e Boschi il suo vice. Ci si chiede per quale motivo Rossi l’abbia negato. 

Colpo di scena al processo, la difesa notav cita i PM Rinaudo e Padalino

Spinta dal Bass

 giovedì, gennaio 14, 2016
Colpo di scena al processo, la difesa notav cita i PM Rinaudo e Padalino

Colpo di scena in tribunale a Torino durante il processo a sette dei nove fermati durante la passeggiata notturna in Clarea del 19 luglio 2013. La difesa ha citato come testimoni i due PM con l’elmetto che sostengono l’accusa, Antonio Rinaudo e Andrea Padalino.

Quella notte i fermati denunciarono violenze e percosse da parte degli agenti, Marta denunciò pubblicamente ed in Procura di essere stata picchiata, abusata sessualmente ed ingiuriata anche da un’agente donna.
Marta è già stata prosciolta dalle accuse, mentre i suoi compagni sono stati tutti rinviati a giudizio. La posizione degli agenti che la picchiarono, le toccarono il seno e la vagina e le diedero ripetutamente della puttana, è stata archiviata e nessuna indagine fu mai iniziata per le violenze denunciate dagli altri manifestanti.

I due magistrati quella notte erano presenti all’interno del perimetro insieme alle forze dell’ordine, e sono gli stessi che hanno sostenuto l’accusa nei confronti di tutti i fermati.

Oggi invece in aula, richiesta la loro testimonianza da parte dei legali dei notav, hanno dichiarato: «In effetti noi eravamo nel cantiere. Ma stavamo svolgendo attività di indagine: ed è previsto dal codice che le indagini si possano effettuare di persona. L’area, poi, è molto vasta e di tutto quello che accadde quella notte non vedemmo nulla».
Tanto è bastato al tribunale per non ammetterli come testimoni.

Ma noi ci ricordiamo ancora cosa dichiararono i due PM a La Repubblica pochi giorni dopo i fatti:“Siamo titolari di gran parte delle inchieste sui disordini legati alla protesta No Tav e volevamo renderci conto di persona della realtà del fenomeno. In più sapevamo che c’ era in programma questa manifestazione notturna e sulla base dell’ esperienza pregressa e anche di certe indicazioni inequivoche che arrivavano dai siti vicini alle frange più estreme del movimento era plausibile che ci sarebbero stati degli scontri”, “siamo rimasti sino alle tre, l’ attacco al cantiere è stato di una violenza inaudita. Ci sono stati lanci di sassi, razzi tirati ad altezza d’ uomo e soprattutto l’ uso pericolosissimo di bottiglie molotov. Il tutto secondo una strategia militare che pareva studiata nei minimi dettagli. Ora ci siamo fatti un’ idea precisa di quello che accade veramente in quelle notti”, “ eravamo lì esclusivamente per capire di cosa si parla in realtà quando si fa riferimento agli attacchi al cantiere. Un conto infatti è leggere i rapporti, un altro è vedere di persona che cosa accade quando si parla di “passeggiate notturne” alle reti di recinzione”.

Oltre alle evidenti dichiarazioni contraddittorie, non emerge spontanea la domanda: che ci facevano lì quella notte?

Indagavano su cosa? Su quello che doveva ancora accadere? E ammesso che indagassero su altro, già che erano presenti durante il compimento di un reato non dovrebbero testimoniare?
E poi non si deve credere che la Giustizia nelle sedi torinesi sia asservita alla lobby del TAV

Motori F1 per scavare, ecco fresa Tav

http://www.ansa.it/piemonte/notizie/2016/01/14/motori-f1-per-scavare-ecco-fresa-tav_71a38b5c-596c-4299-ac57-d53053d6ec60.html

Consegnata a Telt in Francia ‘Federica’, da giugno al lavoro

Redazione ANSALE CREUSOT (FRANCIA)14 gennaio 201618:17NEWS

(ANSA) – LE CREUSOT (FRANCIA), 14 GEN – Un’altra data importante per la Tav Torino-Lione: la fresa che scaverà in Francia i 9 km dell’ultima galleria geognostica (ma già nell’asse e del diametro del futuro mega tunnel da 57 km) è stata consegnata oggi, nello stabilimento della Nfm Technologies a Le Creusot, in Borgogna, a Telt, la società incaricata di costruirla e gestire la linea ferroviaria ad alta velocità, ed al raggruppamento di imprese impegnate nel cantiere in Savoia a Saint Martin la Porte.
    La fresa, battezzata Federica, ha una potenza di quasi 5 megawatt, pari a 8 motori di Formula 1, ha un diametro di 11,21 metri, è lunga 135 metri e pesa 2.400 tonnellate; è dotata di 76 cutters rotanti.
    La fresa Federica verrà smontata e portata in cantiere con 35 trasporti eccezionali e 100 camion. A Saint Martin il rimontaggio in galleria inizierà a marzo e si concluderà a giugno.

IL MIO IRAQ. E QUELLO DEGLI ALTRI. 16/1/2016, 25 ANNI DALL’INIZIO DELL’OLOCAUSTO

http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/01/il-mio-iraq-e-quello-degli-altri.html

MONDOCANE

GIOVEDÌ 14 GENNAIO 2016

In Siria e in Iraq le forze patriottiche sono all’offensiva.
Quando racconto la verità, non è tanto per convincere coloro che non la conoscono, quanto per difendere quelli che la sanno”. (William Blake)
E finchè facevano guerre, il loro potere veniva preservato, ma quando ottennero l’impero, caddero. Perché dell’arte della pace non sapevano niente e non si erano mai dedicati a nulla che fosse meglio della guerra”. (Aristotele. Gli Usa, dalla nascita, hanno fatto in media una guerra all’anno).
Una partita con tre campi da gioco
In tutte le guerre, rivoluzioni, aggressioni che ho vissuto e ho provato a raccontare, si configuravano sempre tre schieramenti. Il primo stava sul campo “Realtà” ed era costituito dal popolo sotto attacco e dai suoi amici in giro per il mondo; il secondo stava sul lato opposto, in un campo chiamato “Menzogna” ed erano le armate e le parole di soldati, politici, banchieri, industriali colonizzatori. In mezzo, con una gamba di qua e una di là, in un campetto di nome “Né-Né”, ciondolavano gli Astenuti. Ho sempre pensato che, per primi, dovevano essere tolti di mezzo questi qua. Confondevano sia la vista, sia i suoni  dello scontro, che quelli della “Realtà” si sforzavano di percepire. Spargevano, anche all’occhio di chi guardava dalla finestra, una nebbiolina che offuscava i contorni. Per me combattere quelli del campo “Menzogna” significa far piazza puilita degli “Astenuti”.  Dopo, si sarebbero potuti affrontare i nemici, meglio identificati grazie alla scomparsa dei mistificatori. Con gli Astenuti, va detto, gli irreali non se la sono mai presa.
Sono parecchi i luoghi dove ho visto questi soggetti manifestarsi, sempre nella formazione appena descritta: Palestina 1967, Irlanda 1969-1990, Jugoslavia 1999-2001, Iraq 1977-2003, Venezuela, Argentina, Bolivia, Ecuador 2002-2006, Cuba 1995-2005, Libano 1997-2006, Libia 2011, Siria dal 2012. Non mi sono mai potuto privare della scoperta di trovare, in tutti questi campi, immancabilmente gli Astenuti o “Né-Né”. In Palestina, pur biasimando il regime sionista, predicano la nonviolenza a coloro cui andavano sfasciando la testa le SS sioniste e arrivano a dare del “terrorista” a quelli a cui orde di robocop trovano (o mettono) un coltello addosso. Pur alzando il ciglio sull’occupazione  britannico-fascista dell’Irlanda del Nord, rampognavano la risposta dei repubblicani, troppo dura, e ne festeggiarono la resa, come trionfo della pace, con l’Accordo del Venerdì Santo (1998). In Palestina il “diritto dello Stato di Israele di esistere” si confonde con i pat-pat sulle spalle degli espropriati e genocidati. Fino a inebriarsi della truffa di Oslo e dei “Due Stati”.e caldeggiare marcette pacifiste di 10 palestinesi e 4 israeliani.
Con la Jugoslavia, l’epistemologia sulla natura di cosa andava succedendo e chi erano gli attori in scena ha visto la prima manifestazione della sindrome schizofrenica che colpisce gli Astenuti. Nato cattiva, ma Milosevic dittatore. Dunque, eticamente, né-né. Tra chi bombardava televisioni, ospedali, case, ponti, treni, scuole, fabbriche petrolchimiche, per ridurre in frantumi e contaminare un paese e chi questo trattamento lo subiva, fiorì rigoglioso il né-né. Né con la Nato, né con Milosevic. Ma in fondo, un po’ meno di meno, con quei ipernazionalisti del dittatore serbo.E così, succhiando linfa dall’informazione totalitaria e oligarchica, lastricavano di buone intenzioni la strada per l’inferno.
Con una coerenza invidiata da tutti noi, in Libia si incupirono più degli inesistenti “bombardamenti di Gheddafi sulla propria gente” degli spavaldamente esistenti missili a pioggia. E rivestirono di panni sgargianti di arcobaleno iinvasati terroristi che decollavano e scuoiavano civili e prigionieri. Spettacolino ripetuto per Iraq e Siria. Su un popolo cui per 25 anni hanno riservato un destino mostruoso, paragonabile a quello palestinese solo perché questo dura da settant’anni, hanno fatto pendere, e continuano a farlo, la spada di Damocle del dittatore Saddam. Ha sterminato 200mila curdi (sono ancora tutti lì e si mangiano pezzi di Iraq su mandato USraeliano), divorato il Kuweit (provincia irachena rescissa dai britannici), represso il suo popolo, sterminato 5000 comunisti (mai successo). E in fondo, ignominia!, anche amico degli Americani che lo hanno armato (mai amico, mai armato, se non dall’URSS). Così ha potuto essere tranquillamente preso a calci e appeso.
Oggi si esercitano con passione sulla Siria dove, con un copia-incolla dal Pentagono, trascrivono e diffondono  l’anatema contro “i governi che fanno la guerra ai propri popoli” (si sa quali) e l’auspicio, con un’ occhiata al “dittatore Assad”, “per la pace e la democrazia in ogni paese” (dove si sa cos’è questa democrazia e chi la esporta). Ma ovviamente, pur condividendone la ragioni, sono contro le guerre Nato. Né-né. Un messaggio che fa facile presa su gente che non vuole problemi..
Il 12 maggio del 1977, mio genetliaco,  un candelotto centrò il mio ginocchio. Mi inseguirono e fotografarono. Era la manifestazione pro-divorzio nella quale, anche sotto i miei di occhi, a Ponte Garibaldi di Roma, i “Falchi” omicidi di Cossiga ammazzarono Giorgiana Masi. La notte e il giorno dopo, rastrellamenti. Ne avevo viste e subite abbastanza per togliere il disturbo. Il compagno medico, Giorgio Alpi, papà della mia collega Ilaria, mi fece avere un certificato medico per il lavoro. Arrivai nello Yemen. Fu nell’estate di quell’anno che, dallo Yemen, il mio settimanale, “The Middle East”, mi spedì in missione a Baghdad.
Guerra e genocidio strisciante
Una metropoli enorme, accogliente come sempre gli arabi, rutilante di luci, straripante di vita, soprattutto giovanile, con attorno alla vita la scintillante cintura del Tigri. Percorsa in un fremito ininterrotto da popolazione, cantieri, trasporti, torme di studenti, ragazze in minigonna, formicolante di iniziative culturali nei mille e mille centri d’arte, letteratura, archeologia, di elaborazione politica, che erano sorti, accanto alle istituzioni statali e del Partito Baath, per iniziativa delle organizzazioni di massa, delle donne, degli studenti, dei lavoratori, dei poeti, degli anziani. Il primo contatto fu con il direttore del quotidiano Ath Tawra (“La Rivoluzione”), Nassif Awad, già braccio destro del poi ministro degli esteri Tariq Aziz, un palestinese con alle spalle la militanza nella resistenza del suo popolo. La nostra amicizia attraversò la gloriosa fase della costruzione di una nazione, la prima aggressione del 1991, la sbalorditiva ricostruzione in pochissimi anni, a dispetto delle tremende  privazioni dell’embargo, la forza e dignità di un popolo tuttavia in piedi, a dispetto delle bombe di Clinton e dell’assedio per fame. Fino all’ultimo incontro, a cena a casa sua, il 30 marzo 2003, con gli americani alle porte. Diventai il corrispondente da Roma di quel quotidiano e poi anche di “Baghdad Observer”, in lingua inglese, diretto da Naji al Hadithy, brillantissimo operatore culturale a Londra, dove l’élite intellettuale inglese frequentava il suo “Centro Culturale Iracheno” e, poi, ministro degli Esteri, con Saddam sino alla fine.
Sovrastata dalle immagini di rovina, disperazione, sgretolamento, di oggi, la memoria fa fatica a ricostruire ciò che erano la Baghdad e l’Iraq di allora. Un paese impegnato ad attenuare la centralità dell’Islam e ricostruire le fondamenta storiche della nazione, riappropriandosi laicamente di tradizioni e patrimoni millenari, sumeri, assiri, babilonesi, quelli della civiltà che ha partorito tutti noi. Quelli che i dominatori, bizantini, ottomani, britannici, avevano cercato di espellere dall’immaginario collettivo, dallo stesso DNA del popolo. Erano pratici di sradicamento della memoria e quindi dell’identità di genti da dominare. Quanto lo sono oggi i loro mercenari che polverizzano Palmira, Niniveh, Hatra, Assur, Nimrud, Ctesifonte… i predatori preferivano affidare la gestione della mente collettiva ai preti, tanto più che la religione con le sue varie confessioni, più della laicità e magari di un progetto socialista, apriva la possibilità all’irrinunciabile “divide et impera”.
Percorsi l’Iraq in anni vari da cima a fondo, dalle paludi intorno a Bassora sul Golfo  alle montagne del Kurdistan, al confine con un Iran dove già rumoreggiava la rivoluzione khomeinista (e quella dello scontro tra due validi e integri antimperialismi è stata la tragedia fondante della catastrofe, sollecitata da un Kissinger che sentenziò: “Si devono dissanguare a vicenda”  e oggi allargatasi allo scontro, una volta di più concepito e fomentato dai revenants colonialisti, tra sciti e sunniti in tutta la regione). Mohammed Ghani, sommo pittore, mi fa da guida attraverso una nuova  creatività artistica irachena, consapevole della modernità, simile a quella dei futuristi sovietici per slancio vitale e tematiche legate al riscatto del popolo.
Sanzioni per sfoltire in vista della soluzione finale
Nel docufilm “Genocidio nell’Eden” ho cercato di offrire spunti di conoscenza di un Iraq, pesantemente colpito dalla Guerra del Golfo, 1991, “Tempesta del Deserto” e poi dalle sanzioni più feroci mai inflitte. Un Iraq coperto di piaghe, ma non domo e che ancora emanava la luce degli anni della rinascita, quella iniziata dopo l’indipendenza del 1956, sotto una successione di presidenti laici e nazionalisti  e rilanciata dalla rivoluzione del Baath del 1968, con Ahmed Al Bakr e Saddam Hussein (che diventa presidente nel 1978). Ci tornai poco dopo la fine dell’assalto di Bush padre. Saddam si era ripreso il Kuweit, già 19esima provincia dell’Iraq, sceiccato con classica operazione colonialista staccato dal corpo iracheno e messo in mano a un satrapo vassallo. Si trattava, per gli inglesi, di conservare, dopo la nazionalizzazione del petrolio iracheno, l’area dei giacimenti più ricchi. Washington finse chissenefrega, pregustando il pretesto per l’inizio dell’olocausto.
Con l’Italia dei galantuomini Andreotti e Amato, costituzionalisti rispettosi dell’articolo 11, ma più di Washington, scattò sull’attenti e si impegnò. Al crimine si aggiunse il ridicolo: due piloti abbattuti alla prima sortita, ma riconsegnatici da un nemico che ai crimini risponde con la correttezza.Trenta paesi all’attacco di uno, bombardamenti equivalenti a 6 bombe atomiche, 400 tonnellate di uranio-plutonio a minare milioni fino alla fine del mondo. Centomila soldati in ritirata inceneriti con le bombe a ossigeno. Altre decine di migliaia sepolti nelle loro trincee da tank usati come Bulldozer. Ma Bush viene fermato davanti a Baghdad. Ci voleva qualcosa di più forte del Kuweit invaso. Magari un 11 settembre.
La coalizione internazionale, formata da Washington, inviava nel Golfo una forza di 750 mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi. Per 43 giorni, l’aviazione statunitense e alleata effettuava, con 2800 aerei, oltre 110 mila sortite, sganciando 250 mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciavano oltre 10 milioni di submunizioni. Partecipavano ai bombardamenti, insieme a quelle statunitensi, forze aeree e navali britanniche, francesi, italiane, greche, spagnole, portoghesi, belghe, olandesi, danesi, norvegesi e canadesi. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre mezzo milione di soldati, lanciavano l’offensiva terrestre. Essa terminava il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush.
Seguono 12 anni di embargo mortale, punteggiato dai continui bombardamenti di Clinton su centrali elettriche, depositi di viveri e farmaci, ospedali, scuole, centri abitati, fabbriche, palmizi (base alimentare degli iracheni), porti e aeroporti, ferrovie. Il tutto per far avanzare il genocidio strisciante, attraverso la distruzione di presidi e mezzi sanitari ed alimentari, di impianti di purificazione dell’acqua, innescato dall’uranio. Tra quella guerra e il 2000, tornai tre o quattro volte. Una con Ramsey Clark, ex-ministro della Giustizia e poi militante antimperialista e il suo gruppo “International Action Centre”  ad approfondire e denunciare al mondo la Shoa irachena da embargo. Intervistai Tariq Aziz, colto e onesto cristiano, il vicepresidente Izzat Ibrahim, poi leader della Resistenza contro l’occupazione, Taha Yassin Ramadan, altro vice, insegnanti e alunni in scuole in disfacimento, medici eroici, privi di tutto, perfino anestetici, che si battevano in ospedali dilapidati contro tassi di incremento delle patologie fino al 50%: cancro, polmoni, tiroide, fegato, sistema immunitario tutto. E le madri in ospedale, immobili, con gli occhi fissi su neonati deformi.
Ci tornai anche con quelli di “Un Ponte per Baghdad”, prosperati sui viaggi organizzati in Iraq, fornitori di qualche cartone di farmaci e di materiale scolastico. Tutto sommato bravi, solidali, senza riserve manifestate. Fino a quando il governo cadde e l’Iraq iniziò a morire. Dopo prevalse la vulgata del Saddam dittatore, dell’occupazione auspicabilmente portatrice di democrazia, fino ai né-né di oggi, con il suo capo storico, Alberti, a fianco dei “ribelli” siriani. Un’altra volta venimmo a fare capodanno. Già imperversava la fandonia delle armi di distruzione di massa, delle stragi di Saddam, con ispettori, guidati da spie, che rovesciavano ogni granello di sabbia per una finta ricerca di ADM, ma per un effettivo studio della preparazione militare del paese. Già rombavano suoni di guerra. Ci ponemmo, alcune decine di anti-guerra da tutto il mondo, come scudi umani, con tanto di striscioni e pettorine, davanti alle istituzioni, alle centrali, sui ponti, nelle assemblee, nelle chiese e moschee. Non avremmo fermato le bombe. Non ci avranno percepito i ciechi, sordi e muti dall’altra parte del mare. Ma so per certo che agli iracheni ha fatto piacere. Tutti quanti, nel dolore e nella rabbia, ci siamo sentiti un po’ più caldo al cuore.
Armageddon sulla via di Baghdad
Naturalmente né noi, cui sarebbe bastato accendere un cerino nel cervello del mondo, né gli iracheni,  vivi ma mutilati, fermammo gli staticidi e antropofagi. Non ho mai capito perché cronache e storici fanno iniziare l’attacco all’Iraq il 20 marzo 2003. Annusata la miccia, ormai accesa, insieme a tanti altri colleghi,  nonostante Baghdad avesse annunciato il ritiro dal Kuweit e fartto rientrare gli ispettori, volai ad Amman il 16 del mese. Lì rintracciai uno dei vecchi taxisti che conoscevo da precedenti viaggi, e all’imbrunire partimmo. Quattro falafel in una bettola al confine e, poi, il semideserto fino alla capitale. Khaled aveva già fatto in giornata un’andata-ritorno per complessivamente 2000 chilometri. Ogni tanto si appisolava. Una volta finimmo contro un palo della luce e, un’altra, scattò su come una molla: c’erano stati due sibili sopra le nostre teste e due esplosioni più in là. Quando 2km dopo, passammo davanti all’unico ristoro in tutto il tragitto, ci trovammo una voragine, macerie e fumo. Era la notte dal 16 al 17 marzo e la guerra era iniziata. Almeno lì. Ho  fantasticato su un collegamento tra i missili sulla massima strada di comunicazione tra l’Iraq e l’estero e l’ordine che Bush aveva impartito ai giornalisti di non andare nella capitale dello Stato Canaglia, ma di seguire le truppe alleate in avanzata. Di fare gli embedded, a letto con i militari. Avrei avuto una conferma.
Era un’alba scintillante di sole e cielo limpido, quando arrivammo a Baghdad, la capitale del califfo delle Mille e Una Notte, Harun el Sharid e, oggi, quella del capofila, dopo la morte di Nasser, del riscatto nazionale e sociale arabo.Definito “dittatore” sulla base del più gretto eurocentrismo e senza conoscenza e rispetto per il contesto storico e culturale, dopo un millennio di domini assoluti stranieri e la decomposizione dei popoli in tribù.   Massimo sostenitore della Palestina, massimo baluardo antimperialista, paese più progredito del cosiddetto Terzo Mondo. Quel cielo era ferito da colonne di fumo che poi si allargavano a enormi capitelli e, ai lati della strada, fosse fumanti, fiamme, cose annerite, cose squarciate: carretti, automobili, un bus, corpi, un ponte da circumnavigare perché fatto a pezzi.
Verso il centro, tra altre rovine ancora roventi, ambulanze, polizia, posti di blocco, il solito traffico frenetico, le solite bancarelle nei mercati, negozi aperti, gente ai bar. E la sera, in Piazza Paradiso, davanti all’Hotel Palestine, quartier generale della stampa estera, tra fontane zampillanti e sotto la statuta del Rais, le stesse famiglie di sempre con i bambini razzolanti e strepitanti, le stesse coppiette, i ragazzi ilari che da noi stanno sui muretti. Nassif, mi aveva trovato un albergo, il Mansur, meno zeppo di giornalisti, ma vicino al Ministero dell’Informazione. Era passato a ministro per i profughi palestinesi (aveste visto la meraviglia del loro quartiere, i campi di calcio, le botteghe, i palazzi nuovissimi, su vie larghe e ordinate, il calcetto sul marciapiede, le scuole! Mi sono venuti in mente i formicai di Sabra e Shatila).
L’idea era di agevolarmi nei contatti con quel ministero, dove si sarebbero tenute le conferenze di stampa e i briefing. Ma si sottovalutava un altro elemento. A Belgrado avevo visto polverizzare la televisione e il Ministero dell’informazione con 17 giornalisti e tecnici dentro. Così sarebbe successo per prima cosa a Tripoli e Damasco. Azzerare la voce dell’altro materialmente, dopo averla degradata verbalmente a propaganda di regime, falsa e bugiarda. Quella che dai nostri regimi si dice sia bandita nel nome della democrazia… Infatti, fin dalla prima notte mirarono all’unico nemico che gli avrebbe potuto nuocere, quello dell’informazione altra e, mentre, dal balcone della mia stanza, filmavo roghi e deflagrazioni micidiali, con accanto due film-maker giapponesi che, eccitatissimi, correvano da una finestra all’altra., il pavimento pareva sussultare e venirci meno e i vetri ci scheggiavano addosso. Sparuti ospiti e tanto personale si erano tuffati nei rifugi sotterranei e noi potevamno sfidare impunemente il divieto di fotografare in zona governativa.
La mattina dopo, la cinquantina di giornalisti stranieri che, pur minacciati, avevano sostituito le migliaia di attesi e prenotati, si riuniva al ministero, scendendo da una terrazza su cui si erano installati, anche loro per comodità, tutte le televisioni presenti. Una mattina, tra le tende di una tempesta di sabbia che faceva tutto rosso, intravvidi la terrazza ridotta dai missili al classico negozio di vetri in cui s’è scatenato un elefante. La stampa straniera aveva fatto male ad andare a Baghdad. Poche ore prima avevo visto Giovanna Botteri, già mia collega al Tg3, fare da lì una diretta. La ragazza, tra Kosovo e Iraq, s’è guadagnata, con soddisfazione di Washington, la corrispondenza Rai da New York, la più ambita.
Peter Arnett, il mitico corrispondente dal Vietnam, poi dal 1981 nella CNN , licenziato per aver rivelato l’uso statunitense di gas nervino in Vietnam, già protagonista dell’informazione dall’ Iraq nella Guerra del Golfo e ora con la NBC, viene licenziato su due piedi al terzo giorno di apocalissi bombarole, per aver fornito una versione dei fatti non compatibile con le esigenze dei controllori del Pentagono installatisi nelle redazioni Usa. Eppure il nostro ufficiale dei briefing, Mohamed Al Salafi, era un impetuoso e articolatissimo tenore del controcanto alle voci del padrone. In Occidente lo definivano “Il pazzariello”, per screditarne le versioni così divergenti da quelle degli embedded. Venne provato corretto in varie occasioni, come quando gli alleati vantavano la presa di Najaf ed erano ancora impantanati a Bassora.
L’armata di Saddam era di un coraggio incredibile. Nella sua abissale inferiorità, non si era lasciata spazzare via se non dopo una ventina di giorni su cui fecero cadere un cielo di uranio e per esseri poi trasformata in guerriglia per anni. Ma le sue dotazioni erano sbrindellate e obsolete: vecchi armamenti sovietici di prima di Yeltsin. Delle volenterose milizie popolari neanche a parlarne. Eppure, per dare a Saddam la patente di doppiogiochista, ancora si favoleggia di armi, anche chimiche, fornite dagli Usa quando Saddam era “amico”. Mai successo, mai stato.
Kill, kill, kill
Dopo il bollettino di guerra e l’enumerazione dei danni  e delle vittime da bombardamento, i nostri colleghi iracheni ci portavano in pullmino attraverso la città a vedere le distruzioni. E le persone che ne venivano tratte. Erano strade lunghe e diritte come quasi tutte quelle della Baghdad moderna e ne veniva una visione, lungo i lati, di un serpente di rovine senza fine. Mi tornarono in mente Dresda o Berlino churchillizzate vissute da bambino. Mentre dai finestrini ci ferivano gli occhi queste teorie di edifici sminuzzati, Lorenzo Cremonesi, inviato del Corriere della Sera tuttora attivo da quelle parti, s’infervorava nel racconto, non so quanto romanzo popolare, dell’incontro notturno con la cameriera, “quella con le tette”. Scendevamo tra le persone che vedevamo formicolare sulle colline di macerie, a spostare sassi con le mani, tra tegole, quaderni, libri, pentole, maglioncini di bambini che punteggiavamno di colori un tutto grigio. Un ragazzo del Soccorso Popolare ci spiega: “Qui viveva una famiglia  di sette persone, quattro bambini. Sono ancora lì sotto. Perché ci fanno questo? Perché vogliono abbattere il nostro presidente? E’ il nostro presidente e lo amiamo. Che c’entrano loro?” Stupore, attonimento, più che sgomento.
Il 9 aprile gli alleati entrarono in città. Contemporaneamente Saddam veniva festeggiato dalla folla in quella che fu la sua ultima epifania da presidente.Quel giorno m’ero trasferito tra i colleghi al Palestine, forse per non farmi trovare dagli invasori, isolato, al Mansur con due sorridenti giappones. Tutti alle finestre e balconcini a vedere e filmare la prima colonna di carri armati Usa sferragliare verso di noi. In piena paranoia sparavano a tutto, palme comprese. Poi partirono due cannonate in immediata successione e il Palestine si aprì come una noce. Era arrivata la vendetta di Bush sui giornalisti disobbedienti. Morirono, credo, in sette. José Cuso, un collega spagnolo. Suo fratello gira il mondo da allora per trovare un magistrato che incrimini gli assassini. Lo  incontrai a Caracas con Chavez. E fu ucciso Khaled Ayub, di un Al Jazaeera non ancora voce del padrone. Ogni giorno celebravamo la nostra amicizia al banchetto del thè, sotto il ministero. Aveva un sacco di piccoli figli e non era un rettile, come tanti attorno a noi. Nei primi mesi di giornalisti ne furono tolti di mezzo 20. Nella guerra contro la resistenza, fino al 2007, altre decine ci rimisero la pelle. Quasi tutti erano disturbatori della quiete pubblica.
Arrivano diritti umani e democrazia
La battaglia finale, con gli iracheni al comando diretto di Saddam, furibonda e lunghissima e in cui gli americani rovesciarono sul nemico quanto di più spaventoso avevano, fu quella dell’aeroporto. Mi privai del raccapriccio di assistere alla devastazione simil-Isis dei tesori culturali e storici della Mesopotamia decidendo di andarmene dopo quella battaglia. Forse qualcuno degli invasori aveva avuto sentore di questo giornalista che da trent’anni rompeva. Magari, come è successo a parecchi colleghi “fuori linea”, compresa Giuliana Sgrena, avevano già inaugurato il metodo del rapimento da parte di finti combattenti della Resistenza. La sorte che, da Norimberga in poi, anzi, dai nativi americani in qua, si riserva  al vinto è sempre stata la violazione morale e la distruzione fisica. Un processo nel quale gli avvocati di Saddam finirono uccisi o banditi uno dopo l’altro e che divenne, con Saddam, un’imbarazzante tribuna della verità sull’Iraq e sui crimini dell’imperialismo. Vittoria morale da diluire nei trattamenti sprezzanti, nella scoperta di surreali nefandezze, nell’offesa alla persona (il presidente della Corte, selezionato dagli Usa, che inveiva come un forsennato contro l’imputato. Né Saddam, né il suo vice Ramadan, né Tariq Aziz (fatto estinguere in un lager e poi in prigione), nè altri dei dirigenti elencati nel mazzo di carte Usa, tutti con la taglia alla Western sulla testa e la sentenza certa, ebbero cedimenti. Al di là di cosa fossero stati, qui sono stati uomini di fronte a ratti.
In uno degli ultimi taxi che poterono uscire dalla città prima di coprifuochi e rastrellamenti vari, attraversavo una città come costellata di fuochi fatui, roghi che si spegnevano tra case diroccate. E’ stata davvero dura partire e non solo per quello che scorreva lungo i finestrini. Dietro, a sprofondare negli abissi  della morte, o di una non-vita, del non esserci più in quanto arto della comunità umana e, comunque, ucciso dall’indifferenza là fuori, lasciavo amici di una vita e tanti momenti alati. La tavolata di pesce di fiume della grande famiglia irachena lungo un Tigri che ci rimandava scintillante la luce dei lampioni, il comune sentire che sprigionavano le chiacchiere. Due medici,  Ryad Mustafa e Ryad Ryad, che, alla distruzione del loro ospedale (12 bombardati nei soli 20 giorni di guerra) avevano risposto aprendo con le mogli due ambulatori di quartiere, per sopperire, per quanto si potesse, in presenza di embargo su farmaci e strumenti. Gratis. La moglie di Mustafa, Suad, specializzata in Inghilterra, che promette di usare il coltello da cucina contro l’invasore e insiste: “Se qualcosa non va nel nostro paese, siamo noi a doverlo affrontare. Nessun altro”.
Il dottor Riad che mi invita a quella che sarà la mia ultima cena, a casa sua. Fuori, il  bombardamento ha le frequenze di un rock metallaro. Intorno all’humus, al montone, allo yoghurt con aglio e prezzemolo, ai datteri (avevano tirato fuori il meglio dal poco di provviste rimaste), c’è la famiglia di due genitori e tre figli, uno maschio sui diciott’anni. Riprendo la scena. Passo dal ragazzo che ha in braccio il Kalachnikov e promette di usarlo contro l’invasore, alla sorella, ultima classe del liceo, cui chiedo se ha paura: “Paura? No, mai!” Sono poi le due sorelle e una loro amica che in macchina, dribblando macerie e roghi come fossero fuochi d’artificio e scherzando e ridendo come si fa nell’adolescenza, mi riportano in albergo. In Iraq ci ho lasciato un bel po’ di me, a compenso delle tante cazzate fatte negli anni.
Con la morte nel cuore
La strada più lunga e ardua della mia vita è stata quella lungo i corridoi e i reparti degli ospedali iracheni. Resa interminabile e angosciante da personcine come Abbas Ali, bimbetto di 4 anni ustionato dalla fronte all’alluce come fosse carne macinata e che avevo incontrato in un asilo per bambini disabili. O come l’anziano professosre tutto bendato, ma che dalle bende faceva uscire le dita a V.E i famigliari, appesi a quel nodo scorsoio della speranza, muti.
Ricordo il lustrascarpe di 12 anni, zoppo di una gamba, con la cassetta delle spazzole sulla spalla, bellissimo e sempre ridente, che dopo l’ennesimo iradiddio di bombe, mi passa accanto tutto impolverato, tenendo per cinquanta metri alta la mano con le dita a V: E ricordo una bambina di straordinaria forza espressiva   che, di sera nel quartiere popolare, vedo passare e riflettersi nella bottega dell’amico barbiere prodigo di frottole, del macellaio dalle battute a raffica. Ha il velo nero sulle spalle, nota la mia telecamera, si illumina di sorrisi e, senza mollare i miei occhi, va via. Poi si tira sul capo il velo. L’obiettivo la insegue di spalle, una figurina tutta nera, fino a  che si dissolve nel buio. Un’icona dell’Iraq.
Tutto questo l’ho fissato nella mia memoria e in quella di chi vorrà riviverlo, nel docufilm “Un deserto chiamato Pace”. Correndo via dalla grande città, rigogliosa, un tempo, di mille fioriture e impegnata a coglierle da passato, presente e futuro, ora con gli occhi  delle case sfondate sbarrati sul nulla, ci siamo affiancati a un pullmino. Ci siamo fatti segno per prendere il thè insieme al primo botteghino lungo la strada. Erano funzionari del Ministero per la Palestina. Con Baghdad in fiamme alle nostre spalle, le istituzioni disintegrate, con gli americani  padroni della città, avevano fatto in tempo a ripartire per il settimanale viaggio per la Palestina a portare gli ultimi 20mila dollari alla famiglia dell’ultimo martire palestinese. Questo era il mio Iraq. Poi è venuto quello degli altri.
Noi ridicoli scudi umani con pettorina e penna, dovemmo lasciare la culla della civiltà tornata in vita alla mercè della barbarie. Ma almeno ci avevamo provato. Era invece un mondo intero, invasato di razzismo, protervia occidentocentrica, particolarmente ottuso  nelle sue microespressioni trotzkiste ed emme-elle, che abbandonava, tradiva, chi si andava sacrificando in difesa di tutti noi. Pugnalata alle spalle poi ripetuta su Libia, Siria, Afghanistan, Venezuela. I predatori Usa, impiegando una manodopera importata, saccheggiarono due tra i massimi patrimoni storici e culturali del mondo, la Biblioteca Nazionale e il Museo Nazionale. Oggi si sono ripetuti attraverso loro surrogati a Nimrud, Palmira, Hatra: cancellare quanto popoli hanno creato dandosi un nome, una coscienza di sé, un’identità, un ruolo nell’evoluzione umana. E mercificare a proprio profitto i reperti.
E vennero gli abusi sui prigionieri, gli stupri delle donne (vedi il film di Brian De Palma), sequestri, stragi, esecuzioni, torture,  vuoi eseguiti in proprio, vuoi affidati a terroristi reclutati per innescare lo scontro confessionale. E chi dei rapimenti rischiava di aver scoperto la vera matrice, come sono certo sia capitato a Nicola Calipari, finiva male. L’Isis, con l’altra denominazione di unità del “Risveglio”, l’inventò il criminale di guerra Petraeus, che ha poi messo a frutto la sua  esperienza di “False Flag” da direttore della Cia, ditta di eccellenza per tali operazioni. Vennero Guantanamo, riempita di innocenti rastrellati a caso, l’orrore di Abu Ghraib, punta di un iceberg che racchiudeva le nefandezze senza limiti di uno Stato criminale come non lo si era visto dall’inizio della vicenda umana, capace di far strage dei propri cittadini, di rapire, far sparire, torturare, assassinare extra giudizialmente. Una cricca transnazionale, più che uno Stato, pratico di golpe e sanguinose rivoluzioni colorate per regime change a suo arbitrio, genocida mediante l’arma della fame, dell’avvelenamento di acqua, terra, aria, cibo, mendace in ogni sua espressione, profondamente e peggiorativamente nazifascista sotto il velo narcotico di una democrazia grottescamente finta.
Con l’Iraq, nel 1991, l’inferno, evocato da una minuscola conventicola di subumani insediatisi ai vertici del mondo con la religione dell’inganno e della soperchieria, ha iniziato a uscire dall’oscurità in cui lo aveva relegato la millenaria fatica umana per la vittoria della ragione, fin da Hammurabi e Nabuccodonosor. Un inferno che minaccia di rovesciarsi su tutta la Terra. Da Occidente avanza implacabile un’ombra nera che oscura il cielo e divora genti, nazioni, terre. Dopo aver sprofondato nel sangue e nel buio la Jugoslaia, l’ombra si è andata estendendo, spargendo narcosi e morte. A morire sono quelli laggiù, narcolettici siamo noi.
Ma a Ramadi, capitale della più grande provincia irachena, i miracolosamente risorti iracheni uniti, esercito e forze popolari, sunniti e sciti, hanno vinto sull’Isis e sugli Usa che li sostengono. E la Tikrit di Saddam è libera. Si va verso le provincie di Sulemanieh e Dyala, verso Kirkuk e Mosul. E gli amici russi prendono il nemico alle spalle in Siria. Forse lo smembramento deciso per il corpo dell’Iraq, sulla scia di quello che la Cristianità praticava lasciando squartare dai cavalli i reprobi, non avverrà. Forse l’Iraq vivrà.
Ma se qualcuno mi viene ancora a dire né con la Nato, né con Assad, o Saddam, o Milosevic, o Gheddafi, o Putin, metto mano alla pistola.
Pubblicato da alle ore 18:08

Forze oscure al lavoro nell’attentato avvenuto nel Centro Storico di Istambul

Gen 13, 2016
 
Explosion at Sultanahmet Istanbul
Esplosione sotto l’obelisco di Istambul Sultanahmet square
 
di  Ray Caymen
 
Dopo il massacro avvenuto con il doppio attentato suicida di Ankara in Ottobre, mai rivendicato dall’ISIS, che aveva lasciato sul terreno più di 100  vittime (in maggioranza curdi simpatizzanti del PKK), la Turchia viene attualmente scossa da un’altra bomba che attacca Istambul e produce 10 morti e 15 feriti.  La bomba è stata fatta esplodere nelle vicinanze dell’obelisco nella piazza del Sultanahmet e l’eccessivo lavoro simbolico già da solo puzza di manipolazione.
 
Le autorità sono state molto rapide nel gettare la responsabilità all’ISIS e ad un attaccante suicida proveniente dalla Siria (di nazionalità saudita), cosa di una certa convenienza per Erdogan. Erdogan non è stato lo stesso nella sua conferenza stampa teletrasmessa in tutto il mondo ma abbiamo ascoltato il suo intervento standard, nel senso di affermare che “il terrorismo è il terrorismo e condanniamo l’ISIS e così di seguito…..”
 
Lui può mostrarsi al mondo come quello che sta lottando contro l’ISIS e che questa organizzazione terroristica si dirige contro la Turchia per vendetta e può presentare la Siria in una cattiva luce. Recepit Erdogan si delizia nell’attenzione ottenuta e svolge il ruolo della vittima in cui potrebbe ottenere l’Oscar della perfezione nella recita. Lui vuole apparire il migliore di tutti nel proporsi per giocare il ruolo della vittima davanti al mondo intero con le sue abituali “lacrime di coccodrillo”, attraverso le quali recita la parte in cui eccelle. Tuttavia la sua personale credibilità, nell’arena internazionale e nella regione, risulta la più bassa di tutti i tempi.
 
In precedenza, nelle registrazioni delle voci di una riunione segreta del suo capo dell’intelligence, Hakan Fidan e di Davutoglu, che  era Ministro degli Esteri in quell’epoca, assieme con il personale militare, Fidan parla della possibiltà “di far lancare missili contro il suo paese ” dal Nord della Siria per dare l’opportunità (pretesto) alla Turchia di entrare con le forze militari in Siria. Chi potrebbe credere a qualsiasi cosa dicano queste persone?
 
Facendo riferimento ad azioni di terrore fatte nel passato, possiamo dire che colui che risulti  l’autore  si trova sotto il black out dei media. Quando si tratta di azioni dell’ISIS generalmente vi è una parvenza di direttiva nella versione da dare ai media, mentre, con altri gruppi estremisti, non viene attuato alcun impedimento nelle informazioni trasmesse dai media. Sembra che vi sia un blocco informativo su questo avvenimento in modo da  non  far trapelare la verità all’improvviso in qualsiasi momento.
 
In Turchia il primo numero uscito della rivista Pro ISIS, “Conquistare Istambul”, ha dichiarato apertamente che, in  tutte le altre città turche, eccetto Istambul, è da considerare una giusta lotta (dell’ISIS) in tutti gli ambiti delle loro attività.
“Dio ha elargito allo Stato Islamico chilometri di territorio per combattere con le armi, e chiediamo a lui di aprire le porte di Costantinopoli (Istanbul) senza guerra e senza sangue versato”, si afferma nella prefazione di una rivista Pro-ISIS nel suo primo numero concentrandosi sulla conquista di Istanbul.
 
Magazine-pro-ISIS
Turquish magazine pro ISIS
 
L’idea delirante è quella che i “credenti ” debbano semplicemente impadronirsi di Istambul e farla divenire capitale del mondo islamico. E’ importante tenere in conto che Roma ed il Vaticano, che è il principale obiettivo dell’ISIS in Europa, non si salverà e le donne ed i bambini saranno possedute e fatte schiave”.
 
Inoltre, questo nuovo attentato terorrista, senza dubbio, rappresenterà un altro colpo al turismo turco dopo la debacle dell’abbattimento dell’aereo russo Su-24, che ha fatto cancellare la Turchia dalle destinazioni delle agenzie turistiche russe. Le informazioni preliminari dicono che ci sono diverse vittime tedesche nell’attentato e questo di sicuro andrà a pregiudicare il flusso dei turisti dalla Germania che è il principale fornitore di turismo per la Turchia.
 
 
Traduzione: Manuel De Silva

Uno “strano” attentato ad Istambul. Sarà questo il pretesto che cercava Erdogan per procedere all’invasione della Siria ?

Gen 12, 2016
Instambul-terrorist-attack
Istabul Terrorist attack
 
Attentato a Istanbul: kamikaze dell’Isis uccide 10 turisti
Nabil Fadli, 28 anni, si è fatto esplodere nel quartiere turistico di Sultanahmet: 8 tedeschi tra i morti
IL PUNTO – Un attentato in pieno centro ha sconvolto Istanbul. È opera di un kamikaze saudita, Nabil Fadli, un giovane di 28 anni identificato dalle autorità turche che hanno anche informato la cancelliera Merkel del fatto che la maggior parte delle vittime (almeno otto) è di nazionalità tedesca.
 
L’esplosione che questa mattina intorno alle 9,00 ora italiana ha scosso la zona di Sultanahmet, che ospita le maggiori attrazioni turistiche della città come la nota Moschea Blu e il Topkapi Palace, è dunque un attentato kamikaze. Almeno 10 i morti (di certo otto tedeschi e un peruviano) e 15 i feriti, tra cui 9 tedeschi e alcuni norvegesi come riferito dalla Cnn Turk. Ma il bilancio potrebbe essere più pesante.
18:35 – Sono otto i cittadini tedeschi uccisi nell’attentato odierno a Istanbul. Lo ha affermato il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier a Berlino.
 
16:05 – Contrariamente a quanto dichiarato in precedenza, le autorità turche hanno indicato in Nabil Fadli, 28 anni, di origini saudite e militante dell’Isis, il kamikaze che si è fatto esplodere a Istanbul. Era rientrato da poco dalla Siria.
 
Fonte: Panorama
 
Uno “strano” attentato. Sarà questo il pretesto che cercava Erdogan per procedere all’invasione della Siria ?
 
Dalle prime notizie si scorge subito che c’è qualche cosa di anomalo: Erdogan rilascia immediatamente una dichiarazione in cui, con sicurezza indica che si tratta di un attentato di matrice ISIS e che l’autore è un siriano. Si scopre poco dopo che si tratta di un saudita, Nabil Fadli, 28 anni, che tornava dalla Siria.
 
Ci si domanda perchè l’ISIS dovrebbe colpire proprio il paese che fino ad ora ha fatto da patrocinatore all’ISIS ed agli altri gruppi terroristi che operano in Siria. La Turchia di Erdogan è il paese che ha fornito armi ed assistenza logistica ai terroristi per infiltrarsi in Siria e che ha fatto da retroterra consentendo il transito di centinaia o migliaia di camion cisterna che portavano il petrolio, sottratto ai pozzi siriani, per rivenderlo attraverso intermediari turchi. Una preziosa forma di autofinanziamento interrotta dall’intervento russo.
 
Non sarebbe interesse dell’ISIS interrompere la collaborazione con la Turchia.
Bisogna considerare che Il presidente Erdogan, un personaggio megalomane, che da tempo sta tramando per diventare il neo sultano di un nuovo Impero Ottomano e che ha come obiettivo l’espansione territoriale a spese della Siria e dell’Iraq, da molto tempo sta cercando di avere il pretesto per entrare con le sue forze in Siria  e rivendicare il suo “diritto” sulla zona settentrionale del paese dove risiede una minoranza di turcomanni ed allo stesso tempo regolare i conti con i gruppi curdi che in questo momento stanno combattendo in appoggio all’Esercito siriano.
 
Per ottenere questo obiettivo Erdogan aveva bisogno di un pretesto, l’attentato di oggi potrebbe essere esattamento quello che Erdogan cercava e questo apre una serie di sospetti su chi siano i veri mandanti.
Occorre ricordare che il presidente Erdogan ha già al suo attivo una serie di provocazioni quali l’abbattimento dell’Aereo russo (probabilmente con l’appoggio degli USA) per creare uno scontro con la Russia e l’eventuale coinvolgimento della NATO. Non più tardi di poche settimane fa la Turchia ha Inviato reparti corazzati del suo esercito in Iraq con la scusa di dover addestrare delle milizie anti ISIS. Il governo iracheno ha richiesto il ritiro immediato di queste forze. Da diverso tempo lo stessso Erdogan ha riacceso il conflitto con i curdi e procede nei bombardamenti e negli attacchi nelle zone controllate dai curdi.
 
Lo avevamo scritto da tempo: Erdogan è il “cane pazzo” della NATO ed aspetta solo l’occasione per mordere. Neanche la Merkel, sua alleata e confidente, riesce più a tenerlo mansueto. Vedi: Erdogan il “cane pazzo” della NATO cerca lo scontro con la Russia
Nei prossimi giorni si vedranno gli sviluppi: se Erdogan deciderà di muovere le sue truppe in Siria con il pretesto di “punire” l’ISIS per l’attentato ad Istambul, sarà come se avrà messo la sua firma su questo evento luttuoso che è costato la vita a qualche decina di innocenti turisti e passanti.
 
Dall’altra parte la Russia di Putin ha un conto aperto con il turco e non rimarrà inerte a guardare. Lo aspettano al varco.
 
L.Lago

Il Regno Unito conferma la sua partecipazione alla guerra contro lo Yemen

Gen 13, 2016
 
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Ospedale nello Yemen bombardato dall’Arabia Saudita
 
Il cancelliere britannico, Philip Hammond, ha confermato in una dichiarazione ufficiale rilasciata il Martedì, che il suo paese sta appoggiando il regime saudita nella sua offensiva contro lo Yemen.
Il Regno Unito dispone di una presenza militare in Arabia Saudita nella sua guerra scatenata contro lo Yemen e “sta lavorando con i sauditi  per assicurare le procedure corrette per evitare violazioni al diritto internazionale umanitario”, ha assicurato il cancelliere britannico Philip Hammond.
 
Inolte Hammond ha ammesso che le truppe britanniche stanno aiutando i sauditi nell’identificazione degli obiettivi militari per la campagna di bombardamenti sauditi nello Yemen e non hanno riscontrato violazioni “deliberate” del diritto umanitario.
 
Gruppi ed organizzazioni per la tutela dei diritti umani hanno fortemente criticato l’alleanza del Regno Unito con l’Arabia Saudita dopo le informazioni secondo cui l’aviazione saudita ha effettuato attacchi aerei contro centri Medici ed Ospedalieri (da ultimo quello di “Medici Senza Frontiere -MSF”) nelle province di Taiz e di Sadaa, ripettivamente nel sud est e nel nordest dello Yemen.
 
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Ministro britannico Hamond con sauditi
 
La scorsa Domenica, MSF ha informato che tre persone sono morte ed altre 10 sono rimaste ferite per causa di un attacco delle forze aeree saudite contro un ospedale la cui gestione appartiene all’organizzazione MSF a Sadaa.Vedi:Yemen: Bombardato ospedale di MSF a Sadaa
 
Da parte loro alcuni deputati britannici hanno chiesto al Governo Britannico di rivedere gli accordi di vendita di armi all’Arabia Saudita per le violazioni dei dirittti umani commesse contro i civili yemeniti.
 
Tuttavia Hammond ha affermato che, secondo lui, “non esiste alcuna evidenza che dimostri la violazione deliberata del diritto internazionale umanitario da parte dell’Arabia Saudita e che il Regno Unito dispone di “un robusto procedimento di concessione delle licenze per l’esportazione di armi”.
 
La scorsa settimana il giornale britannico “The Independent” ha rivelato che Londra ha autorizzato la vendita per oltre 8 milioni di dollari di armamenti all’Arabia Saudita da quando il primo ministro David Cameron aveva assunto l’incarico nel maggio del 2010. Vedi: Euronews
Nello scorso mese di Dicembre , Amnesty International (AL) aveva affermato che il Governo del Regno Unito non ottempera alle leggi internazionali vendendo armi all’Arabia Saudita per bombardare la popolazione civile nello Yemen.
 
Dal 26 di Marzo, l’Arabia Saudita ha intrapreso una campagna militare contro lo Yemen senza l’avallo delle Nazioni Unite, ma con la luce verde degli Stati Uniti, per un tentativo di riportare al potere il fuggitivo ex presidente Abdu Rabu Mansur Hadi, un fedele alleato di Rijad. La campagna militare ha prodotto fino ad oggi un numero impressionante di vittime (9.000/10.000 secondo i calcoli dell’ONU).
 
Fonte: RT.com
 
Nota: Sembra quasi comico che il cancelliere britannico affermi che la Gran Bretagna stia aiutando l’Arabia “nell’individuare e selezionare gli obiettivi militari nello Yemen”, con questo pare che Londra non riesca a far selezionare le scuole e gli ospedali dagli obiettivi prettamente militari e tale affermazione significa che il Regno Unito è strettamente implicato nei crimini di guerra commessi dal regime saudita.
 
Si è visto che l’aviazione saudita (con la collaborazione britannica) ha colpito, nei sui attacchi sullo Yemen, 4 ospedali nelle ultime settimane e diverse scuole, oltre ad abitazioni residenziali, causando un elevato numero di vittime fra i civili.Vedi: Unicef: La guerra degli ospedali rischia di fare più vittime delle bombe
 
Il Governo Britannico si dimostra complice diretto nei crimini di guerra compiuti dall’Arabia Saudita ed è anche inplicato nella repressione dei dissidenti attuata dal governo saudita e nelle frequenti decapitazioni ordinate dalla Monarchia dei Saud.
 
Risulta infatti che il governo britannico abbia firmato un accordo segreto per “modernizzare” il Ministero dell’Interno saudita, esattamente l’organismo implicato nella repressione dei dissidenti.
Il governo Saudita conta con la compiacenza del governo britannico tanto nei crimini commessi all’interno che su quelli prodotti all’esterno del paese.
D’altra parte il regime wahabita dei sauditi fu creato storicamente dai britannici ed è sempre stato una creatura dei britannici (e degli USA) nella sua continutà storica, attraverso la dinastia dei Saud che sono di fatto le “marionette” al servizio della GB (e degli USA), interessati a mantenere il loro dominio sulla regione e soprattutto a mantenere la lucrosa attività di esportazione di armi e di businesss del petrolio.
 
La Gran Bretagna è quindi la principale potenza europea interessata nel mantenere questo regime, oppressivo ed autoritario, che reprime i suoi sudditi ma che risulta utile per gli interessi britannici ed occidentali. Questo denota la totale ipocrisia del governo britannico che accusa gli altri paesi (ad es. l’Iran, la Russia o la Corea del Nord) di violazioni dei diritti umani mentre il Foreign Office di Londra appoggia di fatto uno dei peggiori “stati canaglia” esistenti al mondo.
 
Le organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti suggeriscono di trascinare Philip Hammond e David Cameron davanti ad un Tribunale internazionale per far giudicare questi personaggi per  complicità nei crimini di guerra. Riteniamo che sarà difficile che questo possa avvenire fino a quando tutto  l’apparato dei media occidentali, complici e prostituiti ai poteri dominanti, continuerà a nascondere i crimini che vengono commessi in Arabia Saudita e nello Yemen.
 
Traduzione e nota: Luciano Lago

GEOPOLITIQUE/ L’AVENIR DE LA TURQUIE PASSE PAR LE RETOUR DES KEMALISTES AU POUVOIR ET L’ALLIANCE EURASIATIQUE AVEC MOSCOU

FB pour EURASIANEWS / 2016 01 13 /

Avec Sputnik – PCN-SPO /

https://www.facebook.com/eurasianews.info/

http://www.scoop.it/t/eurasia-news

Fabrice BEAUR (SG du PCN) :

Négocier une autonomie pour conserver l’unité de l’Etat turc serait la solution.

Mais Erdogan semble avoir perdu tout sens de la mesure.

Depuis son engagement contre l’unité de la Syrie, il ne tient discours et actes que sur la violence.

* LIRE les infos de Sputnik (article qui manque de perspectives) :

http://fr.sputniknews.com/international/20160112/1020889739/erdogan-kurdes-scientifiques.html

Il est temps que les kémalistes reprennent les rênes du pouvoir et se placent à la hauteur de l’enjeu historique pour la Turquie en se débarrassant de l’AKP islamiste et en tendant une main ferme mais fraternelle aux populations kurdes du pays avec une solution pouvant satisfaire les principales forces vives du pays.

Cela peut réussir si et seulement si l’environnement soit également stabilisé. Paix en Syrie et en Irak.

 EURASIA - FB alter geopol turquie (2016 01 13) FR 1

Cela fait, la mise en place d’un nouveau partenariat avec l’Union économique eurasienne, et donc la Russie, serait non seulement possible mais souhaitable ; puisque l’UE germano-allemande refuse au fond de travailler sincèrement avec Ankara.

De cette nouvelle intégration, la Turquie pourrait alors envisager d’approfondir son nouveau positionnement et soit devenir un pont « militaire » ou encore un « amortisseur » entre l’OTAN et l’OTCS, soit assumer son choix politique et rejoindre intégralement cette dernière. Ce serait alors un vrai bouleversement géopolitique.

 Mais s’il faut reconnaître que nous en sommes encore très loin, c’est une voie à ne pas ignorer pour les forces vives du kémalisme si elles veulent revenir au pouvoir. Il faut proposer une alternative à la politique du régime d’Erdogan. Et elle se doit d’être concrète, mobilisatrice et partagée par la majorité des Turcs.

C’est par un retour aux fondamentaux du fondateur de la République turque en instaurant un nouveau contrat politique, économique et social que la Paix, la prospérité partagée et la mobilisation populaire permettront de redonner à la Turquie la place qui est la sienne. Et cela dans le respect de tous ses voisins.

EURASIA - FB alter geopol turquie (2016 01 13) FR 2

Tel est le futur que je souhaite pour la Turquie ! Dans l’intérêt de tous et de notre grande patrie continentale eurasiatique, bien commun de tous nos peuples !

FABRICE BEAUR / EURASIANEWS

https://www.facebook.com/beaur.fabrice/

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CARTES : les peuples turcophones dans l’Espace eurasiatique.

Luc MICHEL : « L’union des peuples turcophones s’appelle le « pantouranisme », le Touran étant leur origine mythique. A lier au mythe turc de la civilisation originelle turcophone ou « Ergenekon ». Le Pantouranisme a inspiré le Kemalisme dans les années 1920-30. La soviétisation de l’Asie centrale ne lui a permis de dépasser le stade de l’idéologie. Des influences pantouranistes s’exercent aujourd’hui au sein des courants eurasistes turcs et hongrois. Ils sont la clé d’une alternative géopolitique turque vers la Russie et la Chine ».

IRAN VS SAOUD (2) : LE CHOC TEHERAN-RIYAD (LUC MICHEL SUR AFRIQUE MEDIA, LE DEBAT PANAFRICAIN, 10 JANV. 2016)

PCN-TV & AFRIQUE MEDIA/

Avec EODE-TV/ 2016 01 10/

GEOPOLITIQUE/ IRAN VS SAOUD (2) :

LE CHOC TEHERAN-RIYAD DANS LA CONFRONTATION DES BLOCS GEOPOLITIQUES.

LES SUITES EN AFRIQUE

* Video sur https://vimeo.com/151359475

PCN-TV - IRAN VS SAOUD 2 le choc riyad-teheran (2016 01  10) FR (1)

Le géopoliticien Luc MICHEL répond aux questions suivantes :

De très nombreux téléspectateurs d’AFRIQUE MEDIA s’interrogent sur les réseaux sociaux sur ce qui se passe entre l’Arabie saoudite et l’Iran et les répercussions en Afrique, notamment au Soudan. Est-ce une conséquence du conflit au Yemen, cette seconde guerre au Proche-Orient dont vous nous parliez il y a deux semaines sur ce même plateau ?

C’est dans cette division du monde en blocs, comme au temps de la Guerre froide, que s’inscrit l’opposition Iran-Saouds ?

C’est là qu’intervient la guerre du Yemen engagée par l’Arabie saoudite ?

Tout ceci a maintenant visiblement des répercussions en Afrique ?

Et le Soudan, qui est le principal centre d’intérêt des africains dans cette affaire ?

PCN-TV - IRAN VS SAOUD 2 le choc riyad-teheran (2016 01  10) FR (2)

* DIX CARTES GEOPOLITIQUES POUR COMPRENDRE …

A consulter sur :

https://www.facebook.com/Pcn.luc.Michel/posts/743487369119017

 PCN-TV / PCN-SPO

https://vimeo.com/pcntv