L’insostenibile disgusto del moralismo economico

E’ risaputo che in Africa il leone e la gazzella sono sempre indaffarati in una incessante attività podistica. Questo continuo correre non è certo motivato dall’intenzione di perdere peso anzi, per il leone il fine è quello di evitare di perderne troppo, per la gazzella, invece quello di evitare di perderlo del tutto.
 
Sì, è dura, la vita in questi paraggi: la notte scorsa, ad esempio, siamo stati svegliati dai belati strazianti del gregge del vicino, nel cui recinto era entrato un leopardo, il quale, essendo assai più efficiente e produttivo degli agnelli (la virile bellezza del liberismo perfetto), se n’è pappato uno e ne ha lasciati altri tre agonizzanti sul terreno. E dire che il proprietario di questi ultimi aveva collocato diverse barriere architettoniche attorno al recinto (reti e filo spinato), per cercare di limitare il darwiniano laissez faire della natura. Il leopardo, ha avuto comunque la meglio, come peraltro esige la volontà del dio di Calvino che ha decretato che la grazia bacia solo i più forti (in effetti è il motivo per il quale sono più forti. Darwin e Calvino erano alquanto tautologici).
 
Il giorno successivo, assieme alla nostra consorte, incuranti del fatto che in quei luoghi vigesse la legge della giungla (pur essendo una savana), decidemmo di andare a fare una passeggiata fuori dal luogo recintato nel quale eravamo ospitati. Sul cancello l’askàri (come si pronuncia nelle zone anglofone) ci ammonì premurosamente di tornare non più tardi delle sei del pomeriggio, perché “quando si avvicina il tramonto, iniziano ad uscire gli animali pericolosi”. In effetti, oltre alla sicura presenza del leopardo della notte scorsa (il quale, peraltro, aveva già fatto provviste), si vedevano i segni di parecchi altri liberisti della savana.
 
Dopo qualche ora di cammino sotto il sole cocente, giunse la fatidica “ora che volge il disio ai naviganti e ‘ntenerisce il core” e noi, col cuore un po’ intenerito dalla trepidazione, ci affrettammo sulla via del ritorno, con le orecchie tese in ascolto di eventuali rumori sospetti, non si sa mai che qualche “fiera a la gaetta pelle” decidesse di farsi un’escursione anticipata.
 
A un certo punto incrociammo una piccola mandria con due bambine masai che la portavano al pascolo. Le due bimbe erano proprio piccine. Chiedemmo loro l’età: l’una aveva sette anni e l’altra cinque. Visto che erano appena partite dal villaggio, sicuramente sarebbero tornate dopo il tramonto. Noi adulti avevamo già un po’ di paura, visto che il sole stava calando e loro, ad un’età che, dalle nostre parti non vanno manco in bagno da soli, non avevano alcun timore di affrontare l’oscurità della savana. Già, la vita è dura in questi paraggi.
 
Tornando verso casa, dopo esseri congedati dalle due pastorelle, mi giunse alla mente, come una specie folgorazione (anche se eravamo piuttosto distanti dalla via di Damasco) una frase che si attagliava alla condizione delle due pargole appena incontrate: “Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali […] dev’ essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna”.
 
Il lettore si domanderà chi sia lo sfortunato essere che ha pronunciato tali parole, pensando a quale sorte di “durezza del vivere” egli abbia dovuto affrontare, per trasudare cotanto livore nei confronti di un intero continente, abitato evidentemente da persone assai più privilegiate di lui.
 
Be’, l’autore di questa frase fu -nientemeno che- il compianto ex ministro (e ex-quasi-tutto) Tommaso Padoa Schioppa. Sì, proprio lui, quello dei “bamboccioni”. Tra l’altro, costui era il rampollo dell’allora amministratore delegato delle Assicurazioni Generali: un vero e proprio pedigree da sciuscià (da shoe-shiner, ovvero lustrascarpe). Insomma uno che la “durezza del vivere” l’ha sicuramente provata sin da piccolo perché, modestamente, “bamboccione” lo nacque e, come tale, ha impropriamente proiettato il proprio vissuto definendo con quel nomignolo un’intera generazione.
 
Curioso, no? Pensate un po’ che razza di figure si fanno, applicando le categorie morali – o meglio, moralistiche- all’economia. Noi, che siamo compassionevoli, proviamo una certa pena pensando al compianto, che certo non è stato fortunato come le pastorelle di cui sopra che, certamente, tutte le sere godono di quel dolce sonno dato dalla fatica di “una giornata bene spesa” che dà lieto dormire”, di cui parlava Leonardo. Già, egli non ha mai fatto qualcosa di così utile come il portare le vacche al pascolo, ma ha speso la vita nei meandri di banche e istituzioni finanziarie, allo scopo di portare la “durezza del vivere” al prossimo (peraltro a lui remoto).
 
Ben comprendiamo il suo dramma e giustifichiamo finanche il livore di questo Calvino dei nostri tempi, che desiderava che le esistenze altrui fossero sacrificate all’altare del mercato, summum bonum dei moralisti per procura. Tanto, assiso sul trono di privilegi verso i quali il destino l’aveva ingiustamente indirizzato, era ben conscio che quella durezza che auspicava per gli altri non l’avrebbe mai sfiorato.
 
di Pier Paolo Dal Monte
 
L’insostenibile disgusto del moralismo economicoultima modifica: 2016-01-15T22:40:06+01:00da davi-luciano
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