Alessandria, Sindaco prosegue sulle cave c’è la Legge Obiettivo

Rita Rossa, Sindaco di Alessandria e Presidente della Provincia, pur sapendo che sotto Alessandria c’è una riserva d’acqua che serve a garantire la sopravvivenza per secoli in un’area ben più vasta della sua provincia, ha deciso di dare il via libera

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di Tino Balduzzi

Rita Rossa, Sindaco di Alessandria e Presidente della Provincia, pur sapendo che sotto Alessandria c’è una riserva d’acqua che serve a garantire la sopravvivenza per secoli in un’area ben più vasta della sua provincia, ha deciso di dare il via libera a coloro che, per guadagnare di più, la possono rendere inutilizzabile per sempre. Ed ora è compito delle persone di buon senso, indipendentemente dalle idee politiche, di fermare questa porcata-record della politica con i necessari incontri, esposti e manifestazioni.

Anche a lei era stato spiegato che la Regione Piemonte, alla ricerca di fonti di approvvigionamento idrico per il futuro, aveva chiesto a Consiglio Nazionale delle Ricerche e Università di Torino una ricerca sull’ubicazione di eventuali falde profonde. Anche a lei era stata sottoposta la pubblicazione “Geologia e idrostratigrafia profonda della Pianura Padana occidentale”, frutto di tale ricerca, dove una dozzina di ricercatori, tra i massimi esperti del settore, in un centinaio di pagine e molte cartine, hanno identificato 3 grandi “serbatoi”, nell’alessandrino, nel cuneese e nel vercellese, che arrivano fino a circa 1500 metri sotto il livello del mare. In pratica 3 montagne d’acqua, mentre nel resto della regione l’acqua nel sottosuolo è scarsa, come risulta qui a pagina 117 e successive. Anche a lei è stato fatto notare che tale pubblicazione è uscita nel 2009 ed stata messa sul sito della regione alcuni anni dopo, e che di conseguenza tutte le decisioni prese in precedenza riguardanti discariche, insediamenti industriali e terre da scavo dei tunnel sono state prese sulla base di conoscenze che si limitavano a circa 200 metri di profondità. Le è stato detto che l’uscita di tale pubblicazione, con la scoperta di riserve d’acqua molto più profonde e concentrate in determinati luoghi, deve far riprendere in esame le decisioni prese in precedenza perché porta elementi di novità che, se fossero stati conosciuti prima, avrebbero portato a decisioni diverse.

Questo vale, ad esempio, per la discarica Riccoboni a Sezzadio che verrebbe a trovarsi su falde aventi uno spessore utile di almeno 500 metri, per di più facendo parte di un “cono” di falde largo una cinquantina di chilometri con uno spessore utile, verso il centro, di più di 900 metri.Si tratta quindi di una unica grande riserva d’acqua che va difesa come un corpo unico. In pratica inquinando a Sezzadio, a Spinetta Marengo, a Solero o a Novi Ligure si ottiene lo stesso risultato. Si distrugge la riserva idrica di chi abita lì, ma anche di quelli che abitano lontano da lì, ad esempio nell’acquese e nel tortonese e anche più lontano. Ma tale grande riserva idrica è messa a rischio da certi agricoltori, ancora più da certi insediamenti industriali, ma sopratutto dalle terre e rocce da scavo del Terzo Valico per la possibilità che, trattandosi di volumi enormi, con quelle terre vengano smaltiti illegalmente rifiuti altamente inquinati, come è stato fatto in Campania distruggendo un territorio. Questo anche perché per i materiali in ingresso nelle cave del Terzo Valico sono previsti solo controlli a campione, ed è evidente che non si può neutralizzare un’attività criminale con controlli a campione. Perché è chiaro che chi, a suon di mazzette, è in grado di “modificare” il materiale trasportato sui camion è anche in grado di “modificare” i controlli a campione, magari di notte e con il maltempo.

Quindi Rita Rossa, pur sapendolo, ha creato condizioni che fanno correre il rischio più grande all’acqua che lei dovrebbe difendere, dando il via libera a chi può inquinare la falda di mettere del materiale proprio al centro della stessa. Una cosa in grado di far definire cretini gli alessandrini tutti, e farli prendere per i fondelli da mezzo mondo, per generazioni. E per di più tocca a lei chiudere le celebrazioni della mattinata del 25 Aprile. A ricordare un atto di grande coraggio sarà una persona che non ha avuto il briciolo di coraggio necessario a mettersi di traverso alla Legge Obiettivo, per correggere un errore che non sarebbe stato commesso se ciò che ora lei conosce fosse stato, allora, a conoscenza della pubblica opinione.

Sarà difficile non voltarsi dall’altra parte quando lei comincerà a parlare.

T.B. 23.4.15

Il Muos rimane sotto sequestro

Un’altra vittoria in Italia e l’approdo al Parlamento Europeo dei No Muos

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di Daniela Giuffrida

Confermato stamani dal Tribunale del Riesame di Catania il sequestro voluto dalla Procura di Caltagirone ed eseguito dal GIP della stessa cittadina calatina. Lo stesso Procuratore Verzera ha provveduto a far informare il prof Giuseppe Maida dell’avvenuto pronunciamento del Tribunale di Catania. Ad ogni grado di processo si consolida sempre più, per il popolo dei No Muos, la speranza che anche il CGA si possa pronunciare in maniera positiva, il prossimo 8 Luglio, confermando nel merito la sentenza del TAR Sicilia secondo la quale il Muos è un’opera abusiva e come tale deve essere trattato.

Ai legali dei No Muos, sembra abbastanza evidente che l’Avvocatura dello Stato ricorrerà in Cassazione, ma ad ogni grado di giudizio che si sussegue, sembra farsi sempre più vicina la possibilità di una “condanna” delle tre parabole del Muos e di una loro DISMISSIONE.

Un ulteriore passo, quello definitivo per quanto riguarda la Giustizia Amministrativa, sarà la Sentenza di Merito del CGA, che verrà emanata il prossimo 8 luglio.

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Questo a pochi giorni dal rientro della delegazione dei No Muos che, lo scorso mercoledì 22 è stata ospitata presso il Parlamento Europeo a Bruxelles dagli europarlamentari del M5S.

Il Muos, dunque, è approdato, sui tavoli del Parlamento Europeo, ma com’è andata?

Una richiesta della portavoce del Comitato Mamme No Muos Sicilia, Concetta Gualato, al presidente della 4a Commissione Territorio-Ambiente dell’ARS di Palermo, il deputato del M5S Giampiero Trizzino, ha messo in moto un meccanismo inarrestabile le cui conseguenze, siamo certi, si faranno sentire presto.

Giampiero Trizzino, da sempre sensibilissimo alle tematiche ambientali che investono il territorio siciliano ha accolto immediatamente la richiesta della “mamma No Muos” e, contattato l’europarlamentare dello stesso M5S, Ignazio Corrao, l’operazione Bruxelles ha avuto inizio.

Ignazio Corrao ha indetto, dunque, una conferenza informativa presso il Parlamento Europeo che ha visto protagonisti attivisti, scienziati e tecnici che ormai da anni si battono contro l’installazione del Muos a Niscemi. Ad accompagnarli alcuni rappresentati del Team dei legali “No Muos” che stanno curando gli interessi degli attivisti raggiunti da “misure restrittive”, sanzioni pecuniarie e denunce da parte delle autorità preposte all’ordine pubblico all’interno e nelle zone d’accesso alla base NRTF di Niscemi. Questi stanno curando anche gli interessi dei comitati, dei movimenti e delle associazioni e, attraverso loro, anche gli interessi dell’intera popolazione siciliana, in quell’enorme “guazzabuglio” di ricorsi, sentenze, denunce, esposti, sequestri e atti di mera furbizia legale, che vede, di fatto, lo Stato Italiano contrapposto agli Enti Locali e agli interessi della popolazione delle tre province, di Caltanissetta, Ragusa e Catania.

Noi eravamo al seguito della delegazione così come anche una rappresentanza dell’Amministrazione del Comune di Niscemi.

Nella Room A1E2 dell’ Altiero Spinelli building, a Bruxelles, alla presenza di diversi esponenti di partiti politici europei, i lavori sono iniziati intorno alle 15.00 dello scorso mercoledì, dopo una lunga visita alle sale del Parlamento, come da protocollo e la pausa pranzo.

Aperti i lavori, Ignazio Corrao, ha tenuto a precisare come quella, altro non fosse che la “prima tappa” di un percorso ancora lungo da affrontare, nonostante i successi arrivati dalla sentenza 461/2015 del 13 febbraio scorso. Un percorso naturale, lo ha definito Corrao, ai nostri microfoni a margine della conferenza, per portare il problema Muos in campo internazionale. “Io ho già presentato, nell’ambito della mia attività di europarlamentare, degli atti che riguardano la sughereta e l’istallazione militare di Niscemi – aveva detto – ma quello che cerchiamo di fare oggi è dare rilevanza internazionale a questo problema. Quando ne ho parlato con i colleghi nessuno ne sapeva nulla”.

Si è detto soddisfatto, Corrao, di quanto deciso dai giudici del TAR Sicilia e dal CGA di Palermo ma ha fatto notare come si sarebbe dovuto aspettare il parere del Tribunale del Riesame di Catania che proprio questa mattina si è pronunciato, “bocciando” la richiesta di dissequestro avanzata dal Ministero della Difesa, attraverso l’Avvocatura dello Stato.

Ma torniamo allo scorso 22 aprile.

Ignazio Corrao, dicevamo, ha dato il via ai lavori, lasciando la parola al primo relatore, il prof. Massimo Zucchetti, ordinario del Politecnico di Torino, ingegnere nucleare esperto di fusione termonucleare controllata, smantellamento degli impianti nucleari, effetti delle radiazioni sull’uomo e sull’ambiente, scorie radioattive, uranio impoverito e quant’altro, il quale ha presentato la relazione di 45 pagine sugli “effetti biologici e sanitari da esposizione ai campi elettromagnetici”, sunto della più corposa e completa relazione di oltre 150 pagine, frutto della collaborazione di eminenti scienziati e tecnici di fama internazionale relazione nella quale si evidenzia la nocività delle onde elettromagnetiche per la salute umana, tema ripreso anche dall’ eurodeputato Piernicola Pedicini, esperto in fisica medica ed esperto qualificato di radioprotezione (III grado).

Sul palco gli avvocati, Giampiero Trizzino presidente della 4° Commissione ambiente e territorio dell’Assemblea Regionale Siciliana ed il Deputato Nazionale Gianluca Rizzo hanno manifestato la loro disponibilità ad appoggiare una battaglia di legalità con iniziative concrete e, soprattutto, dando continuità al percorso iniziato nella sede del Parlamento Europeo mentre Nicola Giudice e Sebastiano Papandrea, del Team dei legali No Muos hanno evidenziato “una crisi nella democrazia che ha consentito la realizzazione del MUOS in barba alle leggi ed ai principi costituzionali, ma soprattutto, nel dispregio del diritto dei cittadini alla tutela della propria salute, dell’ambiente e del territorio.” Mentre il legale di Legambiente Nicola Giudice ha ribadito l’importanza del rispetto della legislazione ambientale e la necessità di validi e urgenti sistemi di controllo e di sanzione delle infrazioni. L’avvocato Nello Papandrea del Coordinamento Regionale dei Comitati No MUOS, ha ricordato come il MUOS sia installazione ad uso esclusivo delle forze armate USA e che opere di questo tipo sono illegittime in quanto prive di autorizzazione parlamentare così come stabilito dagli artt. 80 e 87 della Costituzione e dell’art. VII, comma 11 del trattato NATO SOFA (trattato applicativo del patto NATO).

Ultimo fra i relatori, ma non ultimo, il giornalista Antonio Mazzeo ha ricordato come il MUOS non sia un apparato difensivo, ma uno strumento di morte finalizzato alla meccanizzazione delle guerre, ha parlato di droni, di macchine create per distruggere e uccidere permettendo agli statunitensi di non “scendere” in campo e di non avere pertanto caduti in queste guerre sempre più disumanizzate.

Fra gli interventi che sono seguiti, uno in particolare ha destato l’ammirazione e il plauso dei presenti, quello di Frank Schwalba, noto per essere stato un fondatore del partito dei “Verdi” di Germania, direttore dell’ufficio di Greenpeace a Bruxelles, agli inizi degli anni 80 fu protagonista di una forte azione di protesta contro l’intenzione americana di installare missili nucleari sul territorio tedesco, Frank Schwalba, durante un ricevimento, in segno di appoggio al movimento pacifista, spruzzò il suo sangue contro le medaglie del generale statunitense Paul S. Williams, comandante del V Corps dell’esercito americano. Questi, nel suo intervento si è prodigato a dare diverse indicazioni sulle azioni da poter sviluppare in seno alla Comunità Europea e sulle procedure per ottenere i risultati migliori.

Infine, a margine della conferenza, mentre l’assessore al territorio del Comune di Niscemi, Massimiliano Ficicchia, consegnava una relazione redatta dall’ Amministrazione comunale della stessa cittadina nissena al Presidente della Commissione per l’ambiente e la sanità pubblica, Giovanni La Via, una piccola delegazione dell’associazione Movimento No MUOS Sicilia, una delle anime dell’articolato movimento che si oppone al MUOS di Niscemi, ha incontrato alcuni esponenti di primo piano dei Verdi Europei, tra cui l’italiana Monica Frassoni e la segretaria generale, la greca Paraskevi Tsetsi.

“Gli incontri sono stati molto proficui – riferisce Gaetano Impoco, presidente del Movimento No MUOS Sicilia – Abbiamo stabilito una strategia per ottenere audizioni sia presso la Commissione Petizioni che in Commissione Ambiente. Siamo già al lavoro – ha aggiunto – grazie al valido sostegno di un’assistente della commissione, che è in stretto contatto con noi”.

L’avvocato Rossella Zizza, che ha curato il ricorso al TAR e poi al CGA per conto dell’associazione e che era presente agli incontri, aggiunge che “i tempi delle Istituzioni europee potrebbero non essere brevissimi, soprattutto per quanto concerne la Commissione Ambiente, ma speriamo di accelerare i tempi anche con il supporto di parlamentari di altri gruppi politici e di arrivare al più presto ad un’audizione congiunta.”

Missione positiva quella presso il Parlamento Europeo, quindi, ma il popolo dei No Muos resta in attesa adesso della prossima mossa del Ministero della Difesa italiano e del pronunciamento del CGA relativo al ricorso dello stesso Ministero della Difesa, avverso la sentenza 461/2015 del TAR Sicilia dello scorso 12 febbraio, sentenza che stabiliva l’assoluta illegalità della istallazione americana.

D.G. 27.3.15

Documenti:

Relazione Zucchetti:    https://drive.google.com/file/d/0B4zoX5HeBQpgSWQ3VnJlWnE1TDQ/view

De Benedetti al processo vs Tronchetti: “Non ricordo patteggiamento Olivetti”

È sempre la tessera nr uno del Pd, ed anche se lavora per i banchieri Rothschild, vuoi che non sia affiliato al partito che aiuta tanto i deboli ed i poveri purché non italiani (già questi ultimi non lo sono poveri ed indigenti)?

 di Luigi Franco | 27 aprile 2015

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 Lobby

Vuoto totale. L’editore dell’Espresso dice di non ricordare nulla di quando patteggiò per falso in bilancio 3 mesi di reclusione e 15 milioni di lire di multa, il tutto convertito in 51,7 milioni di multa. E dopo la testimonianza sfugge alle domande del Fatto.it sulle sue amnesie

“Non ne ho memoria”. Vuoto totale. Carlo De Benedetti dice di non ricordare nulla di quando patteggiò per falso in bilancio 3 mesi di reclusione e 15 milioni di lire di multa, il tutto convertito in 51,7 milioni di multa. Era il 1999 e l’ingegnere ottenne il patteggiamento dal tribunale di Ivrea per l’iscrizione nei bilanci dell’Olivetti di crediti e ricavi inesistenti per oltre 120 miliardi di lire. La sentenza è stata tirata fuori lunedì in aula a Milano dall’avvocato Tullio Padovani, mentre l’ex numero uno dell’Olivetti era sentito come parte civile nel processo per diffamazione a mezzo stampa da lui stesso promosso contro Marco Tronchetti Provera, presidente e amministratore delegato di Pirelli. “Patteggiare una pena equivale a una sentenza di condanna – ha detto il legale in udienza –. E De Benedetti dovette risarcire la società per ottenere l’ok di procura e tribunale”.

Al centro del procedimento milanese ci sono alcune affermazioni di Tronchetti Provera, che a ottobre 2013 si era espresso così su De Benedetti: “Potrei dire che è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli”. Per aggiungere in seguito: “E’ evidente che io e De Benedetti non parliamo la stessa lingua, come è normale possa succedere tra un cittadino italiano e uno svizzero”. Il tutto in reazione alle parole dell’ingegnere ed editore del gruppo Espresso che, riguardo alla gestione di Telecom, avevano definito Tronchetti Provera “un incapace”.

Tutti i punti toccati da Tronchetti Provera sono stati oggetto in aula di duri botta e risposta tra De Benedetti e l’avvocato Padovani. Nella sua deposizione l’ex presidente di Olivetti ha sostenuto che è “falso e insultante affermare che i bilanci Olivetti potessero non essere corretti”. Ma nel corso del controesame il legale ha tirato fuori la sentenza di patteggiamento per falso in bilancio, con cui veniva applicata la stessa pena di De Benedetti a Corrado Passera, anche lui in quel periodo ai vertici del gruppo di Ivrea. La sentenza venne poi revocata nel 2003 a seguito della depenalizzazione del falso in bilancio voluta da Silvio Berlusconi, cosa di cui diede conto pure il gruppo editoriale guidato da De Benedetti, con un articolo su Repubblica. Niente che però abbia aiutato l’ingegnere a tenere a mente quella vicenda. Come non lo hanno aiutato le parole dell’avvocato Padovani, secondo cui “quei bilanci erano falsi criminosamente”.

Nessun “non ricordo” invece sul coinvolgimento di De Benedetti in alcune vicende di Tangentopoli, per altro già ammesse in passato. Così in aula l’ingegnere ha ricordato come si presentò spontaneamente all’allora pm milanese Antonio Di Pietro per ammettere il pagamento di mazzette e prendersi “la responsabilità per quello che sapevo e quello che non sapevo”. De Benedetti fu coinvolto in due distinti procedimenti penali promossi dai pm di Roma per forniture sospette di macchine Olivetti alle Poste: ne uscì in un caso con l’assoluzione e nell’altro con la prescrizione. Dovette però passare in carcere alcune ora, prima di andare ai domiciliari, in seguito a un’ordinanza di custodia cautelare emessa nel 1993 dal gip di Roma, cosa anche questa confermata dall’imprenditore.

Tra gli addebiti che sono valsi a Tronchetti Provera la querela anche quella sul “coinvolgimento” di De Benedetti nel crack del Banco Ambrosiano. Un’affermazione che l’ingegnere ha definito “falsa e subdola”, ricordando di essere stato assolto in Cassazione. Dal canto suo l’avvocato Padovani ha ricordato come De Benedetti “fu condannato in primo grado per bancarotta fraudolenta, sentenza poi confermata in appello. Ci furono due sentenze della Cassazione nel 1990 e nel 1993 che poi (nelle prossime udienze, ndr) avremo modo di esaminare
 per le motivazioni”.

Scambi accesi anche sull’uscita di De Benedetti dalla Fiat nel 1976, definito da Tronchetti Provera un “allontanamento”. L’ingegnere, invece, ha affermato che, “come ammesso da Cesare Romiti”, si trattò di sue dimissioni motivate dal fatto che gli Agnelli non erano d’accordo con il suo piano di licenziamenti. Padovani ha tuttavia citato in aula alcuni articoli comparsi sui giornali in quel periodo in cui la fuoriuscita veniva definita “estromissione”, “licenziamento”, “cacciata” e addirittura “defenestrazione”. Alla domanda se avesse mai presentato querela o chiesto una rettifica, De Benedetti ha risposto di no, sostenendo che era inutile mettersi contro l’ufficio stampa della Fiat, responsabile secondo lui di quelle ricostruzioni e anche delle ricostruzioni sul suo presunto tentativo di scalata del gruppo automobilistico: “Si inventarono che era appoggiato da una cordata di ebrei – ha detto De Benedetti in aula -. Ma chiunque conosca gli ebrei, sa che chiedono e non danno”.

Infine, riguardo alle frasi del numero uno di Pirelli sulla cittadinanza svizzera, l’ingegnere ha spiegato che tale argomentazione è stata usata in passato dai giornali di destra “per far credere che non pago le tasse in Italia”. Ha aggiunto quindi di aver sempre pagato le imposte nel nostro Paese e di aver trasferito la residenza fiscale in Svizzera “solo dal 2 gennaio 2015”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/04/27/de-benedetti-in-aula-nel-processo-contro-tronchetti-non-ricordo-patteggiamento-su-olivetti/1629859/

Nuova grana per Fassino, è nei guai per il business delle case ai rom

ssshhh silenzio, razzista!! E’ solo per buoncuore…..sarà un disguido burocratico l Pd è tanto generoso infatti anche agli sfrattati, disoccupati italiani riserva lo stesso trattamento vero?!!!??  Ma come, i rom in fila alle primarie non erano lì per “passione” della politica? Son solo 5 MILIONI di euro. Che vuoi che siano, basta aumentare un’altra tassa che gli italiani son ricchi ed evasori. Tranquilli èil Pd, una grada di cui i media non parleranno ed i giudici archivieranno

La procura di Torino ha aperto un’inchiesta sui 5 milioni spesi per dare una sistemazione ai nomadi e in parte finiti nelle tasche di un geometra, il «re della casbah»

Luca Fazzo  – Lun, 27/04/2015 – 08:10

 Meglio avere a che fare con Matteo Renzi, col rischio di finire rottamato insieme al vecchio politburo del Pd, o rintanarsi a Torino e doversi misurare con un bel tomo specializzato nell’affittare stamberghe inabitabili a prezzi esorbitanti, sempre in bilico sul codice penale, e rischiare di prendersi prima o poi un avviso di garanzia? Chissà se Piero Fassino, sindaco di Torino, la sera prima di addormentarsi si interroga sulla scelta fatta nel 2010, quando abbandonò la politica nazionale per dedicarsi a tempo pieno alla sua città.

Di certo c’è che a quattro anni dalla sua elezione a sindaco (passò in scioltezza al primo turno, con il 56% dei voti) si trova a fare i conti con una serie incalcolabile di rogne. Dove la più ingombrante è l’inchiesta della Procura sulla gestione dell’emergenza rom nel capoluogo piemontese.

È un affare da cinque milioni. Non si sono raggiunte – va detto – le vette romane, quelle di Mafia capitale. Ma anche sotto la Mole a spartirsi con la benedizione di Fassino il business della solidarietà è stata una rete di associazioni a cavallo tra la sinistra e il mondo cattolico. E i risultati sono ora al centro dell’indagine in bella vista sul tavolo del sostituto procuratore Andrea Padalino, che dovrà capire come sia stato possibile che il Comune abbia speso una montagna di milioni per spostare dei nomadi da un insediamento abusivo a un altro: via dal Lungostura Lazio, e casa per tutti in corso Vigevano, in un cupo fabbricato che ha il piccolo difetto di non essere destinato a residenza.

Bisogna stare attenti a scrivere questa storia, perché in mezzo ci sono due con la querela facile. Il primo è notoriamente Fassino. L’altro è il geometra Giorgio Molino, un signore che a Torino possiede centinaia (secondo alcuni migliaia) di case, e di cui già nel 2001 un quotidiano dalla titolazione compassata come La Stampa scriveva, parlando dello stabile di via La Salle, «nella casa dell’orrore decine di persone vivono ammassate come animali in pochi metri quadri»; e che poche settimane dopo lo stesso giornale definiva «il re della casbah»; e tra i cui beni ancora nel 2005 sempre La Stampa catalogava «i condomini della vergogna di corso Vercelli», le «case horror di corso Giulio Cesare», «le terrificanti soffitte di via La Salle», accusandolo di incassare «somme pazzesche, 400, 500, anche 600 euro per gli orribili tuguri dove sono ammassati uomini, donne, molti bambini». Insomma: anche se quando fu accusato addirittura di profittare del racket della prostituzione Molino venne assolto, è difficile immaginarlo come un benefattore del terzomondo, come l’uomo giusto cui una giunta rossa può rivolgersi per venire incontro ai bisogni dei diseredati.

E invece proprio questo è accaduto a Torino. A monte c’è una delle solite storie di accampamenti rom cresciuti negli anni a dismisura. In Lugostura Lazio alla fine erano in ottocento, forse mille, e ne accadevano di tutti i colori. Dal 1985, la Spat, proprietaria dell’area, chiedeva senza riuscirci lo sgombero dell’area. Nel 2008, esasperata, sporse denuncia in Procura, nel 2013 vennero sequestrati prima un bar e una sala giochi abusiva, poco dopo il pm Padalino chiese e ottenne il sequestro dell’intera area: ma nel giugno il suo capo di allora, il procuratore Gian Carlo Caselli, dispose la sospensione dello sgombero per motivi umanitari e di ordine pubblico. A ottobre, finalmente, cominciano gli sgomberi mentre il Comune fa partire la gara d’appalto per organizzare l’accoglienza dei rom sgomberati. E qui inizia la parte singolare della faccenda. 

A vincere la gara è il consorzio «La città possibile», di cui fanno parte le onlus Strana Idea, Animazione Valdotto e Terra del Fuoco, che si spartiscono l’affare. Per capire l’orbita: l’amministratore delegato di Terra del Fuoco è Massimiliano Curto, fratello minore di Michele Curto, capogruppo di Sel in consiglio comunale. Che l’emergenza rom diventi un affare di famiglia all’interno della maggioranza che sostiene Fassino è già abbastanza curioso. Ma i guai veri iniziano quando il consorzio inizia a occuparsi in concreto della sistemazione dei rom che accettano di lasciare l’accampamento di Lungostura, liberando fette di area su cui Fassino si precipita a lanciare le ruspe per evitare che vengano rioccupate. Una parte dei nomadi accetta di tornare in patria, dietro pagamento del biglietto e garanzia di un lavoro; una parte viene sistemata qua e là; e una parte approda in corso Vigevano, lunga e disadorna arteria che va verso Barriera di Milano. Al 41 di corso Vigevano c’è un lungo fabbricato industriale, che ospita un club privé e altre attività. E lì, incredibilmente, vengono piazzati una parte dei nomadi: ben il 41 per cento, secondo un esposto del capogruppo in consiglio comunale di Fratelli d’Italia Maurizio Marrone. «Tra l’altro – scrive Marrone – la palazzina del social housing per zingari non risulta nemmeno accatastata come abitazione bensì come biblioteca ed edificio di culto, per cui dubitiamo che abbia l’agibilità abitativa». Da abusivi ad abusivi, insomma: ma stavolta a spese del Comune. E soprattutto, il consigliere Marrone fa presente che il fabbricone di corso Vigevano non è di un immobiliarista qualunque, ma di Giorgio Molino, quello che La Stampa chiamava «il re della casbah», «indagato – scrive l’esponente di Fdi – per abusi edilizi e già condannato per illeciti fiscali».

L’esposto approda in Procura, dove finisce per connessione sul tavolo del pm Padalino. Per adesso, è catalogato prudenzialmente nel modello 45, «atti non costituenti notizie di reato», ma gli accertamenti sono già cominciati. A partire da quello che per la Procura è il tema più delicato, ovvero la destinazione d’uso dello stabile di corso Vigevano: perché se le cose stanno come dice Marrone, a venirne chiamato a rispondere sarebbe anche chi in Comune doveva vigilare sulla esecuzione della gara. Ed a quel punto entrerebbe in scena il secondo e più vasto tema, quello della indagine su come sono stati spesi i soldi – 3 milioni e 600mila euro, poi lievitati a 5 milioni – assegnati dal governo a Torino per affrontare l’emergenza rom.

Insomma, una grana di cui per ora non si vede la via d’uscita, e che Fassino si ritrova a gestire in una situazione già pesante, dove ogni giorno gli porta la sua pena, in una città dove un intero pezzo di università è stato messo sotto sequestro e dichiarato inagibile perché infestato dall’amianto; dove il Moi, il villaggio olimpico realizzato per i Giochi invernali del 2006, è stato occupato abusivamente da un mix di clandestini, immigrati, antagonisti, spacciatori di droga e quant’altro, e l’ordine di sequestro chiesto e ottenuto dalla Procura non riesce a venire eseguito: e dove tra pochi giorni, il Primo maggio, il sindaco rischia di ritrovarsi di nuovo sotto il tiro delle contestazioni «da sinistra», come gli accadde il Primo maggio 2012, quando la rabbia degli antagonisti gli scatenò addosso accuse di ogni genere, compresa quella di non pagare gli stipendi alle maestre degli asili.

Lui, il sindaco, per adesso tace. Non spiega come sia stato possibile che i soldi dell’emergenza rom siano finiti in tasca a Giorgio Molino; ma non spiega nemmeno se si ricandiderà l’anno prossimo, quando scadrà il suo mandato a Palazzo di Città, o se seguendo l’esempio del collega milanese Giuliano Pisapia abbandonerà una poltrona rivelatasi più scomoda del previsto. Le previsioni più quotate dicono che alla fine Fassino dirà di sì ad un secondo mandato, soprattutto se a chiederglielo sarà Matteo Renzi, che alla gratitudine per essersi autoesiliato da Roma aggiunge nei suoi confronti qualche debito di riconoscenza per come da presidente dell’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, ha calmierato la rabbia dei sindaci di tutta Italia contro i tagli della spending review . Ma se sceglierà davvero di restare al suo posto, il sindaco dovrà rassegnarsi a fare i conti per un bel pezzo con la grana dei rom.

http://www.ilgiornale.it/news/nuova-grana-fassino-nei-guai-business-delle-case-ai-rom-1120978.html?utm_source=Facebook&utm_medium=Link&utm_content=Nuova%2Bgrana%2Bper%2BFassino%2C%2B%C3%A8%2Bnei%2Bguai%2Bper%2Bil%2Bbusiness%2Bdelle%2Bcase%2Bai%2Brom%2B-%2BIlGiornale.it&utm_campaign=Facebook+Interna

Modello Expo: ci vogliono schiavi e dicono che siamo viziati

CHISSà chi dobbiamo ringraziare per essere arrivati a questo punto. MA GUAI CONTESTARE SINDACATI E PD, sono kompagni e non c’entrano nulla.

Chissà chi lucra sul dumping sociale, MA NON SI PUO’ DIRE che è razzismo

E’ razzista estremista questa considerazione?

NON ESISTONO LAVORI CHE GLI ITALIANI NON VOGLIONO FARE ….. ESISTONO STIPENDI CHE GLI ITALIANI NON POSSONO ACCETTARE….!

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Oggi il Corriere della Sera ha dato l’ennesima notizia sui problemi di Expo 2015, a soli 7 giorni dalla sua inaugurazione ufficiale. Questa volta non si tratta di corruzione, ritardi nelle costruzioni o morti sul lavoro. A vederla da certe angolazioni è addirittura una notizia che rincuora: per quanto la crisi morda i giovani di questo paese non sono ancora completamente disposti a fare da zerbini per gli organizzatori del grande evento.

Infatti il giornale lamenta la difficoltà avuta dagli organizzatori del grande evento a trovare giovani disposti a lavorare negli stand per 1300 euro al mese (addirittura!). Manco a dirlo, il messaggio (neanche troppo) implicito è che i giovani italiani sono troppo svogliati, viziati, schizzinosi, choosy. Non a caso lo stesso articolo contrappone l’esempio virtuoso dei giovani che hanno accettato di lavorare gratuitamente.

Dai commenti che si leggono sui social network la realtà pare essere diversa, un’idea è data da questo articolo apparso online. Insomma chi si occupa di reclutare i lavoratori per Expo naviga a vista, nella completa disorganizzazione, ma pretende che i giovani siano pronti e disponibili a lasciare tutto e partire al servizio del grande evento senza porre domande sul contratto e su quanto verranno pagati. Oltretutto si scopre che in molti casi non si tratta di 1300euro, ma 500, 190 e via dicendo… (e chi ci vive a Milano con queste cifre?)

Anche questa volta i portavoce della classe dirigente del paese hanno provato a scaricare la responsabilità di questo (ennesimo) fallimento di Expo 2015 sulle spalle dei giovani. Allo stesso tempo aggiungono un mattoncino alla narrazione tossica dei giovani disoccupati e precari perché choosy, cercando di delegittimare ogni tentativo di protesta, di rabbia o di sdegno che una generazione tremendamente impoverita e precarizzata potrebbe mettere in campo.

Ecco che cosa verrà esibito nei padiglioni di Expo: la logica del Jobs Act messa all’opera e il modello di paese e di relazioni lavorative che Renzi vuole per l’Italia. Zero questioni, zero domande, zero diritti: devi ringraziare se ti viene offerto un lavoro (quindi lo puoi fare anche gratis o a pagamento). Ovviamente chi non accetta queste condizioni sarà automaticamente lo svogliato capace solo di lamentarsi e causa dei mali del paese.

 InfoAut

 http://www.infoaut.org/…/14467-modello-expo-ci-vogliono-sch

Boldrini in difesa del moderno traffico di schiavi

Parlando di eguaglianza, la stessa clemenza E’ RISERVATA AI DISOCCUPATI ITALIANI CHE RUBANO PER FAME E SI TROVANO IN MEZZO AD UNA STRADA? E’ RISERVATA AI CASSINTEGRATI CHE RICEVONO UNA CARTELLA DI EQUITALIA PER TARSU NON PAGATA??????????????????

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“La presidente della Camera, ospite l’altra sera da Floris su La7, ha teorizzato che anche gli scafisti vanno tutelati perché «disperati senza un euro che si prestano a guidare i barconi pur non essendone capaci in cambio della traversata gratis». Come dire: se un disperato rapina una banca e mette a rischio la vita di clienti e dipendenti, lasciamolo fare. Poverino, va capito e se poi ci scappa il morto pazienza. Lei è sempre pronta a partecipare al funerale, tailleur e lacrima d’ordinanza, meglio se di Stato e in diretta tv.” Fonte ImolaOggi

AUX IDIOTS UTILES DU SYSTEME :

PCN-SPO/ 2015 04 27/

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Peux-t-on rire de tout ? Pas vraiment !
Voici comment CHARLIE HEBDO se moque des morts africains dans le drame de l’immigration sauvage en Méditerranée (provoquée directement par la destruction de la Jamahiriya de Kadhafi par les Occidentaux) …
Ni honteux ni irresponsable mais immonde. Les Bobos atlantistes dans ce qu’ils ont de pire.
Alors toujours ‘Je suis Charlie’ ???
 
LM

TERRA REAL TIME: Fa Crollare L’Italia, Poi Se La Compra. Ma Chi È BlackRock?

cosa? Non è colpa della Germania?!?!! Eretico….le banche sono enti benefici, lo ha detto Monti il liberatore
 
Fa Crollare L’Italia, Poi Se La Compra. Ma Chi È BlackRock?
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24/04/2015 – Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
 
Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore Giuliano Amato, nel 2011 advisor di Deutsche Bankdei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.
 
A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o Lucio Caracciolovendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che “incorporano anche pesanti elementi politici».
 
Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, “agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e “manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, “con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto “ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato “il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta “virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.
 
Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. “Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Larry Fink, il boss di BlackRockIsole Vergini Britanniche. “Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».
 
“Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, “con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. “E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?
 
La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne “improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro Alfred Herrhauseneconomista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.
 
Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, “in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, “esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. “Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.
 
Scriveva il settimanale: “Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, “si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, Maria Grazia Bruzzoneamministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.
 
A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. “Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. “La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».
 
Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.
 
Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Tim GeithnerMorgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.
 
Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? “Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, “accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è “evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza. FONTE
 

Castel Bolognese merc 6 maggio … L’Italia al tempo della peste. Grandi opere. Grandi basi. Grandi crimini

Grimaldi NR 6 maggio OK
MERCOLEDI 6 MAGGIO ore 20.30

c/o Teatrino del vecchio mercato

via Rondanini 19/A a Castel Bolognese

parcheggia in Piazzale Roma, il teatrino è a 50m

 

Proiezione in anteprima del nuovissimo docufilm

“L’Italia al tempo della peste.

Grandi Opere. Grandi Basi. Grandi Crimini.”

ed incontro con l’autore FULVIO GRIMALDI

 

A pochi giorni dall’apertura di EXPO ’15 a Milano, analizziamo l’ennesima occasione per truffe, mafia e malaffare di lucrare su un “grande evento” che sarebbe stato meglio non fare!

Dopo “Fronte Italia-Partigiani del 2000” che illustra gli scempi del TAV e del MUOS sullo sfondo delle aggressioni militari, ambientali e sociali al nostro e ad altri paesi,

in questo docufilm l’autore percorre l’intera penisola alla caccia dei più significativi crimini perpetrati contro salute, ambiante, comunità, legalità.

Crimini contro una classe politica intrecciata a mafia e imprenditoria senza scrupoli, e obbediente ai poteri sovranazionali della militarizzazione e della globalizzazione neoliberista che intende chiudere il cerchio con il trattato USA-UE TTIP.

 Fulvio Grimaldi, giornalista, documentarista, scrittore. Inviato speciale di guerra fin dal conflitto arabo israeliano del ’67, oggi è ancora testimone diretto delle guerre imperiali in nord Africa e medio Oriente attraverso reportage indipendenti pubblicati nel suo contro blog “Mondocane” (fulviogrimaldicontroblog.info)

 

NUOVE RESISTENZE

Per Info: nuove.resistenze@libero.it

 

LUC MICHEL ANALYSE LA CORRUPTION SYSTEMIQUE DE LA GLOBALISATION LIBERALE SUR AFRIQUE MEDIA ET CITOYEN TV

PCN-TV/ 2015 04 24/

 Video sur : https://vimeo.com/126000503

 PCN-TV - AM & CITOYEN TV lm analyse la corruption (2015 04 24) FR

Sur AFRIQUE MEDIA TV, dans l’émission FACE A L’ACTUALITE, Luc MICHEL

analyse la corruption systémique de la Globalisation libérale, ses réseaux et ses modes de fonctionnement.

Il explique comment elle touche en priorité l’UE et non pas l’Afrique, et comment l’Occident exporte sa corruption en Afrique et dans le reste du monde …

 Extrait monté et rediffusé par CITOYEN TV

ce 24 avril 2015

 PCN-SPO / PCN-TV /

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