Dove finiscono i soldi della BCE?

La settimana scorsa il board della BCE, guidata da Mario Draghi, ha tagliato di un quarto di punto percentuale i tassi di rifinanziamento della Banca Centrale: la misura era attesa da mesi, dagli operatori, per uscire dalla spirale recessiva in cui, ormai, è caduta tutta l’Europa. il tasso sui PCT è stato portato allo 0,5%, il limite più basso da quando è stata introdotta la Moneta Unica, riducendo, così, il costo del denaro in maniera significativa. L’acuirsi della crisi sul continente, cosa che sta colpendo anche la Germania, ha sciolto ogni remora, ogni timore di innesco di nuovi focolai inflattivi, e ha convinto i vertici della BCE ha operare una diminuzione significativa (il 33%) del tasso corrente assicurando, inoltre, liquidità illimitata fino almeno a giugno 2014. Il tutto finalizzato ad innescare quella ripresa che, mese dopo mese, sembra sempre più lontana, nonostante gli annunci, improvvidi, di alcuni esponenti politici europei in questi ultimi tempi. La manovra, unita alla copertura assicurata delle emissioni di titoli di stato dei Paesi più esposti alla crisi, contribuisce, inoltre, a ridurre le pressioni sui debiti sovrani spingendo gli spread sul bund verso livelli più bassi. La cosa, però, sembrerebbe esser stata accolta in maniera piuttosto fredda dai mercati, e l’analisi sulla questione potrebbe dipingere uno scenario ben diverso da quello auspicato da Draghi e dai sostenitori della “moneta facile”, tra cui gli esponenti della scuola MMT. È indubbio che un accesso più semplice al credito e una maggiore liquidità potrebbe spingere imprese e consumatori a nuova spesa e nuovi investimenti: questo, però, in un sistema ideale. Peccato che il mondo reale non lo sia.

 L’accesso al credito non è diretto verso la BCE, infatti, ma mediato dagli istituti di credito, banche e aziende di credito al consumo, quindi sottoposto a un ulteriore passaggio non direttamente controllabile dalla banca centrale. Chi assicura che la nuova liquidità finisca, come l’ultimo LTRO, a coprire le passività delle banche anziché fluire “verso valle” permettendo nuovi investimenti e, di seguito, nuova occupazione e nuovi consumi? Questa è la domanda più importante a cui si cercherà, in questa breve trattazione, di dare risposta.

Iniziamo dalla base, dall’origine della crisi. Questa non fu originata da una carenza di moneta ma, piuttosto, da un suo eccesso. La facilità di credito ha spinto gli intermediari a investimenti azzardati, ad alta leva, senza le debite coperture di sicurezza: gli esempi più eclatanti furono la bolla sub prime e il fallimento di Lehmann Brothers. La liquidità era mantenuta elevata attraverso quello che si chiama “moltiplicatore del credito”, gli istituti erano spinti agli impieghi, spesso senza adeguata istruttoria alla base, per consentire agli Istituti dei margini più elevati per innalzare il ROE, quel Return on Equity (il guadagno in conto capitale) che ABI indicò per anni come fine ultimo, vista la differenza esistente tra il suddetto parametro delle banche italiane rispetto ai principali competitor esteri.

Uno studente al primo anno di economia, dopo l’esame di economia aziendale, potrebbe obiettare che il ROE non è il parametro più importante nella definizione della redditività di impresa, rappresentato, invece, dal ROI (il Return on Investment) o dal ROA (Return on Assets), visto che dipende non solo dalla buona performance degli investimenti ma, anche, dalla leva finanziaria, ovvero la percentuale di capitale a debito impiegata e che, tramite questa, potrebbe essere “drogata”, come avvenne nel caso Lehmann a esempio. I fondamentali di economia, però, sono spesso ignorati in questi campi, visto che l’ottica di breve periodo viene, spesso, privilegiata rispetto al quella di medio-lungo periodo a vantaggio dei risultati da sottoporre agli stakeholder e ai dividendi da poter distribuire agli azionisti.

Il differenziale di rendimento in conto capitale italiano è dovuto a un certo ritardo nell’adozione del modello di Banca Universale – modello tedesco – che è stato applicato anche in USA dopo l’abolizione del Glass Steagal Act da parte dell’amministrazione Clinton e che ha permesso la coesistenza, nello stesso istituto, di banca commerciale e di banca di intermediazione finanziaria. In Italia, a parte Mediobanca e Banca IMI, non sono mai esistiti dei veri istituti finanziari mentre, invece, Deutsche Bank era già il modello universale a cui ispirarsi dopo la fine dell’obbligo di separazione e di specializzazione determinato in USA dalla Legge Glass Steagal (voluta da Roosevelt negli anni ’30) e anticipato in Patria dalla legge Amato del ’92 che abolì gli istituti di credito speciale permettendo a ogni azienda di strutturarsi liberamente, fermo restando, però, la divisione fra banche e istituti di investimento e gestione patrimoniale che il TUF del ’98 regolò con la creazione di SIM e SGR.

 Proprio in questa differenza nella struttura degli Istituti di Credito italiani rispetto a quelli esteri sta la realizzazione di ROE inferiori rispetto a quelli delle altre banche continentali che, nel corso degli anni, hanno potuto reimpiegare la liquidità in eccesso sui mercati finanziari, con investimenti, a volte, al limite del moral hazard per massimizzare gli utili e poter staccare dividendi e remunerazioni al top management decisamente rilevanti. Ovvio che una crescita incontrollata della liquidità circolante abbia permesso la creazione di continue bolle speculative che, una volta esplose, hanno provocato danni sui mercati, soprattutto verso quei risparmiatori che il sistema bancario dovrebbe, invece, tutelare. Ci fu prima la “new economy” e, poi, via via fino alle “bolle” immobiliari degli ultimi anni che stanno devastando l’intero sistema finanziario mondiale.

http://thefielder.net/08/05/2013/dove-finiscono-i-soldi-della-bce/#.UYrMNHxvJMA

 

Dove finiscono i soldi della BCE?ultima modifica: 2013-05-09T09:42:00+02:00da davi-luciano
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