Giuseppe Sandro Mela.
Valutare problemi complessi, quale quello del credito bancario a famiglie ed imprese, richiederebbe di passare al vaglio tutti i fattori che influenzano direttamente od indirettamente il fenomeno, non uno escluso. Non tenere in considerazione un qualche aspetto porta inevitabilmente a formulare giudizi incorretti e, peggio ancora, a richiedere o mettere in atto azioni inutili e spesso dannose.
Di questi giorni la Bce ha ulteriormente abbassato il tasso di sconto, ma sono molte le persone fortemente perplesse sulla reale utilità di questa manovra nei confronti del tema in oggetto.
Infatti, il ragionamento predominate argomenta che la riduzione del costo del denaro e la relativa facilità di accesso al credito Bce dovrebbero mettere le banche in grado di avere la liquidità necessaria per finanziare maggiormente famiglie ed imprese.
Questo ragionamento é corretto in sé e per sé, ma fuorviante se decontestualizzato, perché non tiene conto del rapporto reale intercorrente tra banche da una parte e famiglie ed imprese dall’altra. Ciò non stupisce più di tanto in questo clima di demonizzazione delle banche, alle quali sono addossate tutte le colpe dei problemi attuali. Ma quando si valuta il problema dal loro punto di vista, emergono molti e consistenti aspetti che rendono ragione del loro comportamento. Ne menzioneremo solo alcuni per non tediare il Lettore.
1. La quasi totalità dei Governi dell’eurozona obbliga le banche a detenere titoli di stato quali riserve, che sono principalmente costituite utilizzando il denaro loro imprestato dalla Bce. É in altre parole in corso un’operazione per la quale il debito sovrano sia relegato al’interno dello stato emittente. Solo per esempio ricordiamo che le banche italiane detengono adesso oltre 351 miliardi di titoli sovrani italiani.
Due fattori da rimarcare. In primo luogo, questa operazione è in perdita per il sistema bancario, che impiega denaro ad un tasso di interesse molto minore di quello ottenibile dai prestiti a famiglie ed imprese. In secondo luogo, così facendo sono stati sottratti all’economia reale centinaia di miliardi di euro che avrebbe potuto essere iniettati nel sistema.
2. Il prestito bancario a famiglie ed aziende è subordinato alle garanzie che esse possono addurre: garanzie che in questo clima di depressione incipiente stanno subendo una progressiva e severa svalutazione nel tempo. Due esempi.
Nel primo esempio si consideri il classico mutuo per l’acquisto di un immobile ad uso abitativo. Negli ultimi cinque anni il valore reale degli immobili si é deprezzato di un fattore variabile dal 25% al 40% a seconda di tipologia ed ubicazione, e nulla lascia presumere in una ripresa del mercato, complice anche la costante diminuzione delle nascite.
Ne consegue cha la banca può erogare solo finanziamenti a parziale copertura del costo totale dell’immobile, tenendo conto di quello che potrebbe essere nel tempo il valore di realizzo in caso di insolvenza. Si finanzia quindi solo un 30%-40% dell’importo totale.
A ciò si aggiunga la grande difficoltà di stimare quanto sia solido il rapporto lavorativo del richiedente, in un periodo in cui si riscontra un aumento sempre crescente di licenziamenti, anche da parte di aziende ritenute essere solide. La perdita del lavoro da parte del richiedente comporterebbe immediatamente l’insolvenza del mutuo.
Si valutino infine anche la severa farraginosità, lunghezza e costo delle procedure necessarie alla banca per entrate in pieno possesso di un immobile il cui acquirente sia divenuto insolvente.
Nel secondo esempio si consideri il credito alle imprese. Nel solo anno 2012 tra fallimenti (12mila), liquidazioni (90mila) e procedure non fallimentari (2mila) sono state 104mila le aziende italiane perse. Una quota non indifferente di tali perdite é adducibile alle concrete difficoltà a rimanere sul mercato in un momento depressivo, ove si assiste ad una contrazione dei consumi e, quindi, dei fatturati. Ma una quota per nulla trascurabile é dovuta al fatto che aziende di per sé stesse sane é portata alla chiusura dal ritardo nei pagamenti dei manufatti e/o servizi erogati.
Questa situazione é di severa entità e risulta anche essere particolarmente difficoltosa da essere quantizzata. La banca può studiare con la massima attenzione bilanci e business plan di una realtà produttiva, ma le previsione degli andamenti dei mercati sono quanto mai incerte e risulta del tutto impossibile analizzare anche i bilanci dei clienti del richiedente, per valutare anche la loro solvibilità.
La conseguenza é coerente ai presupposti: le banche tendono a finanziare solo realtà di grandi dimensioni oppure con dei bilanci più che solidi e con ampie garanzie in titoli, immobili o macchinari, per cercare di evitarsi crediti in repentina sofferenza.
Così facendo però rimangono tagliate fuori dal circuito del credito tutte quelle realtà aziendali che con un finanziamento avrebbero potuto superare un momento di crisi transitoria. Nessuno è disposto a finanziare realtà in crisi.
3. Queste semplici e banali considerazioni dovrebbero far riflettere come il vero nodo del problema non risieda tanto nella disponibilità di liquidità a basso costo, quanto piuttosto nel risanamento strutturale delle imprese, sgravandole di ogni possibile ostacolo alla produzione.
Tre i punti da stressare, tra i tanti che sarebbero da prendere in consdierazione.
In primo luogo, in un sistema che non consenta a cittadini ed imprese di lavorare e di guadagnare sarà sempre impossibile che essi possano accedere al credito per migliorare le loro condizioni e produttività.
In secondo luogo, sarebbe ipocrita parlare di sviluppo e crescita, di contenimento della disoccupazione, senza focalizzare come siano proprio le imprese a generare posti di lavoro. La Collettività può, ed in alcuni casi dovrebbe, sopperire alle esigenze elementari delle persone meno fortunate ed abili, ma ciò è e rimane un palliativo. Senza una ripresa economica non possono sussistere né sviluppo né crescita, che in fondo in fondo sono solo sinonimi di arricchimento. Arricchimento che non dovrebbe più lungo essere demonizzato e penalizzato con tassazione eccessiva.
In terzo luogo, sarebbe davvero impellente il razionalizzare che per definizione la “depressione” consiste in una severa perdita del potere produttivo e conseguentemente del potere di acquisto. Pensare di poterne uscire senza perdite sarebbe pura utopia, propalare tale idea sarebbe pura e semplice demagogia. E, si badi bene, la perdita della categoria imprenditoriale é forse il danno più severo inferto dalla depressione: per rimpiazzarla non basta soltanto istruzione e competenza specifica, ma anche la volontà di imprendere. Volontà che può manifestarsi esclusivamente in un clima di rinnovata fiducia.
RischioCalcolato. 2013-04-04. Oltre 15.000 imprese fallite. Colpa dello Stato che non paga!
Mentre il tira e molla del governo sui pagamenti alle imprese dei crediti che esse vantano va per le lunghe, sono oltre 15.000 le imprese italiane che dall’inizio della crisi alla fine del 2012 sono fallite a causa dei ritardi dei pagamenti: questa è la stima della Cgia secondo cui “tra il 2008 ed il 2012 i fallimenti causati dai ritardi dei pagamenti siano aumentati piu’ del doppio (+114%): nel 2008 erano 1.800, a fine 2012 hanno toccato quota 3.860: 60.000 i posti di lavoro persi”. E a fronte delle 15.000 imprese italiane che dall’inizio della crisi alla fine del 2012 sono fallite a causa per i ritardi dei pagamenti sono stati persi circa 60.000 posti di lavoro. ”Si tratta di dati molto preoccupanti, che mettono in luce – si legge in una nota – gli effetti negativi sul tessuto produttivo ed occupazionale italiano dei ritardati o mancati pagamenti (siano essi imputabili a committenti privati o a quelli pubblici)” .
I risultati a cui e’ giunta la Cgia di Mestre hanno origine da alcune osservazioni realizzate da Intrum Justitia. Secondo questo istituto, il 25% delle imprese fallite in Europa chiude a causa dei ritardi dei pagamenti. Tenendo presente che l’Italia e’ maglia nera in Europa per quanto concerne la mancata regolarita’ dei pagamenti tra la Pubblica amministrazione e le imprese nonche’ nelle transazioni commerciali tra le imprese, la Cgia stima che “tra il 2008 ed il 2010 questa incidenza abbia raggiunto la soglia del 30%, per salire al 31% nel biennio 2011-2012″. “Pertanto, a fronte di oltre 52.500 fallimenti registratisi in Italia nel quinquennio preso in esame, la CgiA stima che poco piu’ di 15.100 chiusure aziendali siano addebitabili ai ritardi nei pagamenti”. Un vero “dramma” che, prosegue la nota “oltre alle chiusure di queste attivita’ ha provocato la perdita di almeno 60.000 posti di lavoro”.
“Oltre ai ritardi nei pagamenti – osserva il segretario della Cgia, Giuseppe Bortolussi – hanno sicuramente concorso alla chiusura di queste attivita’ anche gli effetti nefasti della crisi, come il calo del fatturato dovuto alla contrazione degli ordinativi e il deciso aumento registrato in questi ultimi anni dalle imposte e dai contributi, oltre alla forte contrazione nell’erogazione del credito che ha caratterizzato l’azione degli istituti di credito nei confronti soprattutto delle piccole imprese”. ”Visto che il 95% delle imprese in Italia ha meno di 10 addetti – ricorda la Cgia – l’eventuale sblocco di una parte importante dei 91 miliardi di euro di arretrati che la Pubblica amministrazione conta nei confronti delle imprese, gioverebbe a tutto il sistema economico ed in particolar modo alle piccole realta’ imprenditoriali”. “Affinche’ cio’ avvenga – conclude Bortolussi – questo provvedimento di smobilizzo deve essere accompagnato dall’impegno dei destinatari di questi pagamenti a saldare in tempi rapidissimi gli arretrati accumulati nei confronti dei propri subappaltatori/subfornitori. Solo cosi’ tutto il sistema produttivo potra’ beneficiare di questa nuova ondata di liquidità”.
Siamo al paradosso, par quasi che quei soldi non siano dovuti a chi ha lavorato, ma debbano essere considerati una forma di magnanimità dello Stato. ma se le tasse non vengono pagate alla scadenza dovuta, subito si allerta Equitalia. Ormai, il buon senso è morto in Italia.
Sole24Ore. 2013-02-13. Nel 2012 chiuse 104.000 imprese: + 2,2% rispetto al record dell’anno prima.
I dati Cerved (il gruppo specializzato nell’analisi della situazione finanziaria delle imprese) parlano chiaro, le imprese italiane non vedono ancora la luce in fondo al tunnel. Il 2012 si è confermato come l’anno più duro della crisi per il numero di imprese che hanno chiuso: tra fallimenti (12mila), liquidazioni (90mila), procedure non fallimentari (2mila) sono state 104mila le aziende italiane perse.
Si ricorre al concordato preventivo
Un’analisi su informazioni di dettaglio del Registro delle Imprese indica poi un vero e proprio boom dei nuovi concordati preventivi: si stima, prosegue il Cerved, che nel solo quarto trimestre del 2012 siano state presentate più di mille domande, soprattutto nella forma del concordato con riserva (un valore paragonabile alle domande di «vecchio concordato presentate in tutto l’anno).
Il dato totale sulla chiusura delle aziende l’anno scorso è stato superiore del 2,2% al record toccato nel 2011. «Il picco toccato dai fallimenti – commenta Gianandrea De Bernardis, amministratore delegato del Cerved – supera del 64% il valore registrato nel 2008, l’ultimo anno precrisi: sono stati superati anche i livelli precedenti al 2007, quando i tribunali potevano dichiarare fallimenti anche per aziende di dimensioni microscopiche».
Nel 2012 la recessione ha avuto un impatto violento nel comparto dei servizi (+3,1%) e nelle costruzioni (+2,7%), mentre la manifattura – pur con un numero di fallimenti che rimane a livelli critici – ha registrato un calo rispetto all’anno precedente (-6,3%).
Dal punto di vista territoriale, le procedure sono fortemente aumentate nel Nord Ovest (+6,6%) e nel Centro (+4,7%), mentre sono rimaste ai livelli dell’anno precedente nel Sud e nelle Isole (-0,4%). Nel Nord Est i casi sono invece più chiaramente diminuiti (-4,3%), un dato compensato dal forte incremento delle liquidazioni, che ha portato il totale di chiusure in quell’area a superare quota 20mila (+8,6% sul 2011).