I MAGISTRATI A VIRZÌ: “SBAGLIATO MINIMIZZARE LE VIOLENZE DEI NO TAV”

La replica alla lettera del regista: “Fidatevi della giustizia”
 I manifestanti No Tav durante un corteo in Valsusa lo scorso giugno
14/07/2016
FRANCESCO SALUZZO *, ARMANDO SPATARO **, ALBERTO PERDUCA ***

Caro Direttore, è certamente questione delicata per i magistrati affrontare fuori delle aule dei Palazzi di Giustizia il merito di vicende penali non ancora oggetto di sentenze definitive. Ma talvolta, come nel caso dei processi appartenenti al filone denominato «NoTav», le precisazioni sono necessarie per evitare che nell’opinione pubblica si formino convincimenti fondati su una distorta ricostruzione dei fatti. 

È per questo che, secondo un voluto criterio di sobrietà, intendiamo offrire notizie e spunti di riflessione destinati a chiunque sia a ciò interessato. 

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LE FIRME  

Partiamo, ad esempio, dalla diffusione di un appello, sottoscritto da molti intellettuali in favore di una imputata di cui si dice che sarebbe stata condannata il 15 giugno scorso alla pena di due mesi di reclusione soltanto per avere descritto in prima persona, in una sua tesi da laureanda in antropologia, i fatti avvenuti nel corso di una manifestazione del 14 giugno 2013 in Val di Susa, di cui – secondo l’accusa – sarebbe stata corresponsabile. Si sostiene che a tali fatti – al di là della tecnica narrativa prescelta – ella avrebbe solo assistito da semplice studiosa. Nell’appello, infine, si manifesta indignazione perché per la prima volta «dal 25 aprile 1945 una tesi di laurea viene considerata oggetto di reato e subisce una condanna… Ci sconvolge che tutte le tesi di laurea siano potenzialmente oggetto delle letture inquisitorie dei magistrati». All’appello hanno fatto seguito alcuni articoli in uno dei quali si attribuisce all’intervento dell’Autorità Giudiziaria il significato di un processo all’antropologia culturale («l’osservazione partecipante diventa materia giudiziaria»), mentre in un altro si afferma che «cose del genere succedono solo nelle peggiori dittature». 

Primo e breve nostro appunto: un giudizio tanto severo è stato espresso senza neppure attendere la motivazione della sentenza di condanna, depositata infatti solo pochi giorni fa. L’appello, dunque, altro non fa che aderire alla tesi difensiva, non accolta dal giudice, il quale ha valutato altre condotte materiali ed elementi di prova addotti dall’accusa. Nel tempo si vedrà se tali conclusioni resisteranno ai successivi gradi di giudizio, ma ciò che sorprende è che non si sia avvertita la necessità di leggere la sentenza prima di attribuire a pubblici ministeri e giudici finalità di indiscriminata repressione del dissenso. 

Altro esempio di “critica” disinformata: dopo il suddetto appello sono stati pubblicati altri articoli che mettono in dubbio la correttezza dell’operato della procura di Torino, la quale avrebbe elaborato una «strategia contro il dissenso», tanto che «da oltre 10 anni i cittadini e le cittadine della Val Susa che si oppongono alla realizzazione del Tav sono oggetto di interventi repressivi di crescente gravità da parte della procura e dei giudici per le indagini preliminari di Torino», tanto che «sono attualmente indagate in valle circa 1000 persone… per i reati più vari». Si è pure affermato che «tutte le denunce nei confronti delle forze dell’ordine per lesioni anche gravissime a manifestanti sono state archiviate, senza alcuna seria indagine, per l’asserita impossibilità di identificarne gli autori». «L’evidente finalità…» dell’azione della procura «è quella di intimidire, di fiaccare il movimento secondo un modulo ben noto in varie parti del mondo e denunciato in una recente sentenza della Corte interamericana dei diritti dell’uomo». 

Orbene, quanto al numero delle persone attualmente indagate, esse sono state, nel periodo 1° luglio 2015-30 giugno 2016, fortunatamente, meno di 1/5 di quanto lamentato, e cioè 183. Quanto ai reati addebitati, si tratta di violenza privata, resistenza a pubblici ufficiali, uso di materie esplodenti, danneggiamento, ingresso arbitrario in luoghi militari. Ed il più alto numero di denunce (114) riguarda contravvenzioni per inosservanza a provvedimenti emessi dall’Autorità per ragioni di giustizia, sicurezza ed ordine pubblico. Come si vede, sono tutti reati comuni, di gravità variabile, comunque non associativi né tantomeno con connotati terroristici. 

E non risponde neppure alla realtà la supposta crescente severità dell’intervento repressivo sul piano processuale, posto che, secondo indirizzi convalidati dalla Cassazione, la custodia in carcere viene richiesta e disposta come ultima ratio, cioè quando la reiterazione di condotte criminali da parte delle stesse persone dimostra l’inefficacia di altre meno pesanti misure. 

Quanto alle denunce contro rappresentanti delle forze di polizia per violenze od abusi nel corso delle manifestazioni, esse hanno avuto esiti diversi: talora è stata esercitata l’azione penale anche nei loro confronti, mentre altre volte l’archiviazione si è imposta perché non si sono raccolte prove sufficienti per il processo o non si è potuto identificare gli autori dei fatti. Quel che conta, comunque, è che tutte le richieste dei p.m. sono state vagliate da giudici indipendenti, imparziali e del tutto estranei alle indagini svolte.  

Ed allora può credibilmente parlarsi di strategia della procura, di cui sarebbero complici anche i giudici, volta a fiaccare il dissenso con metodi da regimi sudamericani? Può essere che la solenne affermazione del Presidente Pertini pronunciata alla fine degli anni di piombo («Gli italiani possono vantarsi di avere sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi») sia oggi così dimenticata dalla Autorità giudiziaria torinese? Giudichino i lettori. 

Terzo esempio di «fuga dalla realtà»: in molti pubblici interventi, si sostiene che i manifestanti indagati sarebbero responsabili al massimo di «gesti di evidente significato simbolico», cioè di reati di minima lesività. Si potrà discutere di ciò, ma certamente sempre reati sono e non si può certo chiedere alla magistratura ed alla polizia giudiziaria (obbligate per legge a perseguire ogni reato di cui abbiano notizia) di ignorare «gesti» come minacciose irruzioni in uffici privati accompagnate da resistenza alle forze dell’ordine, danneggiamenti di recinzioni di cantieri o lanci di materiali esplodenti contro poliziotti e carabinieri. Saranno i giudici, evidentemente, a decidere delle responsabilità individuali ed a graduare le pene da infliggere in caso di condanna. Ma illegale è anche sottrarsi all’obbligo di presentazione periodica in una stazione di Carabinieri, magari preventivamente annunciando di non volerlo rispettare. 

UN UOMO DI CULTURA  

Quarto episodio: pochi giorni fa un noto regista cinematografico ha rivolto ad una giovane studentessa che si è sottratta alla misura degli arresti domiciliari (emessa a seguito degli scontri al cantiere Tav di Chiomonte del 28 giugno 2015) un appello a ritornare a casa. L’invito è condivisibile. Sennonché, da un lato, esso contiene anche una ironica e minimizzante descrizione dei fatti addebitati alla ragazza descritti come «una scenetta abbastanza buffa che non sfigurerebbe nei filmati di Paperissima» e, dall’altro, si addebitano alla procura di Torino «provvedimenti spropositati, involontariamente comici, tanto severi quanto contraddittori», che inducono l’autore a scrivere «Io sono certo che l’Italia non sia l’Egitto di Al Sisi o la Turchia di Erdogan». 

Viene però da chiedersi come mai un uomo di cultura non si chieda se sia o meno doveroso per i magistrati valutare anche anteriori condotte illegali degli indagati per verificare se più miti misure, in allora disposte, abbiano avuto efficacia dissuasiva. Insomma, come non considerare, prima di tacciare pubblici ministeri e giudici di indiscriminata volontà repressiva, che occorre conoscere sino in fondo i fatti e il loro contesto ed avere fiducia in una giustizia come la nostra, certamente non infallibile, ma tale da consentire controlli e rimedi rispetto al rischio di errori?  

Occorre allora un dibattito sereno sulle questioni connesse alle manifestazioni violente, comunque motivate: non sosteniamo affatto che le tesi dell’accusa debbano essere da tutti condivise ma neppure possiamo accettare che quelle difensive siano assimilate alla verità, prima che i giudici le confrontino e le pesino sulla bilancia, non a caso simbolo della giustizia. 

E per chiudere, ci sia concesso – come cittadini prima ancora che magistrati – porre una domanda ai tanti protagonisti delle rivendicazioni del Movimento NoTav: la protesta, anche nel corso di manifestazioni di piazza, è legittima e salutare in democrazia se attuata entro i confini della legge. 

Ma se nel corso di una manifestazione autorizzata, in una qualsiasi piazza o in un qualsiasi cantiere, persone dal viso coperto con passamontagna, armati di bastoni e strumenti esplodenti, attaccano forze di polizia e danneggiano recinzioni di ogni tipo, bloccano strade e veicoli, intimidiscono i passanti, è evidente che ne escono indeboliti programmi, idee e campagne di opinione: il Movimento NoTav viene delegittimato e finisce, agli occhi della pubblica opinione, con l’essere identificato con i passamontagna e i lanciarazzi. 

Allora, perché non isolare la violenza? Perché non impedire che essa irrompa nelle manifestazioni e nelle campagne di opinione? Perché non rivolgere un appello anche a quanti – giovani e meno giovani – tali violenze teorizzano e praticano?  

* Francesco Saluzzo (Procuratore Generale)  

** Armando Spataro (Procuratore della Repubblica)  

*** Alberto Perduca (Procuratore Aggiunto)  

I MAGISTRATI A VIRZÌ: “SBAGLIATO MINIMIZZARE LE VIOLENZE DEI NO TAV”ultima modifica: 2016-07-14T19:36:59+02:00da davi-luciano
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