Lo strano caso della Tav: in Italia costa 61 milioni al chilometro, in Spagna 10, e in Giappone 9 …Come mai ???

http://curiosity2015.altervista.org/lo-strano-caso-della-tav-italia-costa-61-milioni-al-chilometro-spagna-10-giappone-9-mai/

Tav

Lo sottolinea il rapporto sulla corruzione della Commissione europea: il prezzo “potrebbe essere una spia di cattiva gestione o irregolarità”

Ci spiegheranno che è per via degli Appennini (famosi quelli tra Roma e Napoli) o per ragioni sismiche (quelle purtroppo ci sono sempre, mentre in Giappone il fenomeno è sconosciuto). Ci saranno ragioni tutte italiane mentre in Francia, in Spagna, o in Giappone si costruisce su vie ferroviarie naturali, tutte piatte e senza alcuna difficoltà. Ma il risultato da spiegare è come mai in Italia le ferrovie ad Alta velocità costano 61 (dico sessantuno) milioni al chilometro e in Giappone costa solo 9,8 milioni, in Spagna 9, 3 e in Francia 10,2.

Lo rileva un paragrafo del primo Rapporto della Commissione europea sulla corruzione nell’Unione, che vale la pena riportare integralmente: “L’alta velocità è tra le opere infrastrutturali più costose e criticate per gli elevati costi unitari rispetto a opere simili. Secondo gli studi, l’alta velocità in Italia è costata 47,3 milioni di euro al chilometro nel tratto Roma-Napoli, 74 milioni di euro tra Torino e Novara, 79,5 milioni di euro tra Novara e Milano e 96,4 milioni di euro tra Bologna e Firenze, contro gli appena 10,2 milioni di euro al chilometro della Parigi-Lione, i 9,8 milioni di euro della Madrid-Siviglia e i 9,3 milioni di euro della Tokyo-Osaka. In totale il costo medio dell’alta velocità in Italia è stimato a 61 milioni di euro al chilometro. Queste differenze di costo, di per sé poco probanti, possono rivelarsi però una spia, da verificare alla luce di altri indicatori, di un’eventuale cattiva gestione o di irregolarità delle gare per gli appalti pubblici”.

IL CARO LUBRANO (ve lo ricordate?) DIREBBE …LA DOMANDA SORGE SPONTANEA…

COME MAI ??

“Mentono tutti”: di Marco Travaglio

https://infosannio.wordpress.com/2016/07/17/mentono-tutti-di-marco-travaglio/

Pubblicato su 17 luglio 2016 da 

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(di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Ci avete fatto caso? Il Grand Guignol di Nizza come il fallito golpe in Turchia li abbiamo vissuti in diretta, com’è ormai consueto nell’era del Grande Fratello, fra tv, social network, videotelefonini e telecamere fisse. Eppure mai come da quando ci pare di sapere tutto, non sappiamo nulla. Perché tutti mentono. Tutti –scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 17 luglio 2016, dal titolo “Mentono tutti” –.

Ci avete fatto caso? Il Grand Guignol di Nizza come il fallito golpe in Turchia li abbiamo vissuti in diretta, com’è ormai consueto nell’era del Grande Fratello, fra tv, social network, videotelefonini e telecamere fisse. Eppure mai come da quando ci pare di sapere tutto, non sappiamo nulla. Perché tutti mentono. Tutti. Si pensava che l’homo videns di cui parlò Giovanni Sartori fosse almeno più immune dei suoi antenati alle bugie. Invece ne è vieppiù ostaggio, perché non sa neppure di non sapere. Crede di sapere tutto, dunque non cerca di saperne un po’ di più. O sospetta di sapere cose false, ma cade in preda alle leggende metropolitane del complottismo e della dietrologia, tanto false quanto affascinanti, dunque ritenute credibili come estrema reazione alle verità ufficiali, palesemente farlocche. Mente lo Stato Islamico, cioè l’Isis, quando 48 ore dopo la strage di Nizza comunica che il franco-tunisino Mohamed Lahouaiej Bouhlel “era un nostro soldato”. Da quanto accertato finora, non lo era affatto: non era uno jihadista inquadrato, era un pessimo musulmano, beveva come una spugna, andava a donne, non rispettava il Ramadan, nessuno l’ha mai visto in moschea. Era semplicemente un pazzo solitario, ma tutt’altro che scemo, che s’è fatto beffe della cosiddetta “sicurezza” francese, ancora una volta perforata come un colabrodo, non bastando i precedenti di Charlie Hebdo e del Bataclan. E probabilmente ha deciso di morire da famoso in mondovisione: come Andreas Lubitz, il copilota tedesco che si schiantò un anno fa sulle Alpi francesi con tutti i passeggeri del suo aereo di linea.

Mente il governo Hollande-Valls, quando assicura che la polizia transalpina ha “compiuto il suo dovere”, ma nulla poteva contro un terrorista “radicalizzato velocemente” ( tanto velocemente che non era neppure schedato tra i soggetti a rischio blando, malgrado i suoi precedenti per furti, violenze e altri crimini comuni: tipica tecnica di ingigantire il nemico per minimizzare le colpe di chi non ha saputo fermarlo). Se la polizia facesse il proprio dovere, nessun pregiudicato al mondo riuscirebbe a invadere, con un Tir noleggiato e una pistola in pugno, una zona pedonale affollata di migliaia di persone nel giorno della Festa Nazionale. Ammesso e non concesso che la polizia dica il vero, e cioè che Bouhlel ha forzato con abile manovra il posto di blocco (che invece, secondo testimoni oculari, non c’era neppure più), sarebbe stato inseguito e abbattuto dai gendarmi in pochi secondi.

E prima che prendesse velocità, visto che un tir fermo di 19 tonnellate non raggiunge i 90 km orari di colpo, ma ci mette un bel po’. Invece i gendarmi sono arrivati dopo un passante che ha tentato di aggrapparsi alla sua portiera e uno scooterista che l’ha affiancato tentando di fermarlo, quando ormai il killer aveva percorso quasi 2 chilometri e sterminato 84 passanti. Tutto ciò, senza ricordare gli allarmi inascoltati dell’intelligence francese su lupi solitari e schegge impazzite in agguato, e le durissime critiche della commissione parlamentare d’inchiesta al piano antiterrorismo varato dopo il Bataclan, bellamente ignorati dal governo Valls che aveva appena comunicato di aver “perso gli Europei ma vinto la sicurezza” e annunciato la fine dello stato d’emergenza.

Mentono i governi occidentali, dagli Usa all’Ue, che hanno atteso 3-4 ore prima di condannare il golpe e dare la solidarietà a Erdogan e al suo governo “liberamente eletto”. Hanno semplicemente aspettato di vedere chi vinceva per saltare sul carro giusto: avessero prevalso i golpisti, ora starebbero scaricando l’imbarazzante Sultano che perseguita gli oppositori, arresta o costringe all’esilio i dissidenti, chiude la stampa libera, censura il web (altro che “libere elezioni”), licenzia i magistrati, taglieggia l’Europa sui migranti e fa pure il doppio gioco col petrolio dell’Isis. Che il golpe sia stato un fulmine a ciel sereno per le cancellerie occidentali, non può crederlo neppure Alice nel Paese delle Meraviglie: la Turchia, ultimo avamposto della Nato verso il Medio Oriente, è piena di basi militari con personale americano ed europeo e tutti gli strumenti per intercettare gli F16 dei putschisti appena decollati alla volta di Ankara.

Mente anche Matteo Renzi quando, dopo ore di silenzio, corre in soccorso del vincitore Erdogan con gran “sollievo” per il “prevalere della stabilità e delle istituzioni democratiche” e perché “libertà e democrazia sono sempre la via maestra da seguire e difendere”. A parte l’abuso di parole come “libertà” e“democrazia”, che stonano sia col concetto di “stabilità” sia con un figuro come Erdogan che ora fa il controgolpe con la scusa del golpe, noi siamo uomini di mondo e capiamo quasi tutto: realpolitick, diplomazia, alleanze, interessi commerciali e anche la paraculaggine per dirottare altrove il mirino dei terroristi. Ma allora piantiamola con le ipocrisie. Com’è che, se “libertà e democrazia sono sempre la via maestra da seguire e difendere”, l’Italia continua a essere alleata di regimi illiberali e antidemocratici come l’Arabia Saudita, che, oltre a essere un’ottima fornitrice di Rolex a sbafo, è il principale finanziatore e megafono del reclutamento e della propaganda jihadista nel mondo? E che differenza c’è fra i generali golpisti “laici” turchi condannati ieri e il generale golpista “laico”egiziano Al-Sisi che seguitiamo a trattare coi guanti bianchi anche se continua a prenderci in giro sull’assassinio di Giulio Regeni? A parte il fatto che i golpisti turchi hanno perso e il golpista egiziano ha vinto, si capisce.

Ministero della Difesa russo: Eliminati 2000 terroristi dell’ISIS provenienti dalla Russia ed è stato permesso a 264.000 siriani di tornare alle loro case

Ministero della Difesa russo: Eliminati 2000 terroristi dell'ISIS provenienti dalla Russia ed è stato permesso a 264.000 siriani di tornare alle loro case

Il ministro della difesa russo Sergei Shoigu ha riferito della morte di più di 2000 membri russi del gruppo terroristico ISIS (Daesh, in arabo) in Siria.

“Durante l’operazione, le nostre Forze Armate hanno eliminato oltre 2.000 criminali provenienti dalla Russia, tra cui 17 comandanti militari”, ha dichiarato il capo della Difesa russo.
 
Nel corso di una conferenza militare e scientifica dedicata ai risultati dell’operazione russa in Siria, Shoigu ha dichiarato che questi terroristi avevano progettato per diffondere l’estremismo e il terrorismo sul territorio russo.
 
Gli attacchi aerei effettuati da forze aeree russe contro le postazioni di detto gruppo terroristico sono stati effettuati per evitare massacri e lo spargimento di sangue di innocenti in Russia ed ha permesso a più di 264.000 profughi siriani ritorno alle loro case.
 
In entrambi i casi, l’alto comandante militare russo ha avvertito che non è cessato il rischio dello scoppio di nuovi conflitti armati in Iraq e anche negli stati post-sovietici situati nell&#

 

39;Asia centrale e nel Caucaso. “Nel breve termine, il rischio di un conflitto militare persiste”, data la situazione attuale del mondo, ha aggiunto.
 
In questo contesto, Shoigu ha spiegato che la Federazione russa rispondere adeguatamente alle minacce potenziali, ricordando che l’operazione russa ha cambiato il corso della lotta antiterrorista per il governo della Siria contro i gruppi terroristici esistenti in Iraq.
 
Egli ha anche esortato gli Stati Uniti ed i suoi alleati a lavorare insieme per normalizzare la situazione ad Aleppo, cioè, applicare misure più gravi e “influenzare il più possibile in tutte le formazioni sotto il suo controllo in quella zona e proporre la tregua a coloro che sono disposti (ad accettarla) “.
 

 
Fonte: Hispantv
Notizia del: 16/07/2016

Air Force russa attacca i ribelli jihadisti lungo il confine con la Turchia

17/07/2016

Alle prime luci dell’alba mattina, l’Air Force russa ha iniziato a lanciare una potente serie di attacchi aerei contro i ribelli jihadisti di Jaysh al-Fateh (Esercito della Conquista) nella campagna a nord di Latakia.

Questi attacchi aerei russi hanno preso di mira diversi siti lungo il confine turco con il Governatorato di Laodicea-Latakia, aprendo la strada all’esercito siriano per l’offensiva nei pressi della città strategica di Kinsibba, questa mattina.

Una fonte militare ha riferito ad Al Masdar-News che la Air Force russa ha colpito gli assi settentrionale e orientale delle montagne curde (Jabal Al-Akràd), infliggendo gravi perdite ai ribelli jihadisti.

Nelle ultime due ore, l’Air Force russa ha spostato la sua attenzione alle città controllate dai jihadisti Kabbani e Kinsibba, con di oltre 30 attacchi aerei, mentre le forze armate siriane tentano di avanzare contro Jaysh al-Fateh.

L’Air Force russa ha svolto un ruolo fondamentale nella campagna di Latakia durante i mesi invernali, tuttavia, con il cessate il fuoco del febbraio scorso, la Federazione russa ha diminuito il numero di attacchi aerei in tutto il paese, mentre le bande armate ne hanno approfittato per riorganizzarsi.

Al-Masdar News

Una Lettera aperta ai Procuratori di Torino – di Pietro Saitta

post — 17 luglio 2016 at 13:10

lettera-amico-esempioDa Effimera – Gentili Procuratori,

Sono uno degli intellettuali firmatari della petizione per la libertà di ricerca diffusa da Effimera dopo la condanna dell’antropologa Roberta Chiroli, oltre che, non lo nascondo, di un certo numero di articoli dedicati alla medesima questione e ad altre analoghe assurte all’onore delle cronache in questi giorni.

Sono, insomma,  uno dei destinatari della vostra garbata lettera aperta, pubblicata su La Stampa il 14 luglio scorso. Una lettera di cui non vi si può non essere grati per la considerazione che avete mostrato circa le perplessità e le critiche piovute sulla Procura di Torino all’indomani di quella condanna.

Vi scrivo perché certo della vostra buona fede e della possibilità di condurvi lungo una serie di ragionamenti. In particolare trovo la vostra lettera eccessivamente schiacciata sul presente e, in un certo senso, “antistorica”.

Infatti, a partire dalle cifre che elencate, volte a ridimensionare il numero delle persone attualmente denunciate – 183 nel periodo Luglio 2015- Giugno 2016, e non mille come è stato detto – verrebbe da notare che omettete di confrontarvi con il ventennio precedente. La storia del movimento valsusino ha difatti inizio negli anni novanta. E per quanto poco meno della metà di questi anni siano caratterizzati da una recrudescenza delle tecniche di opposizione al progetto infrastrutturale Tav e, di riflesso, dalle attività di repressione, è pur vero che parlare di “appena” 183 denunciati esclude dal novero le persone precedentemente denunciate, condannate, fermate, oggetto di indagine, oltre a quelle assolte o prosciolte. Non so dunque se le persone entrate in contatto con la Procura e le altre agenzie siano mille; ma esse sono certamente ben più quelle che risultano attualmente denunciate.

Analogamente non appare convincente la parte in cui discutete della qualità dei reati e in cui suggerite che nessuno sia attualmente denunciato per terrorismo. I denunciati, i condannati e, per fortuna, gli assolti in secondo grado per il suddetto reato infatti esistono e anche questo entra a far parte della memoria collettiva e della storia.

Con questo intendo dire che qualsiasi analisi del fenomeno – soprattutto se per fini distensivi – dovrebbe fare i conti con l’insieme delle vicende che nel lungo periodo hanno determinato l’incancrenirsi delle relazioni tra comunità locale e Stato.

Peraltro guardare alla storia come a un crescendo speculare e reciproco, permetterebbe di vedere che quella della Val di Susa è sostanzialmente una vicenda di confronti negati, di ragioni neglette e di sostanziale imposizione di decisioni precipitate dall’alto, in barba alla volontà dei territori. Il tutto all’interno di una retorica pubblica, quasi pienamente sviluppatasi già negli anni novanta, che pretendeva di mettere proprio i territori al centro del processo decisionale.

Lo Stato centrale pretendeva di farsi sempre più snello, di assegnare poteri crescenti alle Regioni e alle comunità locali, ma, dall’altro, non rinunciava a imporre progetti e infrastrutture, che, alla luce di evidenze anche processuali, riflettevano spesso interessi circostanziati e particolari anziché quello generale.

La storia del movimento No-Tav è dunque innanzitutto la storia di una contraddizione in seno allo Stato, alle sue retoriche e persino alle sue riforme. E, successivamente, è anche la storia di una aggressione territoriale: espropri, cantierizzazioni, concessioni di appalti (peraltro anche a ditte sospette di connessioni con la criminalità organizzata) e, poi, la militarizzazione del territorio. E, a seguire, la coltre oppressiva di una presenza poliziesca smisurata; le intimazioni e le “intimidazioni”, quasi connaturate al fare polizia politica in scenari di crisi.

Un crescendo di intimazioni, dunque, che ha coinvolto tanto gruppi di persone impegnate in azioni dirette quanto singoli esponenti del movimento; ma anche uomini e donne nel loro quotidiano e, persino, nel loro ruolo di genitori, professionisti o semplici avventori di un bar. Persone, cioè, che si sono viste oggetto di controlli più spesso di quanto non sia lecito attendersi; che hanno sentito parole smorzate pronunciate informalmente e allusioni a figli la cui paternità/maternità sarebbe stata sospesa. Oppure che sarebbero state minacciate di provvedimenti che avrebbero riguardato il loro lavoro.

E che dire della funzione simbolica e comunicativa del diritto e della funzione delle corti? Ossia della valenza pubblica di processi per terrorismo che sì, è vero, coinvolgevano innanzitutto degli individui, ma diventavano anche e soprattutto parte di una narrazione pubblica relativa a popolazioni e persone, oltre che alle ragioni di una lotta?

Modi di raccontare un territorio e le lotte, oltre che di praticare la Giustizia, lecite da un punto di vista formale, ma del tutto parziali. Pratiche penali che, nell’affrontare quei reati di piazza (d’accordo, forse più “campestri” che “di piazza”!), oscuravano le ragioni profonde di quegli uomini e quelle donne. Uomini e donne che non potevano non stupirsi del fatto che, “pur sapendo” alla maniera di Pasolini (“io so, ma non ho le prove”), vedevano la giustizia concentrarsi su di loro, anziché sulla strana determinazione di poteri politici, élite e gruppi economici a volere condurre a termine questa infrastruttura, qualunque fossero i costi e nel più totale disinteresse per la questione sociale che la Tav aveva finito col rappresentare.

Senza contare che i decenni passavano e nuove generazioni di valsusini crescevano in mezzo a riunioni politiche, azioni di sabotaggio, denunce e processi ai danni di genitori e amici più grandi. In questo senso, una delle cose più straordinarie è il totale disinteresse dello Stato nella sua accezione più vasta – inclusa, ahimé, anche la Procura di Torino – per quella che, con qualche esagerazione, andava diventando la “nostra Palestina”: una fetta di territorio italiano, cioè, che vedeva generazioni di ragazzi crescere nel conflitto permanente, con ciò che questo andava significando in termini di relazione tra Autorità e popolazioni, legittimazione dei poteri e sprezzo verso di essi.

Non sono un determinista sociale e non credo affatto che questi giovani cresciuti nel conflitto permanente con lo Stato vedranno necessariamente aumentare il proprio coinvolgimento personale o generazionale, diventando magari terroristi o kamikaze. Mi limito invece a sottolineare che uno Stato come il nostro, già ampiamente fratturato da divisioni storiche, economiche e politiche, avrebbe probabilmente fatto meglio a evitare nuove spaccature. Perché quello della Val di Susa è ormai un conflitto storico e di lunga durata; oltre che una “questione di popolo”, nella misura in cui coinvolge differenti generazioni e vede come protagonisti di azioni eclatanti – dirette o, semplicemente, di disobbedienza – persone adulte, anziani e adolescenti. Conflitti del genere di solito restano a lungo nella memoria e determinano impatti politici di lunga durata.

Val dunque la pena di domandarsi se una infrastruttura, per quanto importante e proceduralmente legittima, valesse un conflitto di queste dimensioni. E anche quale sia la responsabilità quantomeno morale delle differenti articolazioni dello Stato e dell’Autorità pubblica nel non avere preso nozione di questo, anteponendo le questioni formali e di diritto a quelle sociali.

***

Nella vostra lettera, gentili Procuratori, facevate menzione della fretta con cui vari commentatori si sono affrettati a esprimere opinioni sulla condanna di Roberta Chiroli, l’antropologa condannata per avere usato la prima persona nella sua ricerca.

Nello stesso giorno in cui veniva pubblicata la vostra lettera, venivano anche rese pubbliche le motivazioni della condanna. Il quotidiano La Stampa pubblicava il seguente passaggio estratto dalla tesi di Roberta Chiroli:

«Ci siamo diretti verso la stazione per poter prendere il treno… improvvisando un piccolo corteo e bloccando di fatto la viabilità sulla strada… In quel momento arrivavano due camion e gli attivisti si sono disposti davanti alzando lo striscione mentre altri sventolavano le bandiere No Tav e gridavano slogan contro le ditte coinvolte nel cantiere.(…) dopo una decina di minuti…abbiamo interrotto il blocco del traffico permettendo ai camion e ai veicoli in coda di passare dirigendoci alla stazione».

Inoltre nelle motivazioni della sentenza si legge che:

«l’imputata partecipò alla manifestazione in oggetto con la piena consapevolezza del fatto che si sarebbe eseguito il blocco stradale poi effettivamente attuato […] sicché […] appaiono indiscutibili, da un lato, la coscienza e volontà di di aderire in via preventiva alla commissione dei reati […] e, dall’altro, la persistenza di tale atteggiamento soggettivo».

Mi perdonerete se assumerò qui la posizione del docente di sociologia e se vi dico che se il primo dei due brani è davvero il passo-chiave utilizzato per giustificare la condanna, allora i “critici” non si erano affatto sbagliati e si sono rivelati molto meno frettolosi di quanto suggerito dalla vostra missiva pubblica.

Quel brano è, chiaramente, un diario etnografico: uno “spazio confessionale”, direte voi giustamente. Così come, insieme a voi, lo sosterrebbero anche un padre fondatore della pratica etnografica alla stregua di Malinowski, oppure un altro influente esponente della disciplina come Van Maanen.

Ma prima di ogni altra considerazione occorre adesso precisare che il diario etnografico è lo strumento di chi pratica l’osservazione partecipante: una metodologia di ricerca basata sull’immersione profonda dentro gruppi umani. Popolazioni lontane ed esotiche, come nel caso di Malinowski; ma anche gruppi professionali come la polizia, in quello di Van Maanen. Oppure comunità di tossicodipendenti, nell’esempio di Bourgois; per non parlare dei narcotrafficanti, in quelli di Venkatesh, Adler o Taussig. Senza contare gli Hell’s Angels di Thompson; i bagni pubblici per omosessuali frequentati assiduamente da Humphreys. Oppure i jazzisti drogati di Becker; le donne e gli uomini di vita portoricani, dediti a truffe, prostituzione, furti e violenza studiati da Lewis (o, come forse sarebbe più corretto dire, dai suoi assistenti per lo più negletti e dimenticati, reali responsabili della collezione dei dati); o, magari, i locali per scambisti e le ballerine prostitute visitate da Barnao. Oppure i black bloc osservati da Fernandez e i graffitisti di Ferrell. Ma  anche i punkabbestia anarchici ed eroinomani osservati da Ciccozzi varrebbero una menzione; e pure quelli studiati da Amster. E, probabilmente, anche i violentissimi ultrà del Milan studiati da Dal Lago si lamenterebbero se non li citassi. Ma parlando di illegalismi politici – e qui sì che ci muoveremmo in spazi realmente radicali – difficilmente potrei omettere l’etnografia delle bombe umane palestinesi di Abufarha. Sarebbe più pertinente allora che mi limitassi a ricordare i gruppi politici di azione diretta studiati da un nuovo classico delle scienze sociali come Graeber, o quelli di alter-globalizzazione osservati da Williams. Per non parlare di Apoifis e dei movimenti anarchici ad Atene.

L’elenco potrebbe continuare davvero a lungo e i nomi di chi ha studiato, proprio alla maniera di Roberta Chiroli, attraverso la presenza, la partecipazione e resoconti narrativi basati sull’impiego della prima persona potrebbero agevolmente prendere diverse pagine di questa lettera. Ma vale forse la pena di sottolineare che Bourgois, pur frequentando assiduamente crackhouse e avendo consapevolezza dei reati lì consumati non è poi diventato né uno spacciatore né un tossicodipendente, ma un celeberrimo docente. E che lo stesso è vero per Venkatesh, testimone di una varietà di crimini, ma anche autentica nuova stella dell’antropologia mondiale; per non parlare di Becker, Taussig e pressoché chiunque altro citato nell’elenco precedente. Come dire che la partecipazione ai processi sociali non implica la trasformazione del ricercatore nel suo oggetto di studio.

E, dall’altro, per venire a quanto viene affermato nel secondo stralcio di motivazioni riportato sopra, che il ricercatore è istruito dalle scuole a non perturbare l’ambiente che osserva più di quanto non sia fisiologicamente dettato dalla sua semplice presenza nel contesto, né è generalmente tenuto dalla propria etica professionale a prevenire reati; specie se quei reati costituiscono l’oggetto della sua ricerca (e mentre è ammissibile che possano contemplarsi vistose eccezioni, i reati di cui parliamo qui non sembrerebbero affatto essere di quelli che pongono dilemmi etici, morali o professionali al ricercatore sociale).

Eviterò dunque di elencare ulteriori studi e autori, ma non potrò fare a meno di affrontare alcuni aspetti teorici connessi a questa problematicissima sentenza.

In primo luogo, l’osservazione partecipante dei fenomeni urbani devianti è sistematicamente praticata dagli studiosi sociali quantomeno dagli anni venti del secolo scorso. Per quanto ultimamente qualcuno abbia proposto una differente paternità per il metodo, gli studiosi riuniti attorno alla cosiddetta scuola di Chicago sono stati i primi a praticare questa specifica forma di osservazione e non vi è praticamente forma di abiezione umana che non abbia visto almeno un ricercatore di quel gruppo prendervi parte (e con questo non voglio suggerire che i No-Tav siano abietti).

Venendo agli espedienti narrativi, la prima stagione di quella scuola, ma anche gran parte di quelle a venire, era fondamentalmente positivista. Dal punto di vista narrativo, questo approccio si esplicava nell’impiego della terza persona e di forme impersonali. Inoltre, con vistose eccezioni come per esempio quella di Anderson, impegnato nello studio dei vagabondi, dei diari di campo non si faceva mostra né menzione. Ma non vi è dubbio che fosse proprio il diario a costituire lo strumento per l’analisi e che questo fosse scritto in prima persona (ne sono riprova i famosi diari di Malinowski, pubblicati postumi in epoche recenti, che fanno peraltro mostra del suo razzismo e opportunismo).

Non saprei dire esattamente quando il diario prenda a essere sistematicamente esibito nei testi etnografici. Potrei dire che probabilmente abbia giocato un ruolo fondamentale Geertz e, in particolare, il suo resoconto di un combattimento (illegale) di galli a Bali del 1973. Una situazione clandestina, per quanto ad alta partecipazione popolare, che viene disciolta dall’arrivo della polizia e che viene magistralmente descritta nel saggio attraverso un lungo stralcio diaristico, che si fonda magistralmente con l’analisi e che diverrà tra i testi più importanti dell’antropologia contemporanea.

Di certo, però, è la svolta “costruttivista” di Marcus, Clifford e del già citato Van Maanen negli anni ottanta che segna, tra molte altre cose, la più completa teorizzazione dell’impiego della prima persona. Sintetizzando  brutalmente, l’assunto è che il ricercatore non è onnisciente, ma contribuisce con la sua semplice presenza a creare o co-determinare le scene e i contesti che descrive. Incidenti, errori e situazioni devono perciò essere descritti dettagliatamente; la piena trasparenza delle modalità di conduzione tanto della ricerca quanto dell’analisi prendono a essere viste come un dovere del ricercatore e un diritto del lettore. Coerentemente l’uso della prima persona viene caldeggiato perché, per l’appunto, le azioni non esistono al di fuori delle inter-azioni e della compresenza del ricercatore e dei soggetti del suo studio.

A partire da qui iniziano molte nuove tendenze. E anche molti incidenti giudiziari – potremmo forse degli abbagli – del tutto simili a quello consumatosi a Torino il mese scorso. Il libro “Ethnography at the Edge” di Jeff Farrell e Mark S. Hamm è, per esempio, una lettura che mi permetterei sommessamente di consigliare.

Ciò che troverete lì è una sorta di manifesto della “rogue sociology”, della sociologia canaglia e anche un po’ machista. Troverete, cioè, tesi radicali come quella per cui nessuna conoscenza profonda dei fenomeni devianti può davvero avvenire senza confrontarsi in prima persona con gli stessi rischi, morali o fisici, esperiti dai soggetti studiati. Ma rinverrete lì anche una collezione di saggi riguardanti incidenti giudiziari, motociclistici, dilemmi morali offerti dal campo di ricerca, commissioni di crimini del tutto indipendenti dalla volontà del ricercatore e altro ancora.

In quel libro, insomma, reperirete gli elementi fondamentali del conflitto che sta dividendo voi come magistrati e noi come ricercatori nello svolgimento delle nostre rispettive funzioni.

Se i miei colleghi si staranno mettendo le mani ai capelli per la sintesi sin qui prodotta, ciò che mi importa dirvi, gentili Procuratori, è che Roberta Chiroli viene esattamente da questa storia. E che quello stralcio riportato da La Stampa – e gli altri che sono stati impiegati per assumere la vostra decisione – costituiscono niente di meno e niente di più che l’elemento minimo per potere condurre un’antropologia contemporanea e di qualità. La medesima antropologia che si insegna in gran parte delle università del mondo, a Berkeley come a Ca’ Foscari.

Lasciatemi inoltre dire prima di concludere che penso che le divisioni disciplinari abbiano segmentato e specializzato i saperi ben più di quanto fosse opportuno. Se come cittadini noi siamo tenuti a conoscere quantomeno le leggi fondamentali (non vi sarà sfuggito infatti che certi pronunciamenti negano la possibilità che una conoscenza più completa sia possibile), da questa vicenda non sembra affatto che voi vi sentiate ugualmente tenuti a conoscere quello che succede in altri mondi.

Mondi, talvolta, che, come nel caso dell’Università, costituiscono, alla stregua del vostro, un organo dello Stato. Un organo, per la precisione, deputato alla conoscenza dei fenomeni sociali. Quegli stessi fenomeni che, nell’esercizio delle vostre funzioni, siete quotidianamente chiamati a dipanare. Ma anche a comprendere. Possibilmente in un modo più complesso e meno specifico di quanto non possano fare le informative di polizia. E tra coloro che mettono a disposizione gli strumenti perché quella comprensione possa virtualmente avere luogo, ci siamo noi: gli studiosi di fenomeni sociali, gli antropologi e i sociologi.

Ed ecco perché quella sentenza e quelle motivazioni, gentili Procuratori, disturbano e turbano moltissimi tra noi: esse non sono semplicemente decisioni contro una giovane studiosa, Roberta Chiroli, ma una sentenza contro tutti noi nell’adempimento del nostro dovere istituzionale.

Cordiali saluti,

Pietro Saitta
Ricercatore di Sociologia Generale
Università degli Studi di Messina

Si dimette il vicepresidente degli imam di Francia: «Basta ripetere che l’estremismo islamico non esiste»

http://www.tempi.it/si-dimette-il-vicepresidente-degli-imam-di-francia-basta-ripetere-che-lestremismo-islamico-non-esiste#.V4t4SPmLTDc

 Tempi.it
Luglio 15, 2016 Leone Grotti

Davanti al silenzio delle istituzioni islamiche di Francia davanti all’attentato di Nizza, l’imam Hocine Drouiche si è dimesso: «Dobbiamo svegliarci e dire la verità. Queste istituzioni non fanno nulla per la pace sociale» 

francia-imam-islam-Hocine-Drouiche

Oggi si è dimesso in Francia Hocine Drouiche, imam di Nimes, importante esponente della comunità islamica francese, già vicepresidente degli imam francesi e candidato alla carica di rettore della Grande moschea di Parigi. Il religioso ha abbandonato ogni carica pubblica all’interno della comunità in polemica con tutti quegli imam e predicatori che non hanno ancora speso una parola per denunciare la strage di Nizza.

LA STRAGE. Ieri verso le 23 un tunisino al volante di un camion si è lanciato sulla folla riunita sul lungomare di Nizza per la festa del 14 luglio, quando si celebra la presa della Bastiglia, uccidendo almeno 84 persone. Anche se ancora non si conoscono le motivazioni dell’attentatore, ucciso dalla polizia, per la prima volta il presidente della Repubblica François Hollande ha detto che la Francia deve far fronte all’attacco del «terrorismo islamista».

«MI DIMETTO». Davanti al silenzio di molti imam francesi di fronte alla tragedia, che Drouiche definisce «terrorismo islamista», ha dichiarato sul suo account Facebook: «Annuncio le mie dimissioni e il mio rifiuto di queste istituzioni incompetenti che non fanno nulla per la pace sociale e che non la smettono di ripetere che l’estremismo non esiste, che è prodotto dai mass media. Spero che gli imam di Francia lascino perdere le loro riserve negative e, soprattutto, che non parlino nelle loro prediche del venerdì di argomenti che non hanno nulla a che fare con l’attentato. Il loro ruolo è quello di combattere l’odio e l’integralismo religioso».

«IDEOLOGIA DI MORTE». A inizio settimana, AsiaNews aveva pubblicato un importante discorso dell’imam di Nimes, nel quale dichiarava che «la religione oggi è il più grande problema della Umma [comunità globale dei musulmani]. Fra sciiti, sunniti, salafiti, Fratelli musulmani, l’islam politico e il jihadismo, decine di migliaia di giovani musulmani non trovano più la razionalità e la capacità di adattarsi ai tempi moderni. L’islam politico ha trasformato l’islam della vita e della speranza in un’ideologia di morte e di attentati nel nome del jihad e della difesa della Umma!».

«CRISI DELL’ISLAM». Riconoscendo che la «crisi religiosa musulmana diviene sempre più grave e complicata», affermava che «la primavera araba ha mostrato con chiarezza che il problema dell’islamismo è legato alla crisi teologica e giuridica dell’islam». Da qui la richiesta di una riforma della religione: «Gli ultimi attentati avvenuti in occidente e nel mondo musulmano mostrano come la riforma religiosa sia divenuta necessaria per la continuità dell’esistenza dell’islam e dei musulmani. Tali avvenimenti hanno mostrato l’importanza di questa riforma per la pace mondiale!».

«MUSULMANI EUROPEI, SVEGLIATEVI». Infine, l’imam francese faceva un appello ai musulmani europei: «I musulmani europei che aderiscono a questi gruppi pseudo-religiosi non si rendono ancora conto della paura e della collera dei cittadini europei verso di loro, a causa del loro silenzio incomprensibile e ambiguo verso gli attentati terroristi in Europa e nel mondo! L’islam politico, che descrive queste persone come razziste, fasciste, islamofobe non fa che aggravare la situazione: dipende dai musulmani europei e da questi gruppi razionalizzare il discorso e staccarsi dalle visioni importate dal mondo arabo».
E al Foglio ribadiva: «Non si potranno mai fare passi avanti se i musulmani europei non si mettono in testa che l’estremismo è diventato un fenomeno evidente all’interno della loro stessa comunità. Dobbiamo dire la verità. Io auspico che gli eventi di Parigi possano svegliare i musulmani in Francia, in Italia e in tutta Europa per salvare la nostra convivenza e il futuro delle nostre società».

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Riccione, due marocchini stuprano una donna senza fissa dimora: arrestati

le risorse della Boldrini. NESSUNA PIETA’ E SOLIDARIETA’ PER LA DONNA VITTIMA? Perché questa donna è lasciata sola senza protezione con i pericoli che ci sono? Belle le femministe “moderne”
 16 LUGLIO 201615:16
 
Gli uomini, entrati clandestinamente in Italia, le hanno fratturato la mandibola. Poi uno ha abusato di lei, mentre lʼaltro la teneva ferma
 
 
donna riccione
Una donna di 46 anni senza fissa dimora è stata stuprata, picchiata e rapinata da due marocchini sul lungomare di Riccione. Da qualche giorno la donna si era rifugiata in una ex colonia dove, nella notte tra giovedì e venerdì, ha incontrato i due uomini, entrati in Italia clandestinamente, che le hanno fratturato la mandibola. Poi uno ha abusato di lei, mentre l’altro la teneva ferma. I due sono stati individuati e arrestati.
 
Prima di fuggire, i due marocchini le hanno strappato il telefono cellulare e l’hanno chiusa in una stanza. Per paura di incontrarli di nuovo, la 46enne non si è mossa fino al primo pomeriggio di venerdì, quando è riuscita a forzare la porta e scappare. Una volta in strada ha chiesto aiuto a dei passanti che hanno chiamato il 118.
 
In ospedale la visita ginecologica ha confermato l’avvenuta violenza. Nel giro di poche ore i carabinieri hanno rintracciato i due stranieri, di 19 e 21 anni, e li hanno sottoposti a fermo in attesa della convalida che dovrebbe essere eseguita lunedì.
 
I due sono stati trovati all’interno della stessa colonia dove era avvenuta la violenza la notte prima. Fondamentale, per il buon esito dell’indagine lampo, è stato un recente servizio condotto dai militari negli edifici abbandonati sul lungomare nell’ambito del quale sono state identificate decine di persone.

Pergine Valsugana: Finanziere massacrato a calci e pugni, arrestati due stranieri

le risorse di mafia capitale, nessun titolone eh? NO CENSURA CENSURA
 
domenica, 17, luglio, 2016
Sono state 24 ore intense, di lavoro febbrile, di indagini serrate, uno sforzo dei carabinieri della Compagnia di Borgo Valsugana teso ad individuare i responsabili di un violento pestaggio nei confronti di Mario Aiello, un finanziare 35enne, avvenuto nella notte di ieri nei pressi del locale Ciolda di Pergine Valsugana.
 
 
L’uomo era stato aggredito fuori dal locale da due persone per aver difeso la sua compagna 39 enne di Pergine Valsugana. Era stato letteralmente massacrato senza ritegno dai due e ricoverato al pronto soccorso del Santa Chiara in condizioni gravi che di ora in ora si stanno aggravando. In questo momento sta lottando fra la vita e la morte.
 
I carabinieri di Borgo da subito molto determinati a trovare i colpevoli li hanno individuati nella notte. Si tratta di due giovani, D.O. 24enne di origini magrebine, pregiudicato per lesioni e per un ammonimento orale del Questore con divieto di avvicinamento alla madre, per averla più volte picchiata e M.A., 22enne cittadino polacco residente in Italia, pluripregiudicato, una vecchia conoscenza dell’Arma trentina.
 
Come è risaputo la scorsa notte era stata segnalata una furibonda lite nella zona di Pergine Valsugana, vicino il locale Ciolda, normalmente scevro da qualsiasi disordine.
 
All’arrivo dei carabinieri la situazione era già grave, infatti l’aggredito era per terra con il viso pieno di sangue e non dava segni di ripresa. Le testimonianze parlano di un tragico e violentissimo pestaggio che ha conciato l’uomo molto male e che ha spaventato molti avventori del locale.
 
Alcuni hanno parlato anche di comportamento «animalesco» dei due aggressori per la violenza dei colpi dati al povero militare mentre era a terra svenuto da un bel po’.Alcuni hanno definito la scena agghiacciante e spaventosa.
 
Nonostante la concitazione, la confusione e la paura, i Carabinieri hanno da subito iniziato a far luce sul caso. Tutto nasce da un apprezzamento volgare rivolto alla donna che accompagna il giovane pestato. Due uomini, da subito individuati secondo alcune testimonianze come non italiani, avevano esagerato con i commenti e il finanziere si era solo limitato a chiedere maggior rispetto per la donna.
 
Purtroppo poi la situazione è degenerata quasi subito e lo scontro è stato inevitabile. Mario Aiello è stato colpito con un pugno al volto ed è crollato a terra dove è stato poi preso a calci e pugni dappertutto. Solo l’intervento di alcune persone ha fermato la furia cieca dei due che poi, lentamente, si sono allontanati.
 
Grazie alle testimonianze e ad una ricostruzione dei fatti minuziosa, i militari sono però riusciti ad identificare uno dei due aggressori e dopo poco, anche il secondo.
 
Si è fin da subito consolidato l’impianto probatorio nei confronti dei due, ed il Pubblico Ministero di turno, concordando con le risultanze investigative dei carabinieri, ha infatti emesso un decreto di fermo per i due responsabili del pestaggio che, in nottata, è stato eseguito.
 
Ora si trovano nel carcere di Spini di Gardolo, a disposizione dell’A.G.. Dovranno rispondere della pesante accusa di tentato omicidio aggravato dai futili motivi.
 
Fonte  lavocedeltrentino.it   che ringraziamo

Istat: salgono a 4,6 milioni gli italiani in povertà assoluta

giovedì, 14, luglio, 2016
Poverty
Aumenta l’esercito degli italiani che vivono in condizioni di povertà assoluta. Secondo i dati diffusi dall’Istat, nel 2015 si stima che 4 milioni e 598mila individui siano in condizioni di povertà assoluta: è il numero più alto dal 2005. La povertà colpisce soprattutto le famiglie numerose e cresce in modo rilevante tra i giovani, mentre resta stabile tra gli anziani.
 
L’incidenza della povertà assoluta aumenta al Nord sia in termini di famiglie (da 4,2 del 2014 a 5,0%) sia di persone (da 5,7 a 6,7%) soprattutto per l’ampliarsi del fenomeno tra le famiglie di soli stranieri (da 24,0 a 32,1%).
 
Segnali di peggioramento si registrano anche tra le famiglie che risiedono nei comuni centro di area metropolitana (l’incidenza aumenta da 5,3 del 2014 a 7,2%) e tra quelle con persona di riferimento tra i 45 e i 54 anni di età (da 6,0 a 7,5%).
 
Analogamente a quanto accaduto per la poverta’ assoluta, nel 2015 la poverta’ relativa e’ piu’ diffusa tra le famiglie numerose, in particolare tra quelle con 4 componenti (da 14,9 del 2014 a 16,6%,) o 5 e piu’ (da 28,0 a 31,1%).
 
L’incidenza di povertà relativa aumenta tra le famiglie con persona di riferimento operaio (18,1% da 15,5% del 2014) o di eta’ compresa fra i 45 e i 54 anni (11,9% da 10,2% del 2014). Peggiorano anche le condizioni delle famiglie con membri aggregati (23,4% del 2015 da 19,2% del 2014) e di quelle con persona di riferimento in cerca di occupazione (29,0% da 23,9% del 2014), soprattutto nel Mezzogiorno (38,2% da 29,5% del 2014) dove risultano relativamente povere quasi quattro famiglie su dieci.

Golpe in Turchia, arrestati 10 giudici Suprema corte amministrativa

Le autorità turche hanno arrestato almeno 10 giudici della Suprema corte amministrativa, accusati di essere legati alla rete del leader religioso Fethullah Gulen, accusato da Ankara di essere lo stratega del tentativo fallito di colpo di Stato. Lo riporta l’agenzia Anadolu, secondo cui sono stati emessi 188 mandati d’arresto nei confronti di giudici considerati pro Gulen.
 
Turchia, pugno di ferro di Erdogan Migliaia di arresti, giudici rimossi Ordini di arresto sono stati emessi anche a carico di 140 giudici della Yargitay, la Corte di cassazione.RIMOSSI 2.745 GIUDICI. ll massimo organismo turco di controllo dei magistrati e procuratori ha sollevato dall’incarico 2.745 giudici in tutto il Paese.
 
perché tutti quei giudici rimossi? Un pò tantino per essere una “rappresaglia” il golpe sembra lo stia facendo lui ora
 
Gulen: il golpe è una messa in scena di Erdogan
domenica, 17, luglio, 2016
 
gulen
Sono quasi 300 i morti durante il tentativo fallito di colpo di Stato avvenuto in Turchia: si tratta di 41 ufficiali di polizia, due soldati, 47 civili e 104 persone descritte come complottisti. Oltre 1.400 i feriti. La notte piu’ lunga si conclude dunque con il fallimento del golpe tentato da una fazione dell’esercito contro il presidente Tayyip Erdogan.
 
Sono 2.839 finora i militari arrestati. Il premier turco Binali Yildirum ha detto che nella costituzione del Paese non è prevista la pena di morte, ma aggiungendo che il governo considererà cambiamenti legali per accertarsi che simili tentativi di colpo di stato non si ripetano mai più.
 
Erdogan ha chiesto agli Stati Uniti l’estradizione di Fethullah Gulen, l’ex imam che vive in America accusato di essere l’ispiratore del fallito colpo di Stato. Ma secondo Gulen “c’è la possibilità che il golpe di stato in Turchia sia stata una messa in scena per continuare ad accusare i miei sostenitori”
 
Gulen –  “C’è la possibilità che il golpe di stato in Turchia sia stata una messa in scena per continuare ad accusare i miei sostenitori”. Lo dice l’imam e magnate turco Fethullah Gulen ai giornalisti fuori dalla sua casa a Saylorsburg, Pennsylvania.
 
“Non penso che il mondo possa credere alle accuse del presidente Erdogan. Ora che la Turchia ha intrapreso il sentiero della democrazia non può tornare indietro”, ha aggiunto secondo quanto riportato dal Guardian. ansa
 
 
 
 
 
Il movimento guidato da Gulen controlla associazioni professionali e studentesche, organizzazioni caritatevoli, aziende, scuole, università, radio, televisioni e quotidiani e ha milioni di membri sia in Turchia che all’estero, nonché in Italia. Il predicatore, in esilio volontario negli Stati uniti dal 1999, (in una fortezza dove è protetto, dicono i vicini, da un centinaio di guardie turche con tanto di elicottero.) si è pronunciato più volte a favore dei diritti umani e del processo di democratizzazione e promuove una visione liberale dell’Islam, ma secondo i suoi critici dietro a quest’immagine tollerante si nasconderebbe invece un personaggio poco trasparente e un sistema clientelare occulto con infiltrazioni nella polizia e il sistema giudiziario turco.
 
Fethullah Gulen, in una rara intervista pubblicata ieri sul sito del mensile americano the Atlantic, non ha perso l’occasione per criticare l’operato del governo Erdogan: “E’ fondamentale per la Turchia preservare le conquiste fatte, in parte grazie alla relazione in corso con l’Europa, e avanzare nel processo di democratizzazione – ha detto Gulen – Se la Turchia sarà in grado di sviluppare buoni rapporti diplomatici nella regione, penso chesarebbe nell’interesse dell’Europa, gli Stati uniti e il mondo, gestendo e gestisce, secondo i critici, una cifra tra i 22 e i 50 miliardi di dollari. Ma non penso che la Turchia al momento stia facendo quello che può a tale scopo”.
 
Un rapporto dell’intelligenza turca MİT, lo ha dichiarato un “agente della CIA”, e nelle sue memorie, Osman Nuri Gündeş, ex-capo dei servizi segreti turchi, parlò di una stretta collaborazione tra Gülen e la CIA in Asia Centrale, dove gli agenti statunitensi agivano sotto la veste di “insegnanti d’inglese” nelle scuole del movimento.