Niente firme, il No perde soldi e rischia il bavaglio

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Obiettivo sfumato – Il Comitato presieduto da Pace e Zagrebelsky non raggiunge i 500 mila sostenitori: niente rimborso spese e niente spazi garantiti in tv (come sempre)
Niente firme, il No perde soldi e rischia il bavaglio
di Gianluca Roselli | 13 luglio 2016

In tv li avete visti poco (nemmeno due minuti di passaggio tv per il costituzionalista Alessandro Pace) e purtroppo sarà difficile vederli anche durante la campagna referendaria: il comitato del No al referendum non è riuscito a raggiungere le 500 mila firme. La notizia trapela dal “Coordinamento democrazia costituzionale” che domattina depositerà lo stesso le firme raccolte alla Corte di Cassazione. 

Le firme sono sopra le 300 mila, ma comunque lontane dall’obiettivo di mezzo milione necessario per chiedere la consultazione popolare.
Sull’altro fronte, quello del Sì, non c’è nulla di ufficiale, ma fonti Pd fanno sapere invece che l’obbiettivo è stato raggiunto. “Lo diremo solo domani, quando saranno depositate in Cassazione”, dice il vicesegretario Lorenzo Guerini.
La macchina organizzativa del partito da tempo lavora a pieno regime e proprio nelle ultime settimane, dopo le elezioni amministrative, è arrivato l’input da Palazzo Chigi e dal Nazareno a darci dentro. “Ci mancano ancora 100 mila firme”, aveva rivelato Matteo Renzi nella direzione nazionale di dieci giorni fa. E le sue parole erano suonate come un invito a darsi una mossa. Unico dato certo di ieri, però, sono le 50 mila firme raccolte in Toscana annunciate dal vicesegretario regionale dem, Antonio Mazzeo.
Al comitato del No la delusione è palpabile, anche perché le firme raccolte sul referendum costituzionale sono meno di quelle contro l’Italicum, dove si era arrivati a 420 mila.
A contare, secondo i promotori, sono stati diversi fattori: innanzitutto, come dicevamo, le ragioni del No sono praticamente rimaste clandestine sulle reti del servizio pubblico televisivo; in secondo luogo, per mettere in moto la macchina organizzativa si è perso quasi un mese dei tre a disposizione; in terzo luogo, le elezioni amministrative hanno distratto gli elettori nelle grandi città al voto; infine, il fatto che la raccolta firme non fosse necessaria allo svolgimento del referendum ha un po’ frenato la mobilitazione. Il referendum costituzionale, infatti, è confermativo e si terrà lo stesso perché ne ha già fatto richiesta un quinto dei membri della Camera.
Raggiungere le 500 mila firme, però, era importante innanzitutto come un segnale politico di forte mobilitazione da parte dei cittadini.
Poi con le firme il comitato del No, ovvero il “Coordinamento democrazia costituzionale”, avrebbe percepito un rimborso elettorale di 500 mila euro (un euro a firma) con cui finanziare la campagna referendaria.
Inoltre avrebbe ottenuto lo status di soggetto politico, equiparato a quello dei partiti, e questo avrebbe garantito il diritto di tribuna televisiva durante il periodo della par condicio, come recita il regolamento dell’Agcom. Infine, senza firme non si ha diritto nemmeno agli spazi pubblici per i manifesti.
Così, invece, il principale comitato del No – promosso, tra gli altri, da Gustavo Zagrebelsky, Alessandro Pace, Sandra Bonsanti, Massimo Villone, Alfiero Grandi e Felice Besostri – avrà spazi limitati, uguali a quelli dei comitati più piccoli, come quello di Renato Brunetta o Gianfranco Fini. “ Noi comunque domattina alle 9 e mezza consegneremo le firme raccolte, poi partiremo con una sottoscrizione popolare, perché per fare la campagna per il No avremo bisogno di soldi”, racconta Alfiero Grandi. “Una certa delusione è innegabile, ma siamo soddisfatti perché il nostro trend è in crescita: siamo partiti con 160 comitati e siamo arrivati a 400. Un lavoro che non verrà sprecato, perché poi quello che conta è vincere il referendum e la macchina che abbiamo messo in piedi servirà a fare una grande campagna elettorale”, aggiunge Grandi. “Il rimborso elettorale ci avrebbe fatto molto comodo, così come la garanzia di adeguati spazi televisivi. Ma questo non ci scoraggia, perché la campagna referendaria è appena iniziata”, osserva Mauro Beschi, un altro dei promotori. Al comitato del No serpeggia però un certo malumore per il mancato aiuto da parte di organismi che avrebbero potuto fare la differenza, come la Cgil e Sinistra italiana. Ma ormai, almeno sulle firme, la questione è chiusa.
Sull’altro fronte, invece, si tira un sospiro di sollievo, anche perché, vista la potente macchina organizzativa della ditta, fallire l’obiettivo firme sarebbe stato clamoroso. “La campagna sarà comunque durissima, perché i sondaggi danno il Sì ancora avanti, ma il No in grande recupero. Quindi non dobbiamo pensare di avere la vittoria in tasca”, fanno sapere dal Nazareno. Ma il Pd potrà sfruttare anche il mese di agosto, grazie alle feste dell’Unità, dove saranno presenti i banchetti per la campagna per il Sì, ma non quelli per il No.

13 luglio 16 FQ :
l referendum, Cisl, Cgil & C.: solo il superfluo è necessario di Marco Palombi 

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La cosa cominciava a metterci ansia.
Certo, non tutto è risolto, ma sapere che la Cisl si schiera per il Sì al referendum costituzionale ci toglie finalmente ogni dubbio su quale sia il posto di ogni vero riformista.
È vero, la Fim Cisl – i metalmeccanici – aveva già dato il suo appoggio alla legge Boschi, più che altro per fare il contrario di quel che fa la Fiom Cgil, che ha il negozio sulla stessa via, ma ora che si muove Anna Maria Furlan siamo più sereni: “Temiamo che anche questa volta, come altre in passato, una riforma necessaria si perda per strada. Abbiamo bisogno di andare avanti e di assetti istituzionali e tempi legislativi certi. Guai ad avere instabilità”.
Stabilità über alles, non sia mai.
Per i curiosi, la Cgil invece non ha ancora preso una posizione (non può dire Sì, non vuol dire No per partecipare alla riforma delle pensioni); la Uil è orientata a dare “libertà di coscienza” agli iscritti.
Sia chiaro, le righe che precedono sono un puro esercizio di stile: organizzazioni che difendono il lavoro e vedono passare in qualche decennio la quota salari sul totale dei redditi dal 66 al 50% senza dire nulla non hanno peso alcuno. Di recente, peraltro, si sono anche fatte smontare sotto gli occhi lo Statuto dei lavoratori su dettatura di Confindustria senza apprezzabili reazioni (mica siamo in Francia) e pure pensionati e statali – la maggior parte dei loro iscritti – da un po’ di anni hanno preso solo mazzate. Almeno, però, si sa cosa pensano delle riforme. È un sollievo: come ci ha insegnato Oscar Wilde, niente è più necessario del superfluo.

I LICENZIATI DELLE FERROVIE HANNO UN GRANDE RAMMARICO: AVER DENUNCIATO LA CRUDA REALTÀ, NON ESSERE RIUSCITI AD EVITARLA …

di Riccardo Antonini

Puglia: 27 Vittime e 50 feriti .

Da Viareggio un solo pensiero: Sicurezza e Giustizia! La Verità oramai è accertata. Per il 7° anniversario, 29 giugno 2016, siamo stati in 10mila per le strade cittadine.

Quella di Andria è l’ennesima strage annunciata, prevedibile, prevista . altra strage, oggi impossibile da evitare. Impedirla vuol dire: NON subordinare la vita, la salute, la sicurezza a logiche di profitto, di mercato, di competitività e produttività. La vita, bene ineludibile, inviolabile ed irrinunciabile, sta al posto di comando: prima di ogni altra logica. La privatizzazione, la liberalizzazione, la deregolamentazione, i tagli di personale ed alla manutenzione sono la madre di queste immani tragedie. La resistenza dei senza potere è necessariamente possibile al fine di ostacolare e contrastare la forza dei poteri forti. Solo modificando gli attuali rapporti di forza possiamo pensare di evitare simili stragi. Il resto rischia di essere esercizio di pura ed ipocrita retorica. NO alla prescrizione per Viareggio! Sicurezza e giustizia per Viareggio!

Postscriptum. I licenziati delle ferrovie hanno un grande rammarico: aver denunciato la cruda realtà, non essere riusciti ad evitarla …

https://www.facebook.com/notes/claudio-giorno/i-licenziati-delle-ferrovie-hanno-un-grande-rammarico-aver-denunciato-la-cruda-r/10153837003278691

STRAGE FERROVIARIA. AVEVATE DECISO CHI DOVEVA MORIRE PRIMA

http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=16660

A proposito di treni: Non è un incidente la strage ferroviaria in Puglia, è un crimine con molti colpevoli facilmente individuabili
 

DI PINO APRILE

Non è un incidente, è un crimine con molti colpevoli. Quei poveri viaggiatori uccisi sul binario unico sono vittime dell’immondo comitato di affari e tangenti che rovescia tonnellate di miliardi di euro su linee ad alta velocità inutili e sovradimensionate (fra Milano e Torino è stata progettata per merci e passeggeri, solo per far salire i costi, e per esser “economica” dovrebbero correrci almeno 400 treni al giorno; invece ne passano una quarantina e nemmeno uno merci); mentre al Sud si lasciano città senza treno, come Matera, altre ne vengono private, perché “non conviene”; e nel 2016 si sta ancora a binario unico su lunghi tratti, in regioni in pieno boom turistico, come la Puglia, la Calabria, la Sicilia, costringendo venti milioni di persone a collegamenti con velocità medie inferiori a quelle di un secolo fa, ma a prezzi, di fatto, più alti che nel resto del Paese e con vere e proprie truffe (frecciargento-fecciaschifo dismesse dal Nord, che percorrono gli stessi tratti dei regionali, ma a prezzi 7 volte maggiori e impiegandoci più tempo).

Siete (voi che questo avete costruito) assassini. Non possiamo portarvi dinanzi a un tribunale, perché avete fatto in modo da rendervi assolti; ma di fronte alla coscienza del mondo (esclusa la vostra, si capisce, della cui esistenza non abbiamo prove) siete condannati per omicidio plurimo, strage.

Signor Renzi Matteo, spieghi ai parenti di quei morti perché su 4560 milioni per le ferrovie ne ha destinati 4500 da Firenze in su e 60 da Firenze in giù (se sono arrivati sotto Firenze…).

Signor Delrio Graziano, informi chi sta piangendo per aver perso la ragione della sua vita che i suoi geologi stanno analizzando le rocce per capire se si può fare il treno fra Napoli e Bari. Poi, magari, spieghi ai suoi figli cos’è l’equità, il rispetto degli altri (valuti se è il caso di raccontare come ha fatto a non accorgersi che la sua Reggio Emilia, con lei sindaco, diventava “il bancomat della ‘ndrangheta”, mentre lei faceva visita ufficiale, per la festa del patrono, a Cutro, patria del boss Grande Arachi);

Signor Mauro Moretti, lei che, da capo di Trenitalia, pare cambiasse discorso quando si parlava di Sud (e se no, come ci diventava, da sindacalista, numero uno dell’azienda) vada dai sopravvissuti, a dire che ha fatto solo il suo dovere spendendo i soldi di tutto il Paese, solo in una parte del Paese; venda anche a loro la favola dell’azienda privata con i soldi nostri.
Non veniteci a parlare di errore umano; non veniteci a dire che i lavori per raddoppiare la linea erano in corso; non diteci che quelle sono le Ferrovie del nord Barese e voi siete altro… Lo sappiamo cosa siete. Non cercate i colpevoli, cercate uno specchio.

Fra lacrime di rabbia e di dolore, vi maledico; auguro ai vostri figli di non somigliarvi, per essere, come meritano, migliori. Voi che, come quanti vi hanno preceduto, avete spezzato un Paese in due aumentando i privilegi per alcuni e sottraendo diritti ad altri, siete colpevoli per esservi adeguati ai voleri di quelli cui dovete obbedienza e dei quali dovete garantire gli interessi; colpevoli come i nostri rappresentanti (si fa per dire: li scegliete e ce li imponete) che vi vendono la propria gente, per essere i primi degli ultimi; colpevoli come noi, per non essere stati capaci di tirarvi giù dai luridi seggi da cui vi illudete di contare qualcosa. Quando il mondo era civile, i responsabili di disastri come questo ne vivevano il tormento a vita.

Questi sono omicidi: l’iniquità è un’arma che colpisce a distanza, anche di tempo e il delitto non si rende manifesto. È vero che gli scontri possono avvenire anche dove il binario è doppio, ma è più facile che accadano dove è unico. Quindi, lasciandolo unico al Sud e doppio altrove, avete decretato chi deve morire prima. Che è l’essenza del potere. E della vostra colpa

Sprechi, carrette e Tav: la lotta di classe sui binari

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5 mila km di rete lasciati morire – L’abbandono delle tratte locali, l’inferno dei pendolari e i progetti faraonici dell’Alta velocità

Sprechi, carrette e Tav: la lotta di classe sui binari
di  | 13 luglio 2016

Binario unico e, sempre più spesso, binario morto. Sono più di cinquemila i chilometri, ma il conto è decisamente sottostimato, di strade ferrate che vengono lasciate arrugginire, e ogni anno si allunga la lista delle stazioni chiuse, abbandonate, donate ai rovi. Tutti gli incidenti dell’ultimo quarto di secolo sono accaduti su tratte secondarie, e tutti 

i convogli squarciati sono classificati regionali. Non un euro di manutenzione, non un minuto di attenzione, non un alito di riflessione di quanto sarebbe potuto servire all’Italia avere collegamenti decenti, regolari, sicuri, di come le città avrebbero potuto vivere senza la pressione demografica di chi non ha altra scelta che popolare le periferie perché raggiungere casa è impossibile.

Ogni soldo solo sulle linee più remunerative

Volterra, da quando ha perso il treno, ha subìto il dimezzamento dei residenti: erano ventimila alcuni anni fa, oggi sono la metà. Ferrovie dello Stato, dove non può tagliare, rallenta le opere di manutenzione straordinaria. C’è una frana tra Rogliano e Soveria Mannelli, in Calabria. Sono anni che c’è e anni che nessuno se ne prende cura. È l’omicidio perfetto: la frana non viene riparata, il treno non passa, la linea invecchia, il bus sostitutivo si fa regola.

La scelta è stata cieca: infilare ogni soldo solo sulle tratte più remunerative e più ad alto costo. Collegamenti tra le principali città, e basta così. Sono 15 anni che l’Italia è infiammata dalle polemiche sulla congruità del Tav Torino-Lione. Dieci giorni fa, il ministro Delrio ha spiegato, con una certa naturalezza, che s’era trovato il modo per risparmiare circa 3 miliardi di euro senza nuocere al progetto di trasporto veloce. Così, all’improvviso! E come mai solo adesso?

Terzo valico, tunnel e miliardi alla cieca

E che dire dei costi del terzo valico: miliardi (cinque? sei? sette?) per perforare una galleria alle spalle di Genova. Un tunnel lungo più di 30 chilometri che sbuca nella piana di Alessandria per il trasporto merci. Un’opera faraonica e dichiaratamente esagerata. Non un pensiero, un convegno, una riflessione per rispondere all’obiezione di chi giustamente fa notare che sono già attive tre distinte linee ferroviarie su quella tratta e forse ammodernarle sarebbe costato assai di meno.

Un’Italia in carrozza e una a piedi. Una con l’aria condizionata e superveloce e una intruppata dentro vagoni del secondo dopoguerra. Ma ovunque, all’orizzonte, la linea dello spreco.

Dal Tirreno all’Adriatico non si passa, bisogna fare il giro lungo. In autostrada logicamente. Da Orte al porto di Civitavecchia, il flusso si blocca, quel che ci sta in mezzo, e siamo nella Tuscia viterbese, è mangiato dal tempo, sepolto dalla polvere. Una gran massa di quattrini è stata distrutta in una serie incredibile di malversazioni proprio per restituire ciò che oggi non c’è. L’incolpevole Sardegna è stata teatro della più possente devastazione ferroviaria. Siamo alla fine degli anni Settanta quando le Ferrovie dello Stato, le cui linee sono alimentate con energia a 3 kilowatt, decidono di sperimentare l’alimentazione a 25 kilowatt, molto diffusa nel resto dell’Europa. Scelgono la Sardegna come terra di conquista di questo vettore moderno e una tratta lunga 350 chilometri come teatro delle operazioni. Dopo qualche mese le locomotive, belle e nuove, vengono riportate in continente e trasferite in catene, come boss della mala, tra Foligno e Rimini.

L’odissea delle locomotive

Sono rimaste le 25 locomotive, pegno alla memoria, a dare fastidio. A chi smistarle? Tre macchine, sempre in ceppi, sono trasportate in Ungheria per invitare i magiari a verificarne la qualità. Tecnici italiani vanno in missione, e sembra un film di Totò e Peppino, un classico della commedia napoletana, per tradurre nella lingua locale le indicazioni tecniche stampate in italiano. Niente ancora, neanche i magiari ci stanno: quel presepe non piace a nessuno.

Le macchine nuove di zecca (costate circa 5 miliardi l’una con 20 chilometri all’attivo) vengono abbandonate. Tre anni fa le poverette sono state decapitate a Bari, a qualche chilometro dagli ulivi di Corato, vendute a prezzo di rottame.

L’irragionevole ragionevolezza sulla Torino-Lione

post — 5 luglio 2016 at 12:40

imageDi Livio Pepino – il Manifesto– Infrastrutture. Il ridimensionamento della grande opera era previsto da anni. Non è un improvviso «Nì Tav» ma la prima ammissione ufficiale della grande truffa perpetrata nei tunnel sotto le Alpi

Commentando una dichiarazione del ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, il manifesto di domenica titola con qualche ottimismo e buona evidenza: «Torino-Lione, il governo diventa Nì Tav».

È proprio così o si tratta dell’ennesima bufala di un governo che privilegia, ancora una volta, la narrazione sulla realtà? Purtroppo la risposta è univocamente la seconda.

Eppure anche le bufale, a volte, aprono nuovi spazi in cui è bene inserirsi. Partiamo, dunque, dai fatti.

Cosa ha detto il ministro? Ha detto – secondo le agenzie – che il progetto della tratta nazionale della Torino-Lione, che da Bussoleno scende verso il capoluogo e raggiunge Settimo, è stato «revisionato» rispetto a quello preliminare del 2011, prevedendo, almeno in una prima fase, l’utilizzo di una parte consistente dell’attuale linea storica (23 chilometri e mezzo tra Bussoleno e Buttigliera) e l’accantonamento, nella parte di nuova realizzazione, di alcuni tunnel originariamente previsti (in particolare la cosiddetta «gronda merci», cioè la galleria di venti chilometri da scavare tra Torino e Settimo).

Di qui un risparmio di oltre due miliardi, un minor impatto ambientale e una maggior «rapidità» di costruzione della tratta (destinata a essere completata entro il 2030). Naturalmente – si è affrettato a precisare il ministro – «non sono arretramenti ma adeguamenti, e sono un’intelligente rivisitazione dei progetti per fare le opere nei tempi giusti, con i costi minori e che siano davvero utili».

L’affermazione ministeriale, oltre che reticente in alcuni passaggi, è un capolavoro di narrazione tesa a trasformare il flop dell’originario progetto (e le conseguenti necessarie marce indietro) in una scelta strategica dei proponenti effettuata per responsabilità economica ed ecologica (magari accogliendo, magnanimamente, alcune proposte degli odiati No Tav).

In realtà, peraltro, non c’è nulla di nuovo, se non la traduzione in progetto (a quanto pare…) di una sorta di concordato fallimentare predisposto, non senza imbarazzo, cinque anni fa.

Meglio lasciar le parole a una fonte non sospetta (Il Sole24ore del 3 marzo 2012): «Il miglior alleato dei No Tav è la difficoltà dei governi nel reperire le risorse per la realizzazione dell’intera linea Torino-Lione. Per questo, per uscire da un’impasse che rischiava di chiudere definitivamente in un cassetto il progetto, Italia e Francia sono state costrette, la scorsa estate, a prendere in mano le forbici e a dar vita a un progetto in versione “ridotta”, rispetto a quello da 20 miliardi, ipotizzato dall’Osservatorio di Mario Virano alla fine di un lungo lavoro di concertazione durato 182 riunioni.

Il risultato è che, ad oggi, l’unica tratta garantita della Torino-Lione è la costruzione dei 57 chilometri del tunnel di base. Solo su questa prima porzione della Torino-Lione si è deciso di procedere con la progettazione definitiva.

Sarà invece rimandata a data da destinarsi la realizzazione della parte comune in territorio italiano. Ancora agli albori resta la tratta italiana della Torino-Lione, ferma alla conferenza di servizi. Si lavora a un progetto a basso impatto, che utilizzi la linea storica da Bussoleno alle porte di Torino: costo di 2,2 miliardi rispetto al progetto tutto in variante da 4,4 miliardi».

Nessuna scelta innovativa, dunque, ma la presa d’atto della necessità di una via di fuga per evitare il disastro.

Va bene – si potrebbe dire – ma evitiamo posizioni di principio e rallegriamoci del fatto che qualche frammento di un’opera inutile e dannosa è stato rinviato sine die o abbandonato, qualunque ne siano le motivazioni.

Giusto. Purché si prenda atto che ciò rivela una volta di più l’irrazionalità dell’opera complessiva e non lo si utilizzi per rafforzarla con una asserita sopravvenuta «ragionevolezza» del governo.

Se ragionevolezza e coerenza ci fossero, infatti, la «decisione» odierna porterebbe con sé l’abbandono dell’opera nella sua interezza.

Infatti, delle due l’una. O i lavori originariamente previsti sono semplicemente rinviati, e allora la narrazione odierna è pura ipocrisia (anche in termini di risparmio di risorse) e lascia intatte le controindicazioni di sempre. Oppure – com’è probabile, nonostante le rassicurazioni ministeriali che tutto sarà rivisto dopo il 2030 (sic!) – l’abbandono è definitivo e allora ci sarebbe un’ulteriore decisiva controindicazione persino ponendosi nell’ottica dei promotori.

La ragione di fondo a sostegno della nuova linea (esposta con sussiego dai soliti sedicenti «esperti») è, infatti, che la linea storica sarebbe inadeguata in radice, per ragioni tecniche e trasportistiche, alle nuove necessità. Non è così ma, se mai lo fosse, che senso avrebbe costruire un tunnel di 57 chilometri tra Italia e Francia quando, a monte e a valle (ché altrettanto si sta facendo in Francia) resta in gran parte la linea storica?

Non sarebbe come costruire un ponte con dieci corsie quando le strade che vi conducono ne hanno solo due? E quale senso strategico ha la decisione odierna? Nessuno, ovviamente.

A meno che tutto fosse, fin dall’inizio, una gigantesca truffa che, finalmente, la crisi economica sta cominciando a svelare. Ad essere seri, la «revisione» annunciata dal ministro dovrebbe portare, quantomeno, alla sospensione dei lavori e a una nuova discussione globale sull’opera, prima che vengano sprecati altri miliardi di euro (poco importa se italiani o europei). Non farlo realizza l’ennesimo inganno.

Nessun «Nì Tav» governativo all’orizzonte, dunque. Ma, certo, una «scelta» e una narrazione che dimostrano una debolezza di fondo su cui occorre inserirsi politicamente.

Binario Unico e “Pensiero Unico”, le due tragedie italiane

Da Redazione Lug 12, 2016
di Luciano Lago
 
Lo schianto tra due treni nella campagna tra Andria e Bari sembra sia uno dei peggiori incidenti ferroviari avvenuto in Italia dal dopoguerra. Sconcerto per le circostanze della strage: un possibile guasto ai computer che gestiscono il transito lungo il tratto a binario unico che corre in aperta campagna“, tuttavia è accertato che le comunicazioni su questa linea avvengono per telefono.
 
Il  “binario unico”
 
CORATO (BARI) – Tutti i telegiornali ed i siti internet seguono a dare le informazioni sul grave incidente ferroviario avvenuto in Puglia: uno scontro fra due treni della società privata Ferrotranviaria che gestisce la linea Ferrovie Bari Nord, avvenuto questa mattina, tra Ruvo di Puglia e Corato, in aperta campagna, su un binario unico: un impatto frontale e “violentissimo”, che ha un bilancio molto pesante: 25 le vittime accertate e molti feriti ricoverati tra Andria e gli altri ospedali di Bisceglie e Barletta.“
 
 
Costernazione di molta parte dell’opinione pubblica  che realizza soltanto adesso l’esistenza di una vetusta linea ferroviaria a binario unico analoga a quelle realizzate nel 19° secolo che non è la sola ma caratteristica in molti parti del sud, dalla Calabria alla Sicilia alla Puglia (ma anche in alcune tratte locali al Nord).
Sul tratto, a binario unico, non sono previsti scambi e, per quanto il sistema si presuma computerizzato, sembra che da una delle due stazioni non sia arrivato il segnale di stop per uno dei due treni, treni di pendolari soprattutto. “
In sostanza si apprende che, mentre i governi che si alternano in Italia discutono ancora sulla TAV, un opera costosissima di alta velocità considerata inutile, costosa e superflua, una parte dell’Italia, il Mezzogiorno, si ritrova con infrastrutture ferroviarie tipiche dei paesi del 4° mondo.
 
La domanda di alcuni analisti è la seguente: Si potevano fare investimenti in infrastrutture al sud da parte di Governi che, firmando il “Fiscal Compact”, il pareggio di Bilancio, (per adeguarsi all’Europa) si sono castrati da soli sulla possibilità di investimenti pubblici per infrastrutture? Risposta no! 
 
Se ne accorgono però soltanto adesso, prima non sapevano o ignoravano che il Mezzogiorno d’Italia (e non solo quello) pullula di clientelismo e di sprechi ma si trova in totale assenza di infrastrutture moderne e nelle reti dei trasporti e in tutti gli altri settori. D’altra parte da Bruxelles e dagli adepti della sinistra mondialista è stato imposto una forma di pensiero unico: “ce lo chiede l’Europa e bisogna adeguarsi”. I politici italiani di sinistra e di destra si sono subito adeguati.
 
Tutto il resto, l’interesse nazionale ad ammodernare il paese nelle infrastrutture, spendendo a debito e creando nuova occupazione, era ed è un concetto totalmente assente nelle classi politiche di sinistra e di destra che si sono alternati al Governo. Prevale l’ideologia economica neoliberista che vede il primato delle leggi del “mercato” e delle privatizzazioni.
 
Il Pensiero Unico
 
Che cosa sia il Pensiero Unico lo abbiamo scritto varie volte: Si tratta di quella ideologia progressista, moderna, al passo con i tempi che ha eliminato i vecchi tabù economici e metapolitici che una volta erano presenti nella coscienza di chi doveva amministrare e sono stati sostituiti con altri concetti più moderni, avanzati e di rilevanza sociale ed economica.
 
Viviamo in un mondo aperto e globalizzato e non si può certo rimanere ancorati al proprio paese, alla propria realtà locale ed alla cultura del posto (ci dicono) ma bisogna aprirsi mentalmente ai nuovi concetti che arrivano da fuori, non si sa bene da dove ma quasi sempre dall’”Amerika”, dalle “democrazie avanzate” e dagli esperti di etica, dai grandi sociologhi e dai “maitre a penser” d’oltralpe, questo è quanto predica l’ideologia mondialista  della globalizzazione.
Il cittadino che pensa e vorrebbe farlo con un proprio metro di giudizio che gli deriva dalla sua estrazione e dalla sua cultura, si sente invischiato, avviluppato in questa nuova ideologia che inibisce qualsiasi pensiero ribelle che lo vuole omologare ai concetti prevalenti a prescindere da qualsiasi obiezione.
 
Si vive un epoca dove sono cadute le vecchi ideologie, dopo la caduta del muro di Berlino, trionfa invece quale ideologia diffusa e professata il liberalismo o meglio ancora la concezione neo liberale che risulta quella trionfante, basata sul dogma del libero mercato. Tutti i personaggi pubblici si proclamano liberali o quanto meno a favore del libero mercato e guai a contraddirli, si passa per retrogradi o nostalgici del veterocomunismo o dell’autarchia fascista. Quindi non esiste spazio per l’intervento dello Stato che dovrebbe investire in opere pubbliche spendendo risorse (che non possiede perchè ha ceduto la facoltà di battere moneta) ed aggravando il suo deficit, visto che dovrebbe chiedere i soldi in prestito entità bancarie internazionali. L’intervento dello Stato viene considerato obsoleto dagli economisti neoliberisti che inorridiscono al solo pensiero di uno Stato inteventista, d’altra parte l’Europa non ce lo permetterebbe.
 
Il mercato è una specie di entità superiore la cui mano invisibile corregge le deviazioni ed asperità dei provvedimenti economici, i mercati finanziari in particolare sono talmente onnipotenti da determinare da soli l’orientamento generale delle economie, il livello dei prezzi, la competitività e l’andamento dei profitti per le grandi imprese. Certo non possono ammodernare le infrastrutture ma si può affidare il compito al mercato ed ai nuovi gestori, se ne hanno voglia, nel ruolo di investire ed ammodernare le infrastrutture.
 
Se ci chiediamo in che cosa consiste il pensiero unico dobbiamo considerare che questo è in concreto la trasposizione in termini ideologici che si pretendono universali, degli interessi di un insieme di entità economiche e specialmente di quelle del grande capitale finanziario sovranazionale.
 
Le sue principali fonti si trovano nelle grandi istituzioni internazionali come l’ONU e organismi collegati come l’UNESCO, UNHCR, FAO, ecc., l’Organizzazione per la cooperazione e sviluppo economico (OCSE), il Fondo Monetario Internazionale (FMI), la Banca Mondiale, l’organizzazione per il commercio mondiale (WTO), la Commissione Europea, il sistema (cartello) delle banche centrali, tutti organismi che finanziano ONG, centri di ricerca, università e fondazioni chiamati a sviluppare le idee e le iniziative tutte collegate al pensiero unico ed all’ideologia mondialista propria di queste organizzazioni.
 
I concetti di questo pensiero unico e dell’ideologia mondialista vengono diffusi attraverso tutti i principali media ed in particolare quelli anglosassoni di informazione economica come l’Economist, il Financial Times, il Wall Street Journal, agenzie come Reuters, CNN, ecc. Tutti concetti ripresi dalla stampa nazionale ed europea e fedelmente fatti propri dagli opinionisti di Repubblica, del Corriere della sera, della Stampa, ecc. dalle principali reti televisive, tutti media di proprietà dei principali gruppi industriali e finanziari.
Il fondamento del pensiero unico, oltre all’ideologia liberale e neo liberista, è il concetto del primato dell’economia sulla politica, di conseguenza dell’importanza del giudizio dei mercati prima di qualsiasi altro. Una politica fatta da un governo può essere positiva se incontra il favorevole giudizio dei mercati e negativa se invece viene giudicata non conforme e incontra lo sfavore di questi che si manifesta il più delle volte con un declassamento delle onnipotenti agenzie di rating che sono tutte consociate con le principali banche d’affari (guarda caso).
 
Il verbo principale del pensiero unico è quello che predica la necessità di adeguarsi al mercato da parte di tutti: i governi devono adeguare la loro politica economica ai mercati, i lavoratori devono adeguare i loro contratti, salari e condizioni di lavoro al mercato (del lavoro), le imprese devono adeguare la loro produzione al mercato per essere competitive, lo Stato deve privatizzare i suoi servi essenziali e non, Il mercato a sua volta è dominato dal libero scambio illimitato (come fattore di progresso) e questo si basa sull’abolizione delle frontiere, sulla globalizzazione dell’economia, libera circolazione dei capitali e sull’omologazione delle condizioni di lavoro e dei diritti.
 
Si predica il concetto del sempre meno stato e più mercato come toccasana di tutti i mali, la privatizzazione dei servizi, l’efficienza in un sistema dove ciascuno sia responsabile del proprio benessere., quale retaggio della mentalità calvinista anglosassone.
Questi concetti sono ripetuti ossessivamente da tutti gli organi di informazione e dai politici senza distinzione fra destra e sinistra e questo conferisce una tale forza di intimidazione da soffocare qualsiasi tentativo di dissidenza o di riflessione libera. Il pensiero Unico sinteticamente questo, in ambito economico, ed è impossibile resistergli.
 
Si è portati quasi a pensare, in ambito europeo, che i circa 21 milioni di disoccupati in Europa, il disastro urbano, la precarizzazione generale del lavoro, la corruzione delle classi politiche, le tensioni nelle grandi periferie delle grandi aree urbane, il saccheggio dell’ambiente e l’inquinamento, il ritorno dei razzismi, degli integralismi religiosi, la marea degli esclusi, l’immigrazione di massa, tutto questo non sia che un miraggio, una allucinazione in grave discordanza con questo che dovrebbe essere il migliore dei mondi edificato in base ai precetti del Pensiero Unico e della globalizzazione.
 
Poi intervengono avvenimenti come il disastro ferroviario in Puglia e qualcuno arriva a riflettere: c’era ancora il binario unico in Puglia, ma non era il mercato che doveva risolvere tutto, non ci avevano detto forse di affidarci a lui, una”entità superiore” ?
Qualche cosa non quadra e le persone più avvedute iniziano a porsi delle domande. Non troppe però poiché il sistema non ti permettere di riflettere e di fare delle valutazioni che si discostano dal “Pensiero Unico”, Si potrebbe passare per “retrogadi e populisti”.
Il Pensiero Unico come il Binario Unico: una tragedia tipicamente italiana.

La democrazia… senza democrazia

Pubblicato 1 luglio 2016 – 14.27. – Da Claudio Messora
democrazia
Tratto da “Il Pedante“. Per il testo completo: “Democrazia dal basso, bassa democrazia“.
« Si prenda il caso della Commissione europea: i suoi 28 commissari sono nominati dal presidente della Commissione tra individui che “non sollecitano né accettano istruzioni da alcun governo” (Maastricht, art. 17), quindi obbligatoriamente indipendenti dall’indirizzo politico – cioè dalla volontà e dal controllo degli elettori – del paese di provenienza. Il presidente che li nomina è eletto dal Parlamento europeo su una ristretta rosa di candidati nominati dal Consiglio dell’Unione europea, i cui membri sono i capi di governo dei paesi dell’Unione. Nel nostro caso, il consigliere Matteo Renzi è stato a sua volta incaricato dall’ex presidente della Repubblica italiano, il quale è a sua volta eletto dal Parlamento, i cui membri sono nominati dai segretari dei partiti, i quali partiti (non le persone) sono eletti dai cittadini – peraltro con una legge giudicata non democratica con sentenza costituzionale, ma limitiamo i fronti.
 
In questa lunga catena la volontà dei cittadini italiani si affaccia timidamente in due punti: l’elezione diretta dei parlamentari europei (la cui funzione è più di convalida che di selezione) e l’elezione indiretta e incostituzionale dei parlamentari nazionali (che eleggono il presidente della Repubblica, il quale ha incaricato il capo di Governo, il quale concorre per un ventottesimo alla nomina dei candidati presidenti di Commissione, il quale nomina i commissari). Ora, qualcuno si chiede: questa è vera democrazia? I primi della classe non hanno dubbi: sì, perché il sistema prevede anche l’intervento di organi che in qualche modo esprimono la volontà elettorale. Per controbattere ai quali non basta però la sensazione (giusta) che la moltiplicazione della rappresentanza annacqui omeopaticamente il mandato elettorale fino ad annullarlo.
 
[…]
 
Dirottare l’impegno politico dei cittadini in forme ininfluenti di dibattito extraistituzionale per tenerli fuori dai piedi è una tecnica credo piuttosto comune. Ma lo stato dell’arte lo ha raggiunto solo in anni recenti il Movimento 5 Stelle, che della democrazia diretta ha fatto una bandiera per scardinare – dice – la casta autoreferenziale dei partiti tradizionali. Che si tratti anche dell’unico partito che non preveda meccanismi di selezione democratica dei propri leader è una contraddizione che non deve stupire. Nel M5S c’è un tripudio di democrazia nelle parti basse della gerarchia, con migliaia di meet-up impegnati a dibattere sullo scibile pliniano – dalla bioetica all’etichettatura dei cibi, dalle piste ciclabili al ripopolamento del peccio – mentre salendo l’afflato democratico si va assottigliando come l’aria in montagna, fino a spegnersi ai vertici. Più che una democrazia dal basso è una bassa democrazia, la cui vicenda va studiata perché paradigmatica non tanto di quel singolo partito (che si limita a darne una rappresentazione più nitida degli altri) ma di un’involuzione storica in cui, se le decisioni importanti devono avvenire al riparo dal processo democratico (cit. Mario Monti), il processo democratico deve riguardare solo le decisioni di poca importanza.
Le indiscrezioni riportate da Andrea Malaguti su La Stampa del 5 maggio 2013 – che cioè Gianroberto Casaleggio avrebbe vietato ai suoi parlamentari di occuparsi di macroeconomia – troverebbero conferma nella mortificante vicenda del programma per le europee 2014 dove, stando alle residue testimonianze degli attivisti (ad es. qui e qui), la seconda proposta più votata dalla base chiedeva l’uscita immediata dall’eurozona e il ritorno alla sovranità monetaria. Nella versione finale questa volontà era stata tradotta (da chi?) in un referendum consultivo sulla permanenza nell’euro con la risposta inclusa: gli eurobond. O per dirla con la leggiadria del portavoce Francesco d’Uva, era stata sottoposta (da chi?) a un processo telepatico e paternalistico di “libera estrapolazione del pensiero degli attivisti” in quanto evidentemente toccava ambiti di governo cruciali ritenuti (da chi?) non assoggetabili alla deliberazione democratica. La vicenda, oltre a mettere una pietra tombale sulla democrazia diretta di Giuseppe Grillo, pone una domanda importante: se i cittadini e i parlamentari di uno Stato non devono occuparsi di politica macroeconomica, chi diamine se ne deve occupare? Non lo sappiamo, non dobbiamo saperlo, non ci deve riguardare. »
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Per leggere il testo integrale: “Democrazia dal basso, bassa democrazia“.
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‘Regina del Caos’, il vero volto di Hillary Clinton

di Diana Johnstone – 02/07/2016
regina del caos
 
Disonesta e opportunista. Spietata e guerrafondaia. Con legami oscuri con l’Arabia Saudita. Un libro della giornalista americana Diana Johnstone offre un documentato controcanto alla narrazione prevalente sulla donna che potrebbe diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. In questa intervista l’autrice ci spiega perché la Clinton non è un “male minore” rispetto a Trump.
 
intervista a Diana Johnstone a cura di Fulvio Scaglione.
 
Esperimento. Prendere la biografia autorizzata di Hillary Rodham Clinton, uscita nel 2004 col titolo Living History (in Italia come La mia storia, la mia vita). E poi prendere il libro scritto dalla giornalista americana Diana Johnstone, biografia politica e certo non autorizzata della stessa Hillary, intitolato Hillary Clinton regina del caos, da poco pubblicato da Zambon Editore. È un tuffo vertiginoso non solo da un’epoca all’altra ma da un mondo all’altro. Là la Clinton è, fin dalla copertina, la moglie di successo di un uomo di successo, una signora glamour perfetta anche per il country club. Qua è una donna che fa l’uomo politico, dura, spietata, segnata anche in viso dalle lotte per arrivare al vertice, abile manovratrice nei corridoi del potere. Piccolo particolare: è questo, non quello, il personaggio che ha tutte le carte per diventare il prossimo presidente della superpotenza americana. Il libro della Johnstone, nel suo controcanto alla narrazione prevalente, è già imperdibile. Ecco allora qualche approfondimento dalla sua viva voce.
 
Quando ha cominciato a interessarsi a Hillary Clinton? E quale ritiene sia l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica?
 
“A dire il vero, non ho mai trovato Hillary Clinton interessante. E’ sempre stata troppo ambiziosa, disonesta, opportunista e limitata nella sua visione del mondo per essere interessante. Ma la sua reazione all’assassinio di Mohammar Gheddafi (“Siamo venuti, abbiamo visto, è morto”, seguito da una gran risata) ha rivelato una rara bassezza morale e una totale assenza di compassione e decenza. Con in più la volgarità di alludere a una citazione pretenziosa, senza dubbio preparata in anticipo dai suoi consiglieri per rafforzare la sua immagine di campionessa del “regime change”. E’ proprio questo l’aspetto più pericoloso della sua personalità politica: l’assenza di qualunque rispetto o sentimento umano nei confronti di coloro che lei considera suoi nemici. Quelli che non le piacciono meritano semplicemente di essere eliminati. La donna che sostiene serenamente che Vladimir Putin “non ha l’anima” non può certo portare la pace nel mondo”.
 
regina del caos2
Molti sembrano pensare che, se Hillary arriverà alla Casa Bianca, sarà suo marito Bill, in realtà, a guidare l’amministrazione. Lei che cosa ne pensa?
 
“A dispetto del loro insolito matrimonio, i Cinton hanno sempre fatto lavoro di squadra. Se lei sarà eletta, lui avrà il suo ufficio alla Casa Bianca, proprio come l’aveva lei quando era First Lady. Tra loro ci sarà una consultazione costante. Difficile però dire se sarà poi lui a guidare l’amministrazione, anche perché lei è più tenace e testarda di lui. Fu lei a spingere Bill a bombardare la Serbia. Hillary è molto impopolare e con ogni probabilità cercherà di usare Bill per le pubbliche relazioni. Il maggiore ostacolo a un “terzo mandato” di Bill è la salute: nel 2004 ha avuto un’operazione al cuore per un quadruplo by-pass, seguita da un’operazione al polmone. A 70 anni è molto meno dinamico di Bernie Sanders che di anni ne ha 74. Bill non è più in grado di assumersi responsabilità così pesanti”.
 
Hillary Clinton e l’Arabia Saudita, una pagina molto oscura della sua carriera politica. Perché negli Usa è così difficile dire la verità sui sauditi?
 
“All’epoca della crisi in Bosnia, quando l’Unione Europea avrebbe potuto trovare una soluzione di compromesso, l’amministrazione Clinton trovò conveniente schierarsi con i musulmani. In parte, questa alleanza è la continuazione della politica di Brzezynski, cominciata in Afghanistan e basata sull’idea di sfruttare gli estremisti islamici per attaccare il “ventre molle” della Russia. Aiutare i musulmani contro i serbi cristiano-ortodossi fu visto anche come un modo per compensare il tradizionale appoggio a Israele. Ma soprattutto l’alleanza con l’Arabia Saudita è considerata essenziale sia per regolare il prezzo del petrolio (strumento ora usato per indebolire la Russia) sia per finanziare il complesso militar-industriale con le gigantesche spese saudite per comprare armi americane. Hillary Clinton, con gli intensi rapporti che ha con Huma Abedin (per lunghi anni assistente personale della Clinton e figlia di dirigenti della Lega islamica mondiale, n.d.r) e con il denaro saudita, ha sposato questa alleanza con raro entusiasmo. Negli ultimi tempi, però, l’alleanza con l’Arabia Saudita sta subendo molti attacchi politici negli Usa, sia perché cresce il sospetto che i sauditi fossero implicati negli attentati dell’11 settembre, sia per lo sdegno causato dalle atrocità dell’Isis, che attirano anche l’attenzione sulla promozione del fanatismo islamista che l’Arabia Saudita persegue in ogni parte del mondo. Queste critiche potrebbero produrre qualche risultato politico se dovesse vincere Trump. Se vincerà Hillary, invece, non cambierà nulla”.
 
Hillary Clinton, Samantha Power, Susan Rice, Madeleine Albright. Lei è molto critica nei confronti delle donne che hanno un ruolo importante nella politica americana. Proprio mentre si esalta come una conquista il fatto che una donna possa diventare Presidente.
 
“Negli Usa la vita politica non tende a tirar fuori il meglio delle donne. Ne conosco molte che ammiro per la loro opposizione alla politica bellicista degli Usa. Ma difficilmente diventano note al grosso pubblico, ancor meno riescono a ottenere incarichi importanti. Rispetto moltissimo Cynthia McKinney, che ha perso il seggio al Congresso proprio per le sue critiche alla politica Usa in Medio Oriente. Applaudo l’azione di Tulsi Gabbard, anche lei membro del Congresso, che ha fatto il servizio militare in un’unità medica durante la guerra in Iraq e ha rotto con i Clinton proprio per la sua opposizione alle guerre basate sul regime change. In breve, ammiro molto più le donne che affrontano le sconfitte di quelle che sono circondate dall’aureola del successo”.
 
Ma le donne americane, alla fine, voteranno per Hillary?
 
“È una questione generazionale. Le donne anziane sono le sue più entusiaste sostenitrici, e spesso l’unica ragione che riescono ad addurre è proprio che è una donna. La maggioranza delle donne giovani alle primarie ha votato per Bernie Sanders. Anzi: le donne giovani erano la prima linea della campagna di Bernie. Certo, i commenti di Trump sulle donne sembrano rivelare l’intenzione di scatenare una guerra tra i sessi. Sta facendo di tutto per esser sicuro che il voto delle donne vada a Hillary”.
 
Molti, anche in Italia, pensano che in ogni modo Hillary sarà un “male minore” rispetto a Trump.
 
“Questa campagna presidenziale potrebbe rivelarsi un caso unico nel mettere una contro l’altra le due persone più detestate del Paese. Per molti votanti sarà difficile scegliere il “male minore”. Agli europei piace di più Hillary perché i media si sono dati molto da fare nel dipingerla come il candidato ragionevole e civilizzato in opposizione al pazzo scatenato Trump. Lui, in ogni caso, dice di voler trovare un accordo con la Russia, il che segna un punto a suo favore. Gli europei non dovrebbero preoccuparsi di chi vincerà le elezioni ma piuttosto di che cosa significhi per il mondo la leadership degli Usa. Questo è il vero tema del mio libro. Gli europei devono smettere di raccontarsi favole sull’America e riconoscere il pericolo che rappresenta per l’Europa”.
 
Lei davvero pensa che Hillary Clinton potrebbe scatenare una terza guerra mondiale?
 
È inimmaginabile che qualcuno, persino Hillary Clinton, possa volontariamente scatenare una terza guerra mondiale. Eppure, solo pochi giorni fa il New York Times ci ha raccontato che 51 funzionari del Dipartimento di Stato hanno firmato un memorandum interno criticando il presidente Obama per non aver lanciato attacchi militari contro Bashar al-Assad in Siria, anche al rischio di aumentare le tensioni con la Russia. Gli interventisti liberal e i neocon che si sono impadroniti della politica estera americana non avrebbero problemi a spingere Hillary Clinton verso una maggiore aggressività. Anzi, è proprio ciò che lei vuole. Gli Stati Uniti stanno forzando la Nato a mettere pressione militare sulla Russia e nello stesso tempo rischiano il conflitto con la Russia in Medio Oriente. Stanno creando una situazione paragonabile a quella che portò alla Prima Guerra Mondiale: basta un singolo incidente per far saltare tutto. Hillary Clinton è particolarmente pericolosa perché non dubita mai del fatto che gli Stati Uniti prevarranno se solo mostrano abbastanza “determinazione”. E che cosa hanno fatto gli alleati europei per impedire il disastro? Finora nulla”.
 
Diana Johnstone, “Hillary Clinton regina del caos“, pagine 247, euro 15,00, Zambon Editore
Fonte: Megachip

La gran balla dei vecchi pro-brexit e giovani pro-remain

pro-brexit
 
È passata quasi una settimana dal referendum britannico sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa e, tra tutte le notizie false, le interpretazioni sbagliate, gli allarmismi, le esagerazioni e le non comprensioni di cui è stato vittima il mondo del giornalismo italiano e internazionale ce n’è una che sta diventando un pericoloso ritornello: quello che vede dietro la sconfitta del Remain e la vittore del Leave un conflitto generazionale.
 
Il campo di battaglia sarebbe questo: da una parte le vecchie generazioni, quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni, i nati tra la battaglia della Somme e l’omicidio di Kennedy; dall’altra, le generazioni più giovani, quelle nate dai mesi della contestazione fino alla fine degli anni Ottanta. Sul ring, secondo tantissimi analisti, si sono sfidati i Babyboomers e la Generazione Erasmus. I genitori contro i loro figli. Vecchi contro giovani.
«Per un ragazzo di Londra, l’Europa è la fidanzata spagnola con cui ha amoreggiato durante l’estate del corso Erasmus a Barcellona. Per la vecchietta di Bristol citata dal capo degli ultrà nazionalisti Farage, l’Europa è il migrante nigeriano che attraversa la Manica per togliere il lavoro al figlio inglese della sua vicina ». Lo ha scritto sabato 25 giugno il direttore creativo de La Stampa Massimo Gramellini, uno a caso tra coloro che, non appena il dato ha iniziato a circolare, si sono aggrappati con le unghie ai paramenti del carro dei fini analisti, dei sociologi, degli scienziati politici.
 
«Ha vinto la vecchietta di Bristol», conclude laconico e retorico Gramellini, «perché ci sono più vecchiette che ragazzi, in questa Europa che non fa più bambini». Hanno vinto i vecchi. E pare veramente che la guerra civile generazionale sia veramente arrivata nelle case degli inglesi, almeno a leggere alcuni articoli del Guardian, che a distanza di quasi una settimana stanno ancora cavalcando quel discorso. Giusto martedì è uscito un articolo dal titolo che non lascia spazio alle libere interpretazioni: «Family rifts over Brexit: ‘I can barely look at my parents’», che in Italiano suona così: «Famiglie spezzate sulla Brexit: “Non riesco quasi a guardare i miei genitori”».
Eppure i fini analisti, i sociologi improvvisati e gli arguti scienziati politici di queste ore hanno preso un abbaglio che manco san Paolo sulla via di Damasco. E abbagliati si sbaglia, e qui lo sbaglio, oltre che macroscopico nel metodo, ha una portata pericolosa.
Questa storia, infatti, è falsa come una banconota da 30 euro. Primo, perché non esiste nessuno dato reale che può indicare la percentuale di voto per fasce d’età. Nessuno. I dati che sono stati usati per costruire questa storia della lotta generazionale sono il risultato di un indagine condotta da YouGov tra il 17 e il 19 giugno, ovvero una settimana prima del voto. E sapete quanto è largo il campione degli intervistati da YouGov? 1652 persone, di cui, gli over 65 erano 73.
 
Ricapitolando: a partire da un sondaggio fatto una settimana prima del voto su 1652 persone, i giornali di mezzo mondo stanno gridando al conflitto generazionale come a una guerra civile che potrebbe trasformare i salotti dei nostri genitori in campi di battaglia. Molto bene, ma non è verificabile in nessun modo. Il che fa di quei dati e di tutte le analisi che hanno generato un mucchio di roba inutile.
I discorsi di questa portata si fanno sulla realtà, non sulle speculazioni statistiche. E qui l’unica realtà consistente sono i dati ufficiali, quelli reali, quelli provenienti dai seggi dopo le operazioni do conteggio dei voti. Sono questi gli unici sui cui si possono basare ragionamenti di tale portata. Sono questi che possono essere interpretati a livello sociologico, confrontandoli con dati precedenti, per esempio, e comparandoli tenendo conto dei dati socio economici dei bacini elettorali che quei dati hanno generato. Il Guardian, da questo punto di vista, ha fatto un ottimo lavoro di sintesi grafica del voto.
Ne emergono dati interessanti che dimostrano — come mostrano i grafici del Guardian — come gli assi che sembrano aver condizionato più le decisioni degli elettori sono, nell’ordine, il livello scolastico, lo status sociale e la ricchezza procapite.
 
Capitale scolastico, capitale sociale, capitale economico. Guarda caso esattamente le categorie usate da Pierre Bourdieu, il grande sociologo francese, per descrivere le dinamiche tra le classi sociali negli ultimi decenni del Novecento. Classi sociali, non classi di nascita.
di Andrea Coccia – 02/07/2016
Fonte: linkiesta

27e SOMMET DE L’UA : AFRIQUE MEDIA ET LUC MICHEL EN DIRECT DE KIGALI

# AFRIQUE MEDIA EN DIRECT DE KIGALI/

LE ‘MERITE PANAFRICAIN’ DU VENDREDI 15 JUILLET 2016

SERA UN « SPECIAL 27e SOMMET DE L’UNION AFRICAINE »

kigali-UA

Du 10 au 18 juillet 2016, la capitale rwandaise accueille le 27ème sommet de l’Union Africaine. De la sécurité à l’hygiène dans la ville en passant par les infrastructures, les préparatifs sont finis, assurent les autorités.

« 2016 : Année africaine des droits de l’homme, avec un accent particulier sur les droits des femmes », c’est le thème de ce sommet.

 En direct de Kigali (Rwanda) à partir du 13 juillet :

AFRIQUE MEDIA sera présente sur place avec ses équipes

et avec Luc MICHEL et les caméras de EODE-TV.

 THEME DU ‘MERITE PANAFRICAIN’ DE CE 15 JUILLET :

« 2016 : ANNÉE AFRICAINE DES DROITS DE L’HOMME, AVEC UN ACCENT PARTICULIER SUR LES DROITS DES FEMMES »

 Au menu :

– L’Afrique réclame des places au conseil de sécurité ;

– L’abolition de la Cour Pénale Internationale ;

– Mettre fin au financement majoritaire de l’Union Africaine ;

Quelle lecture?

AFRIQUE MEDIA / EODE-TV

Photo : Le Centre des Congrès de Kigali où se déroule le 27e Sommet de l’UA.

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AFRIQUE MEDIA

* en STREAMING sur http://lb.streamakaci.com/afm/

* sur SATELLITE sur http://www.lyngsat.com/Eutelsat-9B.html

* WebTV sur http://www.afriquemedia-webtv.org/