LOCATELLI (PRC): PORTA SUSA, CONTRO LA POLITICA DELLA REPRESSIONE CI VUOLE UNA RIVOLUZIONE CIVILE

“Ancora una volta assistiamo a repressione e uso smodato e
ingiustificato della forza contro chi legittimamente protesta contro
chi rappresenta i grandi poteri politici, finanziari ed economici, che
hanno nel Tav il simbolo più eclatante”, sottolinea Ezio Locatelli,
segretario provinciale PRC.

“Oggi all’inaugurazione della nuova stazione di Porta Nuova, le forze
dell’ordine hanno reagito a slogan e qualche fumogeno, con cariche,
trascinando brutalmente per terra dei giovani e con un fermo”.

“Il consesso del potere politico (dal centrista Monti, al democratico
Fassino, dal leghista Cota e all’assessore di centro-destra Bonino)
ed economico (l’ad Trenitalia Moretti) esprime intolleranza verso chi
– sempre più apertamente – contesta le politiche delle grandi opere e
degli interessi finanziari, dimostrando come sia sempre più urgente e
necessaria una rivoluzione civile in questo Paese”.

Torino, 14 Gennaio 2013

Fare Propaganda per Chi è Contro l’austerità

·                                 Fare Propaganda per Chi è Contro l’austerità

·                                 21:42 13/01/13    

·                                 In questa elezione a differenza delle altre ci sarebbe una grossa posta in gioco, cioè rovesciare l’austerità prima che strangoli l’economia italiana.

Come minimo minimo bisognerebbe fare propaganda per i partiti e candidati che dimostrano di essere contro l’austerità e in particolare contro il “Trattato sulla stabilita’, sul coordinamento e sulla governance nell’Ue”, meglio conosciuto come“Fiscal Compact” o Patto di Stabilità Fiscale, sottoscritto il 2 marzo e votato in luglio dalla Camera e il 21 dicembre dal Senato. E contro il “Meccanismo Europeo di Stabilità” (Mes), al secolo il “fondo salva stati” che lo complementa (e che finora è costato all’Italia circa 15 miliardi che ha dovuto versare…)

I si’ per il Fiscal Compact alla Camera in luglio sono stati 380, 59 i no, 36 gli astenuti, quelli per il Mes sono stati 325 si’, 53 no e 36 astenuti. Solo la Lega ha votato contro; l’Idv si e’ astenuta. Gli assenti erano 103 e “in missione” 27 per cui molti che non erano d’accordo con il partito si sono dati assenti probabilmente.
Nella votazione del MES addirittura meno della metà dei deputati si è espresso a favore. 325 si, 53 no, 36 astenuti mentre gli assenti erano 188 e “in missione” 26.

Il “Fiscal Compact” impegna l’Italia a ridurre dall’anno prossimo a zero il deficit dello stato, quando in Giappone, Inghilterra, Stati Uniti il deficit rimane sopra l’8% del PIL annuo e sostiene in questo modo l’economia e quando ad es. persino in Francia ha deficit pubblici sul 4-5% del PIL. Non solo, in aggiunta impone all’Italia di ridurre dal 120% al 60% del PIL il debito pubblico in 20 anni, quindi ad ad avere avanzi di bilancio per 20 anni, ogni anno lo stato dovrà poi sempre incassare più di quello che spende!. Per l’Italia significa rimanere schiacciati dalle tasse e dalla Depressione per i prossimi 20 anni perchè è il deficit dello stato che crea moneta (a meno che le banche non aumentino sempre ogni anno il credito…cosa che come si è visto nel 2008 porta alla fine dei guai…). 

Ad esempio Berlusconi e DiPietro dicono che ora sono contro l’austerità, ma il PDL ha votato il Fiscal Compact (con quattro contari, alcuni astenuti e molti assenti) e DiPietro si è astenuto. Il 21 dicembre al Senato avrebbero potuto fermarlo e lo hanno fatto passare e ora vanno in TV a dire che l’austerità era un errore. L’UDC (Fini-Casini) e il PD hanno votati compatti per il Fiscal Compact e non sono nemmeno pentiti o lo criticano e sono quindi i peggiori e chi li vota è un povero deficiente.

I partiti, di destra o sinistra, da votare sono quelli che hanno votato contro perlomeno al Fiscal Compact e nel caso di partiti nuovi, che quindi non avevano deputati in grado di votare, quelli che dicono chiaramente di essere contrari, contro all’austerità e per ridurre le tasse. 

In pratica quindi, se ti preme che l’economia italiana non collassi, devi votare tra i partiti esistenti la Lega perchè è l’unica che ha votato contro e tra quelli nuovi il M5S. Oscar Giannino no, perchè si dichiara per il MES, glissa sul Fiscal Compact ed è per il pareggio di bilancio. Rifondazione-Ingroia no perchè parlano d’altro (e i loro deputati si sono astenuti). Lo so che ci sarebbero tante altre cose, ma qui è l’economia che conta.



Se volete fare qualcosa di utile e che non vi costa molto tempo e sforzo, prendete questo articolo riassuntivo (o scrivetene uno analogo voi o trovatene un altro) e copiatelo e incollatelo quando avete dieci minuti di tempo su qualunque forum di qualunque sito, da quelli dell’Espresso o Corriere a quelli di wallstreetitalia o Yahoo o sui siti dei partiti o qualunque altro sito e forum che conoscete da quello dei farmaciti a quelli di caccia e pesca.

·                                 http://www.cobraf.com/blog/?idr=123506995#123506995

Mali: integralismo, colonialismo, risorse

Il  nuovo Afghanistan per l’islam radicale, ma un territorio ricco di risorse tra Algeria, Niger, Mauritania. A tre passi dall’Europa e dal fronte mediterraneo.

mali-guerredi Ennio Remondino – Globalist.

Il nuovo Afghanistan. Il Mali raccontato come nuovo terreno di lotta scelto dal radicalismo islamico per battersi contro l’Occidente. Ma non è soltanto quello. Al contrario dell’Afghanistan, il Nord del Mali è al centro di un territorio in cui ci sono immense riserve di petrolio e di gas dell’Algeria, nuovi giacimenti che sono stati scoperti in Niger, nello stesso Mali, in Mauritania. Si trova a fianco delle maggiori riserve mondiali di uranio del Niger che muovono le centrali occidentali. Ed è al centro del passaggio dei clandestini e della droga che vengono verso l’Europa. Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) controlla, dall’aprile dello scorso anno, questo territorio. Lo controlla direttamente e da lì può determinare, influire, sulla trasformazione radicale di tutte le rivoluzioni della “primavera araba”.

Tornano le crociate. Paure e ambizioni di Hollande. Sono oltre 5.000 i francesi residenti in Mali, ma la minaccia riguarda tutto l’Occidente dopo questo intervento militare, visto che Aquim afferma, “Sta preparando una guerra ai crociati” e che “dispone di armi sofisticate”. Sul fronte opposto la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao) ha già mobilitato 3.500 militari da inviare in rinforzo all’esercito maliano: da Niger, Nigeria e Togo 600 soldati ciascuno, da Senegal, Benin e Burkina Faso dalle 100 alle 500 unità ognuno, e dal Chad, che non fa parte della Cedeao, la disponibilità di uomini e flotta aerea, a bilanciare la defezione di Costa d’Avorio, Mauritania e Liberia, alle prese con problemi interni, e la posizione attendista dell’Algeria che non vuole “aiuti” occidentali nell’area.

Venti di guerra. Sul fronte Occidentale, da sempre Usa e Francia si sono dichiarati favorevoli a una soluzione armata stile Libia, disponibili per fornire logistica e addestramento. Secondo quanto riportato da alcuni media – Washington Post, Le Figaro e Jeune Afrique – gli Stati Uniti potrebbero utilizzare droni. La Francia – lo abbiamo visto – ha già dato il via al centinaio di forze speciali che aveva da dicembre nella regione, oltre il supporto aereo. L’opzione militare appariva scontata già dopo la riunione del 19 ottobre a Bamako tra rappresentanti di Onu, Cedeao, Unione Africana, Ue, che condividono il timore di un’implosione del Mali attraversato da spinte secessioniste, col radicamento di gruppi islamici radicali e instabilità istituzionale. Calcolati 500.000 sfollati su 15 milioni di abitanti, destabilizzando l’intera Regione

L’incertezza al potere. Cos’è accaduto nel Paese che è stato in grado nel 1991 di rovesciare con un colpo di stato incruento il regime a partito unico del generale Moussa Traoré e nominare Presidente, nelle prime elezioni libere, l’archeologo Alpha Oumar Konaré? Ribellioni al Nord e tensioni sociali mai sopite non hanno impedito al Mali una certa apertura e forme di democrazia interna reale: patto nazionale tra Governo e i movimenti dell’Azawad, un milione e 500 mila persone nomadi, i Tuareg, nell’aprile 1992. Libertà di stampa, sviluppo del turismo e investimenti stranieri. Progressi consolidati con l’elezione di Amadou Toumani Touré, ex generale e protagonista del colpo di Stato del 1991 che aveva fatto della cooptazione dei rappresentanti di tutte le correnti il suo metodo di governo. Poi colpi di stato e l’attuale ritorno di Touré.

Clientele tribali. Il favoritismo verso dirigenti mediocri, la corruzione, l’incanalamento delle risorse verso la capitale che assorbe il 90% di abitanti a danno delle regioni del nord e la penetrazione dei gruppi jihadisti di matrice qaedista nel Sahel, hanno progressivamente eroso le capacità mediatrici di Touré, convinto, dopo aver ottenuto la liberazione di 32 occidentali rapiti in Algeria nel 2003, di avere acquisito un ruolo fondamentale nei contatti con Aqim, esercitato con successo sino al 2010 anche grazie al supporto, in termini di mezzi e uomini, di Usa e Occidente nella “lotta al terrorismo”. Ma il “vento mutante” che attraversa l’arco Mediterraneo e i Paesi confinanti del sud, segnala invece una discontinuità profonda con il passato. Tra l’Africa che assaggia la democrazia e l’estremismo c’è stata di mezzo la Libia.

L’effetto “Libia”. Nel novembre 2011, a meno di un mese dalla caduta di Gheddafi, il gruppo “Tuareg per la liberazione dell’Azawad”, insieme a tutte le organizzazioni indipendentiste della Regione -“Movimento Nazionale Azawad”, “Movimento Popolare per la Liberazione dell’ Azawad”- forte di oltre 8 mila combattenti e rinforzato dai tuareg arruolati nell’esercito libico e rientrati -si parla di 2-3 mila uomini, addestrati e dotati di considerevole armamento- ha riproposto al governo la richiesta di indipendenza del Nord, dichiarandosi pronto alla lotta armata. Il conflitto, dilagato in tutto il Nord, ha mostrato un esercito demotivato, nonostante la fornitura di armi e addestramento da parte degli Usa, e incapace di contenere gli assalti dei tuareg. Stesso esercito che oggi dovrebbe dare sostanza all’intervento francese.

Nuovo colpo di Stato. Da questa situazione nasce il colpo di stato di marzo, guidato dal capitano Amadou Sanogo che annuncia l’insediamento del “Comitato Nazionale per il Risanamento della Democrazie e la Restaurazione dello Stato” e promette di restituire il potere ai civili al termine dell’emergenza. Il Paese si spacca in due. Alleanza militare dell’Mnla con formazioni jihadiste vicina ad Aqim, come “Ansar Dine”, Difesa dell’Islam. Organizzazione armata guidata dal leader tuareg Iyad Ag Ghaly, già console maliano in Arabia Saudita, e il gruppo Mujao, insediato a Gao, che hanno favorito l’avanzata dei ribelli. Il centro di Timbuctù è conquistato da “Ansar Dine” l’aeroporto dall’Mnla, mentre la città diventa sede del quartier generale di Aquim. A Bamako, nella base abbandonata dall’Esercito si installa la “Brigata Faruk”.

Maghreb islamico. “Al Qaida in the Islamic Maghreb” controlla militarmente gran parte del territorio grazie a tre comandanti algerini: Abu Zaid, Mokhtar Belmokhtar e Yahya Abu al Hamman. La dichiarazione di “Indipendenza da Mali per uno Stato basato su una Costituzione democratica” aggrava uno scenario già complesso: la Comunità internazionale, primi fra tutti Francia e Unione Africana, la ritiene nulla. Le milizie islamiste dichiarano che intendono esercitare la sharia nelle città conquistate. I militari golpisti invocano l’aiuto internazionale. Gli stessi tuareg, nomadi abituati a vivere attraverso le frontiere di Mali, Niger, Algeria, Libia e Burkina Faso si impegnano a rispettare i confini degli Stati, ma la Comunità Internazionale non ci crede. E di fatto, abbiamo certezza oggi, prepara l’azione militare in corso.

La resa dei conti. Il primo a capitolare è il Capitano Sanogo, che ad aprile firma con la Cedeao un accordo che obbliga i golpisti a passare i poteri al Presidente del Parlamento, Diouncounda Traoré, impegnato a fissare le elezioni presidenziali entro 40 giorni e a proteggere il Presidente deposto. In cambio, la Cedeao abolirà le sanzioni e concederà l’amnistia ai golpisti. Diventa pubblica la frattura fra i leader dell’Azawad e le milizie islamiste. Intanto l’Onu boccia la proposta di intervento armato presentata da esponenti militari di alcuni Paesi dell’Unione Africana guidata dal Presidente del Benin, Thomas Boni Yayi. Il rifiuto dell’Onu diventa elemento non secondario nella ripresa degli scontri fra tuareg e gruppi islamisti che in poche settimane conquistano -con i militanti di “Ansar Dine” e di “Mujao”- le città di Gao e Timbuctù con episodi di ferocia.

Jihadisti contro Tuareg. Lo scontro non è soltanto politico ma anche religioso. A Timbuctù vengono dissacrate importanti moschee e mausolei dove si pratica il culto dei santi della dottrina sufi, ritenuta “empia” dai jihadisti, fino a sconfiggere -con l’aiuto di Aqim- i tuareg dell’Mnla ad Ansogo, a pochi chilometri da Gao, costringendoli ad abbandonare definitivamente il territorio dell’Azawad. Su invito del “Consiglio per la Sicurezza e la Pace” riunito a luglio dall’Unione Africana ad Addis Abeba, si cerca di ottenere l’invio di una Forza militare internazionale per fronteggiare i qaedisti ed evitare il loro radicamento nel nord. La situazione del Mali e dei Paesi vicini spinge lo stesso Presidente a chiedere l’intervento dell’Onu. Nell’attesa, la Francia decide per tutti, con i propri parà ma con l’aiuto dei droni Usa.

 

Fonte: http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=38345&;typeb=0&Mali-integralismo-colonialismo-risorse.

OBAMA S’INVENTA UNA NUOVA MONETA PER ABBATTERE IL DEBITO

Avvertenza di inizio articolo: quanto state per leggere è tutto vero, non è frutto di allucinazioni. Avendo rimandato il possibile tonfo nel precipizio fiscale di due mesi, ora però gli Usa rischiano di prendere la direzione opposta: ovvero, sbattere la testa contro il cosiddetto “debt ceiling”, ovvero il limite legale di indebitamento. Che fare? Innalzare quel limite, la scelta molto furba compiuta nel luglio del 2011 dopo settimane di pantomime? Creare una botola? Una nuova skyline? No, a Washington stanno prendendo in considerazione un’altra ipotesi: ovvero, essendoci un limite legale nel numero di banconote in circolazione e anche per le monete in oro, argento e rame, si sta pensando di creare un moneta in platino, materiale che non conosce limite legale nell’emissione di moneta, da 1 triliardo di dollari per abbattere parte del debito e metterla in saccoccia un’altra volta al “debt ceiling”.

Lo ha confermato al programma Today della Bbc l’analista finanziario Cullen Roche, fondatore dell’Orcam Financial Group e blogger di Pragmatic Capitalism, secondo cui questa ipotesi «è stata presa in qualche modo molto seriamente a Washington. So che ne hanno parlato alla Casa Bianca e anche un gruppo di prominenti personalità, tra cui molti membri del Congresso». Non essendoci un limite legale alle monete in platino (solitamente usate solo a scopo commemorativo), in teoria Obama potrebbe dar vita a un “Platinum Coin Act”, dare ordine al Tesoro che venga forgiata la moneta con impressa la cifra a dodici zeri e dallo stesso Treasury poi depositata sul suo conto presso la Fed, operazione che permetterebbe – sempre in teoria – di abbattere o cancellare un triliardo degli attuali 16,4 di debito. 

Lo so, pare una barzelletta, non a caso il presentatore-comico statunitense Stephen Colbert ha dedicato alla questione tre minuti di ironia fulminante nel suo “The Colbert Report ” (*) su Comedy Central, concludendo che la cosa è probabile, visto che il motto di Obama era “Change” (che significa sì cambiamento ma anche resto, inteso come le monete che vi danno dopo aver effettuato un pagamento con banconota per un importo maggiore). Per Roche si tratta di un «un artificio contabile ma anche un’idea stupida da utilizzare contro un’altra idea stupida, ovvero quella in base alla quale gli Stati Uniti facciano volontariamente default sul proprio debito. Si parla di questa ipotesi da un anno, all’epoca era solo uno scherzo ma ora devo constatare che la situazione è davvero triste, se un organo come il Congresso è diventato così disfunzionale da prendersi la briga di riesumarla». Sempre Roche pensa che «Obama non andrà avanti a livello operativo ma potrebbe usare la moneta da un triliardo come un minaccia al Congresso, ovvero “se provate ad accettare l’ipotesi di default sul debito, io attivo l’opzione moneta”». Ma se pensate che l’America sia ormai fuori di testa, allacciate le cinture di sicurezza prima di sentire cosa ha intenzione di fare il Giappone. Il ministro delle Finanza nipponico, Aso, ha reso noto nell’ordine che: il suo Paese acquisterà bonds del fondo europeo ESM, che lo farà per un ammontare non ancora deciso, che lo farà utilizzando riserve valutarie estere e al fine di stabilizzare lo yen. Insomma, per stabilizzare la sua valuta, il Giappone monetizzerà il debito europeo, forse non essendo ancora sufficiente il quadrilione di yen del suo che già detiene.

Ma c’è poco da fare, il dado è tratto, tanto che il neo-premier Abe vuole una dichiarazione da parte della Bank of Japan di cooperazione con il governo, prontamente sottoscritta – almeno a parole – dal governatore Amari. D’altronde, Abe sembra intenzionato a proseguire sulla sua strada come un carrarmato e sta preparando il più grande extra-budget dalla crisi innescata dal crollo di Lehman Brothers, qualcosa pari 12-13 triliardi di yen (circa 140 miliardi di dollari), il 2% del Pil e molto vicino alla manovra monster da 13,9 triliardi di yen posta in essere nell’aprile 2009 dall’ex premier Taro Aso. Di quella mole di denaro, circa 6 triliardi di yen sarebbero destinati a progetti di lavori pubblici, più dei 4,6 triliardi preventivati nel budget iniziale di 90 triliardi di yen per l’anno fiscale in atto deliberato nel marzo scorso. Insomma, un bazooka vero e proprio.

E a farci capire come gli stessi giapponesi stiano prendendo molto sul serio la decisione di Abe di portare l’inflazione al 2% per svalutare lo yen, lo dimostra la mossa dei fondi pensione nipponici, i secondi al mondo per assets investiti dopo quelli Usa, di raddoppiare le loro detenzioni in oro, passando dagli attuali 45 miliardi di yen a 100 miliardi (1,1 miliardi di dollari) nel 2015, manovra di hedging dichiaratamente anti-inflattiva anche in vista di uno shock sul mercato obbligazionario sovrano nipponico, un quadrilione di yen quasi interamente in mano a giapponesi.

Per capire le dimensioni degli operatori di cui stiamo parlando basti dire che il Government Pension Investment Fund of Japan gestisce assets per 113,6 triliardi di yen, di cui il 67% denominati in bonds giapponesi. In totale, i fondi pensione nipponici fanno capo a investimenti per 3,36 triliardi di dollari e quelli aziendali stanno per diversificare i loro 72 triliardi di yen dopo che gli investimenti in azioni di aziende nazionali hanno fruttato ritorni molto deludenti.

Ora, se veramente raddoppieranno le detenzioni in oro, gli investimenti nel metallo prezioso rappresenteranno lo 0,03% di tutti gli assets pensionistici del Paese. Noccioline, per ora ma se veramente il governo raggiungerà il suo obiettivo inflazionistico al 2% e i fondi pensioni trasformeranno in oro l’1% o il 2% o addirittura il 5% dei loro investimenti, cosa succederà al prezzo dell’oncia? Yukio Toshima, gestore di uno di quei fondi non ha dubbi: «Se l’1% degli assets totali si sposterà sul metallo prezioso, il mercato dell’oro esploderà». Con prezzi alle stelle e troppi contratti di carta che dovranno trovare oro fisico per onorare la posizione. Poi ditemi se non stiamo vivendo in un mondo di follia finanziaria.
Fonte tratta dal sito .

Si può credere alla befana ma non a Befera

“Partoriscono i monti, e nascerà un ridicolo topo” (Orazio)

Sul “Corriere della Sera” di martedì scorso, a firma di Massimo Fracaro e Nicola Saldutti, con grande perizia e senza sussulti demagogici è documentata (e spiegata) la somma intera di empietà (e imperizia) contenute nel nuovo Redditometro partorito da Equitalia (si fa per dire) per combattere la lotta all’evasione fiscale.

I due eccellenti cronisti puntano l’indice anche sul paradosso di un controllo fiscale destinato, alla fine, a penalizzare i contribuenti virtuosi. Tra le tante assurdità dell’ennesimo Porcellum normativo mandato a pascolare sui prati istituzionali, c’è anche un ribaltamento di ogni principio giuridico civile: l’onere della prova della propria onestà è tutta a carico del contribuente. A pensare che quell’eversore del barone John Maynard Keynes, da buon economista liberal sosteneva che “sfuggire alle tasse è l’unica impresa che offra ancora un premio”.

Così, nei prossimi mesi se non sarà cancellato dai nuovi governanti un Tassametro (taroccato) spacciato per Redditometro (imparziale), milioni di cittadini-sudditi finiranno nel tritacarne dell’Agenzia delle Entrate. E toccherà soltanto a loro, davanti al giudizio del funzionario-sovrano, ricordare perché nel 2009 hanno acquistato un televisore nuovo, o acquistato l’apparecchio correttivo per i denti della figlia.

Sul nocciolo (duro) del problema che riguarda la civiltà fiscale, ben poco ha aggiunto il battibecco pseudo ideologico, sviluppatosi sulle pagine del “Corriere della Sera”, tra il direttore di Equitalia, l’impenitente Attilio Befera, e l’opinionista col blà blà weberiano, Piero (e/o) Ostellino. Ai quali si è aggregato, con una posizione “terzista”, il solito Salvatore Bragantini, che ancora non si è avveduto che nell’anno del governo Monti il debito pubblico ha raggiunto la cifra-record di oltre duemila miliardi. Riguardo ai buchi di bilancio (pubblico) l’agenda del manager-analista è ancora ferma agli anni Ottanta. Mai aggiornarla!

Il che dimostra come spesso le opinioni separate dai fatti sono soltanto “fuffa” accademica. Pensieri e convincimenti (radicati) a mezzo stampa sul rapporto cittadino-tasse che, però, non affrontano mai la vera emergenza istituzionale che da almeno una ventina di anni di ministri “tecnici” (da Visco 1999 a Grilli 2012) stiamo drammaticamente vivendo: la politica fiscale è compito precipuo (missione) del governo e del Parlamento e non può essere delegata a Equitalia o a qualsiasi altra agenzia.

Come recita lo stesso dettato costituzionale, i ministri, nominati dal capo dello Stato su proposta del presidente del Consiglio “sono responsabili, individualmente, degli atti adottati dai dicasteri loro affidati e, collegialmente, delle deliberazioni del Consiglio dei Ministri”.

Fa un certo effetto, allora, che nel pieno di una campagna elettorale difficile e ricca di colpi di scena, con i cittadini alle prese con povertà e disoccupazione crescente, nessuno dei leader in gara – da Bersani a Berlusconi passando per Casini -, abbia finora preso posizione sul’iniquo Redditometro messo a punto da Equitalia.

Il Grande Inquisitore dostoevskijano del terzo millennio che con il suo modello organizzativo sofisticato vuol far credere alle sue vittime (i contribuenti) di agire per il suo bene: far pagare le tasse a tutti. Dopo le esperienze del passato (“cartelle pazze” e tanto altro) si può continuare a credere ancora alla Befana, ma non a Befera!

Chissà, forse dimentichi i nostri politici, che nella scorsa primavera c’è stata una forte mobilitazione contro l’agire persecutorio dell’Agenzia con assalti agli uffici, attentati e suicidi. Una società per azioni a capitale pubblico (una multiutility che deve macinare profitti) che è stata accusata pure di praticare lo “strozzinaggio”, esigendo, a torto o a ragione, comunque un agio del 9% per ogni tassa non pagata. Una situazione insostenibile fino al punto che la Cgil aveva minacciato uno sciopero generale contro l’Agenzia delle entrate.

Tutti silenti, invece, i futuri candidati premier nonostante che nel tritacarne di Equitalia finirà soprattutto il lavoro autonomo e d’impresa. E qualche pensionato che non appartiene, come Salvatore Bragantini, al ristretto club dei contribuenti mezzi-milionari, ma che per una volta si è permessa una follia: spendendo in sola volta i suoi mille euro (mensili) per una vacanza-premio sul lago insieme ai cari nipotini.

Per non dire del premier-pesce Rigor Montis e del suo ministro dell’Economia, Vittorio Grilli, che ancora non si sono resi conto della bomba sociale lanciatagli sotto la poltrona (a loro insaputa?) da Attila Befera proprio alla vigilia della consultazione elettorale. Ma spesso, accade anche i bocconiani, non si possono prendere impegni superiori alle proprie debolezze.

Fonte: http://www.dagospia.com
Link: http://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/1-si-puo-credere-alla-befana-ma-non-a-befera-con-liniquo-redditometro-in-49241.htm

http://www.comedonchisciotte.org/site//modules.php?name=News&file=article&sid=11329

Tratto da: SI PUO’ CREDERE ALLA BEFANA MA NON A BEFERA | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/01/12/si-puo-credere-alla-befana-ma-non-a-befera/#ixzz2HuXrySnL 
– Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! 

Grecia: nuove tasse su case e imprese (ma non i dividendi)

12/01 

Nuove tasse per i greci: il Parlamento ha approvato misure che vanno dall’incremento delle imposte sulla casa a una diversa fiscalità per le imprese, che sembra favorire i grandi gruppi a discapito delle piccole e medie imprese. I profitti delle imprese verranno tassati al 26% invece del 20% attuale, ma per i dividendi si passa dal 25 al 10%. Lo scopo del governo è raccogliere altri due miliardi e mezzo di euro, necessari a sbloccare la prossima tranche del prestito internazionale. Anche con un’ulteriore tassa sulla casa, da pagare nella bolletta elettrica. Giorgia Katsoli, disoccupata come il marito e il figlio, non se le può permettere, quelle tasse:

 

“Sognavamo di comperare una casa per non dover pagare un affitto e non poter essere sbattuti fuori da un padrone o un altro. Così abbiamo comperato. Il risultato è che ora non possiamo pagare”

 

“Le tasse – dice il marito, Nikos Bellos – possono essere pagate da chi ha soldi. Se lunedì trovo un lavoro, potrò pagare le tasse, sì. Rispetterò la legge. Ma non ho soldi, cosa devo pagare?”

 

Disoccupati e pensionati che non possono pagare: sono casi frequenti, in un Paese che dopo sei anni di recessione è ulteriormente abbattuto dalle misure draconiane per il riequilibrio dei conti pubblici. La disoccupazione è ormai salita al 26%, e un cittadino su cinque vive al di sotto della soglia di povertà.

 

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Euro: i difetti dalla nascita

13 gennaio 2013Di Mazziero Research

In un momento in cui le tensioni sull’euro sembrano essersi assopite, complice il clima festivo ma anche la voglia di buttarsi alle spalle un anno per niente facile, torniamo sulle fasi iniziali della nascita della moneta unica e sulle negligenti leggerezze commesse dai leader dell’epoca.
L’opportunità ci è viene offerta da un approfondito articolo, ormai datato, del settimanale tedesco Der Spiegel che è possibile leggere integralmente nella versione inglese.

L’articolo si basa su una serie di documenti, alcune centinaia di pagine, messi a disposizione del settimanale dal Governo tedesco e risalenti al periodo 1994-98. Da quanto sembra, l’Italia non avrebbe dovuto essere accettata secondo i requisiti economici, ma fu accettata su valutazioni politiche, creando nel contempo un precedente per un errore ancor più grave due anni più tardi: l’ingresso della Grecianell’Eurozona.

Da quanto risulta l’amministrazione di Helmut Kohl era pienamente consapevole delle condizioni economiche italiane e che le misure di austerità erano solo di facciata o espedienti contabili; tanto che Gerhard Schröder, suo successore con una schiacciante vittoria, definì l’euro più tardi “un neonato prematuro di salute cagionevole”.

Ma l’operazione di “auto-inganno” iniziò ancor prima, nel 1991 a Maastricht, quando per garantire la stabilità della moneta unica si dovettero definire dei criteri rigorosi: bassa inflazione, basso indebitamento annuo e un livello di debito sotto controllo. Si tratta dei famosi rapporti deficit/Pil non superiore al 3%, debito/Pil inferiore al 60% e un tasso diinflazione non superiore dell’1,5% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi; a questi parametri si aggiungevano un tasso di interesse non superiore del 2% rispetto a quello dei tre paesi più virtuosi e la permanenza negli ultimi due anni nello SME (Sistema Monetario Europeo) senza fluttuazioni significative della moneta.

Man mano che ci si avvicinava alla data di adozione l’Italia migliorava significativamente la sua posizione economica riuscendo a rispettare miracolosamente i criteri di partecipazione. I funzionari della Cancelleria tedesca non celavano i forti dubbi nei confronti del nostro paese, tanto che in un vertice bilaterale nel 1997 dovettero constatare con grande sorpresa che il deficit di bilancio era inferiore a quello indicato dalFMI e dall’Ocse.

Dopo pochi mesi Jurgen Stark segretario di Stato del Ministero delle Finanze tedesco riferiva di alcune pressioni da parte di Italia e Belgio sul capo della banca centrale affinché ammorbidisse le proprie perplessità; d’altra parte l’Italia tra il 1994 e il 1997 era riuscita a diminuire del 3% il proprio indebitamento.

Eppure non bastava ancora. Sempre Jurgen Stark rilevava che un debito/Pil vicino al 120% non poteva soddisfare i criteri dettati da Maastricht, domandandosi nel contempose un membro fondatore della Comunità Europea avrebbe potuto essere escluso dall’Unione monetaria.

Pur di fronte a un sorprendente progresso dei conti del nostro paese, non mancavano nei documenti ufficiali tedeschi delle note piuttosto critiche: il 3 febbraio 1997 si rilevava che alcune misure di risparmio erano state omesse, per salvaguardare il consenso sociale; il 22 aprile una nota ribadiva l’impossibilità materiale di soddisfare i criteri; il 5 maggio analizzando le moderate prospettive di crescita dell’Italia si giudicavano i passi compiuti dal nostro paese per lo più sopravvalutati.

Nel 1998, anno decisivo per l’introduzione dell’euro, in un incontro il 22 gennaio si constatava che nessuna di queste condizioni si era modificata; a marzo Horst Kohler, ex capo negoziatore tedesco passato alla presidenza di un’associazione bancaria, scrisse al Cancelliere che l’Italia conservava un deficit permanente e un debito elevato, tale da mettere a rischio la stessa sostenibilità dell’euro.

Nel contempo a metà marzo in un’audizione di fronte alla Corte Costituzionale, con il Ministro delle Finanze Theo Waigel e il presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, il capo della divisione economica Sighart Nehring fece presente i rischi enormi associati agli elevati livelli di debito dell’Italia, rilevando che le spese italiane sarebbero aumentate notevolmente se i tassi di interesse fossero lievitati anche di una modesta entità.

Ancor più severi gli olandesi che affermarono che in assenza di misure supplementari per assicurare un calo strutturale del debito sarebbe stato inaccettabile accogliere l’Italia nell’euro.

Ma Kohl restò sordo alle voci di allarme provenienti da più parti e in un vertice a Bruxelles nei primi giorni di maggio del 1998 dichiarò che, sentendo il peso della storia, avrebbe fornito il suo appoggio incondizionato alla moneta unica purché vi avessero fatto parte anche gli italiani.

Un atto di estrema fiducia nei confronti dell’Italia e degli italiani, forse favorito dal grande sentimento di stima di Helmut Kohl nei confronti di Romano Prodi e di Carlo Azeglio Ciampi. O forse semplicemente un calcolo politico dato che anche la Germania aveva aumentato il debito a partire dal 1994, pur con le circostanze attenuanti che in assenza della costosa riunificazione tedesca il debito/Pil si sarebbe attestato al 45%.

In ogni caso nella primavera del 1998 l’ufficio statistico europeo certificò il soddisfacimento dei criteri di Maastricht da parte dell’Italia e a quel punto ancheWaigel convenne che non vi era più alcun motivo per bloccare gli italiani. Ma le cifre erano state edulcorate ed era risaputo, il governo italiano si impegnava comunque a raggiungere un debito/Pil del 60% entro il 2010.

Già il 10 luglio 1998 l’ambasciatore Kastrup faceva presente a Bonn che a Roma si iniziava ad avvertire un certo lassismo, una sorta di pausa nel percorso di risanamento dopo la forte galoppata per rispettare i parametri di Maastricht. Ad agosto il Ministero delle Finanze italiano ammetteva un deficit di bilancio maggiore di quello dell’anno precedente. Stephan Freiherr von Stenglin, l’addetto finanziario presso l’ambasciata tedesca a Roma, annotava con vigore come il peggioramento dei conti pubblici poteva mettere a repentaglio la credibilità dell’impegno italiano.

Dopo la caduta del Governo Prodi, durante la Presidenza del Consiglio di Massimo D’Alema, le condizioni economiche si aggravarono ulteriormente. D’Alema propose delle misure di stimolo mediante l’emissione di Eurobond, suggerendo di non calcolare l’indebitamento associato nei deficit nazionali. Una proposta che venne rigettata dal nuovo Governo tedesco guidato da Schröder, malgrado le insistenze del governo italiano a fronte di una interpretazione più flessibile dei Trattati di Maastricht. Un tema che si sarebbe ripresentato dopo qualche anno, quando Francia e Germania nel 2003superarono la soglia del 3% per il debito/Pil.

Poche settimane prima del lancio della moneta europea, la valutazione di von Stenglinassumeva ancora una volta una sfumatura drammatica, con una nota in cui scriveva: “Ci dobbiamo domandare se un paese con un rapporto di debito estremamente elevato non rischi un gioco d’azzardo rispetto agli sforzi di risanamento compiuti, danneggiando così non solo se stesso, ma anche l’unione monetaria.” Era evidentemente un’osservazione profetica: nell’autunno del 2011, quando l’Italia entrò nel vortice della crisi, il debito era nuovamente salito sopra il 120 per cento del Pil.

Questo l’avvincente resoconto del settimanale Der Spiegel, certamente una visione dal punto di vista tedesco, ma che coloro che hanno vissuto quei periodi non faticano a riconoscere perlomeno nei tratti essenziali. Si tratta di fatti ormai consegnati alla valutazione della storia e che ci permettono già oggi di trarre alcune considerazioni:

·                                 Evidentemente i parametri di Maastricht furono definiti perché si dovevano definire dei criteri di convergenza dei bilanci nazionali, ma non furono supportati dalla necessaria convinzione. Da qui il fatto che in alcuni momenti storici furono intesi comeirrinunciabili e in altri furono di fatto aggirabili. La mancanza di convinzione sulla necessità di questi parametri avrebbe di fatto costituito la “porta nel retro”(backdoor) per tollerare i trucchi contabili necessari ad allineare le diverse economie dell’Eurozona.
Anche sulla congruità di questi parametri potrebbero essere avanzate alcune riserve.
Questa interpretazione sarebbe avvalorata da un articolo de Le Parisien ripreso in italiano da PressEurop in cui si racconta che il rapporto deficit/Pil al 3% fu definito ben 10 anni prima di Maastricht dal Governo Mitterrand in un modo piuttosto casuale.

·                                 Creare una serie di parametri a cui sottostare per entrare nella moneta unica e poi non definire i parametri che comportano un’uscita, o perlomeno le sanzioni del non rispetto, è senza alcun dubbio un atteggiamento negligente e irresponsabile. Non è omettendo le procedure di uscita che si può pensare di mantenere la stabilità di un sistema monetario complesso che deve coesistere con economie molto differenti tra loro. E’ inevitabile che i problemi prima o poi si sarebbero presentati e sarebbero diventati ingovernabili; illusorio pensare che l’insorgere delle difficoltà avrebbero potuto accelerare un’unione politica che era stata accantonata da oltre un decennio.

·                                 Constatare che ancora oggi il rapporto debito/Pil italiano sia di gran lunga superiore al 120% rende l’idea delle occasioni mancate dal nostro paese; il bonus rappresentato dall’ingresso nell’euro è stato dissipato dai Governi che si sono alternati aumentando la spesa pubblica e il debito dello Stato.
Di fatto l’aumento del debito in Italia è cronico: si veda a tal proposito l’Osservatorio trimestrale Italia 3 trimestre 2012: Pil, debito & Co. In questi anni si sono succedute numerose manovre finanziarie e aumenti della tassazione; non vi è ragione di ritenere che ulteriori inasprimenti fiscali, nuove tasse o patrimoniali possano compiere in futuro ciò che in condizioni molto più favorevoli non è stato fatto.

·                                 Le misure sinora attuate a supporto della crisi dal Governo italiano, dall’Unione Europea e dalla Banca Centrale Europea continuano a cercare di curare i sintomi, senza risolvere le cause. Il pervicace intento di mantenere tutti gli stati, meritori o meno, all’interno della moneta unica per evitare di affrontare i costi di una separazione ha già prodotto costi ingenti e ha posto le basi per ulteriori pesanti sacrifici negli anni a venire; costi che naturalmente pagheranno i cittadini, come sempre è successo.

 

da Mazziero Research

http://www.rischiocalcolato.it/2013/01/euro-i-difetti-dalla-nascita.html

Gli eurocrati sognano un’Europa di indigenti

Il Fondo monetario critica le misure di austerità imposte agli Stati membri, ma i Soloni Ue preferiscono condannare alla fame milioni di europei 

Andrea Perrone

I tecnocrati della Commissione Ue criticano le posizioni dei loro omologhi del Fondo monetario internazionale sulle misure di austerità ai danni degli Stati membri dell’Unione europea. Per Bruxelles infatti i tagli a salari e pensioni, le privatizzazioni striscianti, l’aumento dell’Iva, la perdita continua di migliaia di posti di lavoro costituiscono pur sempre un segnale positivo per i mercati, ovvero nonostante le misure approvate siano inique socialmente rappresentano una valida soluzione per il mondo della finanza e per gli speculatori di ogni ordine e grado. A sostenere la definitiva distruzione dello Stato sociale per volere dell’usura internazionale è stato ieri il commissario agli Affari economici Olli Rehn (nella foto) riflettendo sul rapporto presentato la settimana scorsa dagli economisti del Fondo monetario, organismo mondialista per eccellenza, nel quale veniva sostenuto che gli effetti degli tagli alla spesa erano stati sottostimati. Per cui Rehn ha sottolineato ieri a Bruxelles che “non si possono fare, sulla base di questo studio, conclusioni politiche forti”. “Nel dibattito politico, ciò che è stato spesso dimenticato è che abbiamo non solo l’effetto quantificabile – che è qualcosa che l’economista deve valutare – ma abbiamo anche l’effetto fiducia” dei mercati, ha aggiunto il Solone dell’Unione europea. Ma i tecnocrati del Fmi, ovvero gli economisti Olivier Blanchard e Daniel Leigh, nel loro documento hanno evidenziato gli errori dell’organismo a cui appartengono, nel non aver saputo prevedere l’impatto di austerità sulle economie europee, sottovalutando l’aumento della disoccupazione e il calo della domanda interna associata alla richiesta di un risanamento dei conti pubblici. Il tutto acutizzato da un prestito a tassi d’usura richiesto dagli Stati membri Ue e concesso in cambio di misure lacrime e sangue.
Dopo aver brevemente accennato al problema delle prospettive riguardanti l’economia mondiale, Blanchard e Leigh hanno osservato più ampiamente, con l’ausilio di dati e formule matematiche, quanto siano state sbagliate le previsioni compiute dal Fmi sull’impatto dei forti tagli alla spesa in alcuni Stati membri dell’Ue, come Grecia, Portogallo e Spagna. Dal canto suo Rehn ha invece tentato di snocciolare dati sui presunti successi del BelPaese, dimenticando però di menzionare le difficoltà che famiglie, lavoratori e disoccupati italiani attraversano ogni giorno per sopravvivere alle conseguenze della crisi, alla perdita d’acquisto dei salari – per chi ha la fortuna di averne uno – e alle tasse crescenti imposte dal governo con il pretesto di risanare i conti pubblici. “Da novembre in poi – ha osservato l’eurocrate – abbiamo visto più coerente e prudente consolidamento fiscale tra Italia e stiamo assistendo ad un rendimento dei titoli molto più basso per l’Italia, che porta a un risparmio per gli italiani e facilita il ritorno alla ripresa economica”, ha commentato Rehn, precisando che Commissione Ue, Fondo monetario e Banca centrale europea – la cosiddetta troika, che ha imposto i programmi per affossare Grecia, Irlanda e Portogallo – si trovano nel bel mezzo di un “dialogo a tre in corso” per trovare “un terreno comune” sugli effetti dei tagli alla spesa sulla crescita. Una crescita – che aggiungiamo – è assolutamente inesistente ed è al contrario una durissima recessione. In più, questo presunto dialogo a tre rappresenta una divergenza tra Commissione e Bce, da una parte, e Fmi, dall’altra, su chi dovrà pagare i tassi ad usura del prestito concesso agli Stati in difficoltà. In poche parole si accentua il disaccordo fra Ue e Fondo monetario sulle misure di austerità imposte agli Stati membri: una serie di diktat politico-economici che pongono un forte accento sui tagli alla spesa e le privatizzazioni, ma che il Fmi vorrebbe ripartiti fra gli Stati membri dell’Unione. A questo si devono aggiungere i timori per una crescente protesta sociale che monta da tempo e rischia di esplodere all’improvviso in tutta Europa.
Lo scorso anno un funzionario del Fmi aveva mosso anche lui critiche al ritmo e ai numerosi tagli al bilancio imposti alla Grecia, mentre la stessa Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario, alla fine del 2012 ha ribadito che Atene avrebbe bisogno di più tempo per mettere in ordine i conti. Rehn ha fatto invece orecchie da mercante, rifiutando di accettare le numerose critiche del Fondo monetario alle misure di austerità. Alla fine del suo discorso però il commissario ha dovuto riconoscere i pericoli che si nascondono dietro questi tagli per il futuro di tutti i popoli europei. A suo dire, infatti, “i prossimi mesi vedranno momenti difficili e tensioni sociali”, poiché i cittadini del Vecchio Continente vedranno miglioramenti nella loro vita di tutti i giorni “solo con un certo ritardo”. Un ritardo sicuramente molto lungo in termini temporale. E quindi un timore, fatto proprio nei giorni scorsi anche dal presidente uscente dell’Eurogruppo Jean-Claude Juncker, che ha avvertito del rischio di un’imminente rivolta popolare diffusa in tutta Europa, sull’onda della recessione che continua a falcidiare salari e lavoro di milioni di europei.


12 Gennaio 2013 12:00:00 – http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=18574