C’È QUALCOSA DI NUOVO A TORINO

Illustrazione di DELVOX 

Qualcosa di nuovo sta avvenendo a Torino. A quasi una settimana dalla decisione del Consiglio Comunale di rifiutare l’Alta Velocità è palpabile e diffusa in città una sensazione che somma delusione e voglia di riscatto. 
La delusione investe i Cinquestelle perché Torino – assieme a Roma – è stata la prima grande città italiana ad affidarsi a loro nel giugno del 2016: fu un voto massiccio, di protesta verso i partiti tradizionali che premiò Chiara Appendino anticipando quanto è poi avvenuto a livello nazionale lo scorso 4 marzo, ma ad oltre due anni da allora assai poco è cambiato.

Andate in Barriera di Milano e ad Aurora e troverete il degrado intatto, se non peggiorato, passeggiate lungo i Murazzi o al Valentino e vi troverete soli, o male accompagnati.

Per non parlare di un sistema di trasporto pubblico inadeguato, illuminazione carente, semafori incapaci di funzionare e marciapiedi dissestati, con tanto di indicazioni stradali che tendono a legittimarli o delle file per la carta d’identità o l’abbonamento al bus.

Nella città del Nord che doveva essere la vetrina di Grillo e Di Maio le difficoltà per i cittadini non sono diminuite, non c’è stata alcuna svolta su sicurezza e qualità della vita mentre ad aumentare è stata la sensazione di essere guidati da una forza politica che davanti alle opportunità preferisce indietreggiare e perdere anziché gareggiare e costruire.

Ai torinesi non è piaciuto il forfait sulle Olimpiadi invernali 2026 perché guidare il tandem con Milano – l’opzione iniziale – avrebbe trasformato il successo del 2006 in un trampolino ancor più ambizioso, con ricadute positive in ogni angolo della città.

Ed ha irritato il «niet» all’Alta Velocità perché minaccia posti di lavoro, investimenti ed indotto nel nome di un’ideologia anti-moderna che persegue l’isolamento della città dalle maggiori rotte di spostamento su rotaia attraverso l’Euroasia.
In un mondo che diventa più piccolo ed interconnesso, trasformando Parigi e Pechino in città raggiungibili sui binari, Torino viene obbligata dai luddisti contemporanei ad isolarsi dietro una montagna.

Per una città che ha visto nascere il cinema, la tv nazionale e l’automobile, che ospita laboratori e pensatoi sull’alta tecnologia e la ricerca spaziale, essere trasformata in un luogo senza ambizioni è una sentenza inaccettabile.

Contraria alla propria identità. Torino è una città che crea e guida, non segue e rallenta.

È nel suo Dna di roccaforte del lavoro, in maniera mai gridata ma sempre operosa, che ha dato i natali a grandi leader nazionali – con idee anche contrapposte – e non può dunque riconoscersi in un’ideologia di decrescita felice il cui obiettivo strategico è tagliare, ridurre, arretrare, rinunciare. E non possono dunque bastare la città piena di turisti per l’arte, i droni al posto dei fuochi d’artificio o i test dell’auto senza conducente.
Da qui la voglia di reagire e di riscatto. 

Testimoniata dai cittadini che fermano i redattori in strada per dire «ora basta con questi qui», dai lettori che ci inondano di email in cui si rigetta l’idea di «rinunciare ed arretrare», e dai protagonisti del tessuto urbano – artigiani e studenti, commercianti e imprenditori – che fremono per scendere in piazza «facendogli capire che non ci arrendiamo».

Torino è la città che ha immaginato e realizzato l’Italia, ed ora percepisce che il no all’Alta Velocità cela un inaccettabile rifiuto della modernità.

È qualcosa che va oltre la disputa sulla Tav – un progetto che come tutti può essere modificato e migliorato – perché investe l’identità collettiva.

Quando si tratta di battersi per guardare avanti, Torino non esita a farlo: avvenne con la marcia dei quarantamila nel 1980 che pose fine all’estremismo sindacale ed è avvenuto più di recente con la difesa orgogliosa del Salone del Libro, che ha visto protagonista l’intera cittadinanza. 

È pronta a farlo ancora. Ed in questo c’è un messaggio che investe l’intero Paese e deve suonare come un campanello d’allarme per chi lo guida: la città del Nord che ha provato di essere più aperta alle novità politiche non può accettare di finire catapultata in un angolino dello sviluppo nel nome del pessimismo ideologico perché ciò significherebbe non avere più sogni, progetti ed ambizioni. 
Per queste ragioni ciò che sta avvenendo qui riguarda tutti gli italiani.

Quel treno per Lione: alla vigilia di una scelta – VERITA’ E BUFALE SUL TAV TORINO LIONE

https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2018/10/22/quel-treno-per-lione-alla-vigilia-di-una-scelta/

 

VERITA’ E BUFALE SUL TAV TORINO LIONE

di Paolo Mattone, Livio Pepino e Angelo Tartaglia

Il “contratto di governo” tra M5Stelle e Lega prevede, con riguardo alla Nuova linea ferroviaria Torino-Lione, «l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». A ciò il ministro delle infrastrutture Toninelli ha aggiunto l’ovvio: cioè che, in attesa di tale confronto, ogni determinazione diretta a realizzare un avanzamento dell’opera sarebbe considerata dal Governo «un atto ostile». Indicazioni assai caute, dunque, ben lungi da una dichiarazione di ostilità al Tav. Poi silenzio e rinvio all’analisi costi-benefici in corso di elaborazione da parte di una apposita commissione. Il tutto lasciando al loro posto, come rappresentanti del Governo, sfegatati supporter della nuova linea ferroviaria come Mario Virano, direttore generale di Telt (promotore pubblico responsabile della realizzazione e della gestione della sezione transfrontaliera della futura linea Torino-Lione), e Paolo Foietta, commissario straordinario del Governo per l’asse ferroviario Torino-Lione e presidente dell’Osservatorio della Presidenza del Consiglio originariamente costituito come luogo di studio e di confronto tra le parti interessate (e diventato ormai l’ultima ridotta dei sostenitori del Tav senza se e senza ma).  

Tanto è bastato, peraltro, a produrre un duplice effetto. Da un lato ha finalmente aperto un dibattito sulla effettiva utilità dell’opera, fino a ieri esorcizzato dalla rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi. Dall’altro ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati) dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (Stampa e Repubblica in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia.

In questo contesto e per consentire un confronto razionale, in attesa delle indicazioni della commissione preposta all’analisi costi benefici e delle conseguenti decisioni politiche, è, dunque, utile fare il punto sulla situazione, partendo dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità dell’opera. 

Primo. «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest».
Prospettiva da statisti, che il governatore del Piemonte, Chiamparino sottolinea, con slancio futurista, evocando un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico (senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012, con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 km…). Prospettiva, comunque, priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità/velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto, che il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, che in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea (cose tutte documentate, con una accurata indagine in loco, in un servizio giornalistico di Andrea De Benedetti e Luca Rastello pubblicato su Repubblica e diventato poi un libro edito da Chiare Lettere con il titolo Binario morto). La realtà dunque, al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur, non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri), già coperto da una linea ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità. Di ciò, non di altro, si deve, dunque, discutere valutandone costi e benefici. Il resto è fuffa, chiacchiera senza fondamento o, peggio, specchietto per allodole.

Secondo. «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico».
Non è così. I traffici merci su rotaia attraverso il Frejus (ché di persone non si parla più da vent’anni) sono in caduta libera dal 1997. Da allora si sono ridotti del 71 per cento. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43 per cento nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo svizzere passavano attraverso tunnel ad altitudine e con pendenze analoghi a quelli del Frejus (il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 km ad una altitudine di 1400 metri, e quello storico del S. Gottardo, lungo 15 km ad una altitudine di 1151 metri, in uso fino al 2016). Parallelamente il volume del traffico complessivo (compreso quello su strada) attraverso la frontiera italo-francese è diminuito del 17,7 per cento. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico (come l’ampliamento del letto di un fiume non produce magicamente l’aumento del flusso dell’acqua). Più specificamente il quadro d’insieme dice che lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci o quanto meno a una sua stagnazione, laddove lungo le direttrici nord-sud (frontiere italo-svizzera e italo-austriaca) il traffico ha continuato a crescere, anche se, dopo il 2010, la crescita risulta meno vivace che prima della crisi finanziaria del 2008. Una interpretazione ragionevole di questa differenza è che le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente. I mercati della Cina e del sudest asiatico sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi. Viceversa l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale: guardando a ciò che si trova in una tipica casa italiana (o francese o britannica o spagnola) è difficile pensare di poter aggiungere molte cose; al più si può pensare di rimpiazzare le dotazioni con manufatti più moderni o di migliore qualità. Tutto questo si traduce in una stabilizzazione dei flussi materiali che si mantengono a un livello elevato, ma senza particolari prospettive di crescita.

Terzo. «Il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali inemendabili».
Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Frejus» (così la relazione scritta al disegno di legge di ratifica degli accordi intergovernativi tra Italia e Francia del 2015-16, depositata alla Camera dal relatore di maggioranza, on. Marco Causi, il 19 dicembre 2016). La debolezza della tesi è di tutta evidenza, anche a prescindere dalla determinazione fantasiosa dei carichi destinati a transitare nel nuovo tunnel. Se, infatti, il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi? A giustificarlo c’è soltanto una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica ma non intaccata, agli occhi dei suoi epigoni, neppure da una tragedia come quella del ponte Morandi di Genova, decantato per decenni come simbolo della capacità della tecnica di superare città e montagne. Non sussistono infatti, a sostegno dell’opera, nemmeno ragioni legate a una non meglio precisata normativa, ogni tanto evocata ma sempre senza riferimenti specifici, in forza della quale il tunnel storico sarebbe presto “fuori norma” (come, se così fosse, tutte le gallerie ferroviarie e buona parte di quelle autostradali del Paese…).

Quarto. «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando, per l’Italia, a soli 2, massimo 3 miliardi di euro».
Siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi). Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale (per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40 per cento del valore e cioè a 3,32 miliardi di euro). I dati diffusi dai fautori dell’opera, invece, riguardano la sola tratta internazionale, che, data la scelta del Governo italiano di proceder per fasi (cd. progetto low cost), dovrebbe essere costruita per prima. Ma ciò, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi rispetto a quelli preventivati (basti pensare che il 28 febbraio 2018 Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi…), realizza un puro artificio contabile ché l’ulteriore spesa (salva l’ipotesi, del tutto fuori dalla realtà, di realizzare un tunnel senza le necessarie adduzioni) non viene affatto annullata ma semplicemente differita.

Quinto. «Il potenziamento del trasporto su rotaia è, finalmente, una scelta di tutela dell’ambiente».
Siamo alla variante ecologista, tanto suggestiva quanto infondata. Essa, infatti, muove dal rilievo, in linea di principio esatto, che il trasporto su rotaia è meno inquinante di quello su strada. Ma non tiene conto del fatto che ciò vale solo in una situazione data, cioè con riferimento alle ferrovie e alle autostrade esistenti, mentre del tutto diverso è il caso specifico, in cui si prevede la costruzione ex novo di un’opera ciclopica. Con alcuni dati che modificano totalmente lo scenario: gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto; gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel la cui temperatura interna sarà superiore a 50 gradi, e via elencando. Si noti che le emissioni in atmosfera nella fase di realizzazione (e quindi in tempi vicini) dovrebbero essere compensate dalle minori emissioni del trasporto ferroviario in un arco di decenni, mentre gli obiettivi internazionali per contenere il mutamento climatico globale richiedono una drastica riduzione delle emissioni nell’immediato: non per caso ma perché l’atmosfera ha un comportamento tutt’altro che lineare. In altre parole ciò che si immette nell’atmosfera sarà riassorbito in tempi estremamente lunghi e gli impatti perdureranno anche in assenza di nuove immissioni.

Sesto. «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento».
Anche questa è una pura petizione di principio con la quale si dà per certo un fatto (lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia) tutto da dimostrare e legato a variabili future e incerte in punto costi (e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse realizzare uno spostamento consistente del traffico dalla gomma alla rotaia la strada maestra sarebbe quella (sperimentata con successo e a costo pubblico zero in Svizzera) di imporre pedaggi significativi per il traffico stradale (proporzionati al tipo di veicolo, al carico e alla distanza) e di prevedere tariffe agevolate per quello ferroviario. La soluzione è semplice e poco costosa, ma va in direzione opposta alle politiche adottate, nel nostro Paese, da tutti i Governi (di ogni colore) succedutisi negli ultimi decenni, che prevedono incentivi per il carburante e i pedaggi autostradali in favore dei camionisti… Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa, foriera di aspri conflitti e con rischi di blocchi delle forniture di cilena memoria. Ma millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie non è operazione spendibile!

Settimo. «La realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in epoca di crisi economica».
L’affermazione è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno. Che la costruzione di un’opera – grande o piccola, utile o dannosa – produca posti di lavoro è incontestabile (accade anche se si scavano buche al solo scopo di provvedere poi a riempirle…). Il punto dirimente non è, dunque, questo, ma l’utilità sociale dell’opera e la quantità e qualità dei posti di lavoro da essa generati comparativamente con altri possibili investimenti. Soprattutto in una situazione di difficoltà economica, come quella attuale, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica. Le grandi opere sono, infatti, investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato) mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata). Sia sul versante dell’utilità sociale che su quello della crescita occupazionale, dunque, la nuova linea ferroviaria Torino-Lione è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici.

Ottavo. «Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere ma oggi i lavori sono ormai in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro».
Con questa considerazione, ripetuta nei varî salotti televisivi, provano a salvare la propria immagine anche molti sedicenti ambientalisti. Invano, ché l’affermazione è priva di ogni consistenza. Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro. Certo sono state realizzate delle opere preparatorie, tra cui lo scavo, in territorio francese, di cinque chilometri di tunnel geognostico impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario. E sono state spese, per esse, ingenti risorse (circa un miliardo e 500 milioni di euro). Ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni (mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi) o continuare in uno spreco di miliardi?

Nono. «L’uscita dal progetto comporterebbe per l’Italia il pagamento di penali (o un dovere di restituzioni) elevatissime, fino a un ammontare di due miliardi e 500 milioni».
Qui siamo di fronte a una bufala allo stato puro. Non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto; gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio; il nostro codice civile prevede, in caso di appalti aggiudicati che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10 per cento del valore dell’appalto), ma, ad oggi, non sono stati banditi né, tanto meno, aggiudicati appalti per opere relative alla costruzione del tunnel di base; il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione europea, dispone, nell’allegato II, articoli 16 e 17, che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi (o altre analoghe scorrettezze); i finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori (e vengono persi in caso di mancato completamento nei termini prefissati), sì che la rinuncia di una delle parti non comporta alcun dovere di restituzione di contributi ‒ mai ricevuti ‒ bensì, semplicemente, il mancato versamento da parte dell’Europa dei contributi previsti (e ciò anche a prescindere dal fatto che ad oggi i finanziamenti europei ipotizzati sono una minima parte del 40 per cento del valore del tunnel di base e che ulteriori eventuali stanziamenti dovranno essere decisi solo dopo la conclusione del settennato di programmazione in corso, cioè dopo il 2021).

Decimo. «Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico, costruirne uno nuovo».
L’ultimo nato delle motivazioni pro Tav è la sicurezza: «il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super tunnel di base». Il tema della sicurezza è certamente un argomento sensibile in particolare dopo qualche disastro. Ma quello che non viene considerato è che se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili e del quale, curiosamente, nessuno parla – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze che comprende quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro e si può evidenziare come, per la parte francese, l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana. Ai francesi, che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore, occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.

La conclusione è evidente.

La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?

I 500 “sì Tav” in prima pagina. Così ti nascondo il grande flop

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I 500 “sì Tav” in prima pagina. Così ti nascondo il grande flop

Sabato pomeriggio i Sì Tav hanno portato in piazza 500 manifestanti per la prima protesta contro la sindaca di Torino, Chiara Appendino.

Un marcia che, nonostante fosse stata annunciata come trionfale da sindacati, industriali ed esponenti politici bipartisan (dal Pd a Forza Italia), si è ridotta a un piccolo drappello di persone in piazza Castello.

Eppure a leggere i dorsi locali delle più importanti testate ed anche la pagina di cronaca della Gazzetta, è sembrato un assedio.

Tutto merito del numero delle righe che hanno abbondato negli articoli dedicati all’evento e che sono riuscite a compensare la mancanza dei partecipanti.

Si scopre così che a Torino è andata in scena una “protesta gentile” e garbata “dei torinesi comuni”, scrive La Stampa, e certamente vissuta con molto eleganza dalle “madamin della Torino bene”, sottolinea Il Corriere della Sera.

Per Repubblica, i partecipanti si sono riconosciuti addirittura a vista: “Un po’ spaesati questi bogianen scesi in piazza per una protesta improvvisata”.

Nessuno ha un megafono, né parole da dire. “Ci si guarda le mani, per riconoscersi, vedere se qualcuno ha portato il cartello ‘Torino dice basta’, che era l’hashtag della manifestazione”.

E così, sempre tra le affollatissime righe, si dà appuntamento alla seconda puntata della protesta che si terrà oggi con i rappresentanti delle categorie produttive e sempre in attesa della vera, verissima marcia del 10 novembre.

Quella che dovrebbe portare in piazza 40 mila persone, che però nel frattempo sono diventate oltre 72mila secondo il Corriere.

Del resto, sarà merito del successo ottenuto dalla “prima prova di protesta del popolo Sì Tav”, come l’ha definita Repubblica.

5 nov 18 Stampa 

Pizzarotti: “Appendino ostaggio dei suoi, nel M5S prevale l’ideologia”

Il sindaco di Parma: “Per governare non bastano i proclami”

Alberto Mattioli

«Purtroppo fra la realtà di una città e l’ideologia c’è un abisso. E per governare non bastano i proclami». Federico Pizzarotti, 45 anni, sindaco di Parma, ex grillino che ha rotto, e pesantemente, con il Movimento, legge leditoriale di Molinari di ieri: «È vero che alla prova dei fatti il M5S non riesce a liberarsi dei suoi dogmi ideologici». 

Tipo Appendino.  

«Il problema non è tanto la base, ma i consiglieri. Appendino è più appoggiata e più apprezzata di Raggi dai vertici del Movimento. Credo che le Olimpiadi le avrebbe fatte volentieri e anche che sappia che su una questione come la Tav non ha senso dire no a prescindere. Ma è ostaggio della radicalizzazione dei suoi consiglieri. La mozione “No Tav” che hanno votato non ha alcun valore giuridico, ma solo simbolico. Ideologico, appunto. Per esperienza personale so che governare una città è difficile. Con il M5S ancora di più, perché lì non si giudicano le situazioni dai dati di fatto ma sulla base di dogmi pregiudiziali». 

Intanto la famosa «gente» è scesa in piazza contro Raggi e lo farà contro Appendino. Per il M5S è la fine dell’inizio o l’inizio della fine?  

«Questo non lo so. Non è il primo segnale di insoddisfazione perché ce ne sono già stati altri, che per ora non hanno intaccato il consenso di cui il Movimento gode. C’è però una novità: adesso il M5S è al governo, quindi è difficile scaricare sugli altri le responsabilità degli insuccessi come ha sempre fatto». 

A proposito: del governo Conte che giudizio dà?  

«Lo sospendo, perché per ora di compiuto c’è poco, compresa la manovra economica. Dal punto di vista politico, sono completamente distante. Prenda il decreto sicurezza e immigrazione. Anche qui, prevale un approccio ideologico, a cominciare dal fatto che si mettono sullo stesso piano sicurezza e immigrazione come se una dipendesse dall’altra. Ma eliminando lo Sprar non si eliminano gli immigrati, dato che lo stesso Salvini dice che per rimpatriarli ci vorrebbero ottant’anni. Semplicemente, li si buttano sulle strade, se ne trasferisce il peso sui Comuni e si fornisce nuova manodopera alla delinquenza». 

Però questa è farina del sacco di Salvini, non di Di Maio.  

«Ma è lo stesso approccio ideologico. Come voler fare insieme quel che insieme non si può fare, la flat tax e il reddito di cittadinanza. È solo propaganda, e pericolosa per chi la fa. Quando Di Maio dice una frase non solo assurda ma anche di cattivo gusto come: “Abbiamo abolito la povertà” rischia il boomerang. Perché se il reddito di cittadinanza sarà dato a molti saranno pochi i soldi, se sarà dato a pochi saranno molti i delusi». 

Nei sondaggi, Salvini cresce e Di Maio cala. È perché è meno ideologico o perché è più bravo a comunicare?  

«Credo che la ragione sia un’altra. I sondaggi lo premiano perché, giusto o sbagliato che sia, e io penso sia sbagliato, sta però facendo quel che aveva annunciato. Di Maio, no. Basta pensare ai condoni». 

Sarà, ma l’opposizione non si vede.

«Il Pd è morto ma non se n’è ancora accorto. Renzi tiene in ostaggio un partito intero e con lui l’intera opposizione. È un danno non solo per il Pd, ma per l’Italia». 

Intanto lei con il suo partito Italia in Comune pensate a resuscitare i Verdi. Spera nell’effetto-Germania?  

«Per la verità guardavamo ai Verdi europei anche prima che vincessero lì. In Italia hanno lasciato un cattivo ricordo e che adesso Pecoraro Scanio voglia rientrare nel giro con il M5S lo dimostra. Serve un partito ambientalista che non difenda solo la natura ma sia anche pro-Europa, progressista, attento al lavoro e al sociale». 

A Parma terminerà il secondo e ultimo mandato nel ‘22. Da grande cosa vuol fare?  

«Chi lo sa? Dieci anni fa non avrei mai pensato che sarei diventato sindaco. Non c’è solo la politica. Se potrò continuare a impegnarmi, bene. Altrimenti farò altro. Intanto il mese prossimo inizierò un corso da apicoltore». 

Arnie, miele e così via?  

«Gliel’ho detto, che mi piace la natura».  

Minacce di morte a Appendino. In piazza piccolo presidio Sì Tav

https://ilmanifesto.it/minacce-di-morte-a-appendino-in-piazza-piccolo-presidio-si-tav/

4 nov 18 – Manifesto 

Maurizio Pagliassotti Torino

Righe scritte con un normografo, per una pesante lettera che minaccia di morte la sindaca di Torino e la sua famiglia. Chiara Appendino ha pubblicato ieri, sulla sua pagina social, la missiva in cui si può leggere: «Bastarda cagna juventina. Tu e la tua setta di pazzoidi e falliti 5 Stelle avete ucciso Torino. Adesso devi morire. Sappiamo dove vivi tu e la tua famiglia. Dormi molto preoccupata» .

La sindaca commentava nel post: «Ho appena sporto querela. Magari si tratta semplicemente di uno scherzo di cattivo gusto, ma una cosa è certa: continuerò a svolgere con serenità il ruolo per il quale sono stata eletta».

Solidarietà alla sindaca è stata espressa da tutte le forze politiche, produttive e sindacali.

La lettera è stata spedita martedì, il giorno dopo la votazione, simbolica e nulla più, con cui il consiglio comunale chiede alla giunta che chieda al governo di sospendere i lavori del tunnel di base della Torino-Lione fino a quando non sarà pubblica la «valutazione costi-benefici».

Una banale votazione che doveva dare un contentino al mondo dei movimenti abbandonati dall’M5S alleato con la Lega a Roma ha scatenato una reazione imprevedibile da parte del variegato mondo industriale, finanziario, politico e sindacale che sostiene la costruzione del tunnel. Come se il Comune di Torno avesse davvero voce in capitolo sulla vicenda.

Sul voto, per altro, nemmeno la sindaca era d’accordo.

Che la reale portata del «dramma» torinese che perde la Torino- Lione sia lontano dai pensieri della cittadinanza si evinceva ieri mattina.

Quando circa 300 persone manifestavano contro la giunta 5S e per la realizzazione della grande opera. La maggior parte dei quali appartenenti ai volontari di Torino 2006, circa un centinaio, arrabbiati dopo il ritiro della disponibilità della città ad ospitare l’edizione del 2026 delle Olimpiadi. Tra i manifestanti alcuni esponenti del Pd torinese, Augusta Montaruli e Maurizio Marrone di Fd’I, e il presidente dell’Amma, l’associazione che rappresenta oltre 600 aziende del settore metalmeccanico.

In piazza tre bandiere dell’Ue e una del Piemonte. «Basta declino con l’Appendino», lo slogan più usato nel presidio, per altro funestato da una gelida pioggia e terminato dopo circa un’ora. Poco distante, tenuti sott’occhio dalle forze dell’ordine, quattro Notav muniti di volantini tentavano di fare proseliti tra coloro che abbandonavano la manifestazione.

Sabato prossimo si dovrebbe tenere la «nuova marcia dei quarantamila», anche se gli organizzatori puntano a quota centomila, a favore della Torino-Lione.

Dal M5S torinese, giunge l’appello a stemperare gli animi attraverso la «creazione di una camera di compensazione del conflitto ove poter avere momenti di confronto duraturo e aperto».

CORRUZIONE, NOMI ILLUSTRI FRA I 21 ARRESTI PER APPALTI TAV MILANO-GENOVA E A3. ESCORT COME TANGENTI

https://www.lastampa.it/2016/10/26/italia/terzo-valico-milanogenova-arresti-per-corruzione-A1V8VrfLEYdsq2OGHmkIMP/pagina.html?fbclid=IwAR2laGBJl5UKds5nIA732Rl4zwDj3gnjeFj3tgKXiefjjqxx_iXPVvF2l7U

Fra le persone coinvolte Giandomenico Monorchio (figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato) e Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex potente ministro Pdl
  
Pubblicato il 26/10/2016
EDOARDO IZZO
ROMA

Spiccano due nomi illustri nell’inchiesta della Procura di Roma su appalti e corruzione delle grandi opere. Uno è l’imprenditore Giandomenico Monorchio(figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio) arrestato stamattina dai carabinieri del Comando Provinciale di Roma. L’altro, che risulta indagato a piede libero, è invece Giuseppe Lunardi, anch’egli imprenditore, nonché figlio dell’ex potente ministro Pdl ai Trasporti e alle Infrastrutture del governo Berlusconi, Pietro Lunardi. Per aggiudicarsi gli appalti dei lavori per il Terzo Valico genovese gli imprenditori non pagavano soltanto tangenti, ma offrivano anche prestazioni con escort.  

Sono in totale ventuno gli arrestati tra Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria nell’indagine condotta dai carabinieri di Roma e denominata «Amalgama» (per simboleggiare i legami stretti). Ipotizza la corruzione per ottenere contratti di subappalto nell’ambito dei lavori per la realizzaziondella tratta Tav «Av./A.C Milano-Genova-Terzo Valico Ferroviario dei Giovi» (Alta Velocità Milano-Genova), del 6° Macrolotto dell’Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria e della People Mover di Pisa. Agli indagati i procuratori aggiunti Paolo Ielo e Michele Prestipino contestano, a vario titolo, i reati di associazione a delinquere, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e tentata estorsione.  

Uno scambio di favori tra dirigenti e imprenditori. Falsi certificati sui lavori in cambio di subappalti. Ruolo «chiave» era quello del direttore lavori, l’ingegner Giampiero De Michelis, considerato il «promotore e organizzatore» della banda insieme all’imprenditore calabrese Domenico Gallo. Era proprio lui che, incaricato della direzione dei lavori dal «contraente generale», svolgeva compiacenti controlli di qualità e rilasciava certificati dove si affermava il falso, ottenendo come contropartita «commesse per beni e servizi» fatturati a ditte riferibili a parenti o amici.  

Il complesso meccanismo è spiegato dalle intercettazioni telefoniche con le quali i carabinieri, agli ordini del generale Antonio De Vita, hanno incastrato i due principali protagonisti e gli altri indagati coinvolti, a vario titolo, nell’inchiesta. Tantissime le telefonate ascoltate dagli inquirenti. C’è ad esempio quella dell’aprile 2015, nella quale Gallo dice a un coindagato: «Chi fa il lavoro… la stazione appaltante… i subappaltatori… deve crearsi l’amalgama, mo’ è tutt’uno… Perché se ognuno tira e un altro storce non si va avanti… Quando tu fai un lavoro diventi… parte integrante di quell’azienda là… E devi fare di tutto perché le cose vadano bene… è giusto?».  

I carabinieri annotano nel verbale, poco dopo, lo stupore dello stesso Gallo nell’apprendere che il suo interlocutore credeva che i controlli sui lavori venissero svolti secondo le regole: «Ah, perché pensavi che erano…». Quello risponde: «Io sì», e Gallo chiarisce: «Nooo… non pensare…. Chi pensa male fa peccato ma non sbaglia mai».  

 

Ecco a cosa servono le grandi opere: 21 arresti per corruzione per i lavori della Tav Milano-Genova e dell’A3

http://www.lonesto.it/?p=23339&fbclid=IwAR31yPOp5ab99Q173twHAnwRNqXAE0q4nNpMzj43p5TROsklIf2hgOwCjHk

26/09/2016 – Appalti truccati da Nord a Sud, dall’alta velocità ferroviaria alle autostrade. Un’operazione congiunta di Carabinieri e Guardia di Finanza torna a dipingere un’Italia in cui il sottobosco della corruzione affianca tutte le grandi opere. Le persone coinvolte sono almeno 21 in varie regioni, con accuse che vanno – a vario titolo – dalla corruzione alla tentata estorsione, fino all’associazione a delinquere.

Spiccano due nomi illustri nell’inchiesta della Procura di Roma su appalti e corruzione delle grandi opere. Uno è l’imprenditore Giandomenico Monorchio (figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio) arrestato stamattina dai carabinieri del Comando Provinciale di Roma. L’altro, che risulta indagato a piede libero, è invece Giuseppe Lunardi, anch’egli imprenditore, nonché figlio dell’ex potente ministro Pdl ai Trasporti e alle Infrastrutture del governo Berlusconi, Pietro Lunardi. Per aggiudicarsi gli appalti dei lavori per il Terzo Valico genovese gli imprenditori non pagavano soltanto tangenti, ma offrivano anche prestazioni con escort.

Sono in totale ventuno gli arrestati tra Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria nell’indagine condotta dai carabinieri di Roma e denominata «Amalgama» (per simboleggiare i legami stretti). Ipotizza la corruzione per ottenere contratti di subappalto nell’ambito dei lavori per la realizzazione della tratta Tav «Av./A.C Milano-Genova-Terzo Valico Ferroviario dei Giovi» (Alta Velocità Milano-Genova), del 6° Macrolotto dell’Autostrada A3 Salerno-Reggio Calabria e della People Mover di Pisa. Agli indagati i procuratori aggiunti Paolo Ielo e Michele Prestipino contestano, a vario titolo, i reati di associazione a delinquere, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio e tentata estorsione.

Gli investigatori ipotizzano “condotte corruttive per ottenere contratti di subappalto” nei lavori di una tratta della Tav Milano-Genova, del 6° Macrolotto dell’A3 Salerno-Reggio Calabria e della People Mover di Pisa, l’impianto a fune che mette in collegamento l’aeroporto Galileo Galilei con la stazione centrale della città.

L’attività investigativa, denominata “Amalgama”, ha fatto scattare arresti nel Lazio, Lombardia, Piemonte, Liguria, Toscana, Abruzzo, Umbria e Calabria. L’indagine – spiegano fonti degli inquirenti – ha ricostruito presunte condotte illecite di un gruppo di persone costituito, organizzato e promosso dalla persona che, fino al 2015, è stato il direttore dei lavori nell’ambito delle tre opere pubbliche interessate e dal suo socio di fatto, un imprenditore calabrese del ramo delle costruzioni stradali, con l’aiuto di altre 9 persone, tra le quali anche alcuni funzionari del consorzio Cociv.

Il Tav Genova-Milano è un’opera che vale 6,2 miliardi e ha l’obiettivo di potenziare i collegamenti del sistema portuale della Liguria con le principali linee ferroviarie del nord Italia e il resto d’Europa. Si sviluppa lungo 53 chilometri, di cui 37 in galleria. Il Cipe ha fissato un limite di spesa di 6,2 miliardi per il consorzio Cociv – un colosso di cui fanno parte Salini Impregilo, Condotte e Civ – che dovrà realizzare i sei lotti. – FONTE

Tav, c’è amianto nel Terzo Valico: ‘Tanto la malattia arriva fra 30 anni’

https://www.greenme.it/informarsi/ambiente/22655-amianto-terzo-valico-tav?fbclid=IwAR2wogJSkMn7ebU4ALyDm7JAZ1oYcsCgUgbSsDaIBFlNkCIWqvcHE3d-L0A#.W9wTBdbrA6N.facebook

Amianto Tav Pagani

Amianto e grandi opere. “C’è amianto nel cantiere? Tanto la malattia arriva fra 30 anni”, fa raggelare la frase di Ettore Pagani, uno dei massimi dirigenti del consorzio di imprese per l’alta velocità ferroviaria Milano-Genova, intercettato nell’ambito dell’inchiesta per corruzione che tra l’altro ha portato anche al suo arresto nell’ottobre scorso.

Un tassello ancora più turpe si aggiunge alle già tanto complicate vicende che in Italia segnano la realizzazione delle fatidiche Tav. Questa è la volta del Terzo valico per l’alta velocità ferroviaria Milano-Genova, i cui appalti sono il cuore dell’inchiesta sulle tangenti per le grandi opere.

Gli addetti ai lavori hanno oggi riportato agli onori delle cronache un colloquio shock, intercettato per caso mentre si svolgevano le indagini sulle presunte irregolarità negli appalti per i lavori pubblici, tra Pagani – ormai ex direttore generale del Cociv, il consorzio di imprese aggiudicatario dei lavori del Terzo valico per l’alta velocità ferroviaria Milano-Genova (ma anche una figura di spicco del gruppo Salini-Impregilo e responsabile del progetto Ponte di Messina) – e un suo collega in cui ragionavano sulla presenza di amianto nelle rocce.

Contromisure da adottare? Manco a pensarlo. Durante i lavori emergono tracce di amianto nelle rocce interessate dagli scavi del cantiere e, mentre i cittadini dell’area coinvolta tra basso Piemonte e Liguria protestano, i responsabili se ne lavano le mani.

Ecco perché: l’allora numero due Cociv Ettore Pagani parla nel luglio del 2015 con un collega, ora in via d’identificazione, che chiede come comportarsi con la presenza di amianto nelle rocce: “Il primo che si ammala è un casino”, dice riferendosi agli operai. E Pagani, invece di preoccuparsene seriamente, risponde: “Tanto la malattia arriva fra trent’anni”. Una intercettazione che non è contenuta nell’ordine d’arresto notificato nelle scorse settimane, ma fa parte di un corpo d’intercettazioni già trascritte dagli inquirenti, con le quali si mette in evidenza la poca accortezza e la superficialità con cui si sono gestiti i cantieri per troppo tempo.

Pagani è già noto per la disinvoltura con cui aggira le carte: in casa sua i militari del nucleo di polizia tributaria genovese hanno trovato mazzette per 15mila euro, mentre in altre intercettazioni aveva mostrato una chiara connivenza con gli enti locali.

Duro il commento dei NoTav:

Nulla di nuovo purtroppo per chi da anni si batte contro la costruzione dell’opera e per primo ha denunciato il rischio amianto legato alla costruzione del Terzo Valico. A quel tempo gli attivisti del movimento si sentirono dare degli allarmisti dai Sindaci intenti a gustarsi la torta delle opere compensative. In una provincia che continua a piangere i morti di Casale Monferrato la puzza di ipocrisia sta diventando nauseabonda. […] questa volta non ci sarà bisogno di lunghi ed estenuanti processi per trovare un colpevole. Già li conosciamo e sono quelli che questa opera l’hanno voluta e la stanno costruendo nonostante la contrarietà delle popolazioni locali e nonostante si sapesse dall’inizio che realizzare l’opera avrebbe significato spargere amianto ovunque. Bisogna continuare a battersi, in gioco c’è la salute di noi tutti e quella dei nostri figli”.

Si legge sul blog NoTav Terzo Valico.

fermate terzo valico

Come scrive Legambiente Val Lemme e delle valli Scrivia e Polcevera, si ritengono “tutti i soggetti pubblici, in particolare i Sindaci, e i soggetti privati che sostengono il Terzo Valico, responsabili del rischio a cui sottopongono la salute dei cittadini e dei lavoratori delle province di Alessandria e Genova al solo fine di realizzare una costosissima infrastruttura inutile, per la quale non è mai stata provata l’utilità pubblica, non è mai stata presentata una seria analisi costi-benefici, non è mai stata indetta una gara d’appalto”.

Opere simili non hanno un senso, se non la sporca ripartizione degli introiti tra poche ripugnanti persone. Un po’ come la Terra dei Fuochi, per dirne una, tanto poi – e tra tanti anni – si ammalano gli altri.

Germana Carillo

Così la corruzione uccide: parla il primo pentito delle grandi opere

http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/03/14/news/lui-ruba-e-tu-rischi-la-vita-parla-il-primo-pentito-delle-grandi-opere-1.297123?fbclid=IwAR3LmbIuOB1qNEkFIziOVDISM3nLfo5hYFllZ8QUG-teQ9ET2qiZeBsM5pg

Gallerie che possono crollare. Cemento che non tiene. Buchi nell’amianto. Un ingegnere che per più di vent’anni ha occupato una posizione strategica nella mappa delle infrastrutture nazionali rivela le tangenti che diventano un pericolo per il territorio e le persone

DI PAOLO BIONDANI E GIOVANNI TIZIAN      

16 marzo 2017

Così la corruzione uccide: parla il primo pentito delle grandi opere
Un tratto della Salerno-Reggio Calabria

Perché le grandi opere costano sempre molti miliardi in più dl dovuto? Come mai in Italia sono così frequenti crolli di viadotti, cedimenti di gallerie e altri disastri? Perché la Tav e gli altri mega-appalti ferroviari e autostradali sono al centro di continue retate per corruzione? A rispondere a queste domande, per la prima volta, è un super-tecnico interno al sistema: un ingegnere che per più di vent’anni ha occupato una posizione strategica nella mappa delle infrastrutture nazionali. Il primo pentito delle grandi opere.

Giampiero De Michelis, nato in Abruzzo 54 anni fa, ha guidato i lavori dell’Alta velocità, i cantieri infiniti dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e molti altri appalti, sempre con ruoli cruciali di “direttore dei lavori”: il primo e decisivo controllore pubblico delle imprese private. In ottobre è finito nel carcere di Regina Coeli con la retata (31 arresti) che ha coinvolto anche manager di colossi come Salini-Impregilo e Condotte. In novembre De Michelis ha cominciato a vuotare il sacco con i magistrati di Roma e Genova. Il suo è un racconto nero, che svela intrecci spericolati e dagli anni Novanta arriva ai nostri giorni, coinvolgendo ministri, grandi imprenditori, progettisti eccellenti, figli di politici e burocrati, funzionari di altissimo livello dello Stato.

L’inchiesta di carabinieri e guardia di finanza mostra anche costi e danni della corruzione, con risvolti drammatici: intercettato prima dell’arresto, De Michelis parlava di «cemento troppo liquido: sembra colla».

“Deroga”: la parola magica
In carcere il pm genovese Paola Calleri gli contesta altre intercettazioni con parole pesantissime: «Sta venendo giù la galleria di Cravasco. E anche in quella di Campasso si sono arricciate le centine!». I magistrati, preoccupati, hanno chiesto una serie di perizie sui tre tunnel più importanti della nuova ferrovia Milano-Genova. Una prima consulenza è stata consegnata: gli esperti, per ora, escludono l’ipotesi di forniture tanto scadenti da provocare crolli. Le indagini sulla sicurezza però continuano e l’allarme resta altissimo.

L’indagine è stata chiamata «Amalgama»: è la parola usata dagli stessi indagati, mentre erano intercettati dai carabinieri del nucleo investigativo di Roma, per descrivere l’evoluzione del malaffare. Nella vecchia Tangentopoli la corruzione era diretta: buste di soldi in cambio di appalti d’oro. Oggi c’è una corruzione strutturata su almeno tre livelli, più difficile da scoprire. Il fulcro è ancora il controllore pubblico che favorisce una cupola di imprese privilegiate, che ora lo ripagano indirettamente, dividendo la torta con altre società private, attraverso subappalti, consulenze o compartecipazioni in apparenza regolari. Il trucco è che dietro queste aziende c’è lo stesso pubblico ufficiale, che le controlla segretamente tramite soci occulti. Con questi giochi di sponda, le grandi imprese comprano il controllore-direttore dei lavori, che a quel punto non controlla più niente.

L’11 novembre 2016 De Michelis ammette di aver beneficiato di questo sistema corruttivo e confessa, in particolare, che era suo il 50 per cento della Oikodomos, un’azienda intestata a un socio-prestanome, l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, a sua volta arrestato in ottobre, ma conosciuto vent’anni fa nei cantieri della Salerno-Reggio. Confermando l’accusa-base, l’ingegnere delle grandi opere spiega che il sistema esiste da decenni e non l’hanno certo inventato lui e Gallo: «È sempre stato così. Prima c’era la Spm di Stefano Perotti. Dopo gli arresti di Firenze il sistema è continuato con la Crono e la Sintel di Giandomenico Monorchio. E prima ancora c’era Lunardi».

Perotti è il progettista arrestato nel marzo 2015 con il potente direttore ministeriale Ercole Incalza. La Sintel è la società d’ingegneria dove lavorava De Michelis. Il suo titolare Giandomenico è il figlio di Andrea Monorchio, l’ex ragioniere generale dello Stato. L’ingegnere Pietro Lunardi è l’ex ministro del governo Berlusconi che nel 2002 ha varato la contestatissima legge-obiettivo per accelerare le grandi opere in deroga a tutte le regole.
Qui il pm Giuseppe Cascini, titolare del fascicolo romano dell’inchiesta, interrompe l’interrogatorio per avvertire l’indagato che, se accusa altri, diventa testimone e, se dichiara il falso, verrà incriminato. De Michelis se ne assume la responsabilità e giura di voler raccontare tutto dall’inizio.

I disastri del progettista-ministro
«La storia nasce ancora prima che Lunardi diventi ministro, quando progettava le gallerie per l’alta velocità Bologna-Firenze», esordisce De Michelis. «Lunardi era il progettista che doveva garantire certi ricavi alle imprese private. Da allora il sistema è rimasto sempre lo stesso: il progetto è fatto male in partenza, così poi si devono fare le modifiche, le varianti, che portano soldi in più alle imprese. Anche l’autostrada Salerno-Reggio Calabria è un progetto di Lunardi fatto malissimo. Le perizie di variante le faceva lo stesso Lunardi. C’era un accordo a un livello molto più alto del mio, che coinvolgeva i vertici del consorzio di imprese: io l’ho saputo dal manager Longo di Impregilo».

I magistrati gli chiedono riscontri oggettivi. Il tecnico arrestato descrive un caso esemplare di progetto disastroso targato Lunardi. Si riferisce alla galleria Piale, a Villa San Giovanni, sulla Salerno-Reggio. De Michelis premette che per iniziare uno scavo del genere bisogna puntellare la montagna «con paratoie e micropali». Una muraglia fondamentale per impedire le frane, per cui dovrebbe essere studiata al millimetro. Ricorda invece De Michelis: «Il capo-cantiere mi chiama e mi dice: “Ingegnere, qui non c’è niente, che facciamo?”. Sono andato a vedere: il progetto di Lunardi prevedeva più di 30 metri di paratoie e micropali dove in realtà non c’era la montagna, c’era solo il vuoto». De Michelis non crede ai suoi occhi. Bisognerebbe fermare tutto e chiedere una variante: allo stesso Lunardi. Soluzione: «A quel punto ho tirato una riga dritta, siamo scesi con i micropali lì dove arrivava la montagna e siamo andati avanti».

De Michelis fa notare ai pm che il problema dei progetti variabili (e dei costi gonfiabili) è facilmente verificabile sulle carte: «Le varianti tecniche sono ammissibili solo per le gallerie. All’esterno le modifiche non dovrebbero esserci: se il progetto cambia, dovrebbero pagare le imprese private. Invece paga sempre la parte pubblica. Anche nel 2016, dopo le mie dimissioni dalla Sintel, hanno continuato imperterriti a fare varianti: me lo dicono i tecnici che sono ancora lì in cantiere».

Appalti comprati a suon di tangenti, strade costruite con materiali scadenti e molto altro: sull’Espresso in edicola da domenica 12 marzo le rivelazioni di un super tecnico sulla corruzione nelle grandi opere. Con costi esorbitanti e rischi per la sicurezza di tutti. Ecco il racconto di Giovanni Tizian, che firma il servizio con Paolo Biondani

Queste accuse colpiscono il cuore del sistema dei “general contractor”, inaugurato con l’avvio della Tav nel 1991 dall’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci (morto dopo una condanna definitiva per corruzione) e poi perfezionato con la legge obiettivo di Lunardi. In sintesi, lo Stato delega tutto a un consorzio di imprese private, che gestiscono direttamente i soldi pubblici: in cambio, dovrebbero assumersi tutti i rischi, tecnici e finanziari, e consegnare l’opera finita, “chiavi in mano”, al prezzo prefissato. «In realtà non c’è mai un progetto chiavi in mano», sostiene De Michelis. «La legge prevede un’alta sorveglianza sui general contractor, che spetta all’Anas per le autostrade e all’Italferr-Rfi per la Tav, che dovrebbero controllare e approvare tutte le varianti che aumentano i costi. Ma tutta l’alta sorveglianza è finta. Per le mie opere Italferr non ha mai controllato niente».

Quando è stato arrestato, De Michelis era il direttore dei lavori degli ultimi “macro-lotti” dell’autostrada Salerno-Reggio e della nuova Tav Milano-Genova. I magistrati gli chiedono se conosca altre grandi opere inquinate dal malaffare. La risposta è istantanea: «Il Brennero. Per i tunnel ferroviari di Aica e Mules, Perotti ha vinto la gara per la progettazione, mi pare nel 2008, con una falsa certificazione firmata dal manager Z. ex dirigente Fiat. Questo perché, per l’alta velocità Emilia-Toscana, il general contractor era il gruppo Fiat. Impregilo è nata dalla fusione tra Fiat-Impresit, Girola e Lodigiani». Tre aziende travolte da Tangentopoli.

Il verbale integrale è discorsivo, De Michelis parla al presente storico: «Quindi l’ex manager Fiat gli fa questo certificato e lo manda a Impregilo. Io sapevo che la gara era finta: erano previsti certi requisiti che io come Sintel ero l’unico ad avere. Invece così vince Perotti, che ha dietro Incalza. Quindi Giandomenico Monorchio mi dice: “Adesso vado da Incalza con mio padre e vedo di ottenere qualcosa in cambio”. Infatti gli danno in cambio il progetto della Porto Empedocle in Sicilia, quello fatto dalla Cmc. Tolgono il lavoro a Perotti e lo danno a Sintel, senza gara, con affidamento diretto. E così Sintel non fa ricorso per i tunnel del Brennero».

La superstrada al centro del presunto baratto è un’opera strategica per la Sicilia: il raddoppio della Caltanissetta-Agrigento. Va ricordato che in questo come in altri casi più gravi, De Michelis parla di appalti pubblici gestiti dalle imprese private senza alcun vincolo, grazie a una «norma criminogena», come viene definita nelle ordinanze d’arresto: un articolo della legge-obiettivo ha autorizzato le aziende controllate a scegliersi il controllore-direttore dei lavori (e a pagargli legalmente un ricco compenso). Una norma-scandalo che ha trasformato le grandi opere in un festival dei conflitti d’interesse ed è stata abolita con il nuovo codice degli appalti sollecitato nel 2014 dall’autorità anti-corruzione. Proprio le scelte dei progettisti, controllori e subappaltatori permetterebbero ai privati, ieri come oggi, di agganciare i grandi protettori a livello di governo, che De Michelis definisce «santi in paradiso».

«Il sesto macro-lotto della Salerno-Reggio l’ha vinto la cordata Impregilo-Condotte, che è la stessa del Cociv, il consorzio dell’alta velocità Milano-Genova. Allora l’affare comprendeva tutto: general contractor e direzione lavori. A quella gara globale, gestita dall’Anas, ho partecipato io come persona fisica su richiesta di Impregilo. Però poi il contratto l’hanno fatto alla Sintel, che mi ha confermato, ma come dipendente. Bisognava dare la direzione lavori alla società del figlio di Monorchio perché il padre era al vertice di Infrastrutture spa, cioè era lui che decideva i finanziamenti pubblici, e poi è diventato anche presidente della commissione di collaudo. Quindi in pratica è Monorchio senior che impone il figlio. Lo stesso succedeva con la Spm: era Incalza che sbloccava i finanziamenti e di fatto imponeva Perotti. Monorchio padre e Incalza erano i santi in paradiso di Sintel e Spm». I pm gli chiedono come fa a saperlo. Risposta: «Me l’ha detto personalmente Monorchio figlio, titolare della Sintel». Anche dietro la Spm ci sarebbero storie di famiglia: «Il padre di Perotti aveva fatto lavorare Incalza, il rapporto è nato da lì».

Nelle sue lunghe confessioni, il pentito indica ai magistrati un’altra società che sarebbe stata utilizzata dalle imprese delle grandi opere per arricchire Monorchio junior: «Il consorzio di Impregilo ha affidato alla Crono le prove di laboratorio per i cantieri della Salerno-Reggio. Sono contratti da cinque milioni di euro. Che la Crono fosse di Monorchio lo sapevano tutti».

Giandomenico Monorchio, finito agli arresti domiciliari, nega di aver commesso illeciti e sostiene di non aver mai approfittato dei poteri pubblici del padre. Anche Perotti e Incalza, a Firenze, hanno respinto tutte le accuse. Lunardi non è neppure indagabile: i fatti a lui addebitabili sono ampiamente prescritti. Fino a prova contraria, dunque, bisogna presumere che siano tutti innocenti. Anzi, dopo Tangentopoli, è sparito il reato: la spartizione privata dei lavori pubblici si può fare a norma di legge.

Il metodo dei santi in paradiso
De Michelis conferma ai magistrati di possedere addirittura la copia di un patto segreto per dividersi i progetti in tutta Italia, siglato quando Impregilo era controllata dal gruppo Gavio, prima di essere scalata dalla Salini: «È un accordo scritto per la spartizione delle direzioni dei lavori tra la Sintel, la Spm e la Sina che allora era di Gavio».

Questo sistema spartitorio nato dopo Tangentopoli, secondo l’ex direttore delle grandi opere, rende inutile o quantomeno marginale la corruzione classica. Quando i magistrati gli chiedono se Monorchio junior, per avere quei contratti, abbia pagato tangenti, De Michelis risponde così: «Non sono cose che si dicono. A volte Monorchio mi diceva che doveva fare un regalo, certo, ma solo questo. Di più non so. Ma in questo sistema non c’è più bisogno delle buste di denaro. Dietro Sintel e Spm ci sono i santi in paradiso. Se non davano i lavori a loro, Monorchio padre e Incalza non finanziavano i progetti».

De Michelis, in pratica, ammette di aver dirottato sulle società dell’amico Gallo gli appalti che prima finivano a Monorchio e prima ancora venivano spartiti con Perotti. Di qui le proteste degli imprenditori intercettati: «Abbiamo creato un mostro!». Un’affermazione a doppio taglio: nelle grandi opere c’è un mostro che divora soldi, ma è stato creato dalle stesse aziende che lo pagano.

De Michelis parla anche della massa di subappalti gestiti direttamente dai general contractor. E mette a verbale i nomi di vari dirigenti di Impregilo che avrebbero incassato tangenti dai subappaltatori («Me l’hanno detto loro stessi»), uno dei quali è soprannominato «mister 3 per cento». L’ingegnere arrestato denuncia anche una cordata di manager che si arricchirebbero da anni con «ruberie enormi»: una «Impregilo parallela», la chiama De Michelis, chiarendo che «nel gruppo ufficiale comanda Pietro Salini», mentre «lì comanda il signor C., in passato ha avuto un ruolo di peso nella gestione della tratta toscana dell’alta velocità, ora ufficialmente è solo un consulente esterno, ma in realtà è a capo di un ordine gerarchico: c’è, ma non compare». Le grandi opere, precisa il pentito, producono colossali quantità di detriti e terre di scavo che dovrebbero essere accumulate in «cave di deposito», per essere poi rivendute e ridurre i costi. «Dai cantieri escono i camion con tonnellate di materiale, ma nelle cave ufficiali non arriva niente: quelli dell’Impregilo parallela intascano milioni rubandosi gli inerti e rivendendoli in nero».

Anche questa «Impregilo parallela» nascerebbe da rapporti di famiglia. De Michelis, infatti, spiega che il signor C. era «amico del papà» di un manager arrestato di Impregilo: «È lui che gli ha fatto assumere il figlio nel consorzio per l’alta velocità». Per questo l’erede continua ancora a obbedire a quella «eminenza grigia di Impregilo». De Michelis aggiunge che aveva chiesto «un incontro a Pietro Salini, per fargli sapere della struttura parallela che aveva dentro Impregilo, perché avevamo tutti il dubbio se lui sapesse o no. Salini però non ha voluto vedermi».

Questo presunto contrabbando di materiale da cava, sostiene De Michelis, sarebbe proseguito anche in Liguria, con le gallerie del Terzo valico. Ma qui emergono profili più inquietanti.

Emergenze amianto e cemento
«Il problema più grosso, per il consorzio guidato da Salini-Impregilo, è l’amianto, soprattutto per la parte ligure», denuncia il pentito. Anche i magistrati, nelle domande, parlano di materiale «marcio». E l’arrestato conferma che le terre dove si scava per la nuova Tav sono altamente contaminate dall’amianto: «Ce n’è tanto», sostiene l’ingegnere. La legge impone di analizzare tutto il materiale e smaltirlo in totale sicurezza. Il direttore dei lavori però non sa neppure dove sia finito con esattezza. Salvo poi indirizzare gli inquirenti verso una cava, la Isoverde, tra le più grandi della Liguria. «Poi parliamo anche di questo», lo blocca il pm, che sembra molto interessato alla questione. Ma preferisce trattare in successivi interrogatori questo capitolo che potrebbe riservare brutte sorprese per il territorio. Probabile, dunque, che l’ingegnere venga riascoltato per chiarire i misteri dello smaltimento delle fibre di amianto.

In questo mare di ammissioni, tuttavia, De Michelis nega ostinatamente solo l’accusa di aver diviso con Gallo anche i soldi di società come la Breakout, che forniscono cemento. «È vero che presentavo Gallo alle grandi imprese e portavo i manager a vedere le sue cave, ma lo facevo gratis, per amicizia. Per la Oikodomos facevamo al 50 per cento, ma con la Breakout io non c’entro». Una posizione che ai magistrati sembra assurda: che senso ha ammettere la corruzione con alcune società e negare la stessa accusa con le altre? Proprio qui l’ingegnere minimizza anche le intercettazioni sul cemento scadente: «È un problema di consistenza, non di qualità. Mandavo indietro i camion solo per rifare le bolle formali». Il pm Cascini non gli crede: «Perché quando viene fuori che il cemento è colla o è troppo liquido, lei cerca di evitare che emerga?». La domanda resta senza risposta. Forse perché è un segreto inconfessabile: chiunque ammettesse di aver usato cemento pericoloso, rischierebbe di rispondere non solo di corruzione, ma anche delle eventuali vittime di nuovi crolli di grandi opere.

DIRITTO DI REPLICA 
Pubblichiamo integralmente due lettere di precisazioni che abbiamo ricevuto dall’ex ministro Pietro Lunardi e dalle Ferrovie dello Stato , che contestano il contenuto degli atti giudiziari rivelati da l’Espresso.
Nell’articolo abbiamo riferito i risultati dell’inchiesta “Amalgama” e i verbali delle confessioni del direttore dei lavori della Tav e della Salerno-Reggio Calabria, che nessuno ci accusa di aver travisato.

Clima impazzito? ”No,è guerra climatica ”. Parla il generale Fabio Mini

https://www.jedanews.it/blog/guerra-climatica-generale-mini/?fbclid=IwAR0aA5KAtrAjUqrU6u891WgylxN4N4F2XOYDVa0Ot2Xl5lwi_7DXiGcQ3R8

Mai come ora  ci rendiamo conto che il clima è impazzito.Ecco il motivo spiegato dal Generale Mini:”E’ guerra climatica,clima modificato con agenti chimici”.

Riportiamo qualche passo significativo della testimonianza di questa persona, il cui ultimo incarico militare è stato il Comando delle forze NATO in Kossovo, e quindi non è stato un generale di “cartone”, come si dice in gergo di coloro che non  hanno mai ricoperto ruoli di Comando, e sicuramente conosce l’argomento di cui tratta e  anche solo per questo, dovrebbe essere ascoltato.
“La guerra ambientale non è più solo una ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo, si passa per pazzi.”

“Negare l’informazione è già un atto di guerra. Non c’è solo la disinformazione ma c’è una pratica militare che si chiama ‘denial of service’ ovvero si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione. E questo è già un vero e proprio atto di guerra. Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni e questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami dell’Indonesia. L’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione, a causa di anelli mal funzionanti o volutamente non funzionanti, ne ha impedito la comunicazione.”

 “La bomba climatica è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando in gran segreto per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che purtroppo non è più fantascienza.”

“La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni.”

Il Generale racconta che nel lontano 1946, lo scienziato neozelandese Thomas Leech, lavorò in Australia per conto dell’Università dell’Auckland, con fondi americani e inglesi, per provocare piccoli tsunami. Il “Progetto Seal” ebbe successo, spaventò lo scienziato che interruppe gli esperimenti, e che poi sicuramente sono stati ripresi e perfezionati.
“I militari hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta.”
“Nell’ambito militare non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa.”

Non è solo un problema di mancanza di moralità, ma secondo il Generale si va anche oltre: “La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti.”

Con l’articolo su Limes, il Generale aveva già divulgato il progetto dell’Aereonautica Militare Statunitense del 1995. In “Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025” si delineavano i piani non “di possedere il clima”, ma di controllare il meteo, lo spazio atmosferico e condurre operazioni belliche in sicurezza, dice sempre il Generale. “Per esempio, irrorando le nubi con ioduro di argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle o spostarle. Oggi siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025.”

Fonte : nogeoingegneria.com
Redatto da: veritaoltreilsistema.com

Stress test Fed: bocciata Deutsche Bank, congelate cedole di Goldman e Morgan Stanley

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NEW YORK – La seconda parte degli stress test condotti dalla Federal Reserve – quella che esamina qualità della gestione e piani di capitale – ha promosso e approvato i dividendi e i buyback proposti dalla grande maggioranza delle principali banche americane. Ma ha congelato ai livelli dell’ultimo anno i payout di due protagonisti di Wall Street, Goldman Sachs e Morgan Stanley, che cadrebbero altrimenti sotto requisiti minimi di solidità richiesti. E bocciato la divisione statunitense di Deutsche Bank.

Complessivamente, le 34 banche su 35 che hanno ricevuto il via libera ai piani di capitale potranno versare il 95% dei loro utili previsti, con Citigroup e Wells Fargo autorizzate a payout superiori al cento per cento. Ancora nel 2013 le banche, impegnate a risanare le loro finanze scosse dalla crisi, erano state autorizzate a versare il 60% dei profitti, una differenza che mostra la fiducia e stabilità riconquistata in questi anni dal settore bancario negli Stati Uniti.

La Fed, tuttavia, ha esplicitamente bocciato la travagliata divisione statunitense di Deutsche Bank, che aveva già pesantemente criticato l’anno scorso: nel suo esame qualitativo ha trovato «ampie carenze» nei sistemi interni di controllo e nei dati. La divisone, di conseguenza, dovrà rispettare limiti nei profitti che può rimpatriare a vantaggio della casa madre in Germania. Deutsche, in un comunicato, ha risposto indicando di aver compiuto passi avanti nei controlli e che gli stress test non condizioneranno la capacità del gruppo tedesco di premiare gli investitori.

Nel caso di Goldman e Morgan Stanley, il problema rilevato dalla Fed potrebbe invece rivelarsi una eccezione: è derivato anzitutto dalla riforma delle tasse americana, che nell’immediato ha generato un onere straordinario in grado di indebolire i livelli di capitale dei due istituti anche se nel più lungo periodo dovrebbe generare significativi risparmi e sostenere i profitti dell’intero settore. Segno di questa considerazione, la Fed ha utilizzato una soluzione senza precedenti: quella, appunto, di congelare dividendi e buyback ai livelli del recente passato senza respingere tout court i disegni delle banche. Oggetto di alcune critiche della Fed è stata infine State Street, per la sottovalutazione del rischio posto dall’eventuale fallimento di un partner nel trading.

Passano, al contrario, a pieni voti i principali quattro istituti statunitensi: JP Morgan Chase, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo. Bank of America ha annunciato che il suo dividendo aumentera’ del 25% e che lancerà un più generoso piano di riacquisto di titoli propri da 20,6 miliardi contro i 12,3 miliardi dell’anno scorso. Wells Fargo piu’ che raddoppiera’ il suo buyback a 24,5 miliardi e incrementerà le cedole del 10 per cento. Sei banche, al cospetto comunque degli stress considerati più difficili negli otto anni dal loro inizio, avevano però ridimensionato in extremis i loro progetti per essere certi di ottenere il semaforo verde delle autorità, tra queste la stessa JP Morgan e American Express.

Randal Quarles, il governatore della Fed nominato da Donald Trump quale vicepresidente responsabile della supervisione bancaria, ha affermato ieri sera che «le più grandi banche americane hanno robusti livelli di capitale e dopo aver effettuato le approvate distribuzioni di capitale manterrebbero la loro abilità di concedere prestiti anche durante una severa recessione». La prima parte degli stress test, che aveva esaminato la generale resistenza delle banche a scenari recessivi, si era concluso la scorsa settimana come una universale promozione.