Pchr: in una esecuzione extra-giudiziaria, aerei militari israeliani uccidono due palestinesi

27/1/2014
Gaza – Pchr. Comunicato stampa.
Mercoledì 22 gennaio 2014, in un tentativo di esecuzione extra-giudiziaria, un drone israeliano ha lanciato un missile contro un veicolo civile a Beit Hanoun, nella Striscia di Gaza settentrionale. Come conseguenza, entrambi i passeggeri, un membro di un gruppo armato palestinese e il cugino, sono morti sul colpo.
Secondo le indagini condotte dal Centro palestinese per i diritti umani (Palestinian Center for Human Rights – PCHR), verso le 12:05 circa un drone israeliano ha lanciato un missile contro una Citroen, auto civile. Ahmed Mohammed Jom’aah Khalil al-Za’anin (21), membro di un gruppo armato e il cugino Mohammed Yousif Ahmed al-Za’anin (22), entrambi originari della zona di al-Sekah a Beit Hanoun si trovavano all’interno dell’auto parcheggiata davanti alla casa del padre di Ahmed. Come conseguenza, l’auto è stata completamente distrutta e i corpi totalmente mutilati. La casa di Mohammed Jom’aah al-Za’anin, defunto padre della vittima, è stata seriamente danneggiata, le finestre distrutte, numerose porte rotte e i muri spaccati.
Un portavoce militare israeliano ha confermato che l’obiettivo Ahmed al-Za’anin è stato ucciso. Ha aggiunto che Al-Za’anin era responsabile di aver lanciato missili contro le città israeliane nei pressi della Striscia di Gaza nei giorni scorsi ed era inoltre responsabile della pianificazione di operazioni militari contro obiettivi militari e civili israeliani.
Questo genere di attacco è il secondo del 2014. Nella giornata di domenica 19 gennaio 2014, un drone israeliano ha lanciato un missile contro una moto guidata da un attivista delle brigate al-Quds (l’ala armata del Jihad islamico) nella città di Jabalya nella Striscia di Gaza settentrionale. L’attivista è stato gravemente ferito e anche un bambino che passava in quel momento è stato ferito.
Anche in passato le forze israeliane hanno utilizzato droni negli attacchi contro obiettivi nella Striscia di Gaza. Secondo i documenti del PCHR, a partire dal 2004, 640 palestinesi, tra cui 395 civili (compresi 184 bambini e 14 donne) sono stati uccisi e altri 440, tra cui 402 civili (compresi 365 bambini e 4 donne) sono stati feriti durante attacchi dei droni israeliani.
Il PCHR è seriamente preoccupato per la recente escalation israeliana e:
  1. condanna fortemente questi crimini israeliani nei Territori palestinesi occupati, che riflettono il disprezzo di Israele per le vite dei civili palestinesi;
2.  ribadisce la condanna per le esecuzioni extra-giudiziarie commesse dalle forze israeliane nei confronti degli attivisti palestinese, che hanno lo scopo di far inasprire la tensione nella regione e minacciare le vite dei civili palestinesi; e
3. invita la comunità internazionale ad agire immediatamente per fermare questi crimini e ribadisce l’appello alle Alte Parti Contraenti della Quarta Convenzione di Ginevra affinché adempiano al proprio dovere di assicurare la protezione dei civili palestinesi nei Territori palestinesi occupati.
Traduzione di Laura Delia

I familiari dei suicidi chiederanno risarcimenti allo Stato

scandalo! Loro evadono e dobbiamo pure risarcirli? Allertate la società civile

Si prepara un’azione legale di fronte alla giustizia europea. L’annuncio è stato dato da Roberto Cavasin, rappresentante del Movimento 9 Dicembre, nel corso di uno storico incontro con il presidente della Provincia di Treviso, il primo esponente istituzionale a confrontarsi con la protesta popolare. Muraro aderisce all’iniziativa contro lo Stato.

VIDEO
http://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=Y4o7OQQPDoY

http://frontediliberazionedaibanchieri.it/2014/01/i-familiari-dei-suicidi-chiederanno-risarcimenti-allo-stato.html

IN RISPOSTA A MASSIMO CHE CHIEDE: ” E ALLORA ? ” A LUCA CHE PARLA DI BANKITALIA

Si intende dire che l’ingente quantità di oro che fa parte delle riserve nazionali è del popolo italiano, come da implicita confessione della Banca d’Italia stessa.
Che quando ne fu depositata buona parte presso un conglomerato semi pubblico di banche americane molto probabilmente il contratto prevedeva che le stesse potessero prestarlo, venderlo, offrirlo in garanzia a terzi. Guadagnandoci sopra, ma senza corrispondere a noi interesse alcuno.

Proviamo a fare un conto degli interessi composti sul valore dell’oro depositato, calcolati sui decenni di durata del deposito. Fa tanto, vero?
Ciò sia detto salvo prova contraria, che purtroppo non è dato di avere perché il contratto originario non è mai stato divulgato.

Che c’è motivo di pensare che la Federal Reserve non sia in grado o non voglia restituire agli italiani l’oro depositato. Comunque: non in tempi ragionevolmente brevi, come per esempio quelli imposti da un’emergenza di liquidità.

Che nell’ottobre 2012 un tribunale tedesco, ( non un tribunale, la corte dei conti ndcdc) su ricorso di cittadini tedeschi, ha sentenziato che la banca centrale (Bundesbank) dovrà controllare annualmente con ispezioni in loco la consistenza delle riserve auree tedesche depositate fuori dalla Germania.

Che secondo il giornale Der Spiegel poco meno della metà delle riserve auree nazionali tedesche sono (o dovrebbero essere) depositate presso la Federal Reserve Bank of New York.
Più precisamente: presso un deposito sotterraneo scavato a 15 metri sotto il livello del mare in Liberty Street, a Manhattan.
Che la Bundesbank ha conseguentemente chiesto di ispezionare il deposito e di reimpatriare almeno parte dell’oro.
Che in Germania i cittadini si organizzano per tutelare i loro diritti (v. es: http://www.gold-action.de/campaign.html) e i tribunali e la banca centrale agiscono nel rispetto del diritto e per la difesa degli interessi dello stato tedesco.

Che da noi finora né il governo, né il parlamento, né un tribunale, né la Banca d’Italia, né i cittadini italiani hanno battuto ciglio davanti a rischi plurimi, provenienti da soggetti diversi, vecchi e nuovi, di sottrazione di una rilevante parte della nostra riserva aurea.
Tanto che si registra un certo affollarsi di ladri davanti a un bene che appare tanto male custodito.
E allora? E allora: forza!
http://corrieredellacollera.com/2014/01/27/in-risposta-a-massimo-che-chiede-e-allora-a-luca/#more-21246

In futuro l’esercito Usa sarà composto anche da Robot Terminator

ooopss…anche molti tipi delle FFOO saranno inutili, mica tutti possono essere presi da Eurogenfor a fare gli esattori fiscali per conto della BCE
Pazienza, è il progresso che tanto viene difeso….
E vuoi che l’Italia non sarà la prima tra gli “alleati” a comprare questi ammenicoli? Non si può essere mica contro il padrone

By Edoardo Capuano – Posted on 25 gennaio 2014

 La sfida del Pentagono per il terzo millennio? Un esercito di robot, ovvero, puntare sulla tecnologia per ridurre il personale e fare fronte ai tagli sempre più pesanti inflitti al budget della Difesa.
 
Le forze armate americane stanno dunque pensando di sostituire migliaia di soldati con Robot terminator e per essere precisi, secondo quanto ha spiegato un alto ufficiale statunitense alla rivista militare «Defense News», si sta valutando di ridurre del 25% le dimensioni delle squadre di combattimento, rimpiazzando i soldati mancanti con robot e veicoli radiocomandati.
 
L’organico dell’esercito potrebbe così essere alleggerito passando dalle 540 mila unità attuali a 490 mila unità entro la fine del 2014 e forse a meno di 450 mila unità entro il 2019.
 
In un simposio dell’Army Aviation ad Arlington, in Virginia, il generale Robert Cone, responsabile della formazione dell’esercito, ha fornito alcuni dettagli considerati sorprendenti. «Pensiamo al successo che la Marina ha avuto in termini di riduzione del personale sulle navì», ha affermato l’alto ufficiale. «Anche nelle nostre squadre – ha quindi aggiunto – ci sono funzioni che potremmo automatizzare riducendo le unità.
 
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Soprattutto perchè il personale rappresenta il nostro costo maggiore». Tra le idee al vaglio c’è, per esempio, quella di utilizzare veicoli o treni automatizzati al seguito di quelli guidati da persone in carne ed ossa nei convogli che trasportano i rifornimenti. Ma, in realtà, rimane per il momento lontana l’idea di vedere in prima linea robot in stile Terminator.
 
military skynet
Il progetto, del resto, ha già sollevato diversi malumori nei ranghi delle forze armate. Il processo di automatizzazione va tuttavia avanti. E il trend sembra non limitarsi alle forze armate: diversi esperti del settore si aspettano che nei prossimi decenni gli automi prendano il sopravvento sugli umani in gran parte dei lavori manuali.
 
Secondo il nuovo libro di Ben Way, intitolato ‘Jobocalypsè, nei prossimi 30 anni addirittura il 70% dei lavori tradizionali verrà svolto da robot.
 

FBI è pronta al Programma di Riconoscimento Facciale

oops, tra poco potranno licenziare molti operatori della Digos..è il progresso ….mica vorranno opporsi?

Sorridi, l’Fbi ti osserva
. Il progetto Next Generation Identification dell’agenzia federale, partito nel 2010 con un budget di un miliardi di dollari, è ormai entrato nel vivo e nel suo ambito più controverso: il programma di riconoscimento facciale. Secondo il Bureau, poter confrontare i volti di persone presenti sulla scena di un delitto, o fermati per un controllo, con un database di 12 milioni di immagini di noti criminali, consentirà di identificare e arrestare i colpevoli più rapidamente, e con maggiore efficacia.
 
Spesso usato in serie televisive come CSI: Crime Scene Investigation, è presto destinato a diventare uno strumento di vita reale per combattere il crimine.Nel 2014, quest’anno, l’FBI lancerà la tecnologia su tutti gli Stati Uniti dopo che il test pilota è completato in alcuni stati.
 
Un alto funzionario dell’agenzia, Jerome Pender, ha assicurato alla Commissione “Privacy, Tecnologia e Legge” del Senato, nel corso di un’audizione tenutasi a luglio, che tutte le richieste di consultazione del database fotografico “dovranno provenire da enti autorizzati e per scopi collegati alla lotta al crimine”. Più in generale, l’Fbi afferma che il programma è pienamente legale e conforme al Privacy Act e che una valutazione di impatto sulla privacy dei cittadini è stata effettuata prima dell’avvio di Ngi con esito positivo.
 
Tutto ok, dunque? Mica tanto, perché rimangono parecchi punti oscuri. In primo luogo, non è chiaro se, una volta a regime, nel database continueranno a essere presenti soltanto volti di criminali, oppure anche di semplici cittadini, magari raccolte attraverso telecamere di sorveglianza collocate in aree pubbliche o attinte da archivi liberamente fruibili online.
 
Ma non tutti hanno abbracciato il riconoscimento facciale a braccia aperte.
Nel 2011, Facebook ha introdotto una funzione controversa che identifica automaticamente i volti nelle foto caricate confrontandole con altre foto contrassegnate.
E ‘stato lanciato senza preavviso – una mossa che ha mostrato il fallimento dell’UE come regolatori e attivisti della privacy.
 
La rivista New Scientist, che per prima ha riportato l’attenzione dei media su Ngi ha provato a girare ai federali la domanda, raccogliendo le preoccupazioni di attivisti per la privacy dell’Electronic Frontier Foundation e dell’American Civil Liberties Union, ma senza ottenere risposta. Alcuni documenti raccolti in passato da Eff sollevano parecchi dubbi in merito. Alla presentazione del progetto, due anni fa, si accennava anche a dataset pubblici, come quello di Facebook, da cui pescare le informazioni.
 
Altri dubbi derivano dagli accordi stretti dall’agenzia con alcuni degli Stati che hanno aderito alla fase pilota dell’iniziativa, partita nel 2011 – Maryland, Ohio, Hawaii, Michigan e Oregon. Quello con leHawaii sembra suggerire che nel database confluiranno anche foto scattate in luoghi pubblici, con volti di privati cittadini. Il Maryland sembra disposto a dare all’agenzia tutte le foto in suo possesso, senza andare tanto per il sottile. Se il buongiorno si vede dal mattino, i timori degli attivisti per la privacy sembrano avere qualche fondamento.
 
Senza contare che il riconoscimento facciale è solo uno degli aspetti di Ngi, che include anche analisi del Dna, scansione dell’iride e delle impronte vocali. Una società totalmente monitorata può forse apparire più sicura, ma questo non significa che sia nel complesso un luogo più piacevole dove vivere. Senza contare che accumulando in una singola banca dati tutte le informazioni sui cittadini si corre il rischio di amplificare gli eventuali danni, nel caso un hacker riesca a introdursi nel sistema.
 
Fonti
 
 

Electrolux dimezza i salari degli operai: da 1400 a 700 euro al mese!

ma caspita che choosy, non si accontentano? Scommettiamo che le tante risorse che accorrono nella floridissima Italia per questi stipendi da nababbi lavorerebbero anche per la metà di 700 euri?

27/01/2014 22:49 | LAVORO – ITALIA | Fonte: controlacrisi.org | Autore: A. F.

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L’Electrolux ha presentato oggi per i 4 stabilimenti italiani una proposta di taglio drastico dei salari, che li porterebbe dagli attuali 1.400 euro al mese a circa 700-800 euro. La proposta prevede un taglio dell’80% dei 2.700 euro di premio aziendali, la riduzione delle ore lavorate a 6, il blocco delle festività, la riduzione di pause e lo stop agli scatti d’anzianità.
 
L’azienda non ha presentato però alcun piano di ‘sostenibilità’ per lo stabilimento di Porcia.
 
Per martedì 28 gennaio sono già convocate le assemblee in fabbrica che sfoceranno assai probabilmente in uno sciopero immediato, mentre i sindacati si preparano a chiedere un incontro con il premier Enrico Letta.
 
Per i sindacati il piano presentato è “irricevibile” e “impedisce alla parte sindacale di proseguire il confronto con l’azienda”. Lo ha detto Rocco Palombella, segretario generale della Uilm, secondo cui “è inutile rivolgere al gruppo dirigente della multinazionale svedese dell’elettrodomestico altre valutazioni. Da tempo denunciavamo il rischio di desertificazioni industriali e le proposte di riorganizzazione ascoltate oggi a Mestre inducono il paese a rischiare tale disastro se il governo non riesce ad avanzare un piano organico di azioni mirate per tutelare il settore manifatturiero”. “Per quanto ci riguarda – ha aggiunto Palombella – questo è il tempo della lotta dura e ad oltranza. Il governo, se c’è, almeno si faccia sentire”.

SCENARIO GRECO PER LA TURCHIA, COME FINIRA’ ?

Postato il Lunedì, 27 gennaio
 
“Essenzialmente Grecia e Turchia sono nazioni identiche, la differenza la fa la valuta.”
 
M. S., amico economista
 
Per gli appassionati delle catastrofi, in Turchia si prepara una primavera bollente.
Da maggio 2013, il rischio di default del paese è più che raddoppiato (l’indicatore CDS, il famigerato credit default swap, è passato da 110 a 250 punti) e la lira turca ha perso metà del proprio valore intrinseco*. C’è chi accusa l’instabilità politica, la corruzione,… certo, ma la corruzione in Turchia è un problema da decenni. Forse è arrivato anche per i turchi il momento del non ritorno della dipendenza petrolifera.
 
Guardate a quale altro paese somiglia la curva “petrolifera” della Turchia che posto qua sotto, secondo i dati della BP.
 
Sembra una fotocopia: zero produzione, importazioni che salivano a più non posso,… fino al picco. La dipendenza dal petrolio della Turchia è minore di quella greca (i greci dipendevano per almeno 30% del PIL dal fret marittimo, che durante la crisi 2007/2009 ebbe una caduta spettacolare senza più riprendersi… i conti truccati ed il “parassitismo” del modello economico greco, non troppo diverso da quello italiano o francese, per dire, han fatto il resto). D’altra parte i due paesi hanno molte similitudini storiche, geologiche, economiche… ma con grandi differenze culturali. Faranno i due paesi la stessa fine? Un collasso finanziario quasi totale della Turchia è possibile? Svalutare (ma il margine è piccolo) la moneta nazionale li salverà?
 
Guardate dunque questi grafici: in grigio la produzione nazionale di greggio, che è pari a zero da sempre. In verde le esportazioni, pari a zero da sempre. Solo importazioni e consumi salgono, salgono fino al punto di rottura… e poi la caduta.
Greece Turkey oil consumption imports exports 1965 2012
Non essendo sottoposto al potere della BCE ed avendo molti più abitanti da espropriare per pagare la finanza mondiale, per il governo turco sarà più facile sistemarsi un po’, vendere un po’ della sua buona industria alla Cina e salvare le proprie finanze, ma certo l’economia non tornerà mai ad essere prestante come negli anni appena passati…
Ed in mezzo a tutto questo, la rivolta turca potrebbe avere dimensioni e durata “siriane”, a me vengono i brividi solo a pensarci. Ci sono 9 milioni di turchi in Europa, la metà in Germania. E molto sono piuttosto giovani, piuttosto bizzosi; ripeto: a me vengono i brividi solo a pensarci.
24.01.2014

UKRAINA, I MANIFESTANTI CIRCONDANO L’AMBASCIATA USA CON SLOGAN: YANKEES GO HOME

lunedì, gennaio 27, 2014
 
Da Café Humanité by Cristina Bassi
 
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Mentre in Kiev la folla assoldata-da-Soros-pro-Europa continua ad inscenare pseudorivolte, una nuova fazione di intelligenti Ukraini in protesta, è balzata all’occhio questa settimana.
 
Gli USA sono dietro tutto cio’ che sta accadendo ora  nel cuore di Kiev “
“Smettete di intromettervi nei nostri affari e di sponsorizzare disordini e manifestazioni nel nostro paese”
 
 

Davos, capitali e ciarle

se non avessero avuto uno stuolo di collaborazionisti in ogni ambito della società, compreso quello delle lotte per le masse non avrebbero potuto agire così velocemente ed impunemente

LUNEDÌ 27 GENNAIO 2014
di Carlo Musilli

Un immenso teatrino per chiudere affari, stringere rapporti e – davanti alle telecamere – friggere aria. Il palcoscenico è a Davos, in Svizzera, dove ogni anno si svolge il World economic forum. L’ultima edizione, la 44esima, si è tenuta la settimana scorsa: gli invitati erano 2.500 tra grandi della finanza e dell’economia, rappresentanti di Stati e di governi.

Per l’Italia, fra gli altri, erano presenti Davide Serra, finanziere amico di Matteo Renzi, Mario Greco, ad di Generali, Paolo Scaroni, numero uno di Eni, Federico Ghizzoni, Ceo di Unicredit, i ministri degli Esteri e del Tesoro Emma Bonino e Fabrizio Saccomanni e il governatore di Bankitalia Ignazio Visco. Hanno timbrato il cartellino anche gli alfieri di Intesa Sanpaolo, Geox, Sace, Illy e Ariston.

Stavolta la friggitoria d’aria voleva manifestare una qualche preoccupazione per il sociale, ma come sempre si è rimasti sul terreno delle dichiarazioni d’intenti, dei progetti aleatori. Nel frattempo, quello che davvero stava accadendo a Davos era la solita celebrazione autoreferenziale dello status quo. Lo stesso che ha prodotto gli squilibri contro cui oggi si finge di combattere.

Mettiamo da parte le tesi complottiste di chi vede nel Wef una misteriosa riunione di malefici burattinai, una sorta di edizione ripulita del tanto romanzato Bilderberg. Quello che conta davvero, a Davos, sono le relazioni fra capitale privato e istituzioni pubbliche: i Ceo e gli alti dirigenti delle multinazionali più ricche volano ogni inverno in Svizzera per capire dove conviene dirottare investimenti e speculazioni, mentre i politici fanno a gara per convincerli a puntare sui loro Paesi. Questo è l’obiettivo fondamentale, il resto è contorno mediatico, fra dibattiti e workshop.

In verità, il Forum di quest’anno ha provato a rifarsi l’immagine parlando di “capitalismo sostenibile” e “responsabile” per “rimodellare il mondo” in ambiti universali come la salute, l’ambiente e il lavoro. Buone intenzioni che stridono con la realtà storica, fotografata da Oxfam in un rapporto pubblicato giusto alla vigilia del Wef. Secondo l’ Oxford Commitee for Famine Relief (una confederazione di 17 organizzazioni non governative), sul nostro pianeta appena 85 persone gestiscono una quantità di ricchezza pari a quella detenuta da altri 3,5 miliardi d’individui, oltre la metà della popolazione mondiale.

Una distribuzione delle risorse che difficilmente potrebbe essere più sbilanciata, e che – secondo Oxfam – è stata prodotta dalle élite economiche mondiali facendo pressione sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche. “Il rapporto dimostra con esempi e dati provenienti da molti Paesi che viviamo in un mondo nel quale le élite che detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici – spiega Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International -, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole. Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli”.

Stando alle affermazioni di principio, l’ultimo Forum di Davos avrebbe dovuto segnare una svolta per correggere questo sistema. Peccato che in Svizzera non ci fosse nessuno a rappresentare gli interessi di quei 3,5 miliardi di poveri. Erano presenti, invece, i vertici di aziende indagate e/o condannate in varie parti del mondo per reati finanziari e/o fiscali. C’era perfino il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev, il cui governo è accusato di corruzione. In effetti è comprensibile, visto che, tra quota di partecipazione e biglietto, il soggiorna a Davos costa più di 50mila euro a persona, creando un indotto per l’economia locale che in pochi giorni vale tra i 25 e i 45 milioni di franchi svizzeri.

Se davvero volessero fare qualcosa per l’altra metà del pianeta, in linea puramente teorica, i leader politici potrebbero costringere le multinazionali globali a versare tasse adeguate ai loro profitti, a pagare in modo dignitoso i dipendenti, a farsi carico di alcuni oneri sociali. Invece conversano amabilmente fra le montagne svizzere, blandiscono i facoltosi manager, stringono mani e sorridono. Il commento migliore a questa prassi ultraquarantennale è forse quello di Boris Johnson: “Davos – sostiene il sindaco di Londra – è una costellazione di ego coinvolti in massicce orge di adulazione reciproca”.
http://www.altrenotizie.org/economia/5852-davos-capitali-e-ciarle.html

Intrighi a Ginevra II

gennaio 25, 2014
 
Igor Pankratenko (Russia) Iran.ru 25 gennaio 2014
 
 “L’idea di Montreux”, l’idea d’impegnarsi in un processo di pace e nel dialogo nazionale in Siria con la mediazione internazionale, è morta prima che potesse nascere. Un intrigo brutto, che coinvolge il Segretario generale delle Nazioni Unite e l’impiego di cavilli insignificanti come ritardare l’aereo della delegazione siriana ad Atene, tutto ciò offre motivo di ritenere che la coalizione antisiriana non voglia il dialogo, ma la guerra. E il punto chiave dei maggiori giocatori in questa coalizione, Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, è l’assoluta necessità d’escludere Russia e Iran quali co-sponsor del processo di pace nella regione. Lo scenario della conferenza di Ginevra 2, o meglio, la scenografia del fallimento della conferenza, è stata scritta a Washington. Ban Ki-moon non ha fatto che adempiere obbediente al ruolo di capo di un’organizzazione che dipende dagli Stati Uniti per il 22% del bilancio. Le azioni del Segretario generale delle Nazioni Unite sono state uno splendido esempio di successo della politica statunitense nel trasformare l’ONU in una “organizzazione fantoccio”, obbediente alla volontà del suo primo finanziatore. I media occidentali che sostengono che la decisione di Ban Ki-moon di revocare l’invito di Teheran fu presa “su pressione dell’opposizione siriana” e che l’opposizione “fa pressioni sulle Nazioni Unite” con un ultimatum al Segretario generale di sei ore per revocare l’invito a Teheran, mentono sfacciatamente. Ma poi di nuovo, l’intrigo a Ginevra II viene soffuso di bugie. Il portavoce ufficiale del Segretario generale, Martin Nesirky, afferma che la decisione d’invitare l’Iran a Montreux non fu preso frettolosamente ma dopo lunghe consultazioni con i funzionari degli Stati Uniti. “So per certo che non poteva essere una sorpresa per le autorità statunitensi. Non era affrettata, ed erano pienamente consapevoli della tempistica dell’invito.” Inoltre, secondo lo stesso Martin Nesirky, consultazioni si sono tenute lo scorso fine settimana, per qualche giorno o una settimana prima, da parte di statunitensi e russi sulla partecipazione dell’Iran alla conferenza. Tuttavia, anche senza queste confessioni spontanee è perfettamente chiaro che l’”ultimatum” dell’opposizione siriana non ha nulla a che farci. Prima di tutto, in occasione della riunione dell’Assemblea Generale della Coalizione Nazionale della Rivoluzione e delle Forze d’opposizione siriane di Istanbul, 58 dei 73 membri del consiglio direttivo  decisero di partecipare alla conferenza di Ginevra II, pur pienamente consapevoli che l’Iran fosse già stato invitato. E in secondo luogo, chi sono coloro che dettano condizioni alle Nazioni Unite? Semplici burattini dell’occidente il cui compito è leggere ad alta voce ciò che i loro sceneggiatori gli hanno scritto. Questo è il motivo per cui è più importante capire cosa abbia spinto gli sceneggiatori di Washington ad avere colloqui seri sui “rappresentanti dell’opposizione siriana” presenti alla conferenza, anche se non hanno il sostegno di nessuno.
 
Gli sceneggiatori della Casa Bianca
Riguardo la partecipazione dell’Iran alla conferenza, le manovre di Washington sono contorte e confuse come al solito. Il segretario di Stato Kerry insisteva che la partecipazione di Teheran avrebbe svolto un ruolo costruttivo nel dialogo per la pace, per poi avanzare condizioni, affermando che Teheran doveva prima “accettare pubblicamente il comunicato di Ginevra“, un riferimento al comunicato finale del Gruppo di Azione per la Siria, adottato il 30 giugno 2012 cui Russia e Stati Uniti hanno contribuito. Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov ha opportunamente ricordato al suo omologo statunitense che “se lo stesso criterio, vale a dire l’obbligo di indicare pubblicamente e in modo indipendente, ‘condivido pienamente gli obiettivi del comunicato di Ginevra’, venisse applicato agli altri invitati, sarei per esempio tutt’altro certo di poterlo fare.” E in effetti, la situazione nel giugno 2012 era completamente diversa da quella attuale. Nel 2012 era ancora possibile parlare di conflitto interno in Siria, anche se con presenze straniere che alimentavano le fiamme della guerra, come si vedeva chiaramente anche allora. Non c’è una guerra civile in Siria oggi! Ma l’intervento armato esterno di “jihadisti” e radicali sunniti, e l’aggressione dell’”internazionale terrorista” che usa collaboratori locali per opporsi allo Stato sovrano.
Sarebbe troppo semplice accusare Washington di “miopia politica” o dire, come molti esperti, che “la situazione nell’opposizione siriana è complicata” e che Washington non ha “scelto chi sosterrà.” Ma sarebbe una bugia. L’amministrazione Obama ha costantemente perseguito e continua a perseguire il rovesciamento di Bashar al-Assad. La sua rimozione dal potere e l’occupazione di Damasco con forze vicine all’occidente (o del suo alleato strategico Riyadh) è un punto chiave della politica statunitense nella “questione siriana”. E la sostituzione della segretaria di Stato Hillary Clinton con John Kerry non ha avuto assolutamente alcun effetto su tale politica. La Siria è la pietra angolare della politica di Washington in Medio Oriente oggi. Le favole sui piani statunitensi per “ritirarsi” dal Medio Oriente erano ingenue o semplicemente disoneste. Non si abbandona qualcosa come un “investimento” di 8000 miliardi di dollari, versato solo dalle monarchie mediorientali dal 1976, soprattutto per una sciocchezza come la mancanza di competenza dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Il complesso militare-industriale e le élite finanziarie statunitensi controllavano il prezzo del petrolio, dominando il Golfo Persico e il Canale di Suez e proteggendo le “vacche sacre” USA, Israele e monarchie del Golfo. E nessuno a Washington è in procinto di mollare i frutti faticosamente raccolti per decenni.
 
Tenere sotto controllo l’Iran ed espellere la Russia dal Medio Oriente
E’ un’altra questione che gli strumenti della politica estera cambino. Riconoscendo il fatto assai spiacevole che la Repubblica islamica non è stata soffocata dal cappio delle “sanzioni paralizzanti” e che la politica estera proclamata dal presidente russo si basa su valori tradizionali, come il rispetto per la sovranità, la considerazione per le idiosincrasie nazionali e l’inammissibilità dell’”esportazione della democrazia”, Washington ha cambiato tattica. Una “guerra per procura” viene combattuta in Siria, in cui il ruolo principale è svolto dai partner strategici degli USA, principalmente Riyadh. Parigi, sotto la presidenza di Hollande, ha perso la visione oggettiva dei propri interessi nazionali e sembra farsi illudere dal miraggio di reimporre il protettorato francese in Africa e Medio Oriente, intendendo intervenire più attivamente nella lotta contro Damasco. Ma ciò non significa che Washington sia da meno nella coalizione anti-siriana. Gli Stati Uniti si sono prefissati degli obiettivi strategici, in primo luogo proteggere la coalizione antisiriana e le bande terroristiche utilizzate internazionalmente dal gruppo, e secondo, bloccare qualsiasi attività regionale di Teheran e Mosca. In realtà, tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013 vi è stato un tacito accordo sugli sforzi congiunti di Russia e Stati Uniti per risolvere la crisi siriana. La Russia ha accettato il compito di garantire che Bashar al-Assad fosse pronto al dialogo con l’opposizione, così come a collaborare a una linea costruttiva con Teheran. La Russia ha contratto i suoi obblighi al 100% che, per inciso, includono la promozione di Mosca del principio della partecipazione attiva dell’Iran al processo siriano. L’azione congiunta di Russia e Iran verso la Siria è un vivido esempio per Washington del pericolo di tale partnership strategica. E così, con il pretesto dei tentativi congiunti di trovare una soluzione, Washington ha effettivamente lanciato un’operazione  speciale per eliminare Mosca, Teheran e altri co-sponsor del processo siriano.
Un ruolo altrettanto importante è stato assegnato a Washington in conformità agli accordi raggiunti. Questi consistono, prima di tutto, nel limitare l’intervento di Turchia e Arabia Saudita, e poi nel “spingere” l’opposizione siriana al dialogo che, quasi sempre, dipende finanziariamente da Stati Uniti ed alleati. Di conseguenza, Washington non ha adempiuto a nessuno dei suoi impegni.  Inoltre, in un solo anno l’opposizione è stata trasformata da forza laica a una fondamentalista. In larga misura, l’attuale conflitto nell’opposizione indica che i jihadisti impongono il controllo sui canali dei rifornimenti di fondi e armi, in precedenza destinati all’opposizione “laica”. Le oscure storie sugli “improvvisi sequestri” dai jihadisti di scorte e armi sono ancora un’altra bugia dell’”intrigo di Montreux.” Nessuna persona razionale avrebbe inviato rifornimenti senza garantirsi che finissero nelle “mani giuste”. Quando si invia qualcosa in piena fiducia, come merci che saranno sequestrate, c’è qualcos’altro.
 
Le lezioni di Montreux
Cosa possiamo aspettarci dalla conferenza di Montreux? Niente di buono. Al meglio sarà un evento puramente cerimoniale che non risolverà nulla e non farà nulla per impedire lo spargimento di sangue in Siria. Nel peggiore dei casi, data la maggioranza aggressiva e d’obbedienza filo-USA che sarà assemblata nella conferenza, la coalizione anti-siriana avrà il riconoscimento della legittimità dell’aggressione contro Damasco. Non è un caso che Kerry abbia categoricamente dichiarato: A tutti coloro che cercano di riscrivere questa storia o confondere le acque, mi si permetta di affermare ancora una volta a cosa serve Ginevra II. Deve avviare il processo essenziale per la formazione di un governo di transizione dai pieni poteri esecutivi, stabilito per mutuo consenso“. Cioè, continuare lo spargimento di sangue, nessun dialogo per la pace, né sospensione dell’intervento estero e dell’infiltrazione dei terroristi, ma solo il rovesciamento di Assad! Le conclusioni inequivocabili e molto ragionevoli cui si arriva, che possono essere definite “lezioni di Montreux.” Prima di tutto, chi prende seriamente le dichiarazioni di Washington sulla sua disponibilità a “normalizzare” i rapporti con l’Iran e allentare il regime delle sanzioni, consentendo così a Teheran di diventare un garante della stabilità in Medio Oriente, dovrebbe urgentemente sbarazzarsi di tale illusione: Washington non intende “normalizzare” nulla. La distruzione della Siria è solo un passo nella strategia a lungo termine degli Stati Uniti per consolidare la propria egemonia nel Medio Oriente, basata su Israele, monarchie del Golfo e regimi leali agli Stati Uniti a Cairo, e come contratta la Casa Bianca, a Baghdad. Una volta che tale strategia sarà completata, Teheran sarà costretta ad uscire sia dall’”Arco sciita” che dalla regione nel complesso.
La seconda politica mediorientale degli USA punta a sradicare la presenza regionale di Paesi che gli Stati Uniti vedono come concorrenti, Russia, Iran e Cina. In realtà, si voglia ammetterlo o no, tutta l’azione di Washington contro la Siria è permeata dall’idea del confronto con la Russia. La Casa Bianca è ora apertamente indifferente alle vere minacce poste dalla destabilizzazione regionale, dal rafforzamento dei “jihadisti”, e dalla creazione di una “economia di guerra” che trasforma l’instabilità e il narcotraffico in un’essenziale fonte di reddito. “Assad è peggio di al-Qaida.” Ma lui non è così terribile di per se, ma perché è un alleato dell’Iran e della Russia. Così, “Assad deve andarsene.” I disaccordi tra Mosca e Washington sul conflitto in Siria producono conseguenze estremamente gravi e del tutto inattese, anche se i mass media e l’élite politica occidentali non ne vogliono prendere atto. Vladimir Putin è riuscito a diventare il politico di maggior successo nel mondo, mentre il presidente Barack Obama perde popolarità assieme alla fiducia negli USA in Medio Oriente. Alcune elite politiche occidentali si soffermano sulla proposizione che “i russi puntano al Medio Oriente” e di conseguenza l’occidente e i suoi partner strategici in Medio Oriente hanno già etichettato il non ancora definitivamente stabilito asse “Mosca – Teheran – Pechino” un nemico da combattere con ogni mezzo, dagli intrighi alla provocazione finale…
 
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Tradotto dal russo da Oriental Review
 
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora