UN VIRUS PER CAMBIARE IL MONDO —- EPIDEMIA, RECESSIONE, TOTALITARISMO, GUERRA —– IN PALIO L’EURASIA

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MONDOCANE

DOMENICA 29 MARZO 2020

I nostri in Occidente sono, da secoli, governanti ad alto tasso malavitoso, in quanto alle dipendenze di poteri criminali organizzati, economici, militari, religiosi, di intelligence, sia formalmente “legali”, sia massonico-mafiosi. Il quadro politico, economico e sociale che si vorrebbe produrre dall’attuale congiuntura, corrisponde a un disegno che annovera precedenti in tutte le fasi storiche in cui i popoli si sono fatti sottomettere e hanno condiviso la visione delle élite.

Verso il tecnofeudalesimo e il bioassolutismo

Alla fine di questa gigantesca operazione di riordinamento dell’Occidente in chiave di tecnofeudalesimo e bioassolutismo, ci saranno inevitabilmente conseguenze economiche rispetto alle quali altre crisi epocali, come quella del dopoguerra 1918 e del ’29, parranno, appunto, una lieve influenza. Da bischero toscano o, se volete, da nescio genovese, di economia so solo, per grandi linee, ciò di cui i veri saputi mi hanno beneficiato. E non è difficile condividere con loro, già solo su basi storiche e logiche (il famoso cui prodest), la visione di una società in cui le conseguenze, non del virus, ma dei provvedimenti presi, più o meno stoltamente e strumentalmente, da decisori (ir)responsabili, assomiglierà sul piano sociale a quella del tanto paventato day after nucleare.

In un futuro prossimo, per quanto reso nebbioso dalla totale mancanza di trasparenza dei provvedimenti e propositi dei vari regimi, già si possono intravvedere esiti catastrofici per vaste categorie di esseri umani. Nell’immediato abbiamo, nel popolo imprigionato e privato di tutti i diritti sanciti dalla sua costituzione, addirittura per decreti, senza intervento del parlamento, persone che non possono ricorrere a emergenze sanitarie. Negati i trattamenti ambulatoriali per patologie croniche, esami clinici, coronarografie, urgenze dentistiche, cure fisioterapiche, psichiatriche, neoplastiche, podologiche, cardiocircolatorie, dermatologiche, di riabilitazione, di terapia del dolore, otorinolaringoiatriche e tutto il resto che non sia Pronto Soccorso o, appunto, un vero o presunto virus influenzale, stavolta con in testa il cappello del coronavirus. E scendendo nel più banale e ricorrente quotidiano domestico: se si rompe una tubatura del bagno e la casa vi si allaga, rovinandola, se la tramontana vi porta via un pezzo di tetto e vi piove in casa, dove sono l’idraulico e il muratore che vi soccorrono, rischiando fino a 5 anni di prigione e 5000 euro di ammenda?

Monetizzare il sociocidio

Possiamo immaginare cose ne consegue, dopo settimane, forse mesi, di blocco in casa in un paese che già lamenta i più lunghi tempi d’attesa d’Europa, addirittura per trattamenti salvavita, grazie alla riduzione alla lisca di pesce del servizio sanitario pubblico. Una devastazione a favore di indecenti regalie al privato da parte di quella stessa classe dirigente politico-economica, che ora pretende di risanarci dalla cosiddetta pandemia con provvedimenti che farebbero arrossire Mussolini. Una devastazione che cadrà sulle spalle dei soliti noti, cioè di una popolazione di sudditi le cui problematiche sanitarie psicofisiche saranno state ingigantite dal prolungamento della reclusione senza aria, senza sole, senza movimento e socialità. Tutto questo si assommerà al sociocidio di categorie di piccole e medie imprese della produzione e del commercio, con il loro seguito di partite Iva, precari, part time, disoccupati, semioccupati, artigiani. Un’ecatombe alla quale si provvede in questi giorni di lockout, monetizzando la reclusione e i danni conseguenti con lo spargimento scriteriato e propagandistico di elemosine una tantum.

Chi perde e chi vince

Un recupero, se mai possibile, di una sopravvivenza collettiva, dopo il blocco e il conseguente smantellamento di tante realtà produttrici e distributrici, vedrà di certo una nuova, cioè antica, gerarchia di classe, con una spaventosa concentrazione della ricchezza in alto e un ancora più spaventoso allargamento della povertà assoluta e di quella al limite della sopravvivenza. Oggi sui 17 milioni, domani chissà. Chi ci avrà guadagnato in termini economici e politici sono sempre gli stessi: quelli che gestiscono il denaro e sanno speculare e volgere le crisi in guerre; coloro che, occupandosi della salute, cioè della vita, si sono eretti, vieppiù, a domini del destino terreno degli umani; e quelli che, offrendo, con provata esperienza, la risposta metafisica alle sofferenze e speranze terrene e ultraterrene dei credenti.

Quando ciai le madonne

Al quale proposito notiamo, con raccapriccio, l’esultante nota di “Vaticano. Com” che ci informa come nel cielo, improvvisamente radioso e dal quale fino a un attimo prima scrosciava la pioggia su un papa in bianco e nella piazza, sia apparsa…. la Madonna, vista, fotografata e filmata dai fedeli. Il miracoloso evento sarebbe coinciso con le parole del pontefice: “Perché temete? Non avete fede?” E, zac, ecco la Madonna a suggerire la risposta dall’alto dei cieli. E noi che ci saremmo accontentati di una madonnina di gesso che piangesse lacrime di sangue a sconfitta del virus! A questo punto, anche Bergoglio si è garantito la santificazione. Grande questo virus!

Di rivoluzione in rivoluzione. Sempre le loro

Di rivoluzione in rivoluzione. Sempre le loro 

Lasciamo le facezie, per quanto terrificantemente regressive. Come, al volgere dal XVII al XVIII secolo passammo dai campi, artigianato e meccanica alle fabbriche, al vapore e all’elettricità, parrebbe che ora si stia transitando da quella rivoluzione industriale, la prima  delle macchine e la seconda tecnologica, se si vuole, alla “civiltà” delle distanze globalizzate via elettronica e telematica. Quanto a chi ne eserciterà il controllo e a vantaggio di chi, al momento non sono alle viste né un ’89, né un ’17, ma solo imperi e sovrani. E manager e banche. Comunque, non si sa mai. La Storia fa scherzi imprevisti.

Occasione creata o sfruttata?

Precisiamo subito che qui non si parlerà di quanto è fondatamente il tema di altre argomentazioni: l’analisi di un complotto dei pochi ai danni dei tanti, che poi – dateci mille volte dei complottisti – Storia e cronaca dimostrano essere il metodo, dai tempi dei tempi, abituale e irrinunciabile, per esercitare potere e accumulare ricchezze da parte di una minoranza di parassiti. E non ci è voluto Marx a dimostrarcelo, anche se lo ha fatto meglio di altri.

La stessa espansione del Coronavirus negli Stati Uniti che, nel momento in cui scrivo, stanno superando l’Italia come epicentro dell’infezione, potrebbe mettere in dubbio alcune ipotesi avanzate da investigatori con, peraltro, una buona esperienza di smascheramento. Ma non ci interessa qui, anche se tre e più indizi farebbero una gran bella prova, di dimostrare che il Coronavirus del 2020 è stato tirato fuori da un laboratorio della ricerca per le guerre biologiche e sparato contro paesi sgraditi e poi, magari, sfuggito al controllo e rientrato a casa. Oltre agli indizi, ci sarebbero i precedenti: gli esperimenti chimico-farmaceutico-psichici sulla propria gente fatti dalla CIA del famigerato Allen Dulles nei metrò e per le strade delle grandi città statunitensi, i farmaci sterilizzanti distribuiti alle donne ignare del Sud del mondo, l’uranio sparso a pieni bombardieri su interi paesi, dall’Iraq alla Serbia, il fosforo fatto scrociare sugli inermi abitanti di Fallujah e di Gaza, la diossina dell’Agente Orange (Monsanto, quelli del veleno agricolo universale Roundup) che in Vietnam ha contribuito ai tre milioni di civili uccisi.

La conquista dell’Heartland

Lascio ad altri di approfondire. Il complotto che conta, la cospirazione vera, provata e impudicamente esibita e rivendicata, è l’uso che si è fatto dell’occasione. Su quello attinente ai rapporti di forza tra gruppi di élite e masse indebolite fisicamente e psicologicamente da un ambiente avvelenato, o distrutto con una manipolazione sistematica delle menti e dei sentimenti, ci dilunghiamo nei capitoli di questo volume. Qui interessa l’altro corno, non del dilemma, ma della strategia a cui ha dato adito questa pandemia, spontanea, casuale, accidentale, o provocata. Il modo in cui si è pensato di trarne beneficio in una fase di stallo del confronto tra chi si propone, per la conquista del mondo, lo smantellamento e la sottomissione del blocco continentale eurasiatico, l’Heartland, il “cuore del mondo”, a cui ambivano le mene diplomatico-belliche di Zbigniew Brzezinski, e quel blocco che gli resiste.

Il tentativo di Washington di contenere, con dazi, provocazioni ai vicini coreani, accanimento propagandistico, l’ormai evidente superamento della sua egemonia economica mondiale da parte del colosso demografico, tecnologico e manufatturiero cinese, si è ritorto contro gli stessi Stati Uniti e non è stato seguito con entusiasmo, né dalle industrie statunitensi dislocate in Cina, nè dai satelliti europei. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, le banche per lo sviluppo eurasiatico, la stessa Via della Seta, “Road and Belt”, gli accordi di Difesa comune sono tutte work in progress che rinsaldano l’unità strategica di Cina e Russia e coinvolgono la maggior parte dei paesi dell’area e perfino dell’Africa. E a esso gli Usa non sono in grado di opporre, sul piano globale, niente di simile, non in America Latina, dove sono costretti a squalificanti colpi di Stato per ricuperare una presenza che sarà sicuramente transitoria, dati i risentimenti che le depredazioni neoliberiste e i suoi caudilli suscitano nelle masse del subcontinente. Tanto più che alle opinioni pubbliche di quei paesi si vanno evidenziano sempre più i vantaggi della collaborazione finanziario-industriale con Russia e Cina in vertiginosa crescita.

Via della Seta

Ma neppure in Europa, dove la creatura amerikana dell’UE, già in indebolimento per la Brexit, nel corso del Covid-19 è stata minata alla base da inefficienza e perdita di credibilità, proprio per la sua dimostrazione di impotenza, accoppiata a tracotanza autoreferenziale, dei suoi organi e della sua padrona tedesca rappresentata a Bruxelles da Ursula von der Leyen.

La guerra come ultimo rimedio

Nell’altro continente, l’Africa, che per buona parte le è conteso dalla Francia neocolonialista, gli Usa si avvalgono dello strumento militare AFRICOM: presidi, basi, forze speciali, contingenti per l’addestramento degli eserciti locali e, come in Medioriente, terrorismo jihadista importato per giustificare interventi a difesa delle proprie multinazionali. A fronte di queste forme tradizionali di colonialismo, ben conosciute da quei popoli, che se ne liberarono neanche molti decenni fa, ci sono gli investimenti e le opere infrastrutturali, del tutto prive di elementi militari, con cui cinesi e russi intervengono in tutto il continente. Quale approccio nel lungo termine possa avere il maggiore consenso da parte delle popolazioni, a dispetto di governi venduti e classi dirigenti corrotte, non è difficile immaginarlo.

Via delle armi

Tutto questo i vertici degli Usa lo sanno e ne rabbrividiscono. Si direbbe che sul piano globale, a dispetto delle 900 e passa basi militari americane che costellano il globo e assediano Russia e Cina, le cose volgano a vantaggio strategico, geopolitico e geoeconomico, del blocco eurasiatico. Per dirla nei termini del passato, l’equilibrio pare spostarsi dalla potenza marittima dell’Occidente atlantico, Oceania, come Orwell chiama la realtà anglosassone, a quella del massimo blocco terrestre, geografico e demografico, l’Eurasia, dove risorse, mercati e tecnologia risultano impegnate nella creazione di una vasta area mondiale di pace, scambi e sviluppo.

Eurasiatici o euroamericani?

L’attrazione che questo centro di gravità economico, ma anche culturale, esercita nei confronti dell’Europa è irreversibile, se non nell’immediato, nel medio e lungo periodo, e dunque, percepita da Washington come l’eventualità da evitare costi quel che costi. E tale è riconosciuta, se non dai governanti UE, che devono il proprio ruolo alla Nato e alla subalternità agli Usa, sicuramente dai protagonisti dell’economia finanziaria, produttrice e investitrice europea, con inevitabili ricadute sulle opinioni pubbliche, come s’è visto, per esempio, in Italia con l’avversione di esportatori, settori politici come M5S e Lega e anche della maggioranza delle persone, alle sanzioni contro la Russia.

Rimarrebbero, in un simile quadro, gli sforzi propagandistici di un sistema mediatico consunto e in crollo di credibilità, ancorato a editori e giornalisti che devono il proprio mandato alle cupole massonico-mafiose come si esprimono con Bilderberg, la Trilateral, il Forum Economico Mondiale di Davos. Ogni cambio di paradigma geopolitico, come quello che sembra prospettarsi, li vedrà sempre più ringhiosi e virulenti diffamatori di ogni cosa russa o cinese.

Negli Stati Uniti, al di là degli ondeggiamenti del presidente Trump, sempre condizionato da varie angolazioni del Potere, chi manovra la politica estera, nell’un campo politico come nell’altro, con forte prevalenza Democratica, è il partito della guerra, identificato con i neocon di matrice bushiana e cheneyana, oggi operanti nell’ambito di quello che viene chiamato il “governo parallelo” o “Deep State”Ne sono protagonisti il Pentagono e relativa industria, le grandi industrie del petrolio e della chimica-farmaceutica, Wall Street, l’Intelligence.

Tempo di guerra?

Le pesti, le recessioni, le tensioni sociali, che fisiologicamente si succedono a cascata, portano frequentemente gruppi di potere che sappiano approfittarsene, al diversivo della guerra. Quella che negli ambienti di quei poteri si vaticina e persegue dai tempi del dopoguerra, della guerra fredda e, con particolare vigore, oggi, con la nascita della nuova guerra fredda. L’uso propagandistico che si è fatto del più o meno normale virus influenzale da tutto lo schieramento intorno alla superpotenza Usa, nominandolo ossessivamente “cinese”; l’inarrestabile, neanche con un’epidemia, sviluppo cinese, a fronte degli Stati Uniti in pieno collasso infrastrutturale e devastati da una povertà che infetta settori sempre più vasti della società; la consapevolezza della crescente forza militare e geopolitica della Russia, vincitrice netta nello scacchiere arabo, stabiliscono i parametri di un’egemonia in corso di rapido cambiamento. E richiedono, come unica soluzione, una guerra in tempi ravvicinati.

Europa, non un continente, un’appendice

Quanto alle nazioni europee, finora soggetti paralizzati nella loro libertà di manovra da un’obbedienza cieca e assoluta agli Usa dei loro circoli dirigenti, sarebbe anche ora che finisca questo rapporto innaturale, militare, economico e culturale. Rapporto di subordinazione imposto con la seconda guerra mondiale militare, ma spesso messo in discussione dalle masse. Un artificio, quello atlantico, grazie alla quale gli Usa si assicurarono il controllo e il dominio su un’Europa distante 8000 chilometri di oceano, a detrimento di una connessione con il mondo asiatico, a tutti i livelli e con tutti i benefici di scambi sinergici e della comunicazione via terra. Fin dai tempi di Alessandro Magno e poi di Roma e di Venezia.

Noi, che ci troviamo nella posizione di una nazione a cui, con provvedimenti restrittivi anticostituzionali, e dunque illegali, è stato negato il diritto di essere tale in libertà e autodeterminazione, abbiamo poca voce in capitolo. Possiamo solo augurarci che chj s’è giocato la carta del virus perda tutta la posta.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 21:06

In India un miliardo di persone in isolamento

https://www.internazionale.it/notizie/2020/03/25/india-coronavirus-isolamento?fbclid=IwAR3DVj8E8tOfCgVp03GMKKVKNoFmWF1Fggt3ggWFd2SWJsMazm5w3zQFkeQ


Un applauso agli operatori sanitari impegnati nell’emergenza coronavirus. Mumbai, India, 22 marzo 2020. (Rafiq Maqbool, Ap/Lapresse)
Il 25 marzo l’India si è svegliata nel silenzio. “Nelle strade vuote il cinguettio degli uccelli ha sostituito l’abituale cacofonia di clacson e grida di persone”scrive il corrispondente dell’Afp a New Delhi per commentare il primo giorno di blocco totale delle attività e di divieto per tutta la popolazione di uscire di casa. Queste misure erano state annunciate dal premier Narendra Modi la sera prima, appena quattro ore prima dell’entrata in vigore, e dureranno almeno 21 giorni. Restano fermi anche i treni, gli aerei e tutti gli altri mezzi di trasporto pubblico e privato, e sono previste pene molto severe per chi lascia la propria abitazione.

Con 1,3 miliardi di abitanti, l’India è il secondo paese più popoloso del mondo dopo la Cina. L’esperimento annunciato da Modi, di una portata mai vista, ha l’obiettivo di bloccare la diffusione del nuovo coronavirus. Nel paese sono stati registrati 597 casi, con undici morti, ma secondo alcuni esperti è un bilancio fortemente al ribasso perché nel paese sono stati realizzati pochissimi test per individuare le persone contagiate.

Nelle ultime settimanespiega il sito Vox, sono stati fatti dei tentativi di coprifuoco o di chiusura limitati ad alcune attività, ma gran parte degli indiani non li ha rispettati rigorosamente, quindi il governo ha deciso di usare la mano pesante. Intervistato da Vox, il dirigente medico SP Kalantri dichiara che le autorità sanitarie si aspettano che il 55 per cento della popolazione sia contagiato dal Covid-19: questo significherebbe tra i 300 milioni e i 500 milioni di casi nell’arco dei prossimi quattro mesi, e possibilmente un milione di morti in un anno.

Corsa ai negozi
Dopo l’annuncio serale di Modi la prima reazione di molti indiani è stata precipitarsi nei negozi di alimentari e nelle farmacie per fare scorte, anche se il governo ha assicurato che non ci saranno interruzioni nell’approvvigionamento di prodotti essenziali, come latte, frutta e verdure. Tuttavia, la popolazione non ha molta fiducia nel governo e ancora ricorda il caos scatenato dalla demonetizzazione del 2016, un’altra misura drastica decisa da Modi. Un altro dubbio è come saranno osservate le norme di distanziamento sociale nei quartieri poveri delle grandi città, dove la densità abitativa è altissima.

In India i primi casi di persone contagiate dal nuovo coronavirus sono stati registrati nella capitale, a Mumbai e in altri grandi agglomerati urbani, ma il virus sta arrivando anche in moltissimi centri più piccoli, cosa che ha spinto il governo ad agire con più decisione, osserva la Reuters. La paura è che il sistema sanitario, già a corto di fondi, non riesca a tenere il passo dell’emergenza: in India la proporzione di posti letto è 0,5 per mille persone, contro i 3,2 dell’Italia e i 4,3 della Cina.

Le misure mal pensate e poco tempestive di Modi hanno colpito duramente i più vulnerabili

Ma, allo stesso tempo, bloccare un’economia da 2.900 miliardi di dollari ha conseguenze pesantissime. Il primo impatto è sui lavoratori delle categorie più deboli, molti dei quali vengono dalle campagne. “Il primo ministro Modi ha visto le immagini delle lunghe file di persone che, con borse e fagotti, camminano lungo il ciglio delle strade a scorrimento veloce che escono da New Delhi?”si chiede il sito Scroll.in. “Queste immagini dovrebbero preoccuparlo, e non solo perché si violano le norme sul distanziamento sociale. Queste persone sono lavoratori che cercano di tornare a casa abbandonando una città ostile che gli ha chiuso le serrande davanti, gli ha portato via il lavoro e i soldi, senza dare in cambio nessuna forma di conforto. Camminano verso i loro villaggi perché i governi dei vari stati indiani hanno chiuso i confini, fermando gli autobus, i camion e tutti gli altri mezzi di trasporto. Le misure mal pensate e poco tempestive di Modi hanno colpito duramente i più vulnerabili”.

In un editoriale il quotidiano The Hindu chiede aiuti per la popolazione in un momento così difficile: “Il governo ha il dovere di proteggere le classi sociali più fragili dal punto di vista economico e sociale, compresi gli anziani, e di assicurare che possano accedere facilmente ai beni essenziali, comprese le medicine. Non dovrebbe essere difficile recapitare pacchetti di prodotti, pensati per durare una settimana, attraverso gli uffici e i funzionari delle amministrazioni locali, o le ong. Ricordiamo che il 37 per cento delle famiglie indiane può contare solo su redditi da lavori saltuari e che il 55 per cento ha un lavoro regolare ma poco remunerativo, perciò è importante che si prevedano sussidi per tutto il periodo dell’emergenza”.

Secondo il giornale, un’altra priorità è mettere in piedi un sistema per somministrare i test che sia accessibile a tutti. In questo modo, una volta che sarà revocato il blocco totale, si potrà impedire che il virus torni a circolare.

Tav, Frediani: “La pandemia ferma tutto tranne la lobby del Tav”

http://www.torinoggi.it/2020/03/26/leggi-notizia/argomenti/politica-11/articolo/tav-frediani-la-pandemia-ferma-tutto-tranne-la-lobby-del-tav.html?fbclid=IwAR1g7eA_uzoHfbOL8qizeLHGt7ki4JLoWI1onp5tNWXNRLMyYSVJM6Wx0S0

26 marzo 2020, 11:53

La capogruppo del Movimento Cinque Stelle in Regione: “Ripensare il futuro senza grandi opere inutili e investire dove serve davvero”

Tav, Frediani: "La pandemia ferma tutto tranne la lobby del Tav"

“Il cinismo della lobby del Tav non si attenua nemmeno in questo momento di grave emergenza sanitaria”. A dirlo è Francesca Frediani, capogruppo regionale del Movimento Cinque Stelle. “Mentre tutto il Paese si trova combattere contro il Covid19, scoprendo tragicamente le conseguenze di anni di tagli e di scelte dissennate della politica, soprattutto in ambito sanitario, c’è chi pensa che sia ancora possibile far finta di niente e continuare a camminare lungo la scellerata strada dello spreco e della devastazione. E così, tra i titoli dei quotidiani che richiamano la tragedia in corso e ci pongono di fronte alla terribile e dolorosa realtà, spicca il bando che Telt ha pubblicato per l’avvio del procedimento di pubblica utilità per un gruppo di terreni nell’area intorno a San Didero di Susa. Un vero e proprio necrologio della ragione”.

“Questa emergenza ha messo in evidenza le gravi carenze del nostro sistema, le falle di una dottrina economica incardinata sulla crescita insostenibile e sulla depredazione dell’ambiente, i ritardi e le debolezze della nostra politica. Oggi emerge come mai era successo prima l’importanza di ripensare le priorità, dando alla salute e alla sanità pubblica un ruolo di primissimo piano. Abbiamo bisogno di ridistribuire le risorse dove servono davvero: ricerca scientifica, tutela dell’ambiente, lotta alla povertà e all’emarginazione sociale”. 

“E invece nell’epicentro della crisi, quando tutti dovremmo interrogarci sugli errori, formulare nuove ipotesi  e considerare nuove prospettive, c’è chi continua a guardare la punta delle sue scarpe e ignora l’emergenza pubblicando l’avvio degli espropri. In un momento, per giunta, in cui tutto il Paese è bloccato, molte attività sono ferme, cantiere TAV incluso e sono in vigore precise limitazioni rispetto alle libertà di movimento. Il che ovviamente sarebbe un ostacolo ad esercitare il diritto di andare a prendere visione dei documenti relativi agli espropri nella sede di Telt. L’emergenza di questi giorni ha spinto molti cittadini a donare risorse per l’emergenza sanitaria, compiendo grandi atti di generosità.  Perché dovremmo ancora accettare che i nostri fondi pubblici siano impiegati nella devastazione dell’ambiente per realizzare un’opera inutile, quando tutti abbiamo ben chiare le vere priorità?”.

“Niente sarà più come prima, il tempo della scelte coraggiose è adesso. Non possiamo permetterci ulteriori errori. Quei cantieri, chiusi per decreto in questi giorni, non dovranno più riaprire”.

Italia e Spagna rompono, Ue sull’orlo del baratro

Italia e Spagna rompono, Ue sull’orlo del baratro

Macron si sfila all’ultimo e torna in sintonia con la Germania. Ora a Conte e Sanchez non resta che alzare la posta per non finire nella mani della troika

https://quifinanza.it/editoriali/italia-e-spagna-rompono-ue-sullorlo-del-baratro/365987/?fbclid=IwAR3d9Nmb-UCSrGGJY-70XN5HepHCMtPrFDagdr2HIYSzeBNOxf75CFZYHYs

L’epilogo del vertice in teleconferenza fra i leader europei avrà conseguenze ben più significative rispetto all’ultimatum lanciato per trovare una soluzione condivisa entro dieci giorni. Il fronte è stato infatti rotto da Italia e Spagna, che ora devono dimostrare di poter tenere dritta la barra.

Retroscena: la marcia indietro di Macron
Secondo le indiscrezioni riportate dal sito Dagospia, Italia e Spagna sono state ‘tradite’ da Macron, che aveva appoggiato e firmato la lettera dei paesi favorevoli ai Corona-bond, obbligazioni garantite dall’Unione Europea e non dai singoli stati richiedenti. Il presidente francese ha avuto un ripensamento, un no forse dovuto a un precedente colloquio telefonico con Angela Merkel che avrebbe dovuto sfociare in una tregua con i paesi falchi, anti-Eurobond, capitanati dall’olandese Rutte.

Germania contraria
La Germania del resto si era già opposta all’ipotesi Eurobond, lasciando intendere come considerasse sufficienti le misure in atto come la sospensione del Patto di Stabilità. Inoltre non ha aperto all’utilizzo del Mes con formula differente da quella originale. A quel punto Italia e Spagna, Conte e Sanchez, hanno tenuto una posizione dura, ferma, per poter ottenere la garanzia del Mes a tutti i paesi ma senza alcuna condizionalità, e senza firmare quel famigerato memorandum che significherebbe trent’anni di troika. Ma la Germania, va ricordato, si è allineata ai paesi nordici anche per conservare il tradizionale ruolo di possibile mediatore tra falchi e colombe.

L’ambiguità di Draghi
Del resto la questione è spinosa anche sul piano tecnico. Le crisi bancarie in Italia e Spagna avrebbero ripercussioni pesanti sull’intero sistema bancario europeo, ed è in questo senso che va letto l’intervento sul Financial Times di Mario Draghi, peraltro al centro di manovre politiche che lo vorrebbero premier in un governo di salute pubblica. Come nota sempre Dagospia, l’ex presidente della Bce non ha mai il coraggio di pronunciare nemmeno di sguincio la parola magica, Coronabond, limitandosi a sospirare: ‘’Spetta ora allo Stato e alle banche intervenire in maniera “forte e veloce” per evitare ora che una “profonda recessione”, che è “inevitabile”, si trasformi in una “depressione prolungata”. Senza dire se il debito andrà a gravare sui bilanci dei singoli stati, ed allora sarà troika, oppure all’Unione Europea attraverso i Coronabond.

Conte e Mattarella
In tale situazione Giuseppe Conte, spinto anche e soprattutto dal capo dello Stato Sergio Mattarella, ha sbattuto finalmente i pugni sul tavolo e rifiutato di firmare, insieme agli spagnoli. Perfettamente consapevole che o riesce a dare soldi al popolo o si rischia l’esplosione sociale. A differenza della Francia, l’Italia non può permettersi di sforare del 5/6 per cento, pena la bancarotta.

“Se qualcuno dovesse pensare a meccanismi di protezione personalizzati elaborati in passato allora voglio dirlo chiaro: non disturbatevi, ve lo potete tenere, perché l’Italia non ne ha bisogno!”. Questa la linea, si apprende da fonti di Palazzo Chigi, tenuta dal premier Giuseppe Conte nel corso del Consiglio europeo. “Una risposta forte ed adeguata la dobbiamo ai nostri cittadini e in definitiva alla stessa Europa. Che diremo ai nostri cittadini se l’Europa non si dimostra capace di una reazione unitaria, forte e coesa di fronte a uno shock imprevedibile e simmetrico di questa portata epocale? – ha chiesto Conte ai leader collegati in conference call – come si può pensare che siano adeguati a questo shock simmetrico di così devastante impatto strumenti elaborati in passato, che sono stati costruiti per intervenire in caso di shock asimmetrici con riguardo a tensioni finanziarie riguardanti singoli Paesi?”.

Ora sta a Conte e Sanchez mantenere una posizione rigida, senza Italia e Spagna, l’Europa non esiste più. Ma adesso ci sono ancora due settimane per provare ad ammorbidire le posizioni più rigide. Come dice Ursula von der Leyen, l’Europa è davanti ad un bivio. Questa volta per davvero.

Maxi ospedale mai finito – La vergogna nelle Langhe

https://espresso.repubblica.it/attualita/2013/11/19/news/verduno-il-mostro-della-collina-un-maxi-ospedale-nella-terra-del-tartufo-1.141541?fbclid=IwAR2N9yVc3yHQmqe3wqF7scAyEJioJYOMNhQ3hA8_He0I4gmKqXthtkHifTs

Sono passati vent’anni dai primi finanziamenti. Dieci dalla prima pietra. E la struttura è ancora in costruzione. Su un terreno franoso ritenuto non edificabile: perché regga sono stati necessari 900 pali in cemento. E la strada per arrivarci costerà dodici euro al millimetro. Cronaca di uno scandalo a Verduno, la terra del tartufo

DI ROBERTO DI CARO, FOTO DI MICHELE D’OTTAVIO

Maxi ospedale mai finito La vergogna nelle Langhe

Il più drastico è Carlo Petrini, presidente Slow food: «Mi è sempre sembrata una follia costruire un enorme ospedale su una collina instabile a metà strada fra Alba e Bra quando ce n’erano due, più piccoli, ben funzionanti e vicini alla gente: di uno ho usufruito, c’è una dimensione umana, anche la mensa è eccellente. Ma da destra e sinistra mi facevano capire con un sorrisetto che io ero fuori dal tempo, che bisognava pensare e realizzare in grande. Ora paghiamo il fio di quella megalomania». Sì, posizione minoritaria, Petrini. I politici adducono la necessità di economie di scala, i tecnici la vetustà di muri e impianti dei settecenteschi ospedali di Bra e Alba, i dottori le esigenze della nuova medicina, diagnostica in testa. Giusto o sbagliato che fosse, ormai l’enorme falansterio sta lì, abbarbicato coi suoi tre bracci che si stagliano per nove piani sulla collina di Verduno: appena sotto il paese e grande altrettanto, quando ti si para innanzi dalla statale Alba-Bra. Fra vigne e noccioleti, casali e castelli, nel cuore di Langhe e Roero, cammeo dell’enogastronomia italiana: area d’elezione del tartufo bianco, terra dei vini nobili piemontesi, culla dello Slow food, meta di orde di colti gourmet francesi, tedeschi, inglesi a gustare Barolo e Barbaresco, tajarin e agnolotti al plin.

I lavori sono fermi da due anni. Del nuovo ospedale c’è solo l’imponente scheletro in cemento armato, metà pelle in vetro e metallo, qualche organo interno tipo le modernissime cellule bagno parzialmente all’addiaccio. E la gente del posto fa gli scongiuri perché il mastodonte non resti abbandonato a cadere a pezzi. «Assolutamente no! I lavori ripartiranno prima di Natale, due squadre di operai dell’impresa costruttrice sono già arrivate da Bari per ripristinare le condizioni di sicurezza per le maestranze», replica Francesco Morabito, da un anno direttore generale della Asl Cn2. Qui però finché non toccano con mano non credono a niente. Come dargli torto?

PROMESSE DA PRESIDENTE. «Rispetteremo i tempi», giura Roberto Cota in visita nel settembre 2010, caschetto verde-Lega lui e Gianna Gancia presidente della Provincia di Cuneo. Ma la sua Regione, fuori di 16 milioni e mezzo, non salda i debitisicché, settembre 2011, l’impresa ferma i lavori e il cantiere sbaracca. A maggio 2012 arrivano 8 milioni: finta ripartenza, giusto qualche pannellatura, e a settembre Renato Balduzzi ministro della Salute in visita pastorale assicura: «La costruzione sarà completata a giugno 2014». Invece qualche giorno e i lavori si fermano. Ma a febbraio Balduzzi e l’allora direttore generale della Asl Alba-Bra Giovanni Monchiero vengono eletti deputati per Scelta Civica in Piemonte. Qualcosa comincia a sbloccarsi quando la Regione salda finalmente il pregresso. Se davvero si rimetterà mano allo scheletro, benevole previsioni parlano di entrata in funzione a fine 2016. Vent’anni dopo i primi stanziamenti della Regione, governatore Enzo Ghigo, centrodestra: d’accordo all’unanimità tutti i Comuni interessati. Dieci anni dopo la posa della prima pietra in una nebbiosa giornata d’autunno, governatore Mercedes Bresso, centrosinistra. Ma come ci si è infilati in un  guazzabuglio del genere?

Veduta dell'ospedale in costruzione

Veduta dell’ospedale in costruzione

IL POSTO SBAGLIATO. Il terreno scelto, per cominciare. «La sua conformazione geologica è ben nota: marne argillose inclini a scivolamenti e uno strato gessoso carsico, frane attive e quiescenti»», fotografa Riccardo Torri, geologo che ha lavorato su gallerie Torino-Lione e Brennero. Una instabilità antica, bastava chiedere a qualunque contadino. «Nel piano regolatore la zona era classificata “non edificabile, salvo opere di interesse pubblico non diversamente ubicabili”», conferma il sindaco di Verduno, Alfonso Brero. Su un terreno dove non potevi costruire neanche un casotto decidono di edificare un ospedale da 550 letti. Il geologo Orlando Costagli viene incaricato di certificare: «Mi rifiutai. Posso forse cambiare le carte dell’Autorità di Bacino, dove l’area è segnata in dissesto?». Lui no, ma la palla passa alla Regione, «e d’improvviso, sulle carte ufficiali, le frane scompaiono».

Riccardo Torri

Riccardo Torri

Perché lì, su una collina franosa e scomoda da raggiungere, quando in tutta la piana c’erano fior di terreni alcuni tuttora liberi e altri negli anni a venire occupati da enormi centri commerciali? Chi decise? «Il primo lotto di terreno lo comprammo noi, Comune di Alba, e fatta un’accurata perizia geologica lo donammo alla Asl. Perché lì? Era a mezza strada e costava un tozzo di pane. Non fosse andato bene, potevano sempre rivenderlo», racconta Enzo De Maria, ingegnere, sindaco Dc di Alba per tutti gli anni Novanta, amareggiato perché «è diventata come la Salerno-Reggio Calabria, tempi folli e soldi al vento».

Veduta dell'ospedale in costruzione

Veduta dell’ospedale in costruzione

IL BASTONE E LA CAROTA. Leggenda vuole che la scelta del sito fu un intrallazzo con la Chiesa: della Diocesi di Alba era il lotto più grande, 9 giornate, un decimo del totale: «Ma noi neanche volevamo vendere», racconta don Angelo Franco, parroco di Verduno e presidente dell’Ufficio sostentamento del clero; «la Asl offriva poco, fu il vescovo a sentenziare: dateglielo, non si dica che la Chiesa boicotta l’ospedale». Incassarono, novembre ‘98, 122 milioni e 480 mila lire, meno di quanto ottennero in seguito altri proprietari di noccioleti e vigne di Dolcetto acquistati con la carota del fate del bene e il bastone della minaccia di esproprio. In tutto, l’acquisizione dei 300 mila metri quadri è costata 2 milioni 570 mila euro, quasi 4 con Iva e spese: cifra fornita da Ferruccio Bianco, architetto, il rup, responsabile unico del progetto.

LA BOLLA PROJECT FINANCING. Bianco diventa rup a fine ‘95. Si indice una gara internazionale: vince lo studio Aymeric Zublena di Parigi, progetto preliminare nel ‘99, esecutivo nel 2004. Ora tocca trovare chi costruisce. E qui è la seconda anomalia: con la motivazione che costerà (Iva esclusa) 114 milioni e la Regione non ne può mettere più di 97, si procede in project financing. Vantaggi? «Nessuno», risponde chiaro lo stesso Bianco, il rup: «in quegli anni tutti si riempivano la bocca col project financing: una bolla, chi l’ha usato per opere similari se n’è pentito. La sua quota del 15 per cento il privato la metterà solo nell’ultima fase dei lavori, poi gestirà i 500 metri quadri di spazi commerciali interni, la manutenzione ordinaria e straordinaria, le forniture di acqua, luce e gas: introito annuo concordato, 7 milioni 280 mila euro più Iva al 22 per cento. Per vent’anni».

Francesco Morabito, direttore...

Francesco Morabito, direttore generale Asl Alba-Bra

NOVECENTO PALI. Vince, settembre 2005, la Mgr Verduno 2005, gruppo Maire Tecnimont. Che appalta i lavori di costruzione a una ati, associazione temporanea, fra l’impresa Matarrese di Bari e, per l’impiantistica, la Olicar di Bra. «Una delle pochissime gare in cui non c’è stato neppure un ricorso», vanta Morabito, il dg della Asl. I guai cominciano l’anno dopo, bonifica e messa in sicurezza della collina. Scavi, e il terreno frana. Ti sposti, e continua a franare. Alla fine l’edificio risulta 200 metri più in alto verso ovest. Perché il terreno regga sono necessari 900 pali in cemento larghi 1,80 metri profondi 30, e una diga in cemento armato lunga 260 metri, larga 7,3 e profonda 6. Una montagna di cemento. Costo dichiarato, 15 milioni di euro, 4 in più del previsto.
E in tutto quanto costerà? Dice Bianco: «Fermati i lavori, le richieste del concessionario erano spropositate: 60 milioni in più. Con un accordo bonario, gliene abbiamo riconosciuti 12. Il che porta il costo nudo a 125 milioni». Se aggiungi Iva, acquisizione terreni, spese tecniche e di gare ballano altri 31 milioni. Per un totale di 156 milioni, 29 a carico del concessionario.

DODICI EURO AL MILLIMETRO. Ammesso che lo si finisca, poi come ci si arriva al nuovo ospedale? La posizione è infelice. Su un versante collinare esposto a nord dove, con neve e ghiaccio, si sono addirittura immaginati di riscaldare il manto con una serpentina a pannelli solari. Poi «dovranno allargare la provinciale 7 e il ponte sul Tanaro. Raccordarla con la strada statale. Scavalcare l’autostrada Asti-Cuneo che ancora non c’è ma prima o poi faranno. Un rompicapo», descrivono Silvio Veglio e Franco Bartocci, Osservatorio per la tutela del paesaggio di Langhe e Roero che raccoglie una ventina di associazioni. Guardi la carta dei progetti della Provincia ed è tutto un gira e svolta e scavalla. Una variante doveva costare 4 milioni di euro, l’ultima oltre 20. Per 1700 metri. Significa 12 euro al millimetro, roba che neanche il tartufo. Ora pare si torni al tragitto originario, ma di deciso non c’è un fico secco. Coi tempi medi di costruzione, se l’ospedale sarà terminato rischi di poterci arrivare solo in elicottero o su una stradina buona giusto per la camporella.

La mappa del tracciato stradale per...

La mappa del tracciato stradale per arrivare all’ospedale

PUNTI FEDELTA’. «I primi a sentirci drammaticamente presi in giro siamo noi», attacca Luciano Scalise, direttore della Fondazione Nuovo Ospedale Alba-Bra, nata nel 2008 con un primo contributo di un milione e mezzo di Franco Miroglio del tessile e 100 mila euro a testa degli undici soci fondatori, Oscar Farinetti di Eataly, Bruno Ceretto dei vini, imprenditori e maggiorenti della zona: «Siamo l’unico esempio in Italia di onlus privata che sostiene un ospedale pubblico. Abbiamo raccolto 11,8 milioni e l’obbiettivo è 15. Ne studiamo una più del diavolo, dai punti fedeltà nei supermercati, alle bottiglie della vigna del Camillo Cavour. E ci troviamo una Regione Piemonte e un’impresa costruttrice che non rispettano gli impegni presi».

MEDICI CONTRO. Non sono gli unici a lagnarsi. Settanta medici, tecnici, infermieri e amministrativi (ma in due settimane sono già diventati 470) hanno appena costituito un il movimento Salviamo gli ospedali di Alba e Bra: «Per la spending review e mentre tutti aspettano Verduno», elenca Giovanni Asteggiano, primario di Neurologia, uno dei promotori, «a Bra hanno tolto il punto nascita, chiusi Ostetricia e Pediatria, il Pronto Soccorso è destinato a sparire. Alba ha ridotto le prestazioni e allungato le liste d’attesa. Le attrezzature sono obsolete. Quattro medici specialisti a contratto precario se ne sono già andati via in un mese, e altri dovranno lasciare prima di Natale».

Bruna Sibile

Bruna Sibile

VIRTUOSI E GABBATI. Che cosa resterà dei due attuali nosocomi sotto casa? Bruna Sibille, centrosinistra, sindaco di Bra, nega che toccherà salire a Verduno per un esame del sangue: «Analisi, radiografie e lungodegenza resteranno dove sono. Ci stiamo battendo con la Regione per ottenere deroghe alla spending review. Perché la smettano di svuotare servizi essenziali a noi che per la sanità spendiamo 1600 euro a cittadino, 200 in meno della media piemontese. Significa che costiamo 25 milioni di euro l’anno in meno». Sì, però vi costruiamo l’ospedale, insinuano in Regione. Si annuncia un altro annoso tira e molla.

19 novembre 2013