Occupazione silenziosa con le AM-Lire, altro che sovranità

sono i nostri amati e nobili antifascisti liberatori, che solo per amore verso il prossimo esportano democrazia. Come mai sui libri di storia nessun cenno sulle AM lire e debito derivato? Ah giusto, ci hanno liberato senza chiedere niente in cambio no? così si tramanda
 
amlire
maggio 05 2016
– di Redazione GiacintoAuriti.eu
 
Riguardo il concetto di “sovranità monetaria” regna molta confusione, cerchiamo insieme di fare chiarezza.
 
Il vocabolario dell’enciclopedia Treccani al termine “sovrano” ci restituisce la seguente definizione:
 
p.2a. “Riferito a un potere o un’autorità, che non ha altro potere o autorità da cui dipenda nell’ordinamento politico-giuridico di cui fa parte; quindi: stato s., nazione s., popolo s., che ha la sovranità”.
 
Sovrano dunque “che sta sopra”, che non è soggetto ad altrui poteri, ossia autonomo, indipendente.
 
La sovranità monetaria è il mezzo attraverso il quale una nazione dirige la propria politica monetaria. Dato lo strumento occorre stabilire CHI adoperi tale strumento ed è doveroso sottolineare la vitale importanza che la sovranità monetaria riveste per un paese.
 
La moneta non è “solo” lo strumento attraverso il quale dare vivacità economica al paese ma, altresì, un potente mezzo di controllo politico.
  • “Il debito è asservimento” (David Graeber).
  • “Un paese che non si indebita fa rabbia agli usurai” (Ezra Pound)
  • “Datemi il controllo della moneta di una nazione e me ne infischio di chi fa le leggi (Rotschild)
  • Ci sono due modi per conquistare e sottomettere una nazione e il suo popolo. Uno è con la spada, l’altro è controllando il suo debito. (John Adams-Presidente Usa)
Va da sé, dunque, che un popolo che gode di sovranità monetaria conserva la libertà di non indebitarsi.
 
C’è qui da chiedersi se è vero, che prima del 1981 il popolo italiano godeva di questa libertà.
 
Per rispondere a tale quesito vogliamo ricordare per sommi capi quanto accadde nella notte tra il 9 e il 10 Luglio 1943 nel nostro paese.
 
Forse non tutti conoscono la storia delle AMlire, la moneta d’occupazione americana. Stampate in un primo momento negli Stati Uniti d’America e poi anche in Italia, presentava vari tagli da 1 lira fino a 500 e 1000 lire[1].
 
Questa cartamoneta giunse inizialmente nel nostro Paese seguendo le truppe americane entrate nel territorio italiano con lo sbarco in Sicilia.
 
L’AMGOT, l’Allied Military Government of Occupied Territories (Governo militare alleato dei territori occupati), fu lo strumento con cui le forze alleate occuparono i territori e l’amministrazione di Austria, Germania, Giappone, Norvegia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Francia[2] e l’Italia, con le AM-lire, fu il primo Paese dove tale strumento venne utilizzato per sostituire la circolazione monetaria della Lira italiana, abolendone il corso forzoso, con la moneta d’occupazione distribuita dalle truppe alleate.
 
Fu così che un vero e proprio fiume di denaro invase il meridione senza alcun controllo né argine, portando in queste terre un indiscriminato aumento dei prezzi.
 
La conseguenza fu un duplice esproprio subito dai cittadini italiani, i quali vennero depredati del potere d’acquisto delle lire italiane e chiamati a farsi carico del debito scaturente dalla nuova valuta.
 
Pare che la prima “tiratura” fosse pari a circa 143 miliardi di AM-lire. La situazione era aggravata dalla fissazione di un cambio pari a 100 lire per dollaro americano e 400 lire per ogni sterlina inglese.
 
Ciò conferiva ai militari statunitensi un formidabile potere d’acquisto maturato a discapito della popolazione civile, la quale veniva risucchiata in un vortice di disperata miseria.
 
Ci racconta il Malaparte nel suo romanzo “La pelle” come, al domani dello sbarco alleato nella zona di Napoli, imperversassero tragiche condizioni di vita che spingevano giovani donne a vendere il proprio corpo ai militari americani per un dollaro.
 
Da questo turpe mercimonio, non erano esclusi neppure gli innocenti. Si stima che nel 1944 l’aumento del costo della vita giunse fino al 344,47%[3]. Per fare un esempio tra il 1945-1950 con un intero stipendio si potevano acquistare solo 15 kg di zucchero. Questa fu la ragione principale per la quale si ebbe un parziale ritorno al baratto e alla borsa nera.
 
Pare che con questa valuta gli americani acquistarono diversi possedimenti nella nostra penisola, tra cui la sede dell’ambasciata americana a Roma.
 
La storia della moneta d’occupazione americana terminò il 30 giugno 1950, quando con il D.M. 18.2.1950 venne ritirata dalla circolazione, terminandone il corso legale e addebitandone nel contempo il prezzo ai cittadini della neonata Repubblica.
 
E sì, perché le AM-lire non venivano attribuite al popolo da liberare come mezzo convenzionale, ovvero libere da debito, ma venivano addebitate in cambio di titoli di Stato italiani, come sancito dalla LEGGE 28 dicembre 1952, n. 3598
 
Ratifica, con modificazioni, del decreto legislativo 12 dicembre 1946, n. 441, concernente l’autorizzazione al Ministro per il tesoro a stipulare con la Banca d’Italia una convenzione per la esecuzione dell’Accordo monetario, in data 24 gennaio 1946, fra il Governo italiano ed il Governo Alleato”[4]
 
Qualcuno potrebbe obiettare che godevamo di sovranità monetaria in base all’assunto: “quando la banca d’emissione è pubblica, l’acquisto dei titoli di stato è una partita di giro, un debito verso sé stessi”.
 
Confutare questo assurdo è semplice:
 
Quando la banca è pubblica che motivo ha lo Stato di emettere titoli di debito per farli acquistare a sé stesso, quando potrebbe emettere moneta direttamente?
 
Se il debito è finto, perché pagarci gli interessi?
 
Se vi sono degli interessi allora quel debito non è assolutamente fittizio.
 
Non fatevi incantare da chi parla di DEBITO SOVRANO.
 
Il debito è un concetto astratto, esso non può essere sovrano rispetto a un popolo.
 
L’ Art.1 della Costituzione è la prima cosa che ricorda: “la sovranità appartiene al popolo”.
 
Il debito è uno strumento di asservimento, sempre!
 
Inoltre non è affatto vero che debitore e creditore sono la stessa persona perché debitore è lo Stato, creditore è la banca centrale e nessuna delle due “entità” è una persona.
 
E comunque i due soggetti erano ben distinti e separati già prima del 1981.
 
Ovvero, per capirci: tanto lo Stato quanto la banca sono “enti astratti di imputazione giuridica”, ove gli interessi del popolo NON vengono rappresentati.
 
L’astrazione giuridica è l’artifizio usato per evitare che il mantra del debito cada come un castello di sabbia.
 
Inoltre, se corrispondesse a verità l’assunto secondo il quale il nostro paese godeva di “Piena sovranità monetaria” almeno fino al 1981, l’emendamento discusso in assemblea costituente il 24 Ottobre del 1947 sarebbe stato approvato[5].
 
Esso infatti prevedeva “L’autorizzazione del parlamento a battere moneta”.
 
A quel punto avremmo pututo dire che gli Artt. 1, 47 e 117 della Costituzione sarebbero stati applicati e rispettati.
 
Perché, come soleva ricordare il Prof Giacinto Auriti, il contenuto della norma giuridica è duplice.
 
Essa prevede l’interesse giuridico da tutelare e il bene giuridico da tutelare. Se manca uno di questi contenuti la norma resta, come in effetti ora è, lettera morta.
 
Nel nostro caso se prevedi un diritto in astratto senza approntare gli strumenti che lo realizzino, è chiaro che l’impianto normativo diventa uno specchietto per allodole.
 
La ragione per cui chi detiene il potere politico di una nazione emette titoli di debito, obbligando il popolo a pagarne gli interessi, è solo una: il dominio, l’imperio sul popolo.
 
Semplicemente prima del 1981 il popolo italiano veniva chiamato a “sacrificare” una parte del valore da lui prodotto a una classe dirigente nazionale mentre ora è destinato a servire l’alta finanza internazionale che ha un appetito illimitato e, pertanto, una portata devastante.
 
Che sia una classe dirigente o un paese straniero, il debito è l’artifizio attraverso il quale arricchirsi dei valori che il popolo produce.
 
Per rafforzare la nostra tesi con una fonte ufficiale è sufficiente leggere quanto riportato sul sito bancaditalia.it, dove si legge:
 
L’accordo del 24 gennaio 1946 tra il Governo italiano e quello Alleato riconobbe alla Banca d’Italia la facoltà di emettere le Am-lire”, facoltà che risulta essere solo un’alternativa acciocché queste venissero prodotte negli USA[6].
 
Infatti, il decreto legislativo 12 dicembre 1946, n. 441, firmato dal capo provvisorio dello Stato De Nicola, sancisce all’Art.1:
 
Al fine di dare piena esecuzione all’Accordo monetario intervenuto tra il Governo Italiano e il Governo Alleato per l’unificazione, sotto l’autorità del Governo Italiano, della circolazione della Banca d’Italia e della moneta di occupazione alleata (AM-lire), il Ministro per il tesoro è autorizzato a stipulare con la Banca stessa, riconosciuta come l’autorità b emittente di detta moneta di occupazione, una convenzione per regolare i rapporti nascenti dalla detta unificazione, e dalla somministrazione, da parte della Banca d’Italia, alle Forze armate alleate, di biglietti propri e di crediti in lire e ciò a far tempo dal 1° febbraio 1946.”[7]
 
È qui evidente il rapporto di sudditanza, altro che sovranità.
 
Nella stessa pagina del sito bancaditalia.it si riporta il “caso Staderini”, tipografia privata incaricata di stampare cartamoneta, menzionando la mancata emissione dei biglietti da 500 e 1.000 lire tipo 1944, commissionata dalla Banca d’Italia quando Luigi Einaudi ne era governatore.
 
L’episodio è avvenuto in seguito all’arresto di due dipendenti dello stabilimento Staderini di Roma accusati di aver falsificato la produzione di moneta[8], che in quel periodo era a tutti gli effetti moneta di occupazione.
 
La vicenda ci ricorda la commedia italiana che riportava spaccati di vita italiana dell’epoca, con pellicole come “La banda degli onesti” e “la saggezza dei governatori delle banche centrali”.
 
Tutto ciò ci rammenta quanto soleva dire il Prof. Giacinto Auriti:
 
A noi non interessa che l’emissione avvenga da parte di un’organizzazione pubblica o privata, a noi interessa di chi sia la Proprietà della moneta”.
 
Cioè interessa che la produzione di moneta non avvenga contro debito e che la moneta non sia della tipografia ( pubblica o privata) ma del popolo
 
Di recente l’on. Paolo Ferrero, Ministro della solidarietà sociale del Governo Prodi II dal 17 maggio 2006 all’8 maggio 2008, segretario di Rifondazione Comunista dal 27 luglio 2008, ha dichiarato:
 
“Per questo noi proponiamo che la Banca Centrale sia pubblica e presti i soldi agli Stati“.
 
Prestiti, ovvero debito, debito e ancora debito, le provano tutte.
 
Ora tentano di confondere la gente paragonando goffamente e surrettiziamente la proprietà popolare della moneta con l’helicopter money di Milton Friedman.
 
Ma occorre tenere a mente che tra proprietà e possesso la differenza è sostanziale.
 
Ciò che davvero libererebbe i popoli dal martirio del debito è una corretta emissione monetaria.
 
Occorre cioè tenere distinto momento dell’emissione da quello della circolazione.
 
La moneta nasce come simbolo di costo nullo e assume valore SOLO quando inizia a circolare, inglobando potere d’acquisto.
 
Per questo motivo non ci stancheremo di chiedere la fine del capitalismo, partendo dalla radice del male.
 
Occorre cioè che ogni popolo sia riconosciuto proprietario della sua moneta e riacquisti la dovuta dignità.
 
Scritto da: Redazione – Scuola Studi Giuridici e Monetari “Giacinto Auriti”
 
 
note
 
[1] Emissioni Banca D’Italia,
 
 
[2] Les billets de banque de l’Amgot,
 
 
[3] Inflazione. Costo della vita nel corso di 140 anni, http://cronologia.leonardo.it/inflazio.htm, 05/2016.
 
[4] LEGGE 28 dicembre 1952, n. 3598,
 
 
[5] Sara Lapico, Scuola di studi giuridici e monetari Giacinto Auriti, La Costituente rifiutò di inserire la Sovranità Monetaria,
 
 
[6] Emissioni Banca D’Italia, op.cit., nota [1].
 
[7] DECRETO LEGISLATIVO DEL CAPO PROVVISORIO DELLO STATO 12 dicembre 1946, n. 441,
 
 
[8] Gianni Graziosi, Mille lire al mese, http://www.panorama-numismatico.com/wp-content/uploads/mille-lire.pdf, 05/2016.

Arrestato il sindaco di Lodi del Pd: ne è rimasto qualcuno a piede libero?

è un moralmente superiore, non è certo una minaccia o pericolo per la democrazia, il PD è democrazia guai protestare contro e bruciare i libri dei piddini
 
sindlodi
maggio 04 2016
 
Lodi, 3 mag – Nuova tegola giudiziaria sul Pd: Simone Uggetti, il sindaco di Lodi, è stato arrestato dal Nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza per turbativa d’asta. È accusato di aver favorito, confezionando “un bando su misura”, la società Sporting Lodi nella gestione delle piscine comunali scoperte della città. Insieme a lui è stato arrestato anche l’avvocato Cristiano Marini, consulente della Sporting. L’imbarazzo, nel partito, non è poco, dato che Uggetti è considerato il braccio destro del vicesegretario democratico Lorenzo Guerini, che lo aveva scelto per due volte come assessore all’Ambiente e alle Attività produttive nelle sue Giunte quando era presidente della provincia di Lodi. Tale arresto, inoltre, arriva a pochi giorni dall’inchiesta che ha travolto il Pd campano con l’ex consulente di Matteo Renzi, Stefano Graziano, indagato perché ritenuto legato al padrino del clan dei Casalesi Michele Zagaria.
 
Secondo i magistrati, Uggetti e Marini avrebbero “alterato il libero svolgimento della gara”. La turbativa si sarebbe realizzata “attraverso il confezionamento del bando con l’espresso riconoscimento di punteggi che potessero in concreto favorire la Sporting Lodi SSD e garantirle il buon esito dell’appalto”. Inoltre Uggetti e Marini avrebbero “tentato, in alcuni casi anche con successo, di occultare prove indispensabili per la ricostruzione dei fatti”, ad esempio tramite la formattazione di alcuni pc usati, si sospetta, per attività illecite. Ed è per questo – per il rischio di inquinamento delle prove, oltre che per quello di reiterazione del reato – che la procura chiede e ottiene la misura cautelare. L’indagine è partita quando, a metà marzo, una dipendente si rivolge alla Guardia di Finanza e presenta un esposto sull’appalto dopo essersi rifiutata di realizzare, a suo dire su diretta indicazione del sindaco, un bando su misura per la Sporting Lodi.
 

Obama senza finzioni parla chiaro: i paesi europei devono seguire le regole stabilite dagli USA

Mag 03, 2016
 
TPP-Trans-Pacific-Partnership-Protest-Fast-Track-1
Proteste in Asia contro il TPP
 
Per una volta, il presidente Obama ha parlato chiaro ed ha dichiarato quello che è il vero progetto degli USA per l’Europa e per il Mondo:  “Gli USA devono definire le regole e devono prendere le decisioni (….) gli altri paesi devono seguire le regole stabilite dagli USA e dai suoi soci, e non al contrario”.
 
Queste affermazioni Obama le ha messe nero su bianco in un articolo scritto di suo pugno per il “The Washington Post”, in cui ha ribadito che gli altri paesi  devono seguire le regole stabilite dagli Stati  Uniti e dai suoi soci.
In questo contesto Obama ha chiesto al Congresso di approvare  quanto prima sia possibile, l’accordo che si denomina  TTP e che prevede la creazione di una zona di libero commercio fra i 12 paesi dell’Asia e del Pacifico perchè siano soltanto gli USA a stabilire le regole dei contratti di interscambio mondiale e siano esclusi (dalle decisioni sulle regole) altri paesi come la Cina o l’Europa , quest’ultima nel caso dell’altro accordo previsto, il TTIP, per l’area di libero commercio Trans Atlantico.
Rispetto all’utilità di questi accordi Obama segnala che questi rafforzano la sicurezza degli Stati Uniti : “…..Quando si riduce il numero delle persone che soffrono della povertà, quando i nostri soci commerciali prosperano e quando la nostra economia stabilisce vincoli più stretti in zone di maggiore importanza strategica, gli USA diventano più forti e rafforzano la propria sicurezza”.
Allo stesso  tempo il presidente. ha richiesto al Congresso di prendere una decisione con. più celerità , visto che anche la Cina sta discutendo di regole del commercio con altri paesi dell’area del Pacifico e dell’Asia.
Obama si preoccupa del fatto che la Cina, principale competitor degli USA, sta stringendo accordi economici con alcuni grandi paesi dell’area asiatica e del Pacifico e questo metterebbe a rischio la supremazia economica degli USA in questa area che vale circa il 40% del commercio mondiale. Il dinamismo della Cina  determina la fretta del Presidente di voler far approvare, prima della fine del suo mandato, sia questo che l’altro accordo economico, quello del TTIP, del commercio transatlantico che riguarda l’Europa, in modo da stabilire l’egemonia USA sul commercio mondiale ed imporre tutte le regole favorevoli alle grandi corporations USA che obbligherebbero gli Stati nazionali ad adeguarsi a tali regole ( quando in contrasto con le proprie) e metterebbero fuori mercato le produzioni nazionali e locali, schiacciate dalla concorrenza delle grandi multinazionali. Senza menzionare i gravi effetti che si avrebbero sull’ambiente e sulla salute per l’introduzione delle regole stabilite negli USA.
In realtà’ vari analisti mettono in rilievo che Obama subisce le pressioni delle grandi lobby che fanno riferimento alle mega  corporations ed ai cartelli monopolistici che gli hanno richiesto di far approvare rapidamente i due accordi.
Risulta evidente che Obama si assicurerebbe la “gratitudine’ di queste lobby che gli  garantirebbero poi  lauti compensi per la sua carriera post presidenza, con possibilità’ di avere ricchi sponsor per le sue future attività’ in progetto.
Le altre questioni come la salute, la salvaguardia dell’ambiente e delle culture locali non sono tenute in alcuna considerazione quando devono prevalere gli interessi delle concentrazioni economiche  e del grande capitale.
 
L.Lago
Fonti:  RT Actualidad
Washington Post

ERITREA, CE NE FOSSERO!

 http://fulviogrimaldi.blogspot.it/2016/05/eritrea-ce-ne-fossero.html

MONDOCANE

SABATO 7 MAGGIO 2016

Tornare in Italia dopo un paio di settimane in giro per l’Eritrea è come sprofondare da una passeggiata a pieni polmoni nel bosco all’alba, tra canti di uccelli e rigogli di fioriture, nell’apnea dentro a uno stagno putrescente. Tutto, da limpido e trasparente, diventa torbido e opaco, nelle parole e nelle  immagini. Rientriamo a Mordor, il tetro impero della menzogna e del sopruso. Ancora le gigaballe su Regeni e Al Sisi, ancora i turpi inganni su Aleppo, ancora l’Isis che o accettiamo un regime cripto nazi, o ci fa saltare per aria tutti, ancora i ciarlatani nei palazzi del potere….
Con i guerriglieri lotta armata per la liberazione
C’ero già stato, in Eritrea, diverse volte. Come sempre da non-nonviolento. La prima, appena scelto di fare il corrispondente di guerra da freelance, dopo aver coperto la Guerra dei Sei Giorni in Palestina per Paese Sera. I miei territori d’elezione erano quelli dove ancora non era finita la lotta di liberazione dal colonialismo, non-nonviolenta e perciò vittoriosa: Palestina, Irlanda del Nord e, appunto, Eritrea. Eritrea che avrebbe dato vita alla più lunga lotta di liberazione di tutta la decolonizzazione: 1961-1991. Il classico Davide, tutto solo, contro il Golia etiopico che aveva alle spalle, prima, tutto l’Occidente imperialista e, poi, tutto l’Oriente “socialista” e che già aveva subito, dal 1890, l’offesa del colonialismo italiano, quello degli “italiani brava gente”, brutale, razzista e predatore, poi, dal 1941, quello britannico e, infine, l’annessione all’impero di un manigoldo genocida, ma caro all’Occidente, Hailè Selassiè, re dei re. Da qualcuno, animato da appettiti neocoloniali, incoronato “padre dell’Africa”.
 Maggio 1971, sul campo
Mi ero incamminato, nella primavera del 1971, con i combattenti del Fronte di Liberazione Eritreo (FLE), che più tardi, dopo sanguinosi contrasti,  avrebbe ceduto il passo al Fronte Popolare (FPLE) di più netta ispirazione rivoluzionaria. Partimmo da Kassala, in Sudan, e durante una mesata percorremmo a piedi, schivando i presidi e le pattuglie degli occupanti etiopici, ma anche scorpioni, babbuini urlanti, leoni sonnecchianti,  mezzo migliaio di chilometri, tra andare e ritornare. Attraversammo, prosciugati dal sole e accecati da tempeste di sabbia, il deserto e il semideserto del bassopiano occidentale, rincuorandoci nelle frescure dei fiumi Barka e Gash. Ci arrampicammo sugli aspri e aguzzi monti che ci sollevavano verso l’altopiano dalle ricche piantagioni in mano ai latifondisti italiani, i Denadai, i Barattolo, i cui aranceti ci offrivano copertura dagli occhiuti elicotteri e caccia di Addis Abeba. Incrociammo combattenti feriti, dalle bende insanguinate, reduci delle battaglie. Interrompemmo la dieta secca e monotona della dura (un cereale), resa graffiante dall’incandescente berberè, grazie a un povero dik-dik centrato dal Kalachnikov, o a un capretto offertoci dal capo villaggio solidale con la rivoluzione. Rasentammo Tesseney, Barentu, Agordat, Keren, città rifatte negli anni ’30, come soprattutto le bellissime Asmara e Massaua,  nel segno del più felice stile razionalista italiano, detto anche “littorio”. Opere di nostri grandi architetti e urbanisti, uno dei pochi lasciti di cui non ci dobbiamo vergognare, anche se, beninteso, è per la piccola  e tronfia borghesia coloniale che si apprestavano residenze ed edifici pubblici, mica per gli “indigeni”, relegati nell’apartheid, oltre la cinta delle case belle.
1977, Dancalia, sotto le bombe sovietiche dell’Etiopia
La seconda volta fu, nel 1977, attraversando con un barchino  il Mar Rosso dallo Yemen, dribblando di notte le navi da guerra etiopiche appostate in vista della Dancalia liberata dal Fronte. Sbarcammo a Barasole, poco sopra il porto di Assab, accesso al mare ambito da Addis Abeba. Non era finito il cerimoniale del ricevimento allestito dagli anziani del villaggio, che arrivarono le bombe del nuovo tiranno colonialista, il “Negus rosso”, Mengistu Hailemariam, capo del DERG, gruppo di ufficiali che aveva rovesciato il vecchio imperatore sanguisuga e, dopo qualche occhieggiamento con Washington, si era collocato tra le braccia di Brezhnev. E di Fidel. Che, fraintendendo per obnubilazione terzinternazionalista e pentendosi poi tardivamente, inviò 15mila cubani a schiacciare una lotta di liberazione nazionale condotta nel segno di Marx, Fanon, Cabral, Malcolm X, insomma del meglio su piazza. Barasole incenerita con capanne, edifici, bestiame, persone. Noi, con donne e bambini, portati in salvo nelle grotte laviche alle spalle del villaggio. Poi tutto un viaggio per spiagge sconfinate e vuote, da turismo di sogno, e su, tra le altissime rocce vulcaniche dove la guerriglia celava le sue infrastrutture: cliniche, officine, scuole, coltivazioni., tra picchi e anfratti dove i piloti russi ci cercavano e non ci beccavano più.
Barasole dopo le bombe etiopiche
Nel 1978 tornai con la guerriglia nel bassopiano al confine col Sudan. Stavolta le città, Tesseny, Barentu, Agordat, non le passammo al largo, strisciando tra acacie e frutteti. Ci entrammo trionfalmente: erano state liberate e già prosperavano scuole rivoluzionarie, cliniche, centri di assistenza sociale, organizzazione comunitaria. Provai a raggiungere l’armata vittoriosa nel 1989 nella sua grande offensiva, giù da Nakfa verso Asmara, travolgendo le ultime resistenze etiopiche. Ma logistica e normative strategiche non lo consentirono e dovetti seguire la liberazione della nostra prima colonia, la vittoria di una vera rivoluzione al tempo in cui altre si apprestavano a spegnersi, alla radio, in tv, sui giornali.
Che allora erano tutti pieni di ammirazione e simpatia. Il negus rosso, è vero, non c’era più e dunque anche le “sinistre” poterono rivedere i propri strafalcioni da allineamento con Mosca (lo fece perfino l’Avana, ma solo nel 1989, a giochi fatti) ed entusiasmarsi per la vittoria di questa estrema battaglia al colonialismo, stavolta interafricano, ma con grossi sponsor alle spalle dell’aggressore.
Barasole, in salvo nelle grotte
Libera Eritrea = Stato canaglia
E siamo all’oggi. Ammirazione e simpatia si sono stravolti nel loro contrario. Nell’Africa dell’Algeria, dello Zimbabwe e dell’Egitto assediati dal revanscismo colonialista, della Libia e Somalia disintegrate, del Sudafrica in pieno tradimento di tutte le sue premesse, dei tre fantocci centroafricani che fanno da quinte colonne per la riconquista imperialista del Continente. Kenia, Uganda ed Etiopia, e di tutti gli altri regimi più o meno amannettati ad Africom, l’Eritrea è diventata per tutti, uniti nella perversa maieutica Nato e neoliberista,  la piccola grande bestia nera. Lo schema è quello classico, tanto facile, stereotipato e  rozzo, quanto bene accetto all’ansia dirittoumanista degli utili idioti e amici del giaguaro: dittatura spietata, partito unico autocratico, lavori forzati, prigionieri politici incatenati e torturati, esecuzioni di chi fiata, una gioventù bruciata dalla militarizzazione perepetua, torme di disperati in fuga a rischio di insabbiarsi nel Sahara o affogare nel Mediterraneo. Tutta roba già martellata su cervelli che dovevano poi assistere, catatonici o compiaciuti, alla distruzione di Jugoslavia, Serbia, Iraq, Libia, Siria e relativi genocidi, nel nome del recupero dei diritti umani e della costruzione della democrazia.
Spia o relatrice dei diritti umani:
Sheila Keetaruth con sponsor etiopici
Una sguattera di operazioni del genere è tale Sheila Keetaruth, già capa in Africa dell’arnese Cia Amnesty International, incaricata dall’ONU di trovare modo di creare le premesse per l’aggressione all’Eritrea alla conferenza di Ginevra della Commissione per i Diritti Umani (presieduta dai sauditi) del prossimo giugno. Non ha mai messo piede in Eritrea e ha raccolto testimonianze tra eritrei veri e finti rastrellati in Etiopia in produttiva collaborazione con funzionari di un paese che da quasi settant’anni cerca, a forza di bombe e sterminii, con pieno appoggio e su istigazione degli Usa, di mangiarsi l’ex-colonia italiana. La credibilità della signora si basa su questo retroterra, come sulla dabbenaggine o complicità dei media tutti e delle forze politiche occidentali tutte. Vale quella dei “giudici” della Corte di Giustizia Internationale (quella che incrimina solo soggetti di pelle nera), o del Tribunale Penale per la Jugoslavia (quella che ammazza in cella chi non riesca a provare colpevole).
Demonizzazioni imperialiste, verità eritree
Visti gli esiti del multipartitismo come adottato dai ceti compradori del neocolonialismo (senza neanche parlare di quello in uso da noi, dove ogni diversità si omologa in larghe intese), l’Eritrea ha organizzato lo Stato e la partecipazione della popolazone nel Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (FPDG), erede diretto del Fronte guerrigliero (FPLE) che ha portato il paese alla liberazione e all’indipendenza. Isaias Afeworki, vero padre della patria ed espressione dell’unità e del destino comune di un popolo composto da nove etnie e tre religioni, comandante del FPLE dalla sua creazione, ne è il segretario. Nell’immaginario del popolo corrisponde a Fidel, a Chavez, a Gheddafi.
Di Isaias (in Eritrea tutti si rivolgono tra loro con il primo nome, essendo il secondo quello del padre) per le strade, nelle vetrine e negli uffici non si vedono immagini, tanto che sono dovuto andare su google per vedere quanto l’uomo di oggi differisse da quello, giovanissimo, che vidi a Khartum nel 1978. Né si vedono – consentitemi il passo di lato – per i grandi viali alberati dell’Asmara o di Keren, nei gruppi di giovani dello struscio, o nei crocchi di anziani agli innumerevoli caffè “Impero”, “Tre Stelle”, “Maria”, nelle code per i cinema “Roma”, “Verdi”, “Impero”, le facce piatte di chi s’è perso e ha perso il mondo nei tecno-intrugli deficienti degli smartphone. Il cellulare ce l’hanno e a volte telefonano. Ma perlopiù guardano, sentono e si parlano. E neppure sono inciampato, alle fermate degli autobus, sotto gli edifici pubblici, intorno a ministri o dirigenti politici, nei vicoli che serpeggiano per i villaggi di tucul, tra i sicomori nel bassopiano, alla cui ombra si riuniscono le assemblee di paese, nei mercati-formicai abbaglianti di colori, né i militari con mitraglia imbracciata, né guardie del corpo, nei poliziotti robocop, da noi fatti passare per custodi delle sicurezza ed effettivo strumento di intimidazione.
Clinica del Fronte in Dancalia
Per scoprire un vigile – disarmato – ho dovuto correre all’arrivo, ad Asmara, del Giro Ciclistico d’Eritrea (con partecipazione di squadra toscana “Amore e Vita”), sotto le tribune che il colonello Mengistu aveva allestito per assistere alle parate delle sue armate e che, bastonato e cacciato il negus rosso, ora tracimano di tumultuante folla in delirio per i suoi pedalatori connazionali, primi otto all’arrivo e in classifica su otto nazioni partecipanti. In tribuna tre dei ministri che ho intervistato: Informazione, Agricoltura, Sanità. Neanche l’ombra di una body guard. Gira così per il paese anche Isaias. Chissà se è perchè non gliene fotte niente di esibirsi con un esercito personale, o perché quiggiù nessun  notabile rischia il lancio di oggetti, o improperi. Ne ho incontrato parecchi di studenti, contadini, mercanti, bariste, tecnici, scienziate. E ministri e dirigenti del Fronte. Dagli uni agli altri non c’era soluzione di continuità umana.  Ne venivo via, in ogni caso, con la sensazione di aver incontrato persone perbene, autentiche, prese da quel che fanno, che ci credono. Se poi penso alle facce e ai modi dei nostri potentati è come passare da un romanzo di Calvino all’Isola dei Famosi.
Combattente e contadino
Una luce nel Corno d’Africa
Il paese è povero, ma in piedi. Nel 2009 l’ONU ha decretato sanzioni, poi rinnovate nel 2011 e via via, Cina e Russia pilatescamente astenuti. Quell’ONU, foglia di fico su tutte le nefandezze Usa e UE, che, da sempre, all’Eritrea ha voluto male. Negli anni ’50, partiti gli italiani e poi i britannici, l’ha voluta federare all’Etiopia e poi non ha detto niente quando il monarca più sanguinario e ottuso dell’intero continente se l’è incorporata. Né s’è sognata di fornire solidarietà e sostegno, almeno politico, a una lotta di liberazione costata agli eritrei decine di migliaia di vittime, tra civili e combattenti e infinite distruzioni. Lotta dei poveri, in sandali fatti dai copertoni, contro i tank, i Mig, i Phantom, forniti ai lacchè etiopici dalle superpotenze. Forse al Palazzo di Vetro, che comunque sta inesorabilmente all’orecchio della Casa Bianca, si presentiva che con quell’Eritrea di un Fronte impermeabile a ogni condizionamento esterno, arabo, africano, o occidentale che fosse, non sarebbe finita come con l’India, o il Sudafrica, subito rientrati, tramite Commonwealth, nell’orbita capitalista. Hanno vinto, gli eritrei, armandosi con le armi sottratte al nemico. Quelle al nemico distrutte costeggiano ancora le grandi via tra est e ovest, nord e sud e, ai margini della capitale, ne hanno fatto una collina che è memoriale e monito.
1971, battaglia nel bassopiano
 
Parola d’ordine di sempre: Resilienza
E oggi vincono grazie allo stesso criterio: resilienza e autosufficienza, senza dover dire grazie a nessuno, né fare inchini. E funziona. Nella lotta hanno imparato a darsi da fare da soli, inventandosi tutto, dalle lamiere dei camion trasformate in lanciarazzi, ai sandali dei guerriglieri, appunto, riciclati dai pneumatici. Un sobborgo della capitale è tutto un’immensa officina del riciclaggio. E’ uno degli spettacoli di trasformazione e ricupero di quanto da noi si butta più impressionanti che abbia mai visto. Non c’è rifiuto di metallo, plastica, legno, carta, stoffa, che non torni in vita tra le mani di questa immensa industria spontanea e artigiana. Del resto quella dell’Eritrea è una vera ossessione ecologica. Banditi i safari che, negli altri stati, avvicinano l’estinzione di tutte le specie autoctone. I babbuini ci salutano dal ciglio delle strade, gli struzzi competono con il fuoristrada, gazzelle, elefanti e leoni stanno tornando sulle rive del Gash e del Barka, da dove i combattimenti e le bombe li avevano allontanati. L’intera Eritrea è una riserva naturale. E così il Mar Rosso, i suoi coralli, la sua fauna ittica e le sue sconfinate spiagge e isole bianche.
L’industria mineraria si va scoprendo remunerativa – oro, argento, rame, zinco, potassio – e si va allargando con l’intervento di società estere in consorzio con quelle nazionali. A Bisha,  nell’estremo sud-ovest del paese, dove si estraggono rame e zinco, il responsabile alla sicurezza ambientale e sanitaria ci ha messo un’ora ad elencarci le norme e misure dettate dal legislatore per impedire che gli investitori strafacciano come in Romania o Perù.(incominciano ad essercene parecchi, a dispetto delle sanzioni e delle minacce del Dipartimento di Stato, attratti da un’economia mista e da risorse che rendono accettabili le stringenti normative statali). La grande quantità d’acqua necessaria per le estrazioni viene riciclata all’80%. E il problema della scarsità d’acqua, dei fiumi torrentizi e solo stagionali, viene affrontato con la costruzione di dighe che raccolgano l’acqua piovana. E grazie a queste che le ricorrenti siccità hanno colpito Etiopia e altri paesi con vaste estensioni aride, ma hanno pouto essere superate in Eritrea. Dove il fervore verde si incontra a ogni tornante delle vie “imperiali”, tra lo zero sul livello del mare di Massaua ai 2.400 di Asmara, costruite dai colonizzatori tra il 1890 e il 1941, e ora ben mantenute e prolungate.
Lungo una di queste c’è Dogali, dove un imbecille di tenente colonello nel 1987 ha sacrificato alla sua imperizia e alla fregola colonialista di De Pretis 500 giovani contadini e operai italiani. Poco dopo c’è il sacrario di Adua, dove 9 anni dopo, altri poveri coscritti vennero fatti a pezzi dagli abissini. Dalle parti di Keren c’è il cimitero italiano. Il custode, con una paga misera misera di Roma, non nota la mia vergogna alla scritta sull’entrata: “EROI” e poi alla vista di un cimitero diviso in due. Da una parte centinaia di lapidi con nomi, cognomi, date e grado dei caduti italiani. E tante piante fiorite di Bouganville. Dall’altra, altrettante lapidi, secche, con una sola scritta ciascuna: “Ascaro ignoto”.
 “Ascaro ignoto”.
Montagne a gradinate, con le terrazze che si moltiplicano su ogni pendenza, a frenare l’erosione e a rimboschire. L’afforestazione è forse l’impegno ecologico principale per Stato e popolazione. Vi si impegnano le comunità locali, con tutti i componenti maggiorenni. Lo rinforzano i militari impiegati nel servizio civile. Già, quei militari su cui imperversa il cliché di una coscrizione senza fine, vessatoria, che cancella opportunità e libertà. Senza contare che dal giorno dell’indipendenza conquistata l’Eritrea rimane sotto schiaffo di chi utilizza gli etiopi per ricondurre il paese ribelle all’obbedienza imperiale. Nel decenno successivo ha dovuto subire e vincere due guerre d’aggressione. Nonostante gli accordi di Algeri del 2000 abbiano determinato le linee di confine, del resto fedeli ai tracciati storici, Addis Abeba continua impunita ad occupare territorio eritreo. Senza che l’ONU alzi un ciglio. Ed è ancora di questi giorni l’ennesima minaccia di guerre all’Eritrea lanciata da Hailemariam Desalegn, successore del despota Meles Zenawi. Che questo comporti per un popolo di meno di 5 milioni di abitanti uno spropositato sforzo di difesa dovrebbe sembrare naturale. Oggi, tuttavia, il servizo militare è limitato ai 18 mesi, in gran parte impegnati, appunto, nel servizio alle comunità. Sta peggio Israele, dove, dopo i due anni di servizio obbligatorio, si viene richiamati fino ai 50 anni e l’impegno è tutto per lo sterminio di palestinesi, grandi o piccoli che siano. Ma nessuno fiata.
L’irrigazione a caduta, a pioggia, canalizzata, amplia in continuazione la terra coltivata. Vi si dedicano aziende agricole integrate dove si persegue l’autosufficienza territoriale con l’allevamento, bovini, ovini, pollame, e le colture di cereali, legumi, verdure. Grandi complessi da 14mila polli, migliaia di capre e centinaia di vacche da latte sparsi nel paese e che costituiscono il modello per l’agricoltura famigliare, dove con un paio di mucche, i polli, le capre, gli orti, il frutteto, si copre il fabbisogno proprio e si ambisce a un 20% da vendere sul mercato di zona, o direttamente, o attraverso cooperative.
L’Eritrea è un paese bellissimo, tra il tropicale e l’alpino. Un sogno di turismo ecologico e culturale. Configurazioni geologiche affascinanti e varie come neanche la fantascienza galattica le ha saputo immaginare. L’Africa nera più nera e poi la moderna urbanistica razionalista e la vita di comunità che concilia musulmani, ortodossi e cattolici, tutti con le loro grandiose cattedrali e moschee. Potrebbero avere qualche risentimento, questi figli e nipoti di una colonizzazione che li ha depredati e umiliati, oltre a farne combattere e morire i nonni, da ascari, nelle guerre dei genocidi fascisti in Libia ed Etiopia. Ci penso mentre passeggio ad Asmara, per il Viale della Liberazione, tra ragazze-fuscello in leggins e signore in vaste sottane, con il gran scialle bianco e i capelli ancora a treccine sulla nuca. Questo viale si chiamava allora “Campo Cintato” e divideva in due la città. Da un lato i signori coloni con palazzi e ville, cinema e circoli, dall’altro gli indigeni e le loro baracche. Da qui all’altra parte non si passava, se non per fare i giornalieri: camerieri, sguatteri, pulitori, spazzini.
Avrebbero qualche motivo per risentirsi a incrociare questi nostri visi bianchi con le telecamere Sony puntategli addosso. E infatti le evitano, ma è per un sano sospetto di fare da folklore, come lo cercavano un tempo signori curiosi di esotismo. Ma non appena saluti, sorridi, è subito uno sconfinato biancheggiare di denti su fondo scuro. E ti pare di sentire un soffio di tempi lontani, perduti, quando eri piccolo e tutte le cose si facevano ancora insieme, quando non c’era l’ognuno per sé, più veloce, più forte, più fregone, più sprofondato nell’abisso senza fondo del suo telefonino. Qui sorridono tutti, sei avvolto in vapori di cordialità, c’è una specie di onda d’intesa sul fatto che siamo tutti umani che avvolge, rasserena, conforta, fa allegria. Dici una volta il tuo nome e tutti ti ci chiamano ogni volta che ti incontrano. Diventi parte di una memoria collettiva e, se ti fermi, di una collettiva vita.
Altro che dittatura. Prima di parlare di Eritrea qui in Occidente, e soprattutto in Italia, ci si fermi. Si contemplino gli scempi politici, morali e culturali che ci siamo lasciati infliggere da una successione di bande di cialtroni, si apra un libro di storia e si noti chi abbiamo sulle spalle, se non sulla coscienza collettiva, i marescialli Graziani dei mille impiccati tra Addis Abeba e Assab, il maresciallo Badoglio dello sterminio con i gas. E poi si stia zitti.
Pubblicato da alle ore 10:04

Appello Nuit Debout Parigi per 15 maggio

PER UN INCONTRO A PARIGI IL 7 E 8 MAGGIO 2016 E UNA #NUITDEBOUT GLOBALE (#GLOBALDEBOUT) il 15 maggio 2016

Il #46marzo (15 aprile), due settimane dopo la grande mobilitazione del 31 marzo a Parigi, il movimento Nuit Debout non smette di diffondersi. In numerose città francesi e europee, le Nuit Debout esplodono e riflettono speranze e rivolte comuni. Tutti quelli che hanno attraversato le piazze occupate e hanno partecipato lo sanno bene : sta succedendo qualcosa.

Abitanti del mondo intero facciamo cadere le frontiere e costruiamo insieme una nuova primavera globale ! 

Incontriamoci il 7 e 8 maggio prossimi a Parigi, in Place de la République, per dibattere, condividere pratiche e esperienze, e cominciare a costruire insieme nuove prospettive e soluzioni comuni. 

Ma soprattutto prepariamoci e lanciamo insieme una grande azione internazionale il 15 maggio (#76mars) per occupare massicciamente le piazze ovunque in quella data.

Nuit Debout ha fissato come primo obiettivo la creazione di uno spazio di convergenze delle lotte. 

Questa convergenza può andare ancora più lontano e estendersi su un piano internazionale. 

Esistono già dei legami tra i numerosi movimenti che ai quattro angoli del mondo si oppongono alla precarietà, ai diktat dei mercati finanziari, alla distruzione dell’ambiente, alle guerre e al militarismo, al degrado delle nostre condizioni di vita.

Alla competizione e all’egoismo rispondiamo con la solidarietà, la riflessione e l’azione collettiva. 

Le nostre differenze non sono più fonte di divisioni, ma la base della nostra complementarità e della nostra forza comune. Inascoltati e non rappresentati, noi, persone con storie diverse, ci riappropriamo insieme della parola e dello spazio pubblico: facciamo politica perchè è una cosa che riguarda tutti.

Oggi non è più il momento di indignarsi soli nel proprio angolino, ma è il momento di agire tutti insieme. 

Noi, il 99%, abbiamo la capacità di agire e respingere definitivamente l’1% e il loro mondo dalle nostre città, dai nostri luoghi di lavoro, dalle nostre vite.

Il 7 e 8 maggio, convergiamo a Parigi a place de la République !

Il 15 Maggio solleviamoci insieme: #NuitDebout ovunque, #GlobalDebout !

tratto da:

Il calcio fa fallire il Tav

di Leonardo Vilei

Prossima fermata, nessuna. Dal 30 giugno l’alta velocità Parigi-Barcellona, inaugurata nel 2013, potrebbe essere sospesa. Sarebbe il fallimento di uno dei principali corridoi europei dei treni veloci e le cause faranno esclamare un sonoro «lo sapevo» ai no Tav: pochi passeggeri, prezzi dei biglietti altissimi, tratti intermedi mai finiti su cui si viaggia a 80 all’ora.

La linea è stata costruita dai francesi di Eiffage e dagli spagnoli ACS, alias Florentino Pérez, alias il Real Madrid, alias come gestire tutte le opere pubbliche e comprare Ronaldo. L’opera, da 1,2 miliardi di euro, si era gonfiata secondo prassi di altri 400 milioni, ma il problema è che quel treno non lo prende nessuno, perché costa 200 euro a tratta e ci mette sei ore. I tapini costruttori, che hanno anche in gestione la linea, hanno fatto causa ai governi per mancanza di traffico e l’hanno persa di fronte a un giudice svizzero. Hollande, che ha già abbastanza problemi, non gli risponde neanche al telefono, e allora Mr. Real Madrid chiede 500 milioni al governo di Rajoy, abituato, come pure Zapatero, a salvare con i soldi pubblici tutte le infrastrutture faraoniche e fallimentari. Con le elezioni in vista, non avrà neanche un centesimo e la linea chiuderà. Poi chissà, bisogna pur vincerla la Champions

La Commissione europea interrogata dall’opposizione al Progetto Torino-Lione – Mise à jour: La Commission européenne interpellée par l’opposition au Projet Lyon-Turin

27 aprile 2016 – Un’azione di lobby popolare No TAV a Bruxelles : Fermare il progetto Torino-Lione e’ auspicabile, possibile e conveniente per tutti i cittadini europei

Un’azione di lobby popolare No TAV

Le opposizioni alla Torino-Lione hanno incontrato la Commissione Europea

L’obiettivo della riunione del 27 aprile 2016  (9.35-11.20) – che si è tenuta in una sala del Parlamento europeo a Bruxelles – era quello di interrogare la Commissione europea, attraverso il Direttore di DG MOVE.B Olivier Onidi, e trasmettere il convincimento che “fermare il progetto Torino-Lione è auspicabile, possibile e conveniente per i cittadini italiani e francesi, ma anche per tutti gli altri cittadini europei”.

E’ stata certamente un’azione di lobby popolare trasparente (ben riuscita) e con un carattere assolutamente innovativo: erano presenti, accanto ai MEPs, rappresentanti dell’opposizione No TAV italo francese che hanno posto, insieme ai MEPs, molte e incalzanti domande ai funzionari della Commissione europea.

Solo i funzionari della Commissione Olivier Onidi e Herald Ruijters hanno risposto, mentre Günther Ettl – fedele assistente e ghost writer di Laurens Jan Brinkhorst – si è limitato ad ascoltare e prendere appunti ed è uscito dalla sala alla fine dei lavori senza salutare.

Olivier Onidi e Herald Ruijters – non essendo in grado di rispondere in modo esaustivo a tutte le domande – hanno dichiarato che invieranno le risposte della Commissione Europea per iscritto ai MEPs e agli oppositori alla Torino-Lione presenti.

QUI le domande:

– Mancata consultazione della popolazione :  7 domande

– Aspetti economici :  24 domande

Le risposte della Commissione saranno pubblicate qui: http://www.presidioeuropa.net/blog/?p=8944

BREAKING! TTIP leaks: Greenpeace Olanda rivela i testi segreti del TTIP

ma quale ttip, la minaccia globale è Salvini e gli euroscettici….
 
News – 2 maggio, 2016
 
Avevamo ragione: confermati rischi per clima, ambiente e sicurezza dei consumatori
 
I cittadini hanno diritto di sapere: Greenpeace Olanda pubblica oggi su www.ttip-leaks.org parte dei testi negoziali del TTIP per garantire la necessaria trasparenza e promuovere un dibattito informato su un trattato che interessa quasi un miliardo di persone, nell’Unione Europea e negli USA. È la prima volta che i cittadini europei possono confrontare le posizioni negoziali dell’UE e degli USA.
Questi documenti svelano che noi e la società civile avevamo ragione a essere preoccupati: con questi negoziati segreti rischiamo di perdere i progressi acquisiti con grandi sacrifici nella tutela ambientale e nella salute pubblica!
 
Dal punto di vista della protezione dell’ambiente e dei consumatori, quattro gli aspetti seriamente preoccupanti:
  • Tutele ambientali acquisite da tempo sembra siano sparite
Nessuno dei capitoli che abbiamo visto fa alcun riferimento alla regola delle Eccezioni Generali (General Exceptions). Questa regola, stabilita quasi 70 anni fa, compresa negli accordi GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) della World Trade Organisation (WTO – in italiano anche Organizzazione Mondiale per il Commercio, OMC) permette agli stati di regolare il commercio “per proteggere la vita o la salute umana, animale o delle piante” o per “la conservazione delle risorse naturali esauribili”. L’omissione di questa regola suggerisce che entrambe le parti stiano creando un regime che antepone il profitto alla vita e alla salute umana, degli animali e delle piante.
  • La protezione del clima sarà più difficile con il TTIP
Gli Accordi sul Clima di Parigi chiariscono un punto: dobbiamo mantenere l’aumento delle temperature sotto 1,5 gradi centigradi per evitare una crisi climatica che colpirà milioni di persone in tutto il mondo. Il commercio non dovrebbe essere escluso dalle azioni sul clima. Ma non c’è alcun riferimento alla protezione del clima nei testi ottenuti.
  • La fine del principio di precauzione
Il principio di precauzione, inglobato nel Trattato UEnon è menzionato nei capitoli sulla “Cooperazione Regolatoria”, né in nessuno degli altri 12 capitoli ottenuti. D’altra parte, la richiesta USA per un approccio “basato sui rischi” che si propone di gestire le sostanze pericolose piuttosto che evitarle, è evidente in vari capitoli. Questo approccio mina le capacità del legislatore di definire misure preventive, per esempio rispetto a sostanze controverse come le sostanze chimiche note quali interferenti endocrine (c.d. hormone disruptors).
  • Porte aperte all’ingerenza dell’industria e delle multinazionali
Mentre le proposte contenute nei documenti pubblicati minacciano la protezione dell’ambiente e dei consumatori, il grande business ha quello che vuole. Le grandi aziende ottengono garanzie sulla possibilità di partecipare ai processi decisionali, fin dalle prime fasi.
 
I documenti mostrano chiaramente che mentre la società civile ha avuto ben poco accesso ai negoziati, l’industria ha avuto invece una voce privilegiata su decisioni importanti.
 
Il rapporto pubblico reso noto di recente dall’UE ha solo un piccolo riferimento al contributo delle imprese, mentre i documenti citano ripetutamente il bisogno di ulteriori consultazioni con le aziende e menzionano in modo esplicito come siano stati raccolti i pareri delle medesime.
 
I documenti pubblicati da Greenpeace Olanda constano di 248 pagine in un linguaggio legale tecnicamente complesso: 13 capitoli di “testo consolidato” del TTIP più una nota interna dell’UE sullo stato del negoziato (Tactical State of Play of TTIP Negotiations – March 2016). Greenpeace Olanda ha lavorato assieme al rinomato network di ricerca tedesco di NDR, WDR and Süddeutscher Zeitung. Fino ad ora i rappresentanti eletti avevano potuto vedere parte di questi documenti in stanze di sicurezza, con guardie, senza consulenti esperti e senza poterne discutere con nessuno. Con questa pubblicazione, milioni di cittadini hanno la possibilità di verificare l’operato dei propri governi e discuterne con i loro rappresentanti.
 
Chi ha cura delle questioni ambientali, del benessere degli animali, dei diritti dei lavoratori o della privacy su internet dovrebbe essere preoccupato per quel che c’è in questi documenti. Il TTIP, si svela per ciò che davvero è: un grande trasferimento di poteri democratici dai cittadini al grande business.
 
Per fermare il TTIP, tutelare i diritti e i beni comuni e costruire un altro modello sociale ed economico, equo e democratico, ti aspettiamo sabato 7 maggio 2016 a Roma per un grande appuntamento nazionale!
 
ENTRA IN AZIONE CON NOI: FIRMA E CHIEDI DI BLOCCARE IL TTIP!

PERSINO LONDRA È CONTRO IL TTIP. E NOI INVECE, OBBEDIAMO.

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aprile 27 2016
 
La buona notizia: subito dopo la visita di Obama che ha ordinato di non uscire dall’Europa, il numero degli inglesi che voteranno il Brexit è diventato maggioranza. E’ la prima volta, secondo i sondaggi. Ma non è tutto ‘merito’ del mezzo-kenyota (come l’ha chiamato il sindaco della capitale Boris Johnson). E’ che è ora pubblico il rapporto della London School  of Economics sugli effetti del TTIP, il trattato transatlantico. Lo studio l’aveva commissionato Cameron, sperando di trovarvi argomenti per la sua propaganda atlantista. Dopo averlo  letto, l’ha secretato. E’ stato costretto  a  rilasciarlo  in base al Freedom Of Information Act (un tipo di legge sulla libertà d’informazione che in Italia non esiste) su istanza giudiziaria di  Global Justice Now, un gruppo di cittadini attivi.
 
La London School (LSE) è una storica università  imperiale, una delle centrali dell’ortodossia liberale, ovviamente pro-governativa,  mica un sito alternativo. Ebbene: la sua valutazione del TTIP è devastante. Per il Regno Unito, dice chiaro, l’introduzione del Trattato transatlantico “configura moltissimi rischi e quasi nessun beneficio”.
 
L’istituto – che è una voce autorevolissima –  punta il dito specificamente sulle camere arbitrali,  i tribunali (privati e segreti) istituiti dal Trattato, davanti a cui le multinazionali possono trascinare gli Stati, protestando che certe leggi ostacolano il suo business, e quindi la libera concorrenza. Fra gli esempi, il LSE ne ricorda alcuni: l’Australia querelata dalla Philip Morris per aver imposto per legge pacchetti anonimi; la Philip Morris che denuncia l’Uruguay per aver questo stato messo un annuncio del tipo “Il fumo danneggia la salute” sui pacchetti.
 
Esempi più sinistri ancora: l’Argentina denunciata e condannata per avere bloccato i prezzi  delle bollette elettriche,  a protezione dei cittadini consumatori, durante il tragico collasso economico.  La Veolia, la multinazionale francese che gestisce i servizi di acqua, energia e nettezza pubblica, la quale ha avuto lo stomaco di denunciare l’Egitto per aver introdotto il salario minimo, cosa che secondo la ditta la danneggia.
 
Non potrebbe essere più chiaro: non è capitalismo, è il ritorno alla legge della jungla.
 
Il Regno Unito, che nonostante il suo liberismo mantiene una legislazione sociale robusta, si troverebbe in modo permanente sul banco degli accusati, soggetto a multe e punizioni e obbligato a cambiare punti essenziali del diritto. “C’è motivo – dice il LSE – di aspettarsi che il trattato UE-USA imporrà costi significativi al governo. Basandoci sull’esperienza del Canada nel NAFTA [il trattato pan-americano gemello del TTIP], ci dobbiamo attendere che le clausole di “protezione dell’investitore” [del TTIP]  saranno regolarmente invocate da investitori USA per atti del governo  del Regno che di norma non sono contestabili secondo il diritto nazionale”.  Per cui, continua l’Istituto con tipico understatement, “si ha poco motivo di ritenere che [il Trattato] darà al Regno Unito benefici di qualche significato.  Si ha scarso motivo di credere che darà al Regno Unito benefici politici significativi”
 
Chi vuole leggere l’intero studio, lo trova qui:
 
 
Né vantaggi economici, né politici. A questo punto bisogna chiedersi perché i “nostri” governanti  europei, quelli che in qualche modo abbiamo eletto a rappresentarci, stiano ancora operando sottobanco – in combutta con Bruxelles – per ingabbiarci nel TTIP. Qui evidentemente obbediscono ad ordini che superano persino il livello del  presidente USA,  quello che può essere sbeffeggiato mezzo-kenyota;  un ridicolo personaggio che fra pochi mesi non conterà più nulla  (in Italia, laudatissimo  fino alla fine  dal Partito Radicale, il più americano dei gruupuscoli).
 
Ha detto alla Merkel che accogliendo milioni di profughi “è nella parte giusta della storia” un tizio, pateticamente fallito, che fra un anno sarà nella discarica della storia.  Non è certo lui ad avere la forza propria per ordinare agli europei quel che ha ordinato: accelerare l’approvazione del TTIP, continuare le sanzioni contro la Russia, dare più soldi alla NATO impegnata in rotta  bellica contro Mosca.
 
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Obama e i suoi successi
Eppure la Merkel , Hollande, Renzi hanno accettato tutti i diktat senza  un’obiezione (solo Hollande, incredibile, ha piagnucolato che è difficile far passare il TTIP senza revisioni:  dato  lo stato di rivolta dei francesi, è comprensibile).  La Merkel soprattutto:  in calo  elettorale, col disastro della “accoglienza”   che ha mostrato la stupidità della sua leadership,  e destabilizzao   la UE; con la maggioranza dei tedeschi che vogliono la fine delle sanzioni anti-russe secondo tutti i sondaggi; con la sorella Austria che alza le barriere per non essere invasa, e dà  una simbolica maggioranza al partito “xenofobo”  –  non ha certamente alcun vantaggio, né economico né politico, da riscuotere  per il suo servilismo. Lei, da sempre ossessionata dai sondaggi, fa’ harakiri politico  pur di obbedire alla Forza Oscura che dirige i destini poltici d’Europa.
 
Nelle settimane scorse, la Commissione europea ha continuato l’inglobamento di fatto dell’Ucraina –  sta abolendo i visti – all’indomani del referendum dove il 64% degli olandesi ha detto NO.  “La gente vota per qualunque cosa, ma di rado sul tema del referendum”,  ha schernito quel risultato Martin Schulz, il presidente del palamento europeo:  Schulz ha  il fiato pesante di totalitarismo, si sente troppo  che  sta obbedendo alla Forza.  Sui paesi che hanno elevato controlli per non essere invasi dagli immigrati,   lo stesso personaggio ha parlato con spregio di “ricchi che abitano da qualche parte e chiudono la porta”, di “egoisti, di nazionalismo che non è che un egoismo allargato”. Ora, chiamare “ricchi” gli ungheresi, è veramente odioso. E ciascuno è in grado di notare come Schulz usi gli stessi argomenti e lo stesso disprezzo del primo Papa la cui elezione è  stata salutata con trionfo dalla Massoneria.
 
Ad Hannover, investita da una colossale manifestazione anti TTIP, la Merkel s’è accordata con Obama di approvare e far approvare dagli europei il TTIP entro l’anno.  Bruxelles ha di nuovo aperto alle sementi e ai pesticidi Monsanto.  Nessuna protesta dei “nostri governanti”  contro il fatto che gli Stati Uniti, in Siria, hanno violato il cessate-il-fuoco e stanno fornendo armamento eccezionalmente pericoloso per l’aviazione russa:  come ha rivelato la rivista Janes’s, inglese, un’autorità nel suo genere e non certo anti-occidentale.
 
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A quale Forza obbediscono? Non si può qui evocare che il celebre detto del banchiere James Warburg (1896-1969), membro del Council on Foreign Relations  al Senato americano: “Avremo un governo mondiale, che vi piaccia o no. La sola questione che si pone è di sapere se questo governo mondiale sarà stabilito col consenso o con la forza ”
 
Ma la colpa finale non pesa sui “nostri” governanti. Pesa su di noi, passivi incapaci di difendere i principii della libertà e della dignità. Il totalitarismo del 21mo secolo ci è sopra,  e noi “vigiliamo” sì, ma contro il Nazismo, il “fascismo”, l’autoritarismo, la “xenofobia”….. Come ci ha prescritto il loro Mattarella.  E Schulz, e El Papa.
 
Forse si salveranno gli inglesi. E forse, anche noi.
 

L’INPS dice che la classe dell’80 andrà in pensione a 75 anni: vista la speranza di vita media italiana a circa 82 anni a costoro si pagheranno solo 7 anni di pensione.

 Boeri, questo si chiama furto!

http://scenarieconomici.it/linps-dice-che-la-classe-dell80-andra-in-pensione-a-75-anni-vista-la-speranza-di-vita-media-italiana-a-circa-82-anni-a-costoro-si-pagheranno-solo-7-anni-di-pensione-boeri-questo-s/

I periodi che stiamo vivendo sono contraddistinti da una mancanza di vergogna generalizzata da parte del corpo dirigente dello Stato. Un po’ come diceva Davigo la scorsa settimana… Non per il fatto della mera corruzione, dei furti, de’ delitti e delle pene, no, ma per l’assoluta assenza di vergogna nel prendere in giro gli italiani, vedremo dopo la declinazione suggerita.

Prendiamo l’esempio di Tito Boeri: il presidente INPS ha affermato pubblicamente, a causa dello squilibrio delle pensioni, che la classe dell’ottanta andrà in pensione a 75 anni. Vediamo un po’, 75 anni sono tanti, subito ho avuto questa impressione. Ma la realtà ci dice ancora di più ossia che in base alla speranza di vita media tra maschi e femmine dell’ISTAT pubblicata in questi giorni, tale età media si attesta a tra 82 ed 83 anni per la generalità della popolazione, conto della serva. Ossia una persona vivrà mediamente 82 e rotti anni senza distinzione di sesso e di titolo di studio, elemento tragico che approfondiremo dopo. Dunque mediamente Boeri ci sta dicendo che verranno pagate pensioni dallo Stato a questa gente SOLO dell’80 per circa 7 anni! Facendo un rapido calcolo e parlando esclusivamente in termini reali in termini di versato, una persona che abbia percepito mediamente 30-33’000 euro lordi annui durante la sua vita lavorativa fatta (che corrisponde a circa 2’000 euro netti mensili per capirci) in 45 anni di lavoro avrà pagato contributi circa da 440 a 490 mila euro. Considerando che costoro potranno percepire non più di circa 25’000 lordi annui di pensione la proposta del presidente INPS significa che, malcontati, i soggetti dell’ottanta citati da Boeri dopo aver versato tale enorme mole di contributi percepiranno poco più di un terzo di quanto versato. E, notasi bene, tutto questo accadrà ricordando che il Governo oltre a ritardare costantemente la data di percezione della pensione sta anche cercando di eliminare e comunque ridurre la reversibilità ai superstiti, oltre al danno di una vita relativamente breve ed una pensione che arriverà tardissimo c’è anche la beffa per i superstiti.

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Lascio perdere che ad andare a vedere le varie classi sociali, quelli che saranno più svantaggiati dalle pensioni nella vsita di Boeri saranno come al solito i più deboli, gli illetterati: caro Boeri il vizio non si perde, chi è di sinistra si accanisce maggiormente con i propri sodali! Infatti l’ISTAT ci dice che isenza titoli scolastici hanno una vita media di circa 77 anni per gli uomini: ossia costoro percepiranno se nati nell’ottanta SOLO due anni di pensione! E tutto questo senza dimenticare che la speranza di vita rischia di scendere in futuro anche a causa dei tagli alla sanità (io i miei genitori non li farò mai andare nei reparti di geriatria se non con una scorta medico-militare, temo che l’affare ormai sia liquidarli, rammento il caso dell’infermiera di Piombino incarcerata e poi rilasciata la quale ha affermato che era stata lei stessa ad aver denunciato morti sospette*…).

Caro Boeri, questo a casa questo mia si chiama furto! Sinceramente sono arrivato a pensare che il piano sia di fregare i vecchietti tanto essendo deboli non faranno la rivoluzione; ma, parallelamente, bisogna evitare di fare troppo baccano affinchè i “benedetti” delle prestazioni attuali di fatto non versate come contributi dalla nostra “casta” continuino a prendere emolumenti spesso non dovuti il più a lungo possibile….

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Ed ora le soluzioni proposte. Semplicemente, bisogna tagliare le pensioni per chi non ha versato i contributi in base a quanto percepisce, facendo il calcolo con il contributivo. Ma, ad uso di Boeri, voglio fare una raccomandazione: bisognerà tagliare le pensioni senza rendere indigenti le classi più basse. Ciò significa semplicemente che per tutte le pensioni superiori per la quota eccedente a 1800/2000 euro bisognerà comprovare se i contributi sono stati effettivamente versati usando come metro il contributivo. Ossia, sotto i 1800/2000 euro lordi non ci saranno modifiche, sopra ci sarà un taglio tanto maggiore quanto più ricchi sono i trattamenti (eh si Boeri, lo so, per la casta è una mazzata…).

E qui non posso non collegarmi a quanto affermato da Piercamillo Davigo, che per inciso rispetto come persona: il giudice milanese ci dice che i politici non hanno smesso di vergognarsi. Tali affermazioni possono avere un fondamento, ma la realtà è che Davigo dimentica assolutamente di dirci che nel mondo competitivo e basato sui risultati che tutti sembrano auspicare la vergogna non dipende solo dalla corruzione dei politici ma anche e soprattutto considerando quanto il sistema remuneri soprattutto i dipendenti dello Stato per il lavoro compiuto in relazione ai risultati ottenuti. E non parlo solo dei politici romani, quelli in proporzione sono pochi. Purtroppo anche i giudici possono essere coinvolti nello scandalo: parlo delle pensioni medie erogate alla magistratura che superano abbondantemente i 120’000 euro lordi su 13 mensilità (la magistratura è l’apparato statale che percepisce di più), poi i notai in seconda posizione a circa 75 mila anni e via dicendo (al 2013, base dati INPS)**.

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Tornando alla proposta, ca va sans dire che quanto sopra suggerito andrebbe applicato prima di tutto a partire dalle pensioni alte! E sempre rammentando che i magistrati oggi se sbagliano creando un danno  non pagano – ritengo ingiustamente, ndr – ossia non rifondono i danni causati; non smetto di rammentare il caso del giudice corrotto della procura Diego Curtò, collega di Davigo a Milano, che dietro tangente affossò nella fase finale l’impero di Gardini ovvero il più grande gruppo privato italiano di fatto senza rifondere gli enormi danni causati, ed anzi andando in carcere ma in cella singola e TV a colori come ebbe a scrivere la stampa del tempo… Chiedo a Davigo quanti posti di lavoro ha fatto perdere il Curtò con la sua mazzetta, sua e di sua moglie che ironia della sorte si chiamava Antonia Di Pietro… E non smetto di pensare all’articolo di ieri de La Stampa, leggasi quanto costa allo Stato mettere in cella persone innocenti a partire dagli anni ‘90***, con danni non solo economici da rifondere alle vittime: perché in un mondo basato sul merito ed i risultati i responsabili di tali errori non pagano di tasca propria?

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Caro Davigo, caro Boeri, il vero problema dei nostri tempi è l’ipocrisia interessata, non la vergogna. Invece di parlare di massimi sistemi anche giusti cominciamo a restituire, a partire dalla casta statale, quanto non dovuto o a rifondere i danni causati, ad esempio le pensioni corrisposte a soggetti statali senza che i contributi siano stati versati in misura intera (o quasi) rispetto al percepito. E questo DEVE accadere oggi, visto che i nostri genitori magari dell’80 sono destinati a fare la fame….

Jetlag per Mitt Dolcino

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http://video.repubblica.it/edizione/firenze/l-infermiera-di-piombino-avevo-denunciato-due-delle-morti/234944/234626

** http://scenarieconomici.it/la-classifica-monca-delle-pensoni-pagate-dallo-stato-pubblicata-dal-fatto-quotidiano-indovina-chi-manca/

*** http://www.lastampa.it/2016/04/24/italia/politica/ogni-anno-in-italia-mila-persone-arrestate-e-poi-giudicate-innocenti-ox7juyQHJGetMA6aNRp65L/pagina.html