TTIP e TPP contro integrazione eurasiatica

di Boris Volkhovonskij – 03/05/2016
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Fonte: Aurora sito
 
Se i rapporti ufficiali vanno creduti, l’ultima visita del presidente degli Stati Uniti Barack Obama in Europa ha riguardato tutto tranne ciò che in realtà era al centro delle discussioni, il partenariato transatlantico di scambio ed investimenti (TTIP). Per Obama, i cui successi in politica estera appaiono patetici anche rispetto a quelli del predecessore George W. Bush, è di vitale importanza finire la presidenza col botto, soprattutto perché, per sua stessa ammissione, le prospettive sul futuro del TTIP saranno estremamente incerte, una volta che la Casa bianca passerà di mano. 
 
E non solo nel caso in cui Donald Trump, apertamente critico delle ambizioni globali dell’attuale élite statunitense, possa diventare presidente. Ci saranno problemi anche con Hillary Clinton presidente, pur, come Obama, rappresentando gli interessi delle multinazionali ed essere grande sostenitrice dell’idea del dominio globale degli Stati Uniti. La campagna elettorale negli Stati Uniti ha già dimostrato che l’elettorato è disposto a mettere gli interessi nazionali degli Stati Uniti al di sopra delle ambizioni imperiali delle élite e delle grandi corporazioni. Trump non è l’unico ad aver espresso tale tendenza, c’è anche Bernie Sanders e, in una certa misura, il numero due nella corsa repubblicana, Ted Cruz. Anche se vincesse, Hillary Clinton sarà costretta a prendere tale punto di vista in considerazione, in particolare se ne guadagnerà i sostenitori nel tempo.
 
 I capi europei (con l’eccezione della cancelliera tedesca Angela Merkel e del primo ministro inglese David Cameron, forse) non sono molto entusiasti alla prospettiva che i loro Paesi divengano appendici coloniali dei monopoli degli Stati Uniti, tanto più che nella maggior parte dei Paesi europei vi saranno presto le elezioni. Quindi, se Obama riesce effettivamente a concludere il TTIP, potrà sentirsi un vincitore. 
 
Insieme al partenariato (Trans-Pacifico TPP ) firmato tra Stati Uniti e 11 Paesi della regione Asia-Pacifico nell’ottobre 2015, il presidente degli Stati Uniti uscente potrà prendersi il merito della creazione di un enorme e potente sistema USA-centrico avvolgente l’Eurasia da occidente ad Oriente subordinando numerose economie nazionali, sviluppate o in via di sviluppo, al capitale statunitense (o meglio multinazionale), al fine di strangolare o poi subordinare i Paesi esclusi da TTIP e TPP, in primo luogo Cina, Russia, India e numerosi altri. Inoltre, i tentativi statunitensi di creare TPP e TTIP, volti a rompere l’equilibrio degli interessi in Eurasia, sono attuti contro il rafforzamento dei processi d’integrazione nell’Eurasia. La dichiarazione congiunta del Presidente russo Vladimir Putin e del Presidente cinese Xi Jinping nel maggio 2015, al 70° anniversario delle celebrazioni della Vittoria nella Seconda Guerra Mondiale, sull’integrazione dell’Unione eurasiatica economica (EEU) e della Cintura economica della Via della Seta, apre enormi possibilità di riunire le economie dei Paesi della Grande Eurasia. E il processo di adesione alla Shanghai Cooperation Organization (SCO) di India e Pakistan a membri a pieno titolo (con la possibilità dell’Iran di unirsi alla SCO nel prossimo futuro), iniziato nel luglio dello stesso anno, completa questi processi d’integrazione. Inoltre, le iniziative d’integrazione in Eurasia non si limitano a UEE, Cintura economica della Via della Seta e SCO.
 
In questo contesto, l’iniziativa eurasiatica della presidentessa sudcoreana Park Geun-hye, il programma ‘Nurly Zhol’del Kazakistan e il progetto Strada nella Steppa della Mongolia sono degni di nota. La differenza fondamentale tra questi progetti e i TTP e TTIP promossi e finanziati dagli Stati Uniti è la seguente. L’obiettivo principale di TPP e TTIP (oltre a subordinare le economie dei Paesi membri) è impedire la crescita economica dei principali Paesi eurasiatici, in primo luogo Cina e Russia, ed impedire l’integrazione della regione Asia-Pacifico e dell’Eurasia. Così le iniziative TPP e TTIP sono esclusive, escludendo deliberatamente i principali avversari politici ed economici degli Stati Uniti. Al contrario, UEE, Cintura economica Via della Seta, SCO e altri progetti e iniziative simili sono per definizione inclusivi. Non sono aperti solo alla partecipazione di tutti i Paesi della regione, ma sono semplicemente irrealizzabili se solo uno dei Paesi nella regione in cui sono attuati gli importanti progetti infrastrutturali, non può, per qualsiasi motivo, parteciparvi. E qui si ha il seguente quadro. Oltre a creare strutture sotto il completo dominio degli Stati Uniti (e che operano in tal modo allo scopo vano di preservare l’ordine mondiale unipolare), le forze che non hanno alcun interesse ai processi d’integrazione inclusiva in Eurasia tentano direttamente di silurarli. Se dovessimo confrontare la mappa dei punti caldi in Eurasia con quella degli itinerari proposti dalla Via della Seta, per esempio, vedremmo che la maggior parte dei focolai di crisi si trovano lungo queste rotte (insieme a quelle volte a sviluppare altri progetti d’integrazione), così come giunzioni e snodi. Ciò riguarda dispute territoriali (tra la Cina e i vicini nell’est e sud-est asiatico, per esempio, o tra India e Pakistan), i conflitti etnici (Myanmar, Nepal e provincia pakistana del Belucistan), guerre civili (Siria o Ucraina) e intervento militare diretto straniero (in Afghanistan e Iraq) che ha portato questi Paesi sull’orlo del collasso, la pirateria nello stretto di Malacca e nel Corno d’Africa, e molto altro. Difficilmente può considerarsi un caso che il conflitto nel Nagorno-Karabakh (senza dubbio orchestrata da forze esterne), ancora una volta scoppiasse proprio quando la situazione presso l’Iran (che fino a poco tempo prima era uno dei principali ostacoli all’integrazione eurasiatica) cominciava più o meno a normalizzarsi. Da ricordare anche gli enormi sforzi delle ONG straniere (soprattutto statunitensi) in Asia centrale, dove numerosi conflitti e potenziali conflitti sono latenti o attivi. E così si ha il quadro completo di come, oltre ad inghiottire l’Eurasia nei propri piani, gli Stati Uniti cercano d’indebolire l’unità del continente a favore del vecchio principio del ‘divide et impera’.
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La ripubblicazione è gradita in riferimento alla rivista on-line Strategic Culture Foundation.
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora

Usa: sciami sismici causati dal fracking

di Giacomo Gabellini – 03/05/2016
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Fonte: l’indro
Alcuni indizi geofisici emersi di recente hanno fatto salire le probabilità di apertura della faglia di Sant’Andrea, che scatenerebbe un sisma di proporzioni inaudite in grado di produrre danni enormi in tutta la California. La stessa tragica prospettiva va profilandosi anche per Stati federati collocati nel sud degli Usa, vale a dire Texas, Oklahoma e Kansas. A differenza della California, questi Stati  non si estendono, però, lungo una delle zone sismiche più attive del mondo, e non a caso sono stati colpiti solo da scosse di piccola intensità nel corso degli ultimi decenni.
A incrementare le possibilità di un terremoto devastante a nord del confine messicano non sono, infatti, determinate condizioni naturali, ma le fratturazioni idrauliche degli strati sottostanti alla superficie per estrarre petrolio e gas  non convenzionali, che hanno permesso agli Usa di accreditarsi a primo produttore mondiale di petrolio, garantendo 4 milioni di barili di petrolio addizionali al giorno. Tecniche estrattive come l’hydrofracking (meglio noto come fracking) e l’horizontal drilling prevedono l’infiltrazione ad alta pressione nel sottosuolo, e quindi nelle falde acquifere che lo attraversano, di notevoli quantità di sostanze  -si parla di oltre 200 litri di una miscela contenente circa 600 agenti chimici per ciascun pozzo- che, oltre a produrre un inquinamento al di fuori di ogni controllo, sono alla base dei fenomeni sismici che hanno colpito le aree interessate dalle fratturazioni idrauliche degli scisti. Lo ha riconosciuto in uno studio apposito l’autorevole Us Geological Survey (Usgs), individuando la causa dei sismi soprattutto nelle operazioni successive alla trivellazione. Sotto il profilo prettamente tecnico, non sarebbe la frantumazione delle rocce a indurre i terremoti, ma la re-iniettazione sotto terra della miscela chimica impiegata per far venire a galla gli idrocarburi, che comprometterebbe la stabilità del sottosuolo favorendo forti scosse di assestamento.
Le statistiche parlano chiaro: nei 35 anni che separano il 1973 dal 2008 l’area geografica comprendente Texas, Oklahoma e Kansas è stata colpita in media da 24 terremoti all’anno di intensità pari o superiore ai 3 gradi della scala Mercalli; dal 2009 al 2015, anni in cui si è verificato il boom del fracking, questa media è salita vertiginosamente a 318 fenomeni sismici, con un incremento spaventoso negli ultimi mesi  -si parla di oltre 1.000 terremoti nel solo 2015. Dal 1° gennaio al 1° marzo del 2016, sono stati registrati 226 terremoti; lo Stato più colpito è l’Oklahoma, dove si è passati dai 3 terremoti di media prima del 2008 ai 2.500 del 2015.
L’area geografica in questione è abitata da milioni di cittadini statunitensi, i quali si sono così trovati improvvisamente esposti al pericolo sismico che, secondo un altro studio realizzato, per la rivista scientifica ‘Science’, dalla sismologa Katie Keranen della Cornell University, tende ad estendersi anche a tre Stati limitrofi, vale a dire New Mexico, Colorado e Arkansas.
Lo studio della Keranen dimostra, inoltre, che all’aumento dei terremoti va sommata un’altra conseguenza diretta del fracking, ovvero il progressivo allargamento dell’area sismica, che può arrivare a molti km di distanza dagli impianti estrattivi a causa della diffusione a macchia d’olio delle acque reflue re-iniettate nel sottosuolo, le quali «creano una pressione che deve scaricarsi da qualche parte […] entrando talvolta in contato con le linee di faglia». L’analisi suggerisce, quindi, che anche le zone di faglia inattive possano essere indotte a muoversi dietro l’impulso delle attività connesse al fracking. Il che significa che l’intensità tutto sommato ridotta dei fenomeni sismici legati al fracking non implica l’inesistenza di un pericolo di grande portata, dal momento che i terremoti provocati dall’attività umana vanno a minare la stabilità di faglie con sciami di piccole scosse che, nel lungo periodo, possono indurre terremoti di grandi proporzioni.
E questo non vale solo per l’Oklahoma, sui cui impianti si è concentrata l’indagine della Keranen, ma per quasi tutte le aree perforate con queste nuove tecniche estrattive. L’agenzia federale Usa ha, infatti, verificato un forte aumento della sismicità in altre 21 aree geografiche  -concentrate soprattutto in Georgia e nello Stato di New York- dislocate esattamente nelle zone in cui sono stati impiegati i metodi previsti dal fracking.
 

Hillary Clinton, dea della guerra

ma no, è quella santa che salverà il mondo dal demone Trump, vero?
 
di Pepe Escobar – 03/05/2016
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Fonte: Gli occhi della guerra
In caso dovessero persistere dubbi sul fatto che, una volta eletta Presidente degli Stati Uniti, Hillary Clinton si comporterà, saggezza a parte, come una Minerva imbottita di steroidi, ecco la prova regina, tratta da una delle sue discussioni con Bernie Sanders prima della “Battaglia di New York”:
 
“Resterò nella NATO. Resterò nella NATO, e continueremo a cercare missioni e altri tipi di programmi da sostenere. Non dimentichiamo che la NATO era dalla nostra in Afghanistan. La maggior parte dei paesi che ne fanno parte ha anche perso soldati e civili in Afghanistan. La NATO è accorsa in nostra difesa dopo l’11 settembre. Questo significa molto. Vero, dobbiamo stabilire gli aspetti finanziari della cosa, ma teniamo a mente ciò che realmente accade. Ora che la Russia si fa più aggressiva, con azioni intimidatorie di ogni genere nei confronti dei paesi Baltici; abbiamo potuto assistere a ciò che ha fatto nell’Ucraina orientale e sappiamo che vuole cambiare la faccia dell’Europa. Questo non è nel nostro interesse. Dobbiamo pensare a quanto costerebbe se l’aggressione russa non fosse scoraggiata dal fatto che la NATO è lì, in prima linea, a dimostrare che la Russia non si può spingere oltre”.
 
Tracciando un abile collegamento tra l’11 settembre e “l’aggressione russa”, che presumibilmente sta cambiando la faccia dell’Europa, qui c’è tutto, incluse due delle cinque principali minacce all’esistenza degli Usa secondo il Pentagono: la prima (la Russia) e l’ultima (il terrorismo); le altre sono la Cina, la Corea del Nord e l’Iran (si noti che Hillary ha sempre accusato Teheran di “terrorismo”). “Continueremo a cercare missioni” dovrebbe essere decrittografato come “altre guerre” e implica, senza – mai – ammetterlo che la Libia e la Siria sono stati notevoli disastri nella politica estera degli USA.
In effetti, Hillary si spinge persino oltre, affermando di non aver finito con il Medio Oriente e di essere pronta a continuare la sua “missione” di imporre la democrazia con qualsiasi mezzo necessario, dai droni alla R2P (“responsibility to protect” [responsabilità di proteggere]). grazioso eufemismo per imperialismo umanitario.
È inutile che i cittadini europei manifestino choc e timore reverenziale; in fin dei conti, hanno a che fare con un falco della guerra che è arrivato ad ammettere, ufficialmente, per la prima volta durante la sua campagna presidenziale, di essere realmente un falco della guerra. Per quanto riguarda la “nazione indispensabile” (copyright del mentore di Hillary, Madeleine Albright), sarà come al solito un affare. come la ricerca di guerre senza fine.
Quindi, basta con l’immagine, coltivata con cura dai pr, di una gentile, innocua, vecchia nonnina: qui abbiamo piuttosto Hillary che apre l’argine al Kissinger che ha dentro di sé.
 
Sposata con la “linea dei ratti” *
 
Il consolato americano di Bengasi era essenzialmente la copertura di una linea clandestina usata dalla Cia per contrabbandare armi ai “ribelli moderati” che si battevano contro Damasco.
Seymour Hersh è stato tra coloro che lo hanno rivelato: “L’amministrazione di Obama non ha mai ammesso pubblicamente il proprio ruolo nella creazione di quella che la Cia chiama la “linea dei ratti“, un canale clandestino che portava dritto in Siria. La “linea dei ratti”, autorizzata agli inizi del 2012, era usata per convogliare armi e munizioni all’opposizione partendo dalla Libia e passando per la Turchia fino ad attraversare il confine con la Siria. Molti dei siriani che alla fine ricevevano le armi erano jihadisti, alcuni dei quali collegati ad al-Qaeda”.
Ora, immaginate il Segretario di Stato Hillary Clinton che agevola la spedizione di missili antiaerei terra/aria SA-7 e di granate a propulsione missilistica a dei jihadisti collegati ad al-Qaeda. È decisamente qualcosa che non si può volere nel proprio curriculum, soprattutto nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.
Hillary sta già combattendo una battaglia per la credibilità per quanto riguarda il  suo server sotterraneo di e-mail. Celate nella sua crociata personale per la privatizzazione di dati dal Dipartimento di Stato degli Usa, ci potrebbero essere almeno tre gravissime infrazioni:
Come se la suspense non bastasse, l’ex capo della Cia, Robert Gates, fonte credibile e in buona fede, ha messo in discussione, pubblicamente, il “buon senso” di Hillary e la sua mancanza di investigazione e approfondimento dei dati nel disastro della Libia, praticamente dichiarando che Hillary è una mina vagante.
Gates ha rivelato quello che nell’ambiente governativo è un segreto di Pulcinella: che Hillary era completamente concentrata su un cambiamento di regime in Libia: “Il Presidente mi ha detto che si è trattato di una delle decisioni più difficili che si sia mai trovato a prendere, una specie di 51 a 49, e sono certo che non avrebbe preso quella decisione se il Segretario di Stato Clinton non l’avesse sostenuta.”
Gates più tardi ha ricordato la domanda di Obama: “Posso portare a termine le due guerre in cui sono già coinvolto prima che voi ne andiate a cercare una terza?” Gates ha aggiunto che il colonnello Gheddafi “non rappresentava affatto una minaccia per noi. Rappresentava una minaccia per il suo popolo, tutto qui.”
Nemmeno essere il principale architetto di una Libia “liberata”, che si è trasformata in un covo di terrorismo aperto a tutti è una descrizione del proprio operato che si possa volere nel proprio CV nel mezzo di una feroce campagna presidenziale.
 
L’ammaliante uomo libico
 
Le affermazioni di Gates riguardano fatti in qualche modo già trapelati nel marzo 2011: il famoso incontro notturno a Parigi tra Hillary e il “ribelle” libico Mahmoud Jibril. Uomo decisamente ammaliante, istruito negli Usa, Jibril aveva messo nel sacco Hillary dicendo “tutte le cose giuste sul fatto di sostenere la democrazia e l’inclusività e di creare istituzioni libiche, alimentando una certa speranza sul fatto che saremmo stati in grado di farcela,” stando a Philip H. Gordon, uno degli aiutosegretari della Clinton. “Ci hanno detto quello che volevamo sentire. E si tende a voler credere.”
Ed ecco il punto conclusivo: si tratta di quello che un’amministrazione degli Usa “vuole credere”. Hillary ne era stata immediatamente convinta, senza minimamente far seguire la retorica a una stima , così come deve essere fatta secondo l’Abc dei servizi segreti americani. Questa versione, in quanto catalizzatore decisivo del cambiamento di regime in Libia, è più pertinente del fantasioso racconto francese sul fatto che il piccolo Napoleone Nicolas Sarkozy abbia preso il comando incitato da un patetico filosofo con l’immancabile camicia bianca aperta sul suo microscopico plesso solare.
Così la Libia è diventata la guerra di Hillary, proprio come quella dell’Iraq nel 2003 era stata la guerra del regime neo-conservatore di Cheney. Obama, come Presidente, incitato dal suo Segretario di Stato, si è addentrato in Libia senza un piano B, senza un piano di azioni da intraprendere successivamente, senza nessuna meta strategica di politica estera a lunga scadenza. Eppure nessuno in Europa si dovrebbe aspettare che la dea della guerra spieghi le proprie mete strategiche. che siano portate avanti con l’uso di droni, sovversione, sanzioni, bombardamenti con fini liberatori o R2P. Che siano in Libia, o facciano parte di tutte queste “missioni” una volta che lei diventerà Presidente.

La rivoluzione dei contadini siciliani, 3.000 ettari di grani antichi contro le multinazionali

Repubblica dovrebbe anche specificare che il TTIP, sul quale i pennivendoli ufficiali tacciono, spazzerebbe via tutto questo essendo le etichette e certificazioni Bio o Doc o Igp etc considerate ostacoli non tariffari
 
contadini
maggio 02 2016
 
Il ritorno della biodiversità in agricoltura, parte dalle spighe del frumento locale. Per migliorare l’ambiente, l’alimentazione e la salute.
 
TORNANO i grani antichi in Sicilia. Tornano a riempire i campi, ricostruiscono paesaggi, arricchiscono la biodiversità di un’agricoltura che da decenni ha ridotto a poche specie super selezionate il frumento dell’isola che fu uno dei granai dell’Impero romano. Ufficialmente sono solo 500 ettari, ma c’è chi parla di 3.000. I contadini che stanno passando al biologico e al recupero delle sementi locali crescono di anno in anno, si associano, mettono in piedi filiere alimentari e fanno cultura, oltre che coltura.
 
“Ho convertito 100 ettari dell’azienda familiare a grano locale” confessa Giuseppe Li Rosi, uno dei più convinti sostenitori del ritorno all’antico in agricoltura, “e sono il custode di tre varietà locali, Timilia, Maiorca e Strazzavisazz”. I custodi seminano queste rarità botaniche, dedicando almeno 10 ettari a ogni coltura, si impegnano nella ricerca storica e a mantenere la purezza del seme. Li Rosi, contadino da generazioni, è anche il presidente dell’associazione Simenza, cumpagnia siciliana sementi contadine, che mette insieme settanta produttori “ma altri cento sono pronti a entrare”, assicura Giuseppe. La sperimentazione, oltre alla conservazione, è all’ordine del giorno nella Cumpagnia: si coltivano campi anche con miscugli di sementi, un procedimento diametralmente opposto alla tecnica moderna, che ricerca l’uniformità, lo standard in nome della quantità.
 
Nei campi di Simenza, invece, variabilità e mescolanza innescano una selezione naturale che fortifica le spighe e che non ha bisogno della chimica, si adatta alle condizioni ambientali, alla composizione e all’esposizione del terreno. Serve solo un po’ di pazienza: il secondo e il quarto anno la produzione subisce incrementi significativi. Il risultato biologico è sorprendente: basta attendere solo qualche ciclo semina-raccolto-semina e alla fine ogni azienda avrà un mix diverso di grani che collaborano tra loro, naturalmente. Questa biodiversità è foriera di almeno due vantaggi: una miglior competitività contro le specie infestanti e un naturale adattamento al cambiamento delle condizioni climatiche. È il principio della selezione partecipata, promosso a livello nazionale dall’Aiab, associazione italiana per l’agricoltura biologica.
 
In Sicilia, il ritorno dei grani antichi sta trasformando anche il paesaggio. Sui Nebrodi, per esempio, il frumento era scomparso da tempo. Quest’anno 50 ettari di grano hanno riportato l’agricoltura in montagna. Un ritorno analogo si sta manifestando sulle Madonie e sui Peloritani. Non è un processo facile. Le leggi sulle sementi favoriscono le multinazionali del settore: un pugno di aziende controllano quasi il 60% dell’industria sementiera e non sembrano preoccuparsi di pochi nostalgici delle coltivazioni tradizionali. Inoltre il Tips, l’accordo commerciale internazionale, proibisce lo scambio di semi tra gli agricoltori, rendendo ardua la possibilità di conservare e tramandare quelli autoctoni. “Ci è concessa solo la modica quantità”, ammette Li Rosi.
 
Tuttavia, il movimento siciliano per liberare la produzione di cibo dalle leggi delle colture intensive e inquinanti è vasto. Le facoltà di Agraria sono gettonatissime e la ricerca avanza: a Caltagirone esiste una Stazione consorziale sperimentale di granicoltura che dipende dall’assessorato regionale all’agricoltura e che ha redatto un catalogo di oltre 250 varietà di grano e di 50 leguminose siciliane.
 
Anche la medicina non sta a guardare. Antonio Milici, neurologo e neuropsichiatra, reduce dal recente convegno “Grani antichi siciliani: ambiente e salute”, organizzato da Adas, l’associazione per la difesa dell’ambiente e della salute, punta l’attenzione sul legame tra malattie e alimentazione: “è strettissimo”, afferma. “Dalla celiachia alle intolleranze, dal diabete all’ipertensione, ai problemi cardiovascolari, il sistema immunitario è messo a dura prova dalle sostanze che il nostro corpo assume quotidianamente”. Com’è ormai noto ai più, tutto si lega: stile di vita, alimentazione, attività fisica, gestione delle emozioni. Non si tratta solo del fisico, perché si stanno studiando correlazioni che a prima vista potrebbero sembrare azzardate: “Alcune malattie della psiche possono avere come concausa un’alimentazione basata su cibi non sani o alterati dalla chimica”, afferma Milici.
 
Siamo quello che mangiamo: il ritorno dei grani antichi, allora, potrebbe influire notevolmente sul nostro benessere psico-fisico. E difendere l’ambiente e la salute come fossero due facce della stessa medaglia, è la risposta più appropriata per recuperare l’armonia perduta.
 
Fonte: Repubblica

Quelli che tirano i fili della crisi migratoria

ma no, è solo puro amore verso il prossimo, si tratta solo di questo, razzisti!
 
Mag 03, 2016
NED-Organization
NED Organization
 
Le biografie dei principali organizzatori della crisi migratoria: forti legami con l’amministrazione USA e loro anteriore volontà di abolire i confini.
di Thierry Meyssan.
Le biografie dei tre principali organizzatori della crisi migratoria e della risposta che le rivolge l’Unione europea attestano i loro legami con l’amministrazione statunitense e la loro anteriore volontà di abolire i confini. Per loro, la migrazione corrente non è un problema umanitario, bensì l’occasione per mettere in pratica le loro teorie.
 
Peter Sutherland, rappresentante speciale del Segretario generale dell’ONU sulle migrazioni internazionali
 
Irlandese, ex commissario europeo per la concorrenza, poi direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (1993-1995); ex direttore di BP (1997-2009), presidente di Goldman Sachs International (1995-2015); ex amministratore del Gruppo Bilderberg, presidente della sezione europea della Commissione Trilaterale, e Vice Presidente della Tavola rotonda europea degli industriali.
Se Sutherland non perde occasione per sottolineare il dovere morale di aiutare i profughi (cattolico tradizionale, è stato consigliere della IESE Business School dell’Opus Dei e, dal 2006, consulente dell’Amministrazione del Patrimonio Santa Sede) è soprattutto un turiferario che incensa le migrazioni internazionali.
 
Peter-Soulliwan
Peter Southerland
 
Durante un’audizione del 21 giugno 2012 da parte della Commissione degli Affari Interni della Camera dei Lord, ha dichiarato che tutti dovrebbero avere la possibilità di studiare e lavorare nel paese di loro scelta, cosa incompatibile con tutte le politiche di limitazione delle migrazioni; e che le migrazioni creano una dinamica cruciale per lo sviluppo economico, checché ne dicano i cittadini dei paesi d’accoglienza. Pertanto, ha concluso, l’Unione europea deve minare l’omogeneità delle sue nazioni [1].
Gerald Knaus, direttore fondatore della European Security Intitiative (ESI)
Sociologo austriaco. Ha lavorato dal 1993 al 2004 in Bulgaria, Bosnia-Erzegovina e in Kosovo – alla fine del mandato di Bernard Kouchner – prima per delle ONG, e poi per l’Unione Europea. Ha svolto attività di ricerca dal 2005 al 2011 presso il Carr Center for Human Rights Policy all’Università di Harvard, dopo di che ha pubblicato Can Intervention Work?. Ha fondato l’ESI nel 1999, in Bosnia-Erzegovina. L’Istituto ha ricevuto la sua prima borsa di studio dall’US Institute of Peace, l’istituzione sorella del NED, dipendente dal Pentagono.
 
Gerard-Knaus
Gerard Knaus
 
Poi Knaus è partito per Washington, dove è stato ricevuto esattamente dal National Endowment for Democracy (NED) e poi dalla Carnegie Foundation, nonché dall’American Enterprise Institute. Inoltre, è stato ricevuto da James O’Brien e James Dobbins presso il Dipartimento di Stato e da Leon Fuerth alla Casa Bianca. Ben presto, l’ESI è stato finanziato dal German Marshall Fund, dalla Mott Foundation, dall’Open Society Institute (George Soros), dalla Rockefeller Brothers Foundation, e dai governi olandese, irlandese, lussemburghese, norvegese, svedese e svizzero.
Nel 2004, ha pubblicato un rapporto volto ad assicurare che l’imputazione secondo cui 200.000 serbi sono stati espulsi dal Kosovo è una menzogna della propaganda russa. Nel 2005, ha lanciato la teoria secondo cui il partito turco AKP è una formazione “calvinista islamica” che cerca di creare una forma di “democrazia musulmana”.
Nella sua opera, Can Intervention Work? – che ha pubblicato con Rory Stewart, l’ex precettore dei principi William e Harry del Regno Unito, che aveva conosciuto in Kosovo e successivamente è diventato uno degli assistenti di Paul Bremer durante l’occupazione dell’Iraq, poi direttore del Carr Center for Human Rights Policy – saluta positivamente le guerre statunitensi e sviluppa una nuova concezione di colonizzazione. Secondo lui, l’«interventismo umanitario» è legittimo, ma può avere successo solo se si tiene conto delle realtà locali. Scrive così l’elogio di Richard Hoolbroke, che aveva conosciuto in Kosovo. Il suo libro sarà promosso da Samantha Power, che, come lui, è un ex collaboratrice di Hoolbroke, e aveva creato e diretto il Carr Center for Human Rights Policy, dove è stato ricercatore [2].
Diederik Samsom, deputato olandese, presidente del partito del Lavoro
Fisico nucleare, ex manager della campagna sul clima e l’energia di Greenpeace. Eletto deputato (con la proporzionale) dal 2003, è diventato presidente del suo gruppo parlamentare e poi presidente del suo partito. Tuttavia, non riesce a ottenere la presidenza del Parlamento né la carica di primo ministro. Si è rifiutato di entrare nel governo di coalizione che sostiene ed è restato presidente del suo gruppo all’Assemblea.
Avrebbe un QI di 136 e ha vinto due volte un concorso televisivo di test di intelligenza. Si dichiara ateo militante, è rigorosamente non-fumatore e vegetariano. Fu invitato assieme al primo ministro Mark Rutte, nel giugno 2014, al Gruppo Bilderberg dove entrambi poterono discutere con Peter Sutherland, ma non con Rory Stewart, che era stato invitato alla riunione del 2012.
 
Diederik-Samson
Diederik Samsom,
 
Secondo gli osservatori politici olandesi, è la principale vittima del referendum per il sostegno all’accordo europeo con l’Ucraina. Si era personalmente impegnato su questo tema e contro la Russia. La sua sconfitta si traduce, secondo i sondaggi, in un arretramento da metà a tre quarti dell’influenza del suo partito.
NOTE
[1] “EU should ‘undermine national homogeneity’ says UN migration chief”, Brian Wheeler, BBC, June 21st, 2012.
[2] “Il lato oscuro dell’amministrazione Obama”, di Thierry Meyssan, Rete Voltaire, 10 Novembre 2015.
Traduzione a cura di Matzu Yagi.

Il neoliberismo ci ruba anche il diritto alla salute

di Diego Fusaro – 03/05/2016
neoliberismo
Fonte: lettera43
 
«Salute, cala per la prima volta l’aspettativa di vita. Italia fra ultimi paesi in Ue in spesa per prevenzione»: così riferisce, in questi giorni di aprile, il quotidiano Repubblica.
I dati del “Rapporto Osserva Salute” del 2015 sul benessere e sulla qualità dell’assistenza medica nelle diverse Regioni italiane parlano chiaro.
E ci dicono che siamo gli ultimi negli investimenti per prevenire le malattie. Non solo: ci suggeriscono anche che oltre la metà degli italiani risulta essere in sovrappeso, e che aumentano gli astemi e calano lievemente i fumatori. Soprattutto, ci segnalano che si accentua il divario fra il Nord e il Sud nella speranza di vita.
SERVE UN’INDAGINE SULLE CAUSE. È bene che ciò si sappia, che la notizia circoli. Ma non è sufficiente. Un’analisi seria dovrebbe indagare anche sulle cause. Con la grammatica di Aristotele, all’esposizione del “che” (oti) occorre far seguire quella del “perché” (diòti): il vero conoscere è conoscere per cause.
Tutto il resto rimane chiacchiera di superficie, vuoto intrattenimento da salotto e “si dice” che decanta nel corso di due giorni al massimo.
Che dire, dunque, di questa notizia? Come commentarla? Quali cause individuare a fondamento di ciò?
In termini generalissimi, possiamo dire che è l’esito necessario dello scenario in cui, dopo il 1989, trionfano su tutto il giro d’orizzonte il dogma della competitività e il vangelo della concorrenza globale.
C’ERANO UNA VOLTA I DIRITTI INTOCCABILI. “Siate competitivi!”, ripetono i signori del mondialismo, i magnati della finanza e gli irresponsabili politici che, a destra come a sinistra, figurano ormai solo come i maggiordomi dell’economia finanziarizzata.
Quelli che un tempo, grazie a battaglie sociali e alla presenza della pur contraddittoria Unione Sovietica, erano diritti sociali intoccabili (scuola, sanità, maternità, ecc.), vengono ora spazzati via mediante “riforme” che tali sono solo per i dominanti. Vince il capitale, senza più limitazioni sociali, politiche e geopolitiche: trionfa quello che nei Quaderni del carcereGramsci già chiamava, senza perifrasi, «il liberalismo più o meno deificato» (p. 437).
IL VANGELO DELLA COMPETITIVITÀ ASSOLUTA. E di che vi stupite, dunque, voi che amate il libero mercato e la competitività? Tra le regole del vangelo della competitività assoluta, non v’è forse anche quella per cui, in perfetto stile darwiniano, deve sopravvivere il più adatto, cioè colui che dispone del contante? Non v’è forse anche la sacra legge che i “lacci e i lacciuoli” dello Stato debbono essere recisi e deve trionfare sempre e solo quella legge del mercato che può facilmente portare all’annientamento dei più deboli?
Continuate a fare le vostre tirate contro il comunismo, il fascismo, il castrismo, il leninismo: l’importante per voi è che non si parli mai dei vostri crimini.
Continuate a denunciare i totalitarismi passati, di modo che non emerga il carattere totalitario della vostra società di mercato: «L’epoca tende al totalitarismo anche dove non ha prodotto stati totalitari» (H. Marcuse, Eros e civiltà).

Le forze militari USA e NATO si avvicinano sempre di più alle frontiere della Russia ma Washington indica Mosca come “aggressore”

Mag 05, 2016
Elicotteri-USA-sul-Baltici
Forze NATO alla frontiera Russa
 
Il messaggio di Vladímir Putin era stato chiaro: “Vedete di mantenere i vostri aerei spia e le vostre navi da guerra ad una distanza rispettabile dalle nostre frontiere”.
Mai Putin avesse pronunciato questa raccomandazione si sono susseguite una serie di esercitazioni della NATO in prossimità delle frontiere russe e con una flotta NATO nel Mar Nero, pericolosamente vicina alle coste della Russia.
Ci sono stati molti momenti di tensione in particolare nella regione del Baltico e del Mar Nero. Il 13 Aprile scorso caccia Su-24 dell’Aviazione russa hanno creato uno spavento all’equipaggio di una nave da guerra statunitense mentre  realizzavano voli di routine vicinio alla città russa di Kalingrad.
Allo stesso modo il 29 di Aprile, due ufficiali del Pentagono hanno informato che un aereo militare russo Su-27 aveva effettuato una manovra pericolosa denominata “tonel” a distanza ravvicinata da un aereo di ricognizione USA nello spazio aereo internazionale sulla regione del Baltico.
La scorsa settimana il segretario alla Difesa USA, Robert Work, ha annunciato che 4.000 soldati della NATO, fra cui due battaglioni dell’US. Army,  verranno  schierati  in Polonia e negli Stati baltici, giusto in prossimità della frontiera russa. Lo stesso Work ha affermato che la Russia sta attuando manovre nelle vicinanze della sua frontiera e tali manovre devono intendersi come un “comportamento straordinariamente provocatorio“.
Allo stesso modo anche la Germania ha dichiarato che invierà un battaglione di soldati tedeschi a rinforzo , in Lituania, paese baltico in prossimità della frontiera russa.
Questa dichiarazione non ha segnato molto entusiasmo nei cittadini tedeschi, visto che un sondaggio ha fatto emergere la contrarietà della maggoranza dei tedeschi a che la Germania vada a posizionare di nuovo delle sue truppe in prossimità dei confini russi, dopo 74 anni dall’invasione tedesca della Russia e dall’esito disastroso di quella guerra. La Storia ha fornito un insegnamento al popolo tedesco che è rimasto nella coscienza dei figli e nipoti di coloro che combatterono sul fronte russo nel 1945.
Rimane quindi da stabilire quale sia realmente il “comportamento provocatorio” , se quello di chi opera all’interno delle proprie frontiere o se non piuttosto di quelle forze militari che, a migliaia di Km dalle loro basi, vanno a posizionarsi ed a svolgere manovre in prossimità del “cortile di casa” delle frontiere russe.
 
Questa è la domanda che si è posto anche il giornalista e commentatore Patrick J. Buchanan in un suo artícolo per il giornale “The American Conservative”, in cui ha cercato di spiegare le ragioni per cui si vedono come “provocazioni” le azioni russe nell’area vicina alle proprie frontiere.
L’autore dell’articolo conclude che le attività degli Stati Uniti nelle vicinanze della frontiera russa si devono all’intenzione di Washington di stabilire un mondo unipolare e la propria egemonia globale “benevola“, il vero motivo per cui le accuse alla Russia sembrano prive di giustificazione.
Si trattta in definitiva di una strategia della provocazione continua che gli USA stanno attuando, cercando di far scoprire le carte alla Russia dei suoi apparati di difesa ed un modo di esercitare una pressione costante come una forma di “dissuasione” o di intimidazione.
In realtà, a queste manovre scoperte, si accompagna una strategia occulta da parte della CIA di sviluppare azioni di sobillazione interna nel territorio russo ed in particolare nella zona del Caucaso, quella maggiormente popolata dalla minoranza islamica che in Russia ascende a circa 23 milioni di persone.
L’obiettivo di Washington è quello di fomentare scontento e rivolte contro il Governo centrale da parte  della popolazione mussulmana russa, utilizzando i gruppi sunniti integralisti turcomanni, che potrebbero creare qualche problema interno nella zona del Caucaso.  Assistiamo alla medesima strategia utilizzata dagli USA in Medio Oriente per destabilizzare alcuni paesi arabi e che punta adesso contro l’obiettivo più grande: la Federazione Russa.
Chi sta soffiando sul fuoco, per conto degli americani, ancora una volta è il turco Erdogan che sta provvedendo a far addestrare e finanziare dei gruppi turcomanni in Ucraina e si è incontrato più di una volta con i responsabili delle organizzazioni turcomanne ubicate in Ucraina per stringere accordi segreti.Vedi: La Turchia addestra mercenari da infiltrare in Crimea
Gli incontri sono stati fotografati e registrati dai servizi di intelligence russi che, quando sarà utile, renderanno pubbliche tutte le prove del coinvolgimento di Erdogan, come già accaduto per le complicità accertate della Turchia con l’ISIS.
Tuttavia le mosse di queste cellule islamiste turcomanne sono attentamente seguite dal servizio di intelligence russo ed è facile prevedere che, al momento opportuno, questi gruppi saranno annientati prima che possano creare seri problemi. I russi non sono ingenui ed hanno già provveduto a mettere fuori del paese tutte le finte ONG create appositamente da George Soros e da altri finanziatori anglosassoni per attività di sobillazione nel paese.
L’esperienza della Cecenia e della repressione del terrorismo in quella regione, fa testo ed è esperienza acquisita dei capi militari russi che intendono farsi prendere alla sprovvista dalla strategia del caos utilizzata dagli Washington per i propri fini di egemonia.
di Luciano Lago
 

Italiani, siete disposti a morire per Erdogan? Ve lo chiede la Nato…

Da Mag 02, 2016
erdogan-turchia-isis
Erdogan il neo sultano
 
di Marcello Foa
So che il titolo di questo post apparirà ad alcuni paradossale ma in realtà non lo è. La Turchia è membro della Nato e l’articolo 5 del Patto Atlantico prevede solidarietà e assistenza militare tra i suoi membri, secondo questi termini:
“Le parti concordano che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato come un attacco contro tutte e di conseguenza concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse, in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti attaccate prendendo immediatamente, individualmente o in concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza dell’area Nord Atlantica. »
 
Dopo la caduta del Muro di Berlino, l’articolo 5 pareva di fatto in disuso, venendo a mancare un nemico del calibro dell’Unione Sovietica, ma i recenti avvenimenti nel Vicino Oriente e, soprattutto, la follia di Erdogan lo rende di nuovo, se non attuale, perlomeno plausibile. Qualche mese fa la Turchia si è spinta a un passo dalla guerra con la Russia, scongiurata solo dal sangue freddo di Putin, mentre negli ultimi tempi l’ambiguo attivismo di Ankara in Siria fa aumentare le possibilità di una nuova escalation militare nella regione.
 
Non è assurdo ipotizzare che la Turchia entri in guerra e, presentandosi (naturalmente) quale vittima, invochi la solidarietà atlantica.
Dunque i soldati italiani, così come quelli francesi o spagnoli, potrebbero essere chiamati a morire per Erdogan.
Ne deduco due riflessioni, anzi due domande.
La prima: è accettabile che la Nato abbia tra i suoi membri un leader come Erdogan, che promuove l’islamizzazione della Turchia, ha sostenuto l’Isis e sta trasformando il suo Paese in una dittatura? La mia risposta potete facilmente intuirla.
La seconda riguarda la natura stessa della Nato. Di solito a interrogarsi sulla necessità del Patto Atlantico sono pensatori o partiti di sinistra, ma da qualche tempo anche alcuni osservatori liberali davvero indipendenti, avanzano più di un dubbio.
In tal senso mi ha colpito la riflessione di Michele Moor, che nella Confederazione elvetica ha i gradi di colonnello ed è ex presidente della Società Svizzera degli Ufficiali. Un conservatore, insomma; il quale in un articolo pubblicato qualche giorno fa sulCorriere del Ticino affermava:
A 67 anni dalla sua fondazione (4 aprile 1949), il patto militare che aveva l’obiettivo di arrestare l’avanzata del comunismo sovietico e di garantire la difesa dei Paesi aderenti, ha progressivamente mutato la propria strategia, rendendola sempre più aggressiva e offensiva. Non è un caso che gli Stati Uniti detengano la sovranità assoluta dell’organizzazione – le più alte cariche militari della NATO sono sempre riservate a ufficiali statunitensi – e che i cosiddetti Paesi alleati offrano supinamente le proprie basi territoriali, nel Mediterraneo e nell’Est europeo, agli interessi strategici della superpotenza.
E ancora:
Nello scacchiere geopolitico del Sud, la guerra contro l’Isis è diventata lo specchietto per le allodole, destinato a garantire agli USA l’espansione nell’Egeo e sulla Libia, territorio nel quale si è pensato di avviare un’operazione militare, ufficialmente guidata dall’Italia. Questa avanzata potrebbe coinvolgere prima o poi anche i paesi dell’asse asiatico, in primis la Cina, per evitare che diventino partner economici della Russia. Dietro l’intenzione, più volte dichiarata, di voler difendere l’Europa dalle aggressioni della Russia, si cela in realtà la volontà di espansionismo interventista che ha provocato la crisi in Ucraina
Parole durissime che vanno dritto al punto. La Nato ha cambiato pelle e da quando intervenne in Kosovo da associazione prettamente difensiva è diventata anche offensiva – vedi Afghanistan e Libia – assecondando i disegni strategici di Washington.
Da qui la seconda domanda: la Nato ha ancora senso? Questa Nato è davvero nell’interesse degli europei?
 
Fonte: Sa Defensa

La Francia dice no al Ttip

attenzione, il kompagno Hollande dice no (per voce del tizio al ministero) perché manca di reciprocità, ossia la Francia non può “invadere” gli Usa con i suoi prodotti allo stesso modo di come faranno quelli americani per la Ue, non dimentichiamoci che è il governo del Job Act francese…per “proteggere” i lavoratori no?
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maggio 04 2016 
Il presidente François Hollande ha deciso di frenare sulle negoziazioni per il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ovvero il trattato per il libero commercio tra Usa e Europa – Il rapporto di Greenpeace e i punti più contestati del Ttip.
La Francia – al momento – dice no al Ttip. Il presidente François Hollande ha deciso di frenare sulle negoziazioni per il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, ovvero il trattato per il libero commercio tra Usa e Europa. Lo ha dichiarato in un’intervista radiofonica a Europe 1, sostenendo che il governo non è affatto convinto: “Non possiamo accettare – ha detto Hollande – un libero scambio senza regola, che metta a repentaglio la nostra agricoltura e la nostra cultura”.
“Non ci convince lo spirito statunitense – ha aggiunto il sottosegretario al Commercio estero Matthias Fekl -: vogliamo più reciprocità. L’Europa propone molto e riceve poco in cambio. Al momento siamo per l’interruzione della trattativa”. Punto di vista esattamente opposto a quello di Sandro Gozi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio italiano, che sempre a Europe 1: “Gli accordi sono una grande opportunità per le nostre imprese, ci aiuteranno a far crescere i Pil dei Paesi europei”.
 
Il Ttip è anche finito nel mirino degli ambientalisti, in particolare di Greenpeace che in un lungo rapporto ne denuncia i rischi “per la salute e per l’ambiente”. Al momento il governo francese è l’unico che ha raccolto questo campanello d’allarme, ma non intende mollare: “Impossibile un accordo senza la Francia, e ancor meno contro la Francia”, ha detto Fekl.
 
Ma che cos’è il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip)?
 
Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip), un accordo di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea, è stato proposto nel 2013. Da allora ci sono stati tredici round di negoziati, l’ultimo dei quali si è svolto a New York nell’aprile del 2016. I prossimi negoziati si terranno a giugno. I negoziatori prevedono di concludere i lavori nel 2016, ma gli ultimi incontri si sono svolti senza particolari passi in avanti.
 
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dichiarato di voler concludere l’accordo prima della fine del suo mandato. In seguito alla conclusione dei negoziati, il progetto dovrà essere approvato dai 28 governi dell’Unione europea, dal parlamento europeo e dai 28 parlamenti dei paesi dell’Unione, che potrebbero anche indire dei referendum. Ecco cosa prevede l’accordo e quali sono i punti contestati dai cittadini di molti paesi europei.
 
– Gli obiettivi principali del Ttip sono l’apertura di una zona di libero scambio tra Stati Uniti e Unione europea, la riduzione dei dazi doganali per le aziende che commerciano tra le due aree e l’approvazione di nuove leggi che favoriscano il commercio tra i due blocchi, eliminando le differenze normative e amministrative.
 
– Il trattato riguarderà il 40 per cento del giro d’affari del commercio mondiale e si applicherà ad ambiti molto diversi, sottoposti a legislazioni disomogenee, dal mercato culturale a quello alimentare.
 
– In Europa il trattato è stato molto criticato e ci sono state manifestazioni per chiedere di bloccarlo. Il timore degli europei è che il Ttpi abbassi gli standard di sicurezza previsti in Europa per venire incontro alle richieste degli Stati Uniti. Più di due milioni di cittadini europei hanno firmato una petizione che chiede di fermare le trattative.
 
– Secondo le informazioni che sono trapelate, i governi europei non sono affatto uniti sulle molteplici misure previste dall’accordo (la Francia, che aveva ottenuto l’esclusione del settore audiovisivo dal trattato in nome dell’eccezione culturale, continua a mostrarsi particolarmente diffidente), ma è improbabile che revochino o modifichino il mandato di trattare assegnato alla Commissione.
 
– Tra le questioni più discusse c’è la “risoluzione delle controversie tra investitore e stato”(Investor-state dispute settlement, Isds). Il trattato permetterebbe alle aziende di fare causa ai governi portandoli di fronte a un collegio arbitrale. In questo modo, sostiene chi critica il Ttip, l’Isds darebbe alle multinazionali la possibilità di ostacolare qualsiasi legge che va contro i loro interessi.
Fonte: Firstonline