Marco Pannella, miliziano croato.
Ante Pavelic, dittatore Ustascia
Il non-violento Marco – Giacinto – Pannella, vestito da miliziano in Croazia, alla vigilia dell’eliminazione dall’Europa e dalla geografia mondiale della Jugoslavia, invisa ai nonviolenti e pacifisti Nato, Germania, Israele, Arabia Saudita, Al Qaida e Vaticano.
Ciarlatano? Guru? Uomo per ogni stagione?. Nonviolento? Quanto lo sono Hillary Clinton o Benjamin Netaniahu? Laico, anticlericale, illuminista? Martire dell’anticonformismo, o eroe del conformismo anti? Secondo il Fatto Quotidiano muore invocando la croce da Don Paglia, capo dei colonialisti di S. Egidio, manifestando amore per il monarca assoluto del Vaticano, il clerico più clerico di tutti.
L’astuto propagandista di cause care alla borghesia moderna, cogliendo quello che i filosofi tedeschi definirono lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, fece da mosca cocchiera per quanto maturava nelle società svegliate dalle intemperie anti-autoritarie ed anticonformiste dai movimenti di fine anni’60: catene matrimoniali che si fanno libera scelta, donne protesi dell’uomo che diventano padrone del proprio corpo e destino riproduttivo, persone che sottraggono a scienziati e preti la decisione sulla propria vita e morte. Merito indiscutibile. Per la verità, cose che nei paesi socialisti esistevano da tempo, volute da Lenin nel 1917.
Sacrosante vittorie dell‘individuo, ma che il solipsismo di Pannella trasformava in sublimazione individualista, preminente sui diritti collettivi. Tanto che nel decennio della rivoluzione morale e politica afferente i rapporti sociali nel loro complesso, fatti divorzio e aborto, al conflitto centrale non contribuì molto di più dell’elezione di personaggi il cui apporto alla lotta di classe in piena tempesta si ridusse a épater le bourgeois e solleticare i voyeurs parlamentari.
Forse ricordo male, ma mentre decisioni della collettività sulla propria vita e morte, ma anche su vita e morte degli individui, magari palestinesi e, comunque, fuori dal contesto occidentale, contesto per Pannella misura massima di civiltà (a parte il Tibet), messe in discussione a livello mondiale, non risulta che venissero sradicate dalle disponiblità di banchieri, multinazionali, feldmarescialli.
Un socialista liberale, un ambientalista che non ricordo abbia subito attentati da avvelenatori e devastatori alla Berlusconi o Renzi, un nonviolento in perpetua e perfetta sintonia con Israele e Usa, epitomi del pacifismo, un laico ma anche un religioso, un ossimoro, una contraddizione in termini, un abile giocoliere che ingarbugliava il colto e l’inclita in logorroici tormentoni in cui il tutto si sposava al contrario di tutto, con il risultato finale che la discesa nell’ottavo cerchio, quello della Fraudolenza o Malebolge, auguratagli da critici spietati, è stata accompagnata da un peana unanime di tutta la destra nazionale (che, come è risaputo, comprende la sedicente sinistra e pure quella sedicente radicale).
Luciana Castellina, presunta comunista, ma eterna viaggiatrice sulla giostra degli equivoci con passeggeri come Ingrao, Tsipras, il papa dei poveri e qualunque fasullone fornisse la Ditta, io la ricordo formidabile arrampicatrice, ammaliatrice di direttori e capiredattori, nel mio Paese Sera. Dalla dipartita dell’impareggiabile retore, la venerabile vegliarda del “manifesto”, ha tratto occasione per pannellaniamente esaltare il proprio io, riconducendo la miserella storia umana tra la Seconda guerra mondiale e i bagliori della Terza all’epocale scontro-incontro tra lei e l’amatissimo nemico-amico. In nulla differiscono la sua glorificazione dell’ineguagliabile maestro di altra vita e i suoi singhiozzi per la perdita di una sì preziosa pietra di paragone, dai tonitruanti requiem elevati da tutte le altre sponde, fino a ieri opposte, a questo tardivo padre della patria. Una patria in cui, magari tra le intemerate di un Pannella estremo difensore della “legalità repubblicana”, si sentono a casa italioti trasformisti, opportunisti, frodatori, paraculi, soffiatori di bolle di sapone, pifferai e pifferati, maschere della nostra tragica commedia dell’arte.
L’uomo non era solo un insopportabile narciso, arrogante, bombastico. Grande creativo seppure, alla fine, un po’ logoro clone di se stesso, Pannella è stato il grimaldello che ha dischiuso le porte di molte coscienze ignare e, comunque, rassicurate da una nonviolenza che pareva cosa bella e buona e che, al tempo stesso, ti conservava incolume al calduccio del monopolio della violenza dello Stato. Bancarellista di molti prodotti con cui l’inferocito capitalismo del XX e XXI secolo, pacifismo, diritti civili, nonviolenza, diritti umani, democrazia, ha saputo comprarsi – e, per qualcuno, disarmare – una buona metà del genere umano.
La sua epifania sottobraccio al post-ustasciaTudjman, che avrebbe bruciato vivi i serbi delle Krajine, poteva già far intendere di che pasta di sangue e ossa frantumate fosse fatta certa nonviolenza. Nelle sue adunate mattutine con molti saprofiti della nostra società martirizzati dai giudici, con cui tentava di ergere una barriera al vento purificatore che – solo allora e per poco – spirava dal tribunale di Milano e da milioni di coscienze risvegliate, prestava la sua integrità penale personale a copertura di una classe dirigente di divoratori del pubblico bene. Peccato non potergli più chiedere perché il suo culto della “legalità repubblicana” lo abbia portato a tanto.
Per raccontare nel docufilm “L’Italia al tempo della peste” le inaudite nequizie inflitte dallo Stato e dal suo braccio armato al popolo sardo, attraverso lo strisciante genocidio da poligoni e basi militari, con la diffusione dei veleni letali di milioni di esplosioni, avevo intervistato madri e padri di militari morti o moribondi per irriconosciuta “causa di servizio”: uranio affrontato a mani e faccia nudi. Figli e genitori abbandonati dallo Stato e respinti a ceffoni deliberativi quando chiedevano giustizia. Il 20 maggio il Ministero della Difesa è stato finalmente condannato per aver causato (“condotta omissiva”) la morte del 23enne caporalmaggiore Salvatore Vacca, ucciso da leucemia linfoblastica acuta da uranio. Salvatore era stato mandato in Bosnia a servire la patria, intesa come il D’Alema bombarolo e i suoi burattinai a Washington, Bruxelles, Vaticano e Berlino. Doveva raccogliere e maneggiare residui di bombardamenti all’uranio, quelli con cui si stavano sfoltendo (e contaminando per generazioni) popolazioni convinte che la scelta di essere jugoslavi appartenesse al diritto internazionale e all’autodeterminazione dei popoli.
Ce lo mandarono, Salvatore, senza le protezione che tutti gli altri eserciti impegnati nell’aggressione, in quella che i giudici di Norimberga definirono “massimo crimine contro l’umanità”, fornivano ai propri mercenari. Come lui sono morti di linfomi e cancri vari altri 333 soldati italiani mandati ad ammazzare e a morire in scenari che, con evidenti intenti maltusiani, i nostri padri della democrazia e dei diritti umani avevano cosparso di uranio, fosforo e napalm. E 3.500 sono i militari ammalati delle stesse malattie, per le stesse ragioni. Molti moriranno. I loro figli, nipoti, pronipoti, resteranno segnati e il cielo gliela mandi buona.
Girando per gli ospedali di Basra e di Baghdad ho incontrato i piccoli fratelli e sorelle di Salvatore Vacca, vittime degli stessi assassini. Ho visto medici tanto disperati quanto accaniti e instancabili, privati di tutto da embarghi e distruzioni, alimentare, con poco più del loro amore, la fiammella di vita di bambini nati deformi, devastati dai tumori, chiodi nel petto delle madri e dei padri che se li vedevano estinguere sotto gli occhi. Erano appena gli anni ’90. Da allora sono diventati milioni.
Marco Pannella ha fatto un figurone scioperando un pochino della fame perché Saddam Hussein non fosse impiccato. Figurone più discutibile, per noi che riteniamo i monaci tibetani una forma di nazismo dagli occhi a mandorla, l’ha fatto intessendo affettuosità e riconoscimenti con l’agente Cia Dalai Lama, erede della più sanguinaria stirpe di regnanti tiranni apparsi nell’emisfero di Gengis Khan. Il che è tutto dire. Cause perse o vinte, scioperi della fame che hanno fatto tremare l’umanità e lo hanno fatto avvicinare ai 90 anni. Tutte servite a costruire il monumento. Ma il nonviolento Marco Pannella, con tutta la facondia oratoria con cui affascinava furbi e gonzi, non ricordo che abbia obiettato all’incessante teoria di crimini di guerra commessi dalle sue patrie preferite: Israele, su tutte, gli Usa, l’Europa. Quelle di Bush, Clinton, ri-Bush e Obama, Begin e Netaniahu. Su mezzo globo, da questa banda di terroristi psicopatici ridotto a oceano di sangue e morte, si è steso il velo, tanto cinico quanto ipocrita, degli apostoli della nonviolenza. Non di tutti, gli altri dovrebbero revisionare concetto e compagnia. Qualcuno azzarderebbe un sospetto di complicità. Qualcuno arriverebbe a vedergli sulla coscienza Salvatore Vacca e tutti gli altri.
Qualcuno come Salvatore, forse, lo immergerebbe nel Flegetonte (Settimo cerchio, Primo girone). Io no. Perché resto umano e, poi, all’inferno non ci credo. Come non ho mai creduto a Pannella.