Le vere fake news, quelle che producono guerre

propaganda fake newsAlla trasmissione “L’aria che tira”, de La7, il deputato Andrea Romano del Partito democratico ha compiuto un triplo salto mortale in tema di fake news.

Citiamo testualmente. Dal secondo -1:20 a al secondo -0:55, Romano spiega: “La Nato, l’organizzazione internazionale che ci tutela in qualche modo dal punto di vista militare, è da qualche anno che investe soldi contro le fake news, ma non tanto per fare censure ma perché esse rappresentano uno strumento di conflitto geopolitico normalmente organizzato dalla Russia. O addirittura qualche giorno fa è venuto fuori che anche il Venezuela, che c’ha i suoi guai, era coinvolto nei motori di fake news“.

Tralasciamo la fake news sul coinvolgimento del Venezuela nelle fake news: giorni fa il sito venezuelano Mision verdad aveva al contrario smascherato i finanziamenti statunitensi (Usaid, Ned, Dipartimento di Stato e Dip. della difesa) a chi poi produce bufale sul Venezuela per l’appunto. Quindi è semmai il contrario, deputato.

Tralasciamo anche l’eufemismo con il quale Romano definisce la Nato: una specie di Madre Teresa, però più efficace nel proteggerci sotto il suo manto. 

Ma che della Nato si dica che combatte presunte fake news, è davvero un po’ troppo forte. Visto che quell’organizzazione e i suoi Stati membri di menzogne ne producono in quantità. Anche di recente. E sono fake news mortali, perché legittimano l’avvio di guerre e la loro prosecuzione. Il caso della Libia e della Siria è paradigmatico.

Peccato che in materia, il vignettista Vauro, anch’egli presente in trasmissione, si sia ricordato solo della fake news di Bush e Powell nel 2003 riguardo all’Iraq; dove non fu direttamente la Nato a bombardare. E questa sua sincera dimenticanza è un’ennesima prova che negli ultimi anni ben pochi fra gli ex pacifisti si sono impegnati a contrastare  le vere fake news, quelle che con le quali l’Asse delle Guerre Nato/Golfo agisce. Le hanno contrastate così poco che nemmeno le ricordano.

di Marinella Correggia – 08/12/2017 Fonte: sibialiria

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59865

Le manovre delle banche centrali che contano più del G7

yellenIl mondo, inteso come sistema finanziario-industriale, ha bisogno di instabilità affinché le Banche centrali continuino a salvarlo, spiega MAURO BOTTARELLI
Janet Yellen (Lapresse)
 
Da ieri, la Nato fa ufficialmente parte della coalizione anti-Isis guidata dagli Stati Uniti. Lo ha annunciato il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Jens Stoltenberg, prima dell’apertura del Vertice che vedeva presente, tra gli altri, Donald Trump. Nel più palese caso di excusatio non petita, accusatio manifesta, sempre Stoltenberg ha immediatamente sottolineato che la Nato non parteciperà ad azioni di combattimento, ma diverrà il centro di collegamento dove convoglieranno le informazioni di intelligence per la lotta contro Daesh. Prendiamone atto, l’attentato di Manchester ha davvero accelerato molti processi, fino alla scorsa settimana rallentanti, se non bloccati, da veti incrociati e pareri discordanti.
Oggi, poi, a Taormina prenderà il via il G7 con al centro della discussione, nemmeno a dirlo, la lotta al terrorismo globale. E chi mancherà al tavolo dei grandi? Il soggetto che maggiormente, tra le potenze mondiali, sta combattendo sul campo quel fenomeno eversivo e destabilizzante: la Russia. Capite da soli e senza bisogno di dotte analisi geopolitiche che quel vertice nasce già con lo stigma del fallimento, perché pensare di combattere il terrorismo senza coinvolgere Mosca è folle. A meno che, tramite strani giochi di prestigio politici e abile propaganda, non si voglia far finire nel calderone dei soggetti pericolosi proprio la scomoda Russia di Vladimir Putin. E, per proprietà transitiva neo-con, il suo alleato in Siria, cioè quell’Iran che Donald Trump ha attaccato senza soluzione di continuità nella sua due giorni tra Arabia Saudita e Israele.
Già, perché forse questo G7 ha una sua agenda precisa, ma non è quella ufficiale, bensì quella nata proprio tra Ryad e Tel Aviv e sviluppatasi tra l’orrore di Manchester. Metto in fila, senza un ordine particolare, i focolai di guerra o destabilizzazione in atto a tutt’oggi: Siria, Iraq, Libia, Yemen, Mali, Filippine, Corea del Nord, Venezuela, Afghanistan, Brasile e sicuramente ne sto scordando qualcuno. Sedici anni di “guerra preventiva” ed “esportazione della democrazia” hanno portato a questo: siamo più sicuri o insicuri? E poi, cosa unisce tutta questa messe di guerre sparse, la famosa Terza Guerra Mondiale a pezzi di cui parla Papa Francesco?
Il denaro, inteso come sistema finanziario che necessita di destabilizzazioni per stare in piedi attraverso mosse emergenziali. Come mai, di colpo, le Filippine finiscono al centro dell’attività del braccio locale di Daesh, guarda caso mentre il presidente, Rodrigo Duterte, stringe alleanze e partnership con Vladimir Putin? Perché il Brasile, di colpo, vede i manifestanti assaltare e incendiare i palazzi ministeriali, tanto da portare il presidente a firmare un atto che conferisce alle forze armate poteri di ordine pubblico? Anche in Gran Bretagna, per la prima volta dall’allarme del 2007 per un temuto attentato in Scozia, si vede l’esercito per le strade, 4800 uomini: un vulnus non da poco per la patria della common law. E la Corea del Nord, fino a quattro giorni ombelico del male? Sparita. Probabilmente la produzione in serie dell’ultimo missile sparato nel Mar del Giappone non spaventa più tanto. C’è Manchester che garantisce mano libera e fogli bianchi su cui scrivere le nuove regole.
C’è talmente tanta calma, garantita paradossalmente dal caos, che la Fed l’altra sera ha potuto permettersi di inserire toni da falco nelle minute (le quali vengono sempre riviste e ritoccate prima della pubblicazione, fidatevi) dell’ultimo Fomc, facendo trasparire la possibilità di un rialzo dei tassi imminente, quindi certificando – implicitamente – ai mercati e ai cittadini la buona salute dell’economia americana. I mercati? Nemmeno un plissé, anzi l’Asia ha festeggiato. Festeggiamenti giustificati? Fate voi, alla luce di questi grafici: il primo ci mostra come il cosiddetto “National team”, ovvero un consorzio di china stocksbanche e istituzioni finanziarie che agiscono su mandato del governo cinese, sia massicciamente intervenuto sul mercato per sostenere i corsi azionari, in perfetta contemporanea con il crollo dell’acciaio: il downgrade di Moody’s ha dato il colpo di grazia a una dinamica che sta già schiantando tutte le commodities da settimane. Ma Draghi dice, salvo poi rimangiarsi la parola, che la ripresa ormai è globale.
Il secondo, invece, ci mostra come questa dinamica, ovvero la finanziarizzazione della delinquenciesmaterie prime attraverso i futures, stia colpendo l’economia reale, nella fattispecie l’agricoltura Usa e i prestiti contratti da proprietari terrieri per portare avanti la loro attività. Dal quarto trimestre del 2014 al primo di quest’anno, il tasso di delinquencies su quei prestiti è salito del 225%, stando a dati ufficiali del Board of Governors della Fed.
Terra, cibo, economia vera: devastati da Wall Street e dai suoi giochini, ora con l’aggravante di qualche triliardo di contratti derivati che hanno come collaterale proprio futures legati alle commodities che pagano lo scotto al rallentamento della crescita cinese.
g3 central bankIl terzo, invece, ci mostra come dal dicembre 2016 questa logica di intervento delle Banche centrali per evitare l’armageddon si sia concentrata anche sul mercato obbligazionario sovrano, ovvero quello dei governi: questo, al netto di Bce e Bank of Japan che stanno comprando anche l’aria.
Vi serve altro per capire che il mondo, inteso come sistema finanziario-industriale, ha bisogno di instabilità affinché soggetti ormai onnipotenti come le Banche centrali continuino a salvarlo con soldi vostri? Stiamo tutti quanti camminando sul filo dell’equilibrista circense, ma la rete di salvataggio sotto di noi diventa ogni giorno più piccola e piena di buchi. La scorsa settimana vi ho ricordato come in un articolo dello scorso gennaio già avessi profilato l’ipotesi che l’elezione di Donald Trump fosse stata il perfetto capro espiatorio per giustificare un crash del mercato, evitando così che l’opinione pubblica additasse i veri responsabili di quello che era un epilogo già scritto, dopo anni di denaro a pioggia creato dal nulla e debito insostenibile. E dove siamo, oggi? Con i tassi che, formalmente, stanno salendo negli Usa, la meteoritica ascesa del mercato è andata in stallo.
 
Negli ultimi mesi, i corsi azionari hanno introitato un misero punto percentuale di rialzo o ribasso alla settimana. Poi, stranamente, la scorsa settimana è successo qualcosa: i mercati, senza apparente motivo sono crollati di quasi 400 punti in un solo giorno. Andate a riprendervi i titoli dei principali media, italiani ed esteri e troverete la narrativa ufficiale rispetto a quel tonfo: l’instabilità generata da Trump e dai suoi guai legati al Russiagate, con il rischio addirittura di un impeachment. Insomma, è colpa del presidente Usa. Sembra il signor Malaussene dei romanzi di Daniel Pennac, professione capro espiatorio: Banche centrali e grande finanza, sentitamente ringraziano.
E attenzione, perché se avete voglia di fare una rassegna stampa più accurata ed estesa nel tempo, questa narrativa i grandi media hanno cominciato a montarla ancora prima dell’elezione di Trump, quando si era in campagna elettorale: ma se tutti i sondaggi davano Hillary Clinton come vincitrice in carrozza, quale bisogno c’era di creare quella cortina di terrorismo finanziario? Basti vedere Bloomberg, agenzia il cui mantra fu quello di dipingere Donald Trump come un uomo fortunato, perché riceveva in eredità da Barack Obama un’economia florida e in ripresa. Balle, quale economia abbia lasciato l’ex inquilino di Pennsylvania Avenue è ormai sotto gli occhi di tutti: mercato in bolla assoluta, peggio del dot.com e livello di debito ormai insostenibile, sovrano e privato. Ovviamente, con la colpevole collaborazione fattiva di chi detiene la stampatrice, ovvero la Fed. Addirittura, il settimanale Fortune scrisse che l’iniziale rally di mercato che aveva salutato l’elezione di Donald Trump altro non era se non una creazione del palcoscenico per un sorprendente crash del mercato. Diciamo che o hanno poteri divinatori o forse c’era un’agenda condivisa da far accettare all’opinione pubblica.
Non vi pare che quanto accaduto da quando il presidente Usa ha messo piede a Ryad fino a oggi, risponda a una logica simile ma a livello geopolitico? Attenzione a cosa verra deciso al G7, per quanto realisticamente inutile – stante l’assenza della Russia -: ci dirà quale piega prenderanno gli eventi. Ovvero, quando – e non se – sarà guerra.
26 maggio 2017 Mauro Bottarelli

Le sfumature del nazionalismo

Macron-Le-PenE’ di moda parlare male del nazionalismo. Emmanuel Macron, candidato di riferimento dei poteri forti per le prossime presidenziali francesi, in un’intervista incensatoria, apparsa su “la Repubblica”, è arrivato a fare  proprio un vecchio slogan di Mitterrand: “il nazionalismo è la guerra”. Quasi che dichiararsi identitari voglia  dire, per forza, ricreare la conflittualità tra i diversi Paesi europei.
La stoccata propagandistica di Macron ripropone peraltro un vecchio adagio, grazie al quale il nazionalismo è costantemente chiamato sul banco degli accusati  per rispondere dei peggiori crimini dell’umanità.  In realtà la questione è un po’ più complessa e va ripresa alle radici, cercando di andare all’assenza dell’idea nazionalista e delle sue possibili variabili.
 
Un utile “bussola” è la recente ristampa, per l’Editrice Oaks,  di un classico di Jacques Ploncard d’Assac, “Le dottrine del nazionalismo”. Il tempo trascorso dalla prima edizione  (1965) non  sminuisce il valore dell’opera, offrendo un panorama composito delle culture del nazionalismo europeo, declinato in molte delle sue variabili: dalle leggi dell’eredità spirituale opposte all’”Io”, all’individualismo,   di Edouard Drumond (per il quale “un essere” è un insieme, in quanto “composto di tradizioni che lo riconnettono a coloro che son vissuti prima di lui, di sentimenti che lo connettono alle persone che sono del suo stesso paese”)  al “determinismo” di Maurice Barrès, che vede nel nazionalismo la difesa dell’organismo nazionale ed il lievito di un nuovo socialismo, impegnato nella difesa materiale e morale della classe più numerosa e più povera;
dallo “spirito scientifico” di Paul Bourget, con la sua teoria dell’evoluzione nazionale (per cui “ogni generazione, come ogni istituzione, è un piano aggiunto” all’edificio nazionale e la costruzione tanto sarà più solida quanto più poggerà “sul piano sottostante”)
 
al “nazionalismo integrale” di Charles Maurras, evocazione non di un mito, ma di una folla umana di visi umani, di paesaggi, di monumenti (“Una patria – scrive Maurras –  sono campi, muri, torri, case; sono altari e tombe; sono uomini viventi, padre, madre e fratelli, e i fanciulli che giocano nei giardini, i contadini che mietono il grano, i giardinieri che colgono le rose, i mercanti, gli artigiani, gli operai, i soldati: non c’è al mondo cosa più concreta”);
da   Möller van den Bruck, che vede nella nazione una comunità di valori in continua evoluzione e nel nazionalismo “la coscienza di questo processo evolutivo”, a  Ernst von Salomon, il quale riconcilia socialismo e nazionalismo, individuando nel primo “quella tenuta interiore, quell’unità spirituale di cui il XIX secolo ci ha privato”, laddove – come nota   Ploncard d’Assac –  il razzismo hitleriano “trasforma la comunità in tribù errante che non ha altri limiti che quelli che la sua potenza le permette di raggiungere e di mantenere,né ha doveri che verso sé stessa”; dall’idea di Nazione di José Antonio Primo de Rivera, per il quale la Patria non è solamente “l’attrazione della terra in cui siamo nati”, né “l’emozione immediata e sentimentale che sentiamo in presenza del nostro suolo”, quanto soprattutto “un’unità di destino nell’universale”, all’integralismo lusitano di Antonio Sardinha, espresso dall’idea tradizionale della “permanenza nella continuità”, proiezione del genio di ciascuna patria nel più alto ideale della civiltà cristiana.
 
Nella  proposta di Ploncard d’Assac il  nazionalismo dottrinario emerge in tutta la sua complessità, invitandoci – come scrive Luca Gallesi,  ad introduzione de “Le dottrine del nazionalismo” – “ … a riprendere il filo di un discorso interrotto, di ricominciare a guardare i fatti per quello che furono e giudicare le idee senza preventive demonizzazioni”. Evitando – aggiungiamo noi – di restare vittime delle  dichiarazioni alla  Macron, sull’uguaglianza tra nazionalismo e guerra.
 
Anche qui può esserci d’aiuto il testo, “Romanticismo fascista”,  di un altro autore francese, Paul Sérant, uscito, nel 1960, per le Editions Fasquelle e poi pubblicato, nel 1961, da Sugar.
Sul tema del nazionalismo e della guerra Sérant offre pagine esemplari: “A partire dal 1936, vale a dire al tempo del Fronte popolare e della guerra di Spagna , si produce in Francia uno strano capovolgimento di posizioni in materia di politica estera. Gli uomini di sinistra, fino a quel momento pacifisti e partigiani d’una politica d’intesa internazionale, anche a prezzo di cospicui sacrifici da parte della Francia, si sentono minacciati dalla sconfitta della loro ideologia nei Paesi confinanti: e il loro pacifismo, che s’accompagnava a una simpatia per gli elementi democratici dei Paesi in questione, cede un po’ alla volta a un bellicismo ‘antifascista’”.
Dall’altra parte gli ambienti nazionalisti francesi auspicavano accordi con i Paesi protagonisti delle “rivoluzioni nazionali”. Sono emblematiche, in questa prospettiva,  le pagine sulla  guerra moderna di Drieu la Rochelle,  il quale parla di abominio del militarismo democratico, presagendo lo spaventoso risultato di un conflitto europeo, con milioni di morti, l’annientamento delle città ed un’Europa ridotta alla disperazione. Ugualmente “profetiche” le immagini de “L’Ecole des Cadavres” di Louis Ferdinad Céline, il quale accusa le democrazie di volere la guerra, con la Francia condannata comunque alla sconfitta, sia per mano degli avversari che degli alleati.
Con buona pace per Macron/Mitterand il nazionalismo non è insomma uguale alla guerra. Lo dice la complessità delle dottrine che concorrono a definirlo. Lo conferma l’esperienza storica.
L’auspicio – a questo punto – è che si metta  fine al facile qualunquismo antinazionale, portato di un europeismo scialbo e senz’anima. L’Europa merita molto di più di qualche facile slogan. Il  nazionalismo, che è parte costitutiva della nostra identità di europei, va capito piuttosto che criminalizzato.
 
di Mario Bozzi Sentieri      – 30/03/2017 Fonte: Mario Bozzi Sentieri

L’avversione contro Donald Trump non è che propaganda di guerra

soros trumpI nostri precedenti articoli sul presidente Donald Trump hanno suscitato vive reazioni nei nostri lettori, che si chiedono le ragioni per cui Thierry Meyssan dia prova di tanta ingenuità, malgrado gli ammonimenti della stampa internazionale e l’accumularsi di segnali negativi. Ecco la sua risposta, argomentata come d’abitudine.
A due settimane dall’insediamento, la stampa atlantista prosegue nell’opera di disinformazione e di sobillazione contro il nuovo presidente degli Stati Uniti. Il quale, insieme ai primi collaboratori, moltiplica dichiarazioni e gesti apparentemente contraddittori, sicché è difficile comprendere che succede a Washington.
La campagna anti-Trump
La malafede della stampa atlantista è verificabile analizzando i suoi quattro principali argomenti.
– 1. Per quanto riguarda l’inizio dello smantellamento dell’Obamacare (20 gennaio), è giocoforza constatare che, contrariamente a quanto pretende la stampa atlantista, i ceti più deboli, che avrebbero dovuto sfruttare questo dispositivo di «sicurezza sociale», in realtà l’hanno massicciamente ignorato. Obamacare si è infatti rivelato troppo costoso e troppo rigidamente condizionante per sedurre coloro cui è rivolto. Le uniche a esserne pienamente soddisfatte sono le assicurazioni private che lo gestiscono.
2. Per quanto riguarda il prolungamento del muro alla frontiera con il Messico (23-25 gennaio), la ragione non è la xenofobia: il Secure Fence Act è stato firmato dal presidente George W. Bush, che poi ha dato l’avvio alla costruzione del muro. Il presidente Barack Obama l’ha proseguita, appoggiato dal governo messicano dell’epoca. Al di là della retorica oggi alla moda sulla costruzione di “muri” e di “ponti”, le misure tendenti a rafforzare il controllo delle frontiere sono efficaci solo se le autorità di entrambe le parti concordano nel renderle operative. Per contro, sono votate al fallimento se uno dei due Paesi vi si oppone. L’interesse degli Stati Uniti è il controllo dell’ingresso dei migranti, l’interesse del Messico è fermare l’importazione illegale di armi. Niente è cambiato. Tuttavia, con l’applicazione del Trattato di libero-scambio nordamericano (NAFTA), società transnazionali hanno delocalizzato le proprie industrie, trasferendo dagli Stati Uniti al Messico non solo mansioni non qualificate (conformemente alla regola marxista della ”caduta tendenziale del tasso di profitto”), ma anche mansioni qualificate, facendole svolgere da operai sottopagati (dumping sociale). In Messico, la comparsa di questi posti di lavoro ha provocato un forte esodo rurale e destrutturato la società, com’è accaduto nel XIX in Europa. In tal modo, le società transnazionali hanno potuto abbattere i costi della manodopera, facendo però precipitare nella povertà parte della popolazione messicana, che ora sogna solo di emigrare negli Stati Uniti per essere pagata il giusto. Poiché Trump ha annunciato l’intenzione di far recedere gli Stati Uniti dal NAFTA, nei prossimi anni la situazione dovrebbe tornare alla normalità, con soddisfazione sia dei messicani che degli statunitensi [1].
3. Per quanto riguarda l’aborto (23 gennaio), il presidente Trump ha vietato le sovvenzioni federali alle associazioni specializzate che ricevono finanziamenti dall’estero. In tal modo Trump le obbliga a scegliere fra la loro ragion d’essere (soccorrere le donne in difficoltà) o continuare a essere pagate da George Soros per manifestare contro la sua amministrazione – com’è accaduto il 21 gennaio. Questo decreto non vuole ledere il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza, bensì prevenire una “rivoluzione colorata”.
 
4. Per quanto riguarda i decreti anti-immigrazione (25-27 gennaio), Trump ha annunciato che avrebbe applicato la legge, ereditata dall’amministrazione Obama, che implica l’espulsione di 11 milioni di stranieri irregolari. Ha sospeso gli aiuti federali alle città che hanno dichiarato di volersi rifiutare di applicare la legge (come si potrà avere personale di servizio a basso costo se si sarà obbligati a dichiarare gli immigrati?).
Trump ha precisato che comincerà con l’espulsione di 800.000 criminali già condannati per reati penali negli Stati Uniti, in Messico o altrove.
Inoltre, per evitare l’ingresso di terroristi, ha sospeso i permessi d’immigrazione negli Stati Uniti e per tre mesi ha vietato l’ingresso di persone provenienti da Paesi in cui non è possibile verificarne identità e la situazione. La lista di questi Paesi non è stata redatta da Trump, ma da lui ripresa da un testo del presidente Obama. In Siria, per esempio, non ci sono più né ambasciata né consolato americani. Dal punto di vista della polizia amministrativa, è dunque logico includere i siriani in tale lista. A ogni modo, questi provvedimenti riguarderanno un flusso minimo di persone.
Nel 2015 la “carta verde” statunitense è stata rilasciata a 145 siriani solamente. Nella consapevolezza del gran numero di casi particolari che potrebbero sorgere, il decreto presidenziale ha attribuito al dipartimento di Stato e quello della Difesa interna (Homeland Security) massima libertà di accordare dispense. Il fatto che funzionari in contrasto con Trump abbiano sabotato questi decreti, applicandoli in maniera brutale, non fa del nuovo presidente un razzista e tantomeno un islamofobo.
La propaganda anti-Trump della stampa atlantista è dunque ingiustificata. Pretendere che il presidente abbia dichiarato guerra ai mussulmani, nonché invocare pubblicamente una sua possibile destituzione, persino una sua uccisione, non è più malafede, è propaganda di guerra.
L’obiettivo di Donald Trump
Trump è stato la prima personalità in tutto il mondo a contestare la versione ufficiale degli attentati dell’11 settembre; l’ha fatto il giorno stesso, alla televisione. Dopo aver ricordato che gli ingegneri che avevano costruito le Twin Tower ora lavoravano per lui, dichiarò su Canal 9 di New York che era impossibile che dei Boeing avessero potuto trapassare le strutture in acciaio degli edifici. Aggiunse anche che era altrettanto impossibile che dei Boeing avessero provocato il crollo delle torri: altri fattori dovevano essere intervenuti, al momento sconosciuti.
 
Da quella data, Trump non ha fatto che opporsi a quelli che avevano commesso un tale crimine. Durante il suo discorso di investitura, ha sottolineato che la cerimonia non significava un semplice passaggio di potere tra due amministrazioni: si trattava di restituire il potere al popolo degli Stati Uniti, che ne era stato spogliato [da 16 anni] [2].
Durante la campagna elettorale, indi durante il periodo di transizione, e poi dal momento in cui ha assunto le funzioni di presidente, Trump ha ripetuto che il sistema imperiale degli ultimi anni non ha portato beneficio agli Stati Uniti, ma alla ristretta cricca di cui la Clinton è figura emblematica. Ha dichiarato che gli Stati Uniti non avrebbero più cercato di essere i “primi”, ma i “migliori”. I suoi slogan sono: «America di nuovo grande» (America great again) e « L’America per prima cosa » (America first).
 
Questa svolta politica a 180° stravolge un sistema costruito negli ultimi 16 anni, che trova origine nella Guerra fredda voluta dagli Stati Uniti nel 1947. Questo sistema ha incancrenito numerose istituzioni internazionali, come la NATO (con Jens Stoltenberg e il generale Curtis Scaparrotti), l’Unione europea (con Federica Mogherini), e le Nazioni unite (con Jeffrey Feltman [3]). Ammesso che Trump ci riesca, gli occorreranno comunque anni per raggiungere l’obiettivo.
 
Verso lo smantellamento pacifico dell’impero statunitense
In due settimane Trump ha avviato molte cose, spesso nella più grande discrezione. Le sue dichiarazioni tonitruanti nonché quelle della sua squadra hanno scientemente seminato confusione, permettendogli di far confermare da un Congresso in parte ostile le nomine dei suoi collaboratori.
Teniamo ben presente che la guerra cominciata a Washington è una guerra all’ultimo sangue tra due sistemi. Lasciamo perciò alla stampa atlantista il compito di commentare propositi spesso contraddittori e incoerenti di entrambe le parti per attenerci unicamente ai fatti.
Innanzitutto, Trump s’è assicurato il controllo degli organi di sicurezza. Le prime tre nomine (il consigliere per la Sicurezza nazionale Michael Flynn, il segretario della Difesa James Mattis e il segretario per la Sicurezza interna John Kelly) sono altrettanti generali che hanno contestato il “governo di continuità” instaurato dal 2003 [4]. Ha poi riformato il Consiglio per la Sicurezza nazionale per escluderne il capo di stato-maggiore interarmi e il direttore della CIA [5].
Anche se quest’ultimo decreto venisse emendato in futuro, al momento non lo è. Segnaliamo che avevamo annunciato la volontà di Trump e del generale Flynn di sopprimere la funzione di direttore dell’intelligence nazionale [6]. Alla fine, la carica è stata mantenuta e assegnata a Dan Coats. Potrebbe trattarsi di una tattica per esigere che la presenza in seno al Consiglio del direttore dell’intelligence nazionale sia motivo sufficiente a giustificare l’esclusione del direttore della CIA.
La sostituzione de « i migliori » con «i primi » implica che la volontà di distruggere Russia e Cina si converta nella volontà di concludere un partenariato con questi Paesi.
Per impedirlo, gli amici della Clinton e della Nuland hanno rilanciato la guerra contro il Donbass. Le cospicue perdite subite dall’inizio del conflitto hanno indotto l’esercito ucraino a ripiegare e a spedire in prima linea le milizie militari para-naziste. I combattimenti hanno inflitto pesanti danni alla popolazione della nuova Repubblica popolare. Nel medesimo tempo, in Medio Oriente Clinton e compagnia sono riusciti a consegnare blindati ai curdi siriani, come aveva disposto l’amministrazione Obama.
Per risolvere il conflitto ucraino, Trump sta cercando un modo per aiutare a destituire il presidente Petro Porochenko. Per questo, ancor ancora prima di accettare di parlare al telefono con Porochenko, ha ricevuto alla Casa Bianca il capo dell’opposizione, Ioulia Tymochenko.
In Siria e in Iraq, Trump ha già avviato operazioni comuni con la Russia, sebbene il suo portavoce lo neghi. Il ministero russo della Difesa che, imprudentemente, l’ha rivelato, in seguito non ha più proferito parola sull’argomento. Washington ha rivelato allo stato maggiore russo la dislocazione dei bunker jihadisti nel governatorato di Deir ez-Zor. Bunker che la scorsa settimana sono stati distrutti con bombe penetranti.
Per quanto riguarda Beijing, il presidente Trump ha messo fine alla partecipazione statunitense al Trattato trans-Pacifico (TPP), un trattato concepito contro la Cina. Durante il periodo di transizione ha ricevuto Jack Ma, il secondo uomo più ricco della Cina – lo stesso che ha dichiarato: «Nessuno vi ha portato via posti di lavoro, spendete troppo in guerre». Si sa che i colloqui hanno riguardato l’eventualità di un’adesione di Washington alla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture. Se ciò accadesse, gli Stati Uniti dovrebbero accettare di cooperare con la Cina e cessare di ostacolarla. Prenderebbero parte alla costruzione delle due vie della seta. In tal modo, le guerre di Donbass e di Siria diventerebbero inutili.
In materia finanziaria, il presidente Trump ha avviato lo smantellamento della legge Dodd-Frank, un tentativo di risolvere la crisi del 2008 prevenendo il fallimento brutale delle grandi banche (« too big to fail »). Benché questa legge di ben 2.300 pagine presenti aspetti positivi, essa statuisce una tutela del Tesoro sulle banche che, evidentemente, ne frena lo sviluppo. Donald Trump pare si appresti anche a restaurare la distinzione tra banche di deposito e banche di investimento (Glass-Steagall Act).
E, per finire, è iniziato anche il repulisti delle istituzioni internazionali. La neo-ambasciatrice all’ONU, Nikki Haley, ha chiesto un audit sulle 16 missioni di “mantenimento della pace” e dichiarato che vuole mettere fine a quelle inefficaci. Ossia, alla luce della Carta delle Nazioni unite, a tutte, senza eccezioni. In effetti, i fondatori dell’ONU non prevedevano un tale impegno militare (oggi superiore a 100.000 uomini).
 
L’ONU è stato creato per prevenire e risolvere conflitti tra Stati, non conflitti interni. Quando due parti in conflitto concludono un cessate-il-fuoco, l’Organizzazione può inviare osservatori per verificare il rispetto dell’accordo. Le attuali operazioni di “mantenimento della pace” mirano, al contrario, a imporre il rispetto di una risoluzione imposta dal Consiglio di sicurezza e rifiutata da una delle parti in conflitto; si tratta di un prolungamento del colonialismo.
In realtà, la presenza delle forze dell’ONU non fa che protrarre i conflitti, la loro assenza lascia invece immodificata la situazione. Per esempio, le truppe della FINUL, dispiegate alla frontiera fra Israele e Libano – però solo su territorio libanese – non prevengono né un’azione militare israeliana, né un’azione militare della Resistenza libanese, così com’è stato più volte dimostrato. Servono unicamente a spiare i libanesi per conto degli israeliani, dunque a perpetuare il conflitto. Così come, dopo che le truppe della FNOUD, dispiegate sulla linea di demarcazione tra Golan e Siria, sono state cacciate da Al Qaeda, il conflitto tra Israele e Siria è rimasto immutato.
 
Porre fine a un tale sistema implica quindi un ritorno allo spirito e alla lettera della Carta costitutiva dell’ONU, rinunciare ai privilegi coloniali e pacificare il mondo.
Nonostante le polemiche mediatiche, le manifestazioni di piazza e le contese politiche, il presidente Trump mantiene la propria rotta.
Feb 09, 2017
Thierry Meyssan
Traduzione: Rachele Marmetti
Il Cronista

Il Presidente egiziano Al Sisi denuncia i patrocinatori del terrorismo ed i loro piani contro l’Egitto

quando in Egitto furono “installati” i Fratelli Musulmani al potere tanto cari all’amministrazione Killlary Obama l’Egitto era un paradiso secondo i media occidentali nonostante i massacri di cristiani e musulmani moderati. Ora che c’è Al Sisi molto vicino alla Russia ovviamente l’Egitto è una dittatura che ovviamente gli Usa sono chiamati a rimuovere. Almeno questo l’intento del Premio Nobel per la pace che ha sganciato più di 26.000 bombe in 7 nazioni. E si fa puzza per Regeni, strano eh?

Chi ha interesse a destabilizzare l’Egitto?
Forse l’opinione pubblica europea potrebbe pensare che quanto avviene in paesi al sisi russiacome l’Egitto non ci riguardi, che sia un paese lontano e molto distante dall’ambiente e dalle questioni dell’Europa. In realtà l’Egitto, il più popoloso paese arabo, si trova nel Mediterraneo proprio di fronte alle coste del sud Europa ed in circa 3 ore di aereo è facilmente raggiungibile da qualsiasi capitale europea.
Risulta che l’attuale presidente egiziano, Abdel Fatah al Sisi, proprio oggi ha denunciato i piani contro il suo paese orditi e finanziati da certi paesi e dai loro servizi di intelligence, quelli che il mandatario egiziano ha chiamato come “discepoli del male”.
In dichiarazioni rilasciate alla BBC, Al Sisi ha detto che l’Egitto si trova in guerra contro il terrorismo e che questo viene finanziato con immenso denaro da alcuni paesi.
Il presidente non ha fatto nomi in concreto ma, secondo alcuni esperti, le sue dichiarazioni fanno riferimento agli stessi stati che hanno finanziato il terrorismo in Siria, in Iraq ed in altri paesi. Uno di questi, secondo i media egiziani è il Qatar.
L’Egitto ed il Qatar mantengono relazioni molto tese per causa dell’ampio appoggio fornito da Doha ai F.lli Mussulmani e per la partecipazione di questi ultimi agli attacchi terroristici contro la sicurezza che hanno afflitto l’Egitto dopo l’arrivo al potere dell’ex generale Al Sisi nel 2013.
Molti di questi attacchi contro la polizia e le forze di sicurezza, così come per quelli avvenuti contro i luoghi di culto cristiani in Egitto (dei cristiani copti) vengono attribuiti dal governo alla setta dei F.lli Mussulmani, dei quali alcuni rami si sono fortemente radicalizzati ed hanno promesso lealtà al Daesh (ISIS) ed a altri gruppi estremisti.
Da rilevare che tutti questi attentati si sono intensificati da quando il Cairo è entrato in guerra contro il terrorismo islamista ed ha partecipato, inviando un suo contingente, al conflitto in Siria sostenendo il Governo di Damasco assieme all’Iran ed alla Russia. Da quel momento si sono deteriorate le relazioni dell’Egitto con l’Arabia Saudita e con il Qatar, guarda caso i paesi, alleati dell’Occidente, che sono considerati patrocinatori ed ispiratori del terrorismo di marca salafita.
Al Sisi, in una recente intervista televisiva, si è riferito alla feroce lotta che i soldati egiziani sostengono nel Sinai contro i terroristi ed ha segnalato che i militari egiziani hanno ritrovato negli ultimi tre mesi una tonnellata di esplosivi e milioni di lire egiziane e dollari nordamericani in nascondigli che appartenevano ai terroristi, i quali, con tutta evidenza, godono di finanziamenti esterni.
Il governo egiziano di Al Sisi ha mostrato una mano dura nei confronti del movimento dei F.lli Mussulmani, in particolare con la repressione e la condanna a morte, fatto senza precedenti, di oltre 500 membri dei fratelli musulmani, in Egitto, per il loro ruolo avuto nell’attacco, tortura e omicidio di un poliziotto egiziano, e questo era avvenuto al culmine di un’illuminante e onnicomprensivo giro di vite della sicurezza nella centrale nazione araba del Nord Africa. Questa mossa ha creato un effetto raggelante che ha ammutolito le masse altrimenti violente dei fratelli musulmani e portato a mettere ordine nelle strade, con il prevenire sommosse e disordini promossi da questa setta.
La mossa dei giudici egiziani aveva attirato la condanna prevedibile del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, oltre all’ostilità manifesta di tutti i principali media occidentali che rimproverano ad Al Sisi il suo pugno di ferro contro l’opposizione radicale islamista nel paese.
Gli ambienti della sinistra europea accusano Al Sisi di violare i diritti umani e reprimere l’opposizione ma si tratta degli stessi ambienti e degli stessi media che non levano una parola nei confronti dei Governi di Arabia Saudita, Qatar e delle altre Monarchie petrolifere che reprimono ferocemente il dissenso ed applicano le pene capitali (con taglio della testa) contro i dissidenti e le persone accusate di reati quali l’apostasia e “crimini” di natura sessuale. Un evidente doppio standard quando si tratta di regimi favorevoli agli interessi occidentali.
Gli Stati Uniti appoggiavano in Egitto il precedente Governo di Mohamed Morsi , ispirato dai F.lli Mussulmani e risulta che il Dipartimento di Stato ha finanziato per anni la setta dei F.lli Mussulmani nell’evidente tentativo di spaccare il mondo islamico esacerbando la rivalità tra le masse sunnite in funzione anti iraniana e favorendo l’influenza dei loro stretti alleati, Arabia Saudita e Qatar, che cercano di prendere la guida dei paesi sunniti contrastando la crescente influenza iraniana e sciita nella regione. Vedi: Egypt, the Muslim Brotherhood and America’s War on Syria
Questo spiega il perchè gli Stati Uniti, attraverso le varie ONG, avevano finanziato le “primavere arabe” che si volevano far passare per un processo spontaneo, quando in realtà erano sobillate da agitatori esterni, dietro il pretesto dei “diritti umani ” e della “democrazia”, in funzione di un cambio di regime che gli USA hanno mirato a realizzare sia in Egitto che in Libia, in Siria ed altrove.
In Libia questo cambio di regime si è verificato grazie all’intervento della NATO, in Siria il cambio di regime, che ha dato luogo ad un sanguinoso conflitto, è fallito grazie alla resistenza di Bashar al-Assad, del popolo e dell’Esercito siriano (con l’aiuto dei russi), in Egitto il tentativo è fallito grazie al colpo di Stato militare del generale Al Sisi.
 
Questo spiega tutta la velenosa propaganda mediatica occidentale scatenatasi contro Assad, accusato di essere un “tiranno sanguinario”, per aver osato opporsi all’imperialismo anglo-USA-saudita.
 
Attualmente gli Stati Uniti continuano a fingere di sostenere il governo del Cairo, ma sono in realtà completamente dalla parte del regime della fratellanza musulmana, che era guidata di Muhammad Morsi, delle sue folle in piazza e delle numerose reti di ONG in Egitto che ne sostengono e difendono le loro attività.
L’ultima di tali ONG ad apparire era stata l’Iniziativa egiziana per i diritti personali (EIPR) che veniva citata anche dal del New York Times. L’EIPR è finanziata , tra gli altri, dall’ambasciata d’Australia a Cairo, e svolge lo stesso noto ruolo che altre ONG finanziate dagli occidentali hanno avuto durante la “primavera araba” del 2011, coprendo violenze e atrocità dell’opposizione e usando i “diritti umani” per condannare le repressioni della sicurezza effettuati in risposta dallo Stato.
Tanto più è divenuto pressante, per il Dipartimento di Stato USA, l’obiettivo di un “regime change” al Cairo, da quando l’Egitto si è riavvicinato alla Russia di Putin ed ha sottoscritto con questa importanti contratti di cooperazione nel campo civile e militare.
Non si può escludere che le centrali di potere di Washington mirino a destabilizzare l’Egitto, ripetendo lo stesso tentativo fallito in Siria, mediante l’appoggio alle sette più estremiste e la sobillazione di gruppi terroristi come il Daesh che, guarda caso, hanno iniziato ad attivarsi nel paese (in particolrae nel Sinai) da quando il Governo del Cairo ha cambiato la sua politica e la sua rete di alleanze, voltando le spalle all’Arabia Saudita ed al Qatar ed riavvicinandosi alla Siria ed alla Russia.
Le conseguenze di una eventuale destabilizzazione dell’Egitto sarebbero nefaste per tutta le regione ed in particolare per l’Europa che si troverebbe alle prese con un’altra situazione, tipo Libia, moltiplicata X 10, visto che si tratterebbe del più grande paese arabo con 82 milioni di abitanti. Le trame dei circoli di potere di Washington non si fermano davanti a nulla e contano, come sempre, sulla passiva e suicida collaborazione dei governi europei. di Luciano Lago
Gen 12, 2017  Fonti: Al Mayadeen

Dov’era Meryl Streep quando Obama andava a caccia degli informatori e bombardava i matrimoni?

son proprio dei pagliacci a comando di Soros
 
Non poteva mancare un intervento di George Soros, il grande magnate, longa manus della elite di potere, il quale, presente a Davos (il convegno dei potenti) ha dichiarato di considerare Trump come “un impostore, un truffatore ed un potenziale dittatore che farà tremare i mercati finanziari”.
Soros, che è stato uno dei grandi sponsor della campagna presidenziale della Clinton, ha manifestato fiducia che il Congresso e la Costituzione mettano un freno a Trump. fonte

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Bene, prima di rischiare qualche malinteso, premetto una cosa: io adoro Meryl Streep.  potete dire tutto quello che volete, ma “Il diavolo veste Prada” è un classico e non dovrò mai pentirmi di averlo detto ed il discorso anti-Trump  della Streep nella notte di Domenica ai Golden Globes è stata un’altra performance sublime,  recitata con emozione e con grazia. Un vero e proprio strappalacrime per tutti quelli che si sentono preoccupati per l’inizio della prossima epoca-Trump.
Eppure … si sentiva un cattivo odore. In effetti qualcosa puzzava:  era vera ipocrisia allo stato puro.
Perché la Streep, purtroppo, viene da una razza di ipocriti della Hollywood- Liberal.
Parlo di quelli che, quando l’inquilino della Casa Bianca è un democratico, che si è appena fatto un giretto con Beyoncè, non sentono che il loro cuore sanguina, anzi, diventano improvvisamente introvabili.
Nel suo discorso appassionato,  la Streep ha invitato colleghi e fan ad unirsi a lei nel fare una donazione al Comitato per la protezione dei giornalisti: “Abbiamo bisogno di una stampa che abbia dei valori,  che sappia chiedere al potere di rendere conto del proprio comportamento, che sappia metterli all’angolo ogni volta che si fa un sopruso. E’  per questo motivo che i padri fondatori della nostra Costituzione sancirono  la libertà di stampa”.
Ha ragione, naturalmente. Ma ci si chiede se la Streep sia stata almeno a conoscenza, per esempio, che l’amministrazione Obama  ha  perseguito più informatori – whistleblowers  di quanti ne abbiano mai perseguito tutti i suoi predecessori messi insieme?  E’ una  tradizione questa, che  Trump probabilmente continuerà, ma è piuttosto strano che un un pensiero del genere, finora, non le fosse ancora passato per la mente.
Dove stava la Streep – quella che all’improvviso si preoccupa del fatto che ” violenza chiama violenza” – quando Obama aiutava l’ Arabia Saudita a radere al suolo lo Yemen,  bombardando funerali e feste di matrimonio?
O quando  con un “intervento umanitario” in Libia ha prodotto tanti di quei disastri da trasformare la Libia in uno stato fallito, permettendo  ai terroristi dell’ ISIS di crescere e prosperare?
O quando il grande unificatore si guadagnava il soprannome di ‘The Drone King- Il Re dei Droni’ , quando decideva di espandere il programma dei droni americani, fino a portare 10 volte più attacchi  di quanti ne faceva George W. Bush?  Un ‘altra tradizione  che anche Trump probabilmente sarà ben felice di mantenere.
https://twitter.com/realDonaldTrump
Meryl Streep, one of the most over-rated actresses in Hollywood, doesn’t know me but attacked last night at the Golden Globes. She is a…..
Dove era la  Streep quando il Premio Nobel per la Pace bombardava non uno, due o tre – ma  sette paesi diversi?
Per correttezza nei confronti della Streep, probabilmente non se ne poteva accorgere perché neanche la “stampa  che difende i valori” sembrava essersene accorta. La cosa divertente anche su questo punto è che –  dal momento che la Streep e i suoi amici sembrano preoccupati per l’apparente disprezzo che manifesta Trump verso gli stranieri: Tutti i paesi bombardati dall’amministrazione Obama erano paesi musulmani.
E dove stava la Streep quando l’amministrazione Obama, in Siria,  negoziava a nome dei ” ribelli moderati” legati a Al Qaeda?
Certo dove stavano tutti quelli ipocriti seduti in sala, quando Obama nel corso del solo 2016   ha fatto buttare  26.171 bombe?
Oh, è vero, stavano tutti  festeggiando a casa sua!
Attenzione, queste persone hanno tutto il diritto di fare tutte le rimostranze contro Trump  che vogliono fare- e devono farle. E’  legittimo fare rimostranze. Ma  non si meritano né gli applausi, né l’adulazione dalle masse, se mettono la testa sotto la sabbia per non vedere e non sentire,  quello che meritano è che qualcuno le scuota e le svegli.
La loro indignazione morale è vuota e senza senso, a meno che non siano – loro stessi – sempre coerenti.
 
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Per quanto riguarda  Trump,  è facile leggere tutto il suo livore nella risposta al discorso della Streep, quando l’ha  definita un’attrice “sopravvalutata” – cosa che difficilmente ha ferito i sentimenti dell’attrice, quanto le parole della Streep hanno ferito lui. Per lui, il Presidente-eletto, questo potrebbe essere il momento giusto per rendersi conto che, durante i prossimi quattro anni, riuscirà a fare molto poco,  se continuerà a rispondere ad ogni insulto, anche poco importante scrivendo ogni volta su  Twitter.
 
Il fatto è che, molte delle offese subite –  contro cui la Streep e tutta l’elite di Hollywood stanno combattendo – non sono specificamente dirette contro Trump, non sono nuove offese. Sono oltraggi che la gente sta già subendo. Obama, l’eroe di Hollywood,  è quello che si è messo di traverso con i giornalisti e gli informatori ed è quello che ha bombardato degli innocenti, se questo è il percorso migliore che trovato, ha reso ancora più facile il compito di Trump.   E’ ora di svegliarsi.
 
Sei grande una grande attrice Meryl.  Molti dicono che tu sia  la migliore. Potresti far finta di pensare solo a questo, e lasciar perdere tutto il resto.
Danielle Ryan è una freelance irlandese, scrittrice, giornalista e analista dei media.  Ha vissuto e viaggiato in  USA, Germania, Russia e Ungheria. Ha pubblicato su  RT, The Nation, Rethinking Russia, The BRICS Post, New Eastern Outlook, Global Independent Analytics e altri, oltre a lavorare su numerosi altri progetti di copywriting e editing. Website www.danielleryan.net.
di Danyelle Rian – 11/01/2017
Link : https://www.rt.com/op-edge/373182-meryl-streep-obama-bombing-golden-globes/
Il testo di questo articolo è liberamente utilizzabile a scopi non commerciali, citando la fonte comedonchisciotte.org e l’autore della traduzione Bosque Primario
Fonte: Comedonchisciotte

L’eredità del democratico Barack Obama

Alla vigilia del passaggio di poteri alla Casa Bianca, il 2017 si apre con la strage terroristica in Turchia, due settimane dopo l’assassinio dell’ambasciatore russo ad Ankara, compiuto il giorno prima dell’incontro a Mosca tra Russia, Iran e TurchiaRisultati immagini per premio nobel pace Obama per un accordo politico sulla Siria. Incontro da cui erano esclusi gli Stati uniti. Impegnati, negli ultimi giorni dell’amministrazione Obama, a creare la massima tensione possibile con la Russia, accusata addirittura di aver sovvertito, con i suoi «maligni» hacker e agenti segreti, l’esito delle elezioni presidenziali che avrebbe dovuto vincere Hillary Clinton. Ciò avrebbe assicurato la prosecuzione della strategia neocon, di cui la Clinton è stata artefice durante l’amministrazione Obama.
 
Questa termina all’insegna del fallimento dei principali obiettivi strategici: la Russia, messa alle corde dalla nuova guerra fredda scatenata col putsch in Ucraina e dalle conseguenti sanzioni, ha colto Washington di sorpresa intervenendo militarmente a sostegno di Damasco.
Ciò ha impedito che lo Stato siriano fosse smantellato come quello libico e ha permesso alle forze governative di liberare vaste aree controllate per anni da Isis, Al Nusra e altri movimenti terroristici funzionali alla strategia Usa/Nato. Riforniti di armi, pagate con miliardi di dollari da Arabia Saudita e altre monarchie, attraverso una rete internazionale della Cia (documentata dal New York Times nel marzo 2013) che le faceva arrivare in Siria attraverso la Turchia, avamposto Nato nella regione.
 
Ora però, di fronte all’evidente fallimento dell’operazione, costata centinaia di migliaia di morti, Ankara se ne tira fuori aprendo un negoziato con l’intento di ricavarne il massimo vantaggio possibile. A tal fine ricuce i rapporti con Mosca, che erano giunti al punto di rottura, e prende le distanze da Washington.
 
Uno smacco per il presidente Obama. Questi, però, prima di passare il bastone di comando al neoeletto Trump, spara le ultime cartucce.
Nascosta nelle pieghe dell’autorizzazione della spesa militare 2017, firmata dal presidente, c’è la legge per «contrastare la disinformazione e propaganda straniere», attribuite in particolare a Russia e Cina, la quale conferisce ulteriori poteri alla tentacolare comunità di intelligence, formata da 17 agenzie federali.
Grazie anche a uno stanziamento di 19 miliardi di dollari per la «cybersicurezza», esse possono mettere a tacere qualsiasi fonte di «false notizie», a insindacabile giudizio di un apposito «Centro» coadiuvato da analisti, giornalisti e altri «esperti» reclutati all’estero. Diviene realtà l’orwelliano «Ministero della Verità» che, preannuncia il presidente del parlamento europeo Martin Schultz, dovrebbe essere istituito anche dalla Ue.
Escono potenziate dall’amministrazione Obama anche le forze speciali, che hanno esteso le loro operazioni coperte da 75 paesi nel 2010 a 135 nel 2015.
Nei suoi atti conclusivi l’amministrazione Obama ha ribadito il 15 dicembre il proprio appoggio a Kiev, di cui arma e addestra le forze, compresi i battaglioni neonazisti, per combattere i russi di Ucraina.
E il 20 dicembre, in funzione anti-russa, il Pentagono ha deciso la fornitura alla Polonia di missili da crociera a lungo raggio, con capacità penetranti anti-bunker, armabili anche di testate nucleari.
Del democratico Barack Obama, Premio Nobel per la pace, resta ai posteri il suo ultimo messaggio sullo Stato dell’Unione: «L’America è la più forte nazione sulla Terra. Spendiamo per il militare più di quanto spendono le successive otto nazioni combinate. Le nostre truppe costituiscono la migliore forza combattente nella storia del mondo».
di Manlio Dinucci – 03/01/2017
 
Fonte: Il Manifesto

La guerra dell’Occidente alla ‘verità’

La guerra al terrorismo è stata una “guerra alla verità”. Ora i governi cercano di screditare i ‘portatori di verità’ che sfidano le loro bugie.
di Paul Craig Roberts.
presstitutesLa guerra al terrorismo è stata contemporaneamente una “guerra alla verità”. Per quindici anni – a partire dall’11 settembre 2001 per arrivare alle “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein, ai “collegamenti con al Qaeda”, alle “armi nucleari” in possesso dell’Iran, all’”uso da parte di Assad di armi chimiche”, alle infinite bugie su Gheddafi, all’”invasione russa dell’Ucraina” – i governi delle cosiddette democrazie occidentali hanno trovato essenziale allinearsi saldamente a queste menzogne al fine di perseguire i propri programmi politici. Ora questi governi stanno cercando di screditare i “portatori di verità” (truthtellers) che sfidano le loro bugie.
I mezzi di comunicazione russi sono sotto attacco da parte delle “presstitutes” (“prostitute dell’informazione”, ndt) dell’Unione Europea e dell’Occidente e sono accusati di essere dei fornitori di notizie false (“fake news” – si veda ad esempio l’articolo: www.globalresearch.ca).
Rispettando gli ordini del suo padrone di Washington, l’Unione Europea ha approvato una risoluzione contro i media russi che non seguono evidentemente la linea di Washington.
Il presidente russo Putin ha detto che la risoluzione europea è un “segno visibile del degrado dell’idea che la società occidentale ha della democrazia”.
Come previsto da George Orwell, dire la verità è ora considerato dai governi occidentali “democratici” come un atto di ostilità. Un nuovo sito web, www.propornot.com, ha appena fatto la sua comparsa per condannare un elenco di 200 siti web che forniscono notizie e opinioni in contrasto con i media “presstitute” e che servono le agende dei governi occidentali. Forse i finanziamenti di propornot.com provengono dalla CIA, dal National Endowment for Democracy o da George Soros?
Sono orgoglioso di dire che anche il sito www.paulcraigroberts.org è nell’elenco
Il potere del sistema mediatico
In Occidente coloro che sono in disaccordo con le politiche omicide e sconsiderate dei funzionari pubblici sono demonizzati come “agenti russi”. Lo stesso Presidente degli Stati Uniti è stato indicato come un “agente russo”.
Questa consuetudine di denominare i “portatori di verità” come propagandisti ha fallito. Il tentativo di screditare i “portatori di verità” ha invece prodotto un catalogo di siti web in cui si possono trovare informazioni affidabili ed i lettori infatti stanno visitando in massa i siti inclusi nella lista.
Il tentativo inoltre di diffamare i “portatori di verità” dimostra che i governi occidentali e i loro media “presstitutes” sono intolleranti verso le verità e le opinioni differenti dalla loro, e si sono impegnati a costringere le persone ad accettare le menzogne servite dai governi come verità.
Chiaramente i governi e i media occidentali non hanno alcun rispetto per la verità, e così come per l’Occidente ritenersi democratico?
Un media “presstitute” come il “Washington Post” ha svolto il suo ruolo in tal senso nel sostenere la rivendicazione di Washington secondo la quale i media alternativi sarebbero costituiti da agenti russi.
Manipolazione dei media
Craig Timberg, che appare privo di integrità o di intelligenza, o forse di entrambi, è il tirapiedi del “Washington Post” che ha riportato la falsa notizia secondo la quale “due gruppi di ricercatori indipendenti” – nessuno dei quali è stato individuato – avrebbero scoperto che i russi hanno sfruttato la mia ingenuità, quella di CounterPunch, del professor Michel Chossudosky di Global Research, di Ron Paul, di Lew Rockwell, di Justin Raimondo e quella di altri 194 siti web per aiutare “un candidato ribelle” (Trump) “a scalare la Casa bianca”.
Si noti il termine applicato a Trump – “candidato ribelle”. Questo dice tutto.
I governi occidentali sono a corto di scuse.
Dall’insediamento del primo governo Clinton l’ammontare dei crimini di guerra dei governi occidentali è superiore a quello della Germania nazista. Milioni di musulmani sono stati macellati, deportati e diseredati in sette Paesi. Non un singolo criminale di guerra occidentale è stato ritenuto responsabile di tutto ciò.
L’ignobile “Washington Post” è il principale difensore di questi criminali di guerra.
L’intera stampa e le TV occidentali sono così pesantemente implicate nel peggiore dei crimini di guerra della storia umana che, se la giustizia farа il suo corso, le “presstitutes” saranno sul banco degli imputati insieme ai Clinton, a George W. Bush e a Dick Cheney, a Obama e ai loro agenti “neocon” ed esecutori, come è il caso che sia.
Fonte originale: Paul Craig Roberts.org
Traduzione di Megachip
Da Redazione  – Dic 07, 2016