Licenziati per aver chiesto la busta paga

saranno stati i fascisti che cancellano e negano diritti….
 

Palermo, 9 feb. (AdnKronos) – Licenziati per aver preteso la busta paga dai loro datori di lavoro, una società di imprenditori cinesi. E’ accaduto a cinque palermitani che lavoravano, nei primi tempi in nero, per un centro commerciale di Bagheria (Palermo) gestito da una società cinese. Dopo un controllo della Guardia di finanza sono stati messi in regola e quando hanno chiesto di poter ricevere la busta paga effettiva sono stati licenziati. Il Tribunale del lavoro di Termini Imerese, con diverse sentenze, nel 2017 ha dichiarato nulli i loro licenziamenti, ha ordinato la loro reintegra e ha condannato l’azienda a pagare le retribuzioni maturate. Con le sentenze, la società è stata condannata a reintegrare i lavoratori nei rispettivi posti di lavoro e a pagare loro le retribuzioni maturate. I lavoratori hanno richiesto il pagamento in loro favore di una somma pari a 15 mensilità in sostituzione della reintegra. L’azienda non ha mai corrisposto ai lavoratori quanto stabilito dal Tribunale e per tale motivo alcuni di questi hanno avviato delle procedure esecutive contro la società, effettuando dei pignoramenti. “La battaglia che abbiamo condotto a fianco di questi lavoratori è stata in primo luogo per la difesa del sacrosanto diritto a un lavoro equamente compensato e retribuito – dicono il segretario della Cgil Palermo Enzo Campo e l’avvocato Pietro Vizzini – Occorre mantenere alta la guardia per contrastare il mancato rispetto delle leggi in materia di sicurezza, di diritti del lavoratore e di tutela ambientale, che consentono a un’impresa di ridurre i costi di produzione e, quindi, di vendere le proprie merci a prezzi molto più bassi di quelli di mercato”.

Qualche scomoda verità sull’immigrazione

verità immigrazione

a chi porti tanti benefici ormai non vi sono più dubbi, si certo, è solo solidarietà


La teoria economica classica afferma che l’afflusso netto di immigrazione, come il libero commercio, porta beneficio alla popolazione autoctona dopo un certo periodo di tempo. Ma la ricerca più recente sta aprendo grossi interrogativi sulla questione, mentre le reali conseguenze sociali e politiche dell’apertura delle frontiere nazionali suggeriscono altresì l’opportunità di mettere dei limiti all’immigrazione.

La sociologia, l’antropologia e la storia hanno fatto grandi progressi nel dibattito sull’immigrazione. Sembra che l’Homo oeconomicus, che vive solamente per guadagnarsi il pane, sia stato messo da parte in favore di uno per il quale il senso di appartenenza è almeno tanto importante quanto il mangiare.

Questo ci fa dubitare del fatto che l’ostilità verso l’immigrazione di massa sia una mera protesta verso la perdita di posti di lavoro, la depressione dei salari e la crescita delle disuguaglianze. L’economia ha certamento giocato una parte nel rilancio delle identità politiche, ma la crisi di identità non può essere espunta semplicemente attraverso le riforme economiche. Il benessere economico non è equivalente al benessere sociale.

Iniziamo però dal campo economico, usando il Regno Unito – che si sta apprestando a uscire dalla UE – come caso di studio. Tra il 1991 e il 2013 in Gran Bretagna c’è stato un afflusso netto di 4,9 milioni di immigrati nati all’estero.

La teoria economica classica afferma che l’afflusso netto di immigrazione, come il libero commercio, porta beneficio alla popolazione autoctona dopo un certo periodo di tempo. L’argomento è che se si aumenta la quantità di forza lavoro, i prezzi (e i salari) diminuiranno. Questo aumenterà i profitti. L’aumento nei profitti porterà a maggiori investimenti, il che aumenterà la domanda di lavoro, giungendo alla fine a capovolgere l’iniziale caduta dei salari. L’immigrazione permetterebbe dunque a una popolazione più ampia di godere degli stessi standard di vita di cui godeva inizialmente una popolazione più piccola – e questo significherebbe un chiaro miglioramento del benessere totale.

Un recente studio dell’economista Robert Rowthorn della Cambridge University, però, ha mostrato che questo argomento è pieno di limiti. I cosiddetti effetti temporanei in termini di spiazzamento dei lavoratori autoctoni e la caduta dei salari può durare per cinque o dieci anni, mentre i benefici si realizzano solo assumendo che non ci sia recessione. E anche se non c’è recessione, se c’è un afflusso continuo di immigrati, anziché un aumento una tantum nella dimensione della forza lavoro, allora la richiesta di forza lavoro potrebbe essere cronicamente inferiore rispetto alla sua offerta. “L’affermazione secondo la quale gli immigrati portano via i posti di lavoro ai lavoratori autoctoni e ne deprimono i salari“, dice Rowthorn, “può essere esagerata, ma non sempre è falsa“.

Un secondo argomento economico è che l’immigrazione ringiovanisce la forza lavoro e stabilizza le finanze pubbliche, perché i giovani lavoratori importati generano il gettito fiscale necessario a sostenere un crescente numero di pensioni. La popolazione del Regno Unito dovrebbe superare i 70 milioni di individui prima della fine del prossimo decennio, comportando un aumento di 3,6 milioni, ovvero del 5,5 percento, grazie all’immigrazione netta e a un surplus di nascite rispetto alle morti tra i nuovi arrivati.

 Rowthorn rifiuta questo argomento. “Il ringiovanimento attraverso l’immigrazione è come la corsa di un criceto nella ruota“, dice. “Per mantenere una riduzione permanente del tasso di dipendenza c’è bisogno di un afflusso interminabile di immigrati. Una volta che l’afflusso si interrompe, la struttura demografica si capovolge e torna alla sua traiettoria iniziale“. Un afflusso inferiore e un’età di pensionamento più alta sarebbero una soluzione migliore nel caso di una popolazione che invecchia.

Perciò, anche con risultati ottimi, come evitare una recessione, l’argomento economico a favore di un’immigrazione su larga scala difficilmente può dirsi decisivo. Perciò il vero nocciolo della questione resta il suo impatto sociale. Da questo punto di vista, se da un lato c’è il noto beneficio dovuto all’incontro tra le diversità, dall’altro c’è il rischio di una perdita di coesione sociale.

David Goodhart, ex editore della rivista Prospect, ha sostenuto la tesi di una limitazione dell’immigrazione da un punto di vista socialdemocratico. Goodhart non prende posizione sul fatto che la diversità culturale sia intrinsecamente o moralmente buona o cattiva. Dà semplicemente per scontato che la maggior parte delle persone preferisca vivere con altre persone a loro simili, e che i politici debbano assecondare questa loro preferenza. Un’atteggiamento “laissez-faire” sulla composizione della popolazione di un paese è tanto insostenibile quanto l’indifferenza alla sua dimensione.

Per Goodhart il nocciolo dell’avversione dei liberali al controllo dell’immigrazione è la loro visione individualista della società. Non riuscendo a comprendere l’attaccamento delle persone verso le comunità nelle quali sono radicate, etichettano come irrazionale o razzista qualsiasi avversione all’immigrazione.
 
L’eccessivo ottimismo dei liberali sulla facilità di integrare gli immigrati deriva dalla stessa fonte: la società è vista come niente altro che un insieme di individui, per cui l’integrazione è un non-problema. Certo, dice Goodhart, gli immigrati non devono per forza abbandonare del tutto le loro tradizioni, ma “esiste una cosa chiamata società“, e se essi non faranno uno sforzo per appartenervi, i cittadini autoctoni troveranno difficile considerare i nuovi arrivati come parte della loro “comunità immaginata“.

Un afflusso troppo rapido di immigrati indebolisce i legami di solidarietà e, nel lungo termine, erode i legami affettivi che sono indispensabili per sostenere lo stato sociale. “Le persone saranno sempre favorevoli verso le loro famiglie e le loro comunità“, dice Goodhart, ed “è compito di un liberalismo realistico sforzarsi di trovare una definizione di comunità che sia abbastanza ampia da includere persone con diversi retroterra culturali, ma senza essere talmente ampia da diventare priva di significato“.

I liberali e i liberisti lottano fianco a fianco per sostenere un’immigrazione senza alcuna restrizione. Molti politici liberali vedono gli stati nazionali e la lealtà verso di essi come ostacoli a una maggiore integrazione politica dell’umanità. Si appellano a doveri morali che si estendono ben oltre i confini fisici e culturali delle nazioni.

Ad essere in discussione è il più antico dibattito nelle scienze sociali. Le comunità possono essere create semplicemente dalla politica e dai mercati, o presuppongono innanzitutto un senso di appartenenza?

A me sembra che chiunque ragioni su tali questioni debba concordare con Goodhart che la cittadinanza, per la maggior parte delle persone, sia qualcosa dentro la quale si nasce. I valori nascono da una particolare storia e da una particolare geografia. Se la composizione di una società viene modificata troppo rapidamente, ciò getta le persone alla deriva rispetto alla loro storia, e le rende prive di radici. L’ansia dei liberali di non sembrare razzisti impedisce loro di comprendere queste verità. L’inevitabile conseguenza è l’esplosione di ciò che ora viene definito populismo.

La conclusione politica da trarre è abbastanza semplice, ma vale la pena ripeterla. La tolleranza della persone verso il cambiamento e l’adattamento non deve essere forzata oltre il limite, per quanto questo possa cambiare da paese a paese. In particolare, l’immigrazione non dovrebbe essere spinta oltre un certo punto, altrimenti innescherà inevitabilmente reazioni ostili. I politici che non riescono a “controllare le frontiere” non meritano la fiducia della loro gente.

di Robert Skidelsky – 05/12/2017  Fonte: Voci dall’Estero

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=59850

I fanatici dello Ius Soli

Non esiste soltanto il fanatismo islamico. Esiste anche un fanatismo “liberal”, laicista e politicamente corretto.  E’ il fanatismo del pensiero unico.  Da noi ha contaminato tutti, ma il Partito Democratico (che già nel nome scelto e nel simbolo dell’asinello è emblema dell’americanismo più bovino, anzi asinino)  ne è la massima espressione italica.
 La legge sullo  Ius Soli, come le unioni (in)civili, dimostra che il Pd non è un partito moderato, ma un partito estremista a fortissima componente ideologica. Un partito di fanatici dell’ideologia. E’ il Partito radicale di massa profetizzato da Augusto Del Noce. Il Pd passa per un partito moderato, di centrosinistra,  soltanto perché non è più comunista, e nemmeno socialdemocratico, ma “liberal”. Accetta il capitalismo e addirittura si è legato ai mostri della finanza mondiale. Sostiene l’atlantismo e le “guerre umanitarie” decise da Washington. Fa dell’Unione europea un riferimento irrinunciabile.
E’ quindi parte integrante del Sistema, anzi in Italia  è il Sistema. Ma ciò non toglie che di fanatici stiamo parlando.  I fanatici del pensiero unico politicamente corretto. I “liberal” (di cui sono piene le redazioni giornalistiche, i salotti buoni e i bordelli dello spettacolo) sono degli estremisti di tipo nuovo. Seguendo le linee formulate nelle università americane, vogliono rivoluzionare la società, sovvertirla, ma non in senso socio-economico, visto che le forze della globalizzazione (mercato e tecnica) sono già in sé sovversione permanente.
 
Atei espliciti o mascherati, odiatori del sacro pure quando vanno a Messa (vedi Renzi), vogliono sovvertire la famiglia – di fatto dissolverla – e l’appartenenza etnica, anche qui dissolvendola in un modello globalista di meticciato indistinto.
E’ questo il loro modello di “civiltà: il crogiolo degli uomini senza identità. Sostenitori di fatto del capitalismo culturalmente più truce e materialista, quello delle multinazionali e della finanza, riservano semmai la vessazione fiscale alla piccola e media impresa, che  ha il torto di essere ancora a misura d’uomo.
 
Inoltre, i liberal  ereditano di fatto tutti i temi sovversivi del Sessantotto pensiero,  rielaborato nelle università americane.  Mirano a  distruggere le differenze religiose, etniche, culturali, in nome di un universalismo astratto ed inumano, e al contempo vogliono liberare l’individuo da tutti i legami (religiosi, etnici, familiari, sessuali) e da tutte le identità. Sono postmoderni che vogliono portare all’estremo la logica nichilista della modernità.
Sono paramassoni che trovano  ampia sponda nell’ala più modernista e ideologizzata del clero cattolico.  Lo stesso Renzi viene dalle fila del modernismo cattolico o, come si diceva una volta, del “cattolicesimo democratico”. Fanatici del politicamente corretto, postcomunisti o modernisti cattolici , hanno trovato nell’ideologia dominante,  anticristiana ed antiumana,  la loro nuova bandiera. La stessa bandiera della plutocrazia americana dei Soros, dei Gates, dei Bezos, dei Bloomberg, dei Buffet, degli Zuckerberg  e compagnia. E naturalmente di Barak Obama il guerrafondaio, il santino dei progressisti mondiali, la cui più limpida (si fa per dire) conquista progressista fu la legge sui bagni separati per transessuali.
Tanti voti, ma non solo.
 Lo Ius Soli offrirà al Partito democratico  nei prossimi anni un bacino potenziale di circa ottocentomila voti di “nuovi italiani”. Non sono pochi. Ma l’ostinazione sullo Ius Soli non dipende solo da un calcolo elettoralistico. Dipende anche e soprattutto da questo nuovo e impressionante fanatismo ideologico. Ce li ricordiamo, i nostri liberal,  soltanto cinque anni fa, nel 2011, centocinquantesimo anniversario dell’ unità italiana, quando sventolavano il tricolore in funzione antileghista.
 
A che cosa corrisponda per loro il tricolore è presto detto: nient’altro che l’adesione a un modello astratto di patria per tutti e per nessuno. Per tutti, perché la cittadinanza italiana del modello Ius Soli va  data a chiunque o quasi; per nessuno, perché viene svincolata da qualsiasi appartenenza concreta. Intendiamoci: in fondo tutti i nazionalisti hanno sempre sacrificato le patrie locali, carnali, alla “patria ideologica”, come ha insegnato anche il grande filosofo belga Marcel De Corte. Questo è il peccato originale del nazionalismo. Ma oggi la patria ideologica è diventata nient’altro che una grande stazione di transito di esseri sradicati.  Anche quando i liberal insistono  a parlare  di Europa, di “patria europea”, non temiamo.
Per loro l’Unione Europea è solo un’unione economica senza identità, retta da astratti principi cosmopoliti e che si offre come laboratorio futuro dell’umanità meticcia (hitlerismo rovesciato modello conte di Kalergi) e magari di un futuro Stato mondiale, quello che piaceva tanto agli estensori del Manifesto di Ventotene, Rossi e Spinelli. Lo Ius Soli è “un atto di civiltà” solo per dei fanatici dell’ideologia, traviati dall’ideologia.
Questo immigrazionismo estremo non è nient’altro che un hitlerismo capovolto e che corrisponde alla nota sentenza di Nichi Vendola: “Il progresso passa dalla mescolanza delle razze”. Al posto della follia della supremazia della razza ariana, ci becchiamo oggi la follia mondialista della razza unica. Dietro alla retorica del multiculturalismo ci sta lo spettro dell’azzeramento delle culture, a cominciare naturalmente dalla nostra.
Ingegneria sociale.
La legge sullo Ius Soli, come quella sulle “unioni (in)civili”, il divorzio breve, la “stepchild adoction”, la liberalizzazione della cannabis  e simili, è una legge di ingegneria sociale. Sotto il pretesto di difendere indefiniti “diritti”, modella la società secondo un ben preciso progetto ideologico, che come ho  già scritto  non è più marxista ma “liberal”.
Non è infatti un progetto pensato da teorici marxisti, ma forgiato nelle università americane. Non è diffuso con il terrore, ma con la propaganda e la suggestione mediatica. Rimane però un progetto di ingegneria sociale.
I suoi sostenitori si dicono “multiculturalisti”, ma in quanto fedeli adepti del globalismo in realtà vogliono il pensiero unico, il mondo unico, il popolo unico, la razza unica, la lingua unica, persino il sesso unico (con infiniti “generi”).
L’uomo viene pensato come individuo atomizzato, mobile e sradicato; molti individui come massa o come “moltitudine” (Toni Negri). Mai come popolo. Perché tutti questi individui siano davvero liberi, devono emanciparsi da Dio, dalla Chiesa, dalla tradizione, dalla comunità di appartenenza, dall’etnia, dall’origine, dalla famiglia (libertinismo e femminismo) e persino dal proprio sesso (omosessualismo, transessualismo, genderismo). Tutto nel nome del magnifico mondo “liberal”, capitalista e postsessantottino, che in realtà è un mondo da incubo. Che è poi il mondo della globalizzazione, cioè dell’uniformazione tecnico-mercantile del mondo. Ed è il mondo del pensiero unico politicamente corretto, caratterizzato dal controllo mediatico delle immagini e delle notizie, e dal controllo orwelliano delle parole secondo le regole della “neolingua”.
 
L’idea che gli uomini siano intercambiabili, che basti nascere in Italia per essere italiano, è tipica del pensiero economico che trionfa con la globalizzazione. Esiste solo ciò che è misurabile, quantificabile, esistono solo gli atomi senza appartenenza costitutiva. Per il pensiero economico, Milano resta Milano anche se abitata soltanto da cinesi. E Roma resta Roma anche se abitata soltanto da marocchini. In realtà non sarebbe più Milano e non sarebbe più Roma. Ma il pensiero economico è astratto, strumentale e  calcolante, non può capirlo.  Addio radici, tradizioni, culture radicate, addio legami stabili. Deve esistere solo l’uomo massificato, desacralizzato, desocializzato, senza radici, persino senza una definita identità sessuale. Non è vero che non vi sono più le ideologie. Piuttosto, ne è rimasta soltanto una.  Forse non è la più violenta. Senz’altro per  la nostra civiltà è la più suicida. di Martino Mora – 20/06/2017  Fonte: Martino Mora

Francia: la sinistra mondialista acclama il nuovo “enfant prodige” Macron, paladino della finanza cosmopolita.

epa05948994 Supporters of French presidential election candidate for the 'En Marche!' (Onwards!) political movement Emmanuel Macron (not pictured) gather at the Carrousel du Louvre to discover the results of the second round of the French presidential elections in Paris, France, 07 May 2017. EPA/CHRISTOPHE PETIT TESSON

Tutto come previsto il risultato al primo turno delle elezioni presidenziali in Francia: vincono i due candidati largamente favoriti, Emmanuel Macron e la Marine Le Pen.

Il primo, il giovane Macron, rappresenta largamente l’establishment della grande finanza e dell’elite politica dominante in Francia, quella collegata con la massoneria ed i circoli dei potentati finanziari sovranazionali.
Che sia di centro o che sia di destra o che appartenga alla sinistra social democratica (quella stessa sinistra squalificata del presidente uscente Francois Hollande), conta poco o nulla. Si tratta soltanto di distinzioni formali dei vecchi schemi del 900 ormai obsoleti.
Infatti non a caso tutti i partiti e gli altri candidati, da Fillon al candidato socialista Benoit Hammon, tutti sconfitti nella contesa elettorale, hanno già proclamato l’intenzione di creare un fronte comune contro la candidata Marine Le Pen, del Front National, considerata un “pericolo” per l’establishment visto il suo programma di uscita dall’euro, abbandono della NATO, difesa delle frontiere e riavvicinamemto alla Russia.
L’unica eccezione il candidato dell’estrema sinistra, Jean-Luc Mélenchon, quello che veniva considerato il Tsipras francese, non ha ancora dato al momento indicazioni precise su chi votare al ballottaggio del secondo turno. Lui è fuori dai giochi ma il suo elettorato non è detto che dia necessariamente i suoi voti al condidato della finanza ipercapitalista Macron. Esiste quindi un margine di rischio per una possibile vittoria di Macron.
In ogni caso, il fronte unito dei globalisti che si andrà a coalizzare contro la Le Pen è caratterizzato dal neoliberismo, quale elemento comune ed ideologia di base.
Si tratta di quel fronte che aborrisce qualsiasi forma di allontanamento della Francia dalla UE e dal sistema dell’euro e che vuole fermamente continuare a mantenere la Francia al servizio degli interessi della grande finanza e della politica di dominazione egemonica USA, quella che vede le nazioni europee come vassalli di Washington, inesistenti sul piano internazionale. In una parola il fronte della conservazione.
Bisogna considerare che Il proletariato e la piccola borghesia francese, vittime della globalizzazione finanziaria, attraverso un voto alternativo ai denominati “populisti” come la Le Pen, stava tentando di uscire dal paradigma liberal-libertario e da quello del pensiero unico. Il panorama politico nazionale francese sta di fatto crollando, con i vecchi partiti storici ormai squalificati ed alcun forze come il FN ed altre, cercano di ricomporlo sulla base di una nuova presa di coscienza dei ceti produttivi marginalizzati dalle politiche neoliberiste dei governi asserviti agli interessi dei potentati finanziari.
 
A questo tentativo di ricomposizione, con tutti i limiti dati dalle caratteristiche della Le Pen e dalle sue ambiguità su alcune tematiche della contrapposizione al sistema globalista, il fronte neoliberista ha risposto ricompattandosi e presentando il suo candidato “enfant prodige”, Emanuel Macron.
Questo giovane “rampollo dell’alta borghesia”, vanta poca esperienza ma dispone di molti titoli: banchiere presso la potente banca Rothshild, specializzato nella Ena, l’alta scuola per quadri amministrativi da cui è uscita una buona parte della elite politica transalpina, con un professato impegno a sinistra, milionario grazie ai buoni affari realizzati con le multinazionali (Nestlè e Pfizer), membro dei circoli liberali che contano, come l’Istituto Montaigne, vicino alla Confindustria, sostenitore dell’immigrazione, della società multiculturale e cosmopolita, fervente sostentore dell’atlantismo e dell’interventismo francese a seguito degli USA (il vecchio “sub imperialismo” praticato dalla Francia in Africa e Medio Oriente).
Su di lui punta il fronte neoliberista, quello della grandi banche, della Confindustria e della oligrarchia europea di Bruxelles per mantenere sistema e privilegi della classe dominante. Non a caso a Macron sono già arrivate le congratulazioni della Merkel e dei responsabili della UE che vedono il lui lo “scampato pericolo” (se proseguirà ad avere i consensi al secondo turno).
 
Esiste però un problema: questo giovane candidato non sembra possedere carisma, al contrario i discorsi li legge e lui stesso dice che a volte non capisce cosa gli scrivono, si limita a ripetere frasi banali e generiche come “innovazione” e “riforme” mentre dimostra una certa prevenzione e disprezzo verso gli strati popolari della società francese definiti da lui in più occasioni come “illetterati” o “avvinazzati”. Macron loda i vantaggi dell’ipercapitalismo ed esalta la corsa all’arricchimento individuale, oltre a sostenere che non esiste una cultura francese ma piuttosto una cultura multipla.
Sarà davvero questo il personaggio a cui gli strati popolari francesi, quelli dei piccoli produttori, agricoltori, artigiani e piccoli commercianti, rovinati dalle politiche di Bruxelles e dalla globalizzazione, daranno il loro voto? Qualche dubbio esiste e qualche speranza per la Marine Le Pen al secondo turno.
Apr 24, 2017 di  Luciano Lago

Svezia, Rfid: il chip sottopelle che ‘trasforma’ i dipendenti in “cyborg”

rfidÈ grande come un chicco di riso ed è in grado di sostituire il documento d’identità, la carta di credito, il badge, può aprire porte e attivare pc e stampanti: si tratta di un chip che, impiantato sotto pelle, può trasformare gli uomini in “cyborg”.
Nell’azienda svedese Epicenter è boom di adesioni per il chip Rfid. Da quando è stato lanciato il programma nel 2015, già 150 dipendenti hanno aderito e si sono fatti impiantre il chip sottopelle.
L’adesione è esclusivamente su base volontaria: chi, tra i 2 mila dipendenti del complesso, lo desidera può sottoporsi all’intervento, che è indolore. Il chip Rfid, grande quanto un chicco di riso, viene iniettato sotto la pelle tra il pollice e l’indice grazie a una siringa con un microago. In pochi secondi i dipendenti diventano in grado di timbrare il cartellino, interagire con le macchine dell’azienda, ma anche fare aquisti semplicemente avvicinando la mano a un lettore.
C’è però il risvolto della medaglia: il microchip offre alla società che lo installa la possibilità di controllare dove si trovano i dipendenti, quanto spesso vanno al lavoro e anche che cosa acquistano. Tuttavia, i sostenitori dell’iniziativa non sono preoccupati per eventuali violazioni della privacy per via delle severissime leggi svedesi in materia. Inoltre, i l chip è biologicamente sicuro.
L’ E picenter è un complesso che ospita diverse aziende di information technology e startup che costituiscono il motore della veloce crescita svedese e dei record di occupazione giovanile. L’iniezione è praticata solo ai dipendenti che lo chiedono: accettarla o rifiutarla non ha alcun influsso sulla carriera, assicurano dalla sede. In poco tempo, il chip è diventato molto popolare.
“Il maggiore beneficio offerto dal chip è convenienza e praticità – spiega Patrick Mesterton, cofondatore e amministratore delegato di Epicenter – perché ti offre funzioni multiple senza ricorrere a carte di credito, documenti d’identità o chiavi”.
via Informazione Consapevole – Di Ginevra Spina

Otto miliardari ricchi quanto mezzo pianeta. L’incubo del capitalismo è realtà

Homeless Man on the Street

Homeless Man on the Street

tutto questo è stato possibile grazie anche ai difensori “dell’europa delle banche che basta riformarla”, dei difensori della libera circolazione dei capitali,  merci e uomini contro le minacce “Populiste” come il padrone USA vuole.


Il noto non è conosciuto. Così diceva Hegel. E non è conosciuto perché lo diamo per scontato o rinunciamo a ragionarvi serenamente, complice la distrazione di massa che regna a ogni latitudine. Lo sappiamo da anni. Anche da prima che ce lo ricordasse Thomas Piketty nel suo studio sul capitalismo nel ventunesimo secolo.
Il mondo post-1989 non è il mondo della libertà, come ripetono i suoi ditirambici cantori: a meno che per libertà non si intenda quella del capitale e dei suoi agenti. Per il 99% della popolazione mondiale il post-1989 è e resta un incubo: un incubo di disuguaglianza e miseria.
Ce l’ha ancora recentemente ricordato Forbes, la Bibbia dei sacerdoti del monoteismo del mercato deregolamentato. Otto super-miliardari – meticolosamente censiti da Forbes – detengono la stessa ricchezza che è riuscita ad accumulare la metà della popolazione più povera del pianeta3,6 miliardi di persone.
L’1% ha accumulato nel 2016 l’equivalente di quanto sta nelle tasche del restante 99%.
Insomma, ci sia consentito ricordarlo, a beneficio di quanti non l’avessero notato o, più semplicemente, facessero ostinatamente finta di non notarlo: il mondo è sempre più visibilmente diviso tra un’immensa massa di dannati – gli sconfitti della mondializzazione – e una ristrettissima classe di signori apolidi dell’oligarchia finanziaria transnazionale e postmoderna, post-borghese e post-proletaria.
Non vi è più il tradizionale conflitto tra la borghesia e il proletariato nel quadro dello Stato sovrano nazionale: il conflitto – meglio, il massacro a senso unico – è oggi tra la nuova massa precarizzata globale e la nuova “aristocrazia finanziaria” (Marx) cosmopolita e liberal-libertaria, nemica giurata dei diritti sociali e delle sovranità economiche e politiche.
 
La massa degli sconfitti della globalizzazione è composta dal vecchio proletariato e dalla vecchia borghesia: il vecchio proletariato è divenuto una massa senza coscienza di erogatori di forza lavoro sottopagata, supersfruttata e intermittente. La vecchia borghesia dei piccoli imprenditori è stata essa stessa pauperizzata dall’oligarchia finanziaria, mediante rapine finanziarie, truffe bancarie e competivitismo transnazionale. L’oligarchia sempre più ristretta governa il mondo secondo la logica esclusiva della crescita illimitata del proprio profitto individuale, a detrimento del restante 99% dell’umanità sofferente.
 
di Diego Fusaro | 16 gennaio 2017

Trattati di Roma, la nuova offensiva del capitale finanziario (60 anni dopo)

fa così strano sentire un pensiero definito comunista in linea con la difesa delle masse e non a lanciare anatemi contro i “populismi”…


bandiera ue

 
 
Sono trascorsi sessant’anni dalla firma dei Trattati di Roma, visti come l’atto fondatore del processo di integrazione capitalista europeo. La data di turno si presta, a ben vedere, all’ondata di celebrazioni che le si abbinano. Ma le dosi massicce di propaganda con cui la CEE/UE è stata venduta ai popoli d’Europa nel corso di decenni, servite ora in dose rafforzata, non riescono a salvarla dal discredito in cui è precipitata e dalla profonda e persistente crisi in cui si trova.
L’anniversario è il pretesto per contrabbandare le più diverse tesi. Il grande capitale e i suoi rappresentanti politici non sono disposti a rinunciare a questo loro strumento.
Questo il punto di partenza per le tesi di salvezza/riforma/rifondazione dell’UE.
Il Parlamento Europeo è di solito molto attivo su questo fronte. Recentemente, ancora una volta ha assunto l’iniziativa. La discussione sul “futuro dell’Europa” ha giustificato l’approvazione di tre relazioni in cui si è delineato il copione previsto per la riforma dell’UE. La destra e la socialdemocrazia le hanno sottoscritte congiuntamente. Non è una novità.
Definire un nemico o una minaccia – “le forze politiche euroscettiche e apertamente anti-europee”, Putin, Trump, il terrorismo – aiuta a giustificare gli obiettivi fissati. Si tratta, in fin dei conti, di scongiurare la minaccia esterna.
Il copione difende “l’aumento delle competenze attribuite al livello europeo”, il che “implica un accordo sulla diminuzione della sovranità nazionale degli stati-membri”. Dimenticano, dunque, le vergognose minacce, i ricatti, le sanzioni, come quelle che sono state indirizzate contro il Portogallo, sotto la copertura dell’attuale legislazione dell’UE. Ma non è abbastanza. Ci vuole di più. Questo perché “la procedura relativa agli squilibri macroeconomici non è attualmente utilizzata in modo sufficiente” e “l’UE necessita di nuove disposizioni legali in materia di politica economica e riforme strutturali fondamentali”.
Le poche decisioni che ancora richiedono l’unanimità tra gli stati-membri – ossia, in pratica, le uniche che ancora li collocano formalmente su un piano di parità – devono essere accantonate e la  regola della votazione per maggioranza qualificata deve prevalere in qualsiasi circostanza (anche se in contrasto con gli attuali trattati).
Va sottolineato che nell’attuale definizione delle “maggioranze” nel Consiglio, in accordo con il Trattato di Lisbona, la Germania ha un peso sette volte maggiore dei voti del Portogallo. Questo per capire chi trae vantaggio dalla fine dell’unanimità…
 
Sempre in linea con la maggiore concentrazione del potere, si propone la creazione di un ministro delle Finanze dell’UE, “a cui dovrebbero essere concessi tutti i mezzi e le capacità necessarie per applicare e far attuare l’attuale quadro di governance economica”. Si, come i prelievi e le sanzioni.
Il bilancio dell’UE deve essere “riorientato”, specialmente per quanto riguarda i fondi strutturali, allo scopo di privilegiare strumenti come i partenariati Pubblico-Privato. Vale a dire: finanziamento pubblico diretto dei monopoli transnazionali, come attualmente già succede con il Piano Juncker.
 
Niente di meno che la demolizione di qualsiasi obiettivo detto di coesione che possa ancora esistere.
Poiché la scalata antisociale non avanza senza il corrispondente attacco alla democrazia e neppure senza un rafforzamento dell’aggressività del sistema, il copione scritto per il futuro dell’UE ha previsto, a grandi lettere, un’inquietante deriva securitaria e militarista. Da un lato, sono resi possibili nuovi attacchi a diritti, libertà e garanzie, in nome della “lotta al terrorismo”, aprendo la porta alla creazione di un sistema di informazioni a livello dell’UE, in collaborazione con strutture di polizia e giudiziarie sovranazionali. Dall’altro lato, è potenziata al massimo la militarizzazione dell’UE nel contesto del rafforzamento della collaborazione con la NATO e anche oltre, con la proposta della creazione di un esercito europeo e il sostegno all’industria europea degli armamenti, puntando all’incremento dell’arsenale militare, messi entrambi al servizio “degli interessi strategici dell’UE”.
 
In modo sintomatico, il copione prevede che “gli stati-membri hanno il dovere di cooperare in modo leale con l’Unione e di astenersi dal prendere qualsiasi misura suscettibile di mettere in discussione l’interesse dell’Unione”.
Resta da dire che tale copione è stato votato favorevolmente dal Partito Socialista, da PSD e CDS e che ha avuto, ha e avrà l’opposizione del Partito Comunista Portoghese e di tutti coloro che non si rassegnano a questo “futuro”che, anche se chi lo annuncia forse ancora non lo sa, in fondo, è già passato…
 
di João Ferreira, parlamentare europeo del Partito Comunista Portoghese da avante.pt  Traduzione di Marx21.it
Notizia del: 24/03/2017

Londra: attentato contro la Brexit

attentato BrexitIsis, la creatura dell’Occidente per servirlo.


Ormai pare accertato: a colpire Londra è stato il Terrore. Ancora non si sa se l’assassino di turno abbia agito da solo o in collegamento diretto con la rete dell’Isis, ma il suo scopo è stato raggiunto egualmente. L’attentato segue il quasi-attentato in Francia di una settimana fa, quando a Orly un tizio ha rubato l’arma a una soldatessa ed è stato prontamente freddato. Queste ultime iniziative del terrorismo sono ben diverse dalle precedenti, molto più elaborate e ben più tragiche (vedi Nizza e Charlie Hebdo in Francia e Orlando negli Stati Uniti).

Il che segnala una certo indebolimento della rete del Terrore, che risulta meno efficace di un tempo (anche se può riprendere vigore). D’altronde di colpi ne ha subiti, e molti: in Siria e Iraq gli sciiti (iracheni, siriani e iraniani) e i russi stanno flagellando le bande armate affiliate alla jihad globale.

Un’azione martellante nella quale stanno trascinando anche, sebbene a strappi, gli Stati Uniti, il cui intervento è stato finora alquanto ambiguo e contrastato, forse perché l’azione di tale jihad nei due Paesi, per una eterogenesi dei fini alquanto palese, collimava con i piani dei neconservatori (alquanto influenti nell’esercito Usa) che prevedono, tra le altre cose, la partizione di Iraq e Siria in più Stati.

Nonostante questo, la rete del Terrore ha dimostrato di essere purtroppo ancora vitale, capace cioè di iniziative come quella londinese.
A essere preso di mira è stato il Parlamento, che è il cuore della democrazia in quanto simbolo della sovranità popolare. Quella sovranità popolare che si era espressa nel referendum dello scorso giugno, decretando la Brexit. Un esito imprevisto della consultazione popolare, che ha trovato non poche forze ostative alla sua attuazione, a vari livelli.

Proprio in questi giorni, vinte a fatica tali forze ostative, la premier Theresa May ha annunciato l’avvio della procedura per tagliare il cordone ombelicale che lega Londra alla Ue, che inizierà il 29 marzo. Si può immaginare che la coincidenza temporale dell’avvio vero e proprio della Brexit con l’attentato a Londra sia una mera coincidenza. Ma il Terrore globale non conosce coincidenze, solo obiettivi e simbolismi (esoterici, come detta la sua natura). Nel caso specifico si è voluta colpire la sovranità popolare, che si è affermata contro le ragioni della Finanza globale, che aveva puntato tutto sul Remain. Non che tutti i broker e i dipendenti di banca inglesi abbiano votato Remain, anzi. Ma la Finanza in quanto tale non poteva accettare l’opzione Brexit perché mina alla radice la globalizzazione, quell’ordine costituito ormai dato per permanente che l’ha resa forza egemone del mondo, relegando la politica (e la sovranità popolare) alla marginalità.

Non solo la Finanza, anche il Terrore ha nella Brexit un nemico esistenziale. Il Terrore globale, infatti, è nato proprio a seguito e grazie alla globalizzazione. Ne è un prodotto necessitato.La globalizzazione, almeno quella conosciuta finora, vampirizza il ceto medio, crea masse di emarginati, abbatte barriere, confini, destabilizza società e Stati, creando l’humus perfetto nel quale può allignare e alimentarsi la Paura e il terrorismo. Non solo, se la Finanza non è più libera di vagare a suo piacimento, anche la Finanza oscura, quella creata dal Terrore globale e ad esso destinata, vede erodere i propri margini di manovra.

Ancora: la fine della globalizzazione, che si compirebbe se l’onda di marea iniziata con la Brexit e montata con la vittoria di Trump si abbattesse sull’Europa, creerebbe nuovi scenari geopolitici.

Uno di questi scenari vede la possibile convergenza dell’Occidente e dell’Oriente, Russia e Cina in particolare, contro il Terrore globale. Scenario peraltro probabile, se si sta ad esempio a quanto annunciato da Trump nella campagna elettorale che l’ha visto vittorioso. Per una bizzarra eterogenesi dei fini, infatti, la globalizzazione crea una rete di Terrore globale ma, allo stesso tempo, alimenta divergenze tra Est e Ovest.

Alla radice di tale divergenza la volontà di Mosca e Pechino di non subordinate le ragioni di Stato a quelle della Finanza globalizzata, della quale pure usano.

Il Terrore globale ha una capacità di elaborare molto sofisticata. Sa bene chi sono i propri nemici irriducibili. E sa bene le conseguenze della Brexit. Così ha colpito al cuore dell’Inghilterra. A monito e futura memoria (a breve si decide il destino della Francia: le elezioni possono determinare la Frexit e quindi la fine della Ue). Gli agenti della Paura sanno perfettamente che la Brexit, ponendo non poche criticità alla globalizzazione, mina anche la loro sopravvivenza. Da qui il suo nervoso attivismo.

Un attivismo che ha ricordato un po’ l’infausto 11 settembre, con la povera premier Theresa May portata via dalla sicurezza come allora avvenne per l’imbelle George W. Bush. Ma l’Inghilterra ha alle spalle una storia diversa da quella degli Stati Uniti. Durante la seconda guerra mondiale il Parlamento continuò a riunirsi anche sotto i bombardamenti nazisti. Un pregresso che conforta.
Notizia del: 24/03/2017 PICCOLE NOTE

http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-londra_attentato_contro_la_brexit/16658_19443/

 

A sessant’anni dai Trattati di Roma: “vertici” e “celebrazioni” che hanno fatto il loro tempo

trattati romail popolo dovrebbe festeggiare la troika che li dissangua a suon di austerità? Ah già si deve altrimenti si è populisti….


Piccolo esempio di come gettano al vento i nostri soldi: i festeggiamenti per i 60 anni del Trattato di Roma che istituì la Comunità Economica Europea.

Pensate a quanto costerà quest’inutile ed autoreferenziale fanfaronata, anche solo dal punto di vista della “sicurezza”. Da giorni cercano di coinvolgerci emotivamente con le “informative dei nostri (?) 007″: l’Isis, i Black Bloc, la Banda Bassotti, Fantomas e pure il Jolly Joker caleranno sulla Città Eterna per metterla a sacco!

Ma se proprio hanno tanta voglia di festeggiare, perché queste nullità “europeiste” non s’incontrano da qualche parte, in un esclusivissimo albergo di montagna, cenano a caviale e champagne, si scambiano baci e abbracci, leggono un paio di banalità dei “padri dell’Europa” e poi se ne tornano ordinatamente a casa loro? D’altronde non è quello che fanno quando si riuniscono per il Bilderberg, la Trilaterale, al Bosco Boemo e via cospirando?

Invece no: devono imporre questa “festa” a Roma perché tutti la devono vedere, spendendo cifre assurde per le delegazioni, la farsa della “sicurezza” (ma chi vi fila!) e l’immancabile parterre di ‘escort dattilografiche’ al seguito, tutti pagati dal mitico ed esangue “contribuente”.  E questo senza citare il disagio che questi “summit” provocano nella cittadinanza, espropriata della città per far posto a Sua Maestà l’oligarchia europoide.

Viene sinceramente il dubbio che uno degli scopi dell’evento sia effettivamente quello di far calare dei “contestatori”, che come al solito spaccheranno tutto, dai cassonetti dell’immondizia alla vetrina della bottega del pizzicagnolo, dalle cabine del telefono alla macchina del ragionier Fantozzi parcheggiata sotto casa, che, si sa, sono i simboli per antonomasia dei “padroni”.

Solo di agenti in servizio, questa orgia auto-celebrativa che poteva essere evitata organizzando una comoda audio-conferenza gratuita su Skype, costerà un capitale che, in tempi di deprecati “sprechi”, dovrebbe far sobbalzare sulla sedia di strapagati grilli parlanti i vari professionisti della berlina per “la Casta” ed i suoi vizi, che invece taceranno come tacciono sempre quando annusano pericoli per il loro quieto vivere.

Eppure è tutto così evidente. Ora, tutto questo dispendio di soldi ed energie per mettere intorno a un tavolo i cosiddetti “grandi della terra” può verificarsi puntualmente ed impunemente perché in giro non c’è manco il barlume di una “coscienza storica”. Ma avendo il sottoscritto una preparazione da storico contemporaneo, non mi può sfuggire un particolare non da poco.

Fino a qualche decennio fa gli “incontri al vertice” erano davvero appuntamenti importanti, preparati per mesi, nei quali si decideva qualcosa. Penso, prima della Seconda guerra mondiale, alle Conferenze di Stresa o di Monaco. Oggi, ogni settimana c’è un “vertice”, fatto tanto per fare, per dare l’impressione che esista una politica estera espressione della volontà dei politici. Un inutile ed indecoroso walzer di facce di bronzo che girottolano con le loro cartelline di cui ignorano i contenuti, con un codazzo di delegazioni da fare spavento, più alberghi e cene e via sperperando, fino all’immancabile foto di gruppo (o di classe, da bravi scolaretti che hanno fatto bene i “compiti”) da dare in pasto alle agenzie e ai tiggì, senza che di tutto ciò – intendiamoci – resti traccia nella Storia…

Ecco, di questi sessant’anni dei Trattati di Roma, di cui non frega assolutamente nulla a nessuno, rimarrà probabilmente solo l’ennesimo ammanco di cassa, di danari nostri estorti dal nostro sudore ed andati in cene, conferenze, parate, alberghi, leccapiedi e pattugliamenti di terra, del cielo e dell’aria; e forse, come sussurra qualche malalingua, in dame di compagnia ed altro “materiale umano” per allietare le notti dei convenuti, di certi particolari convenuti alla “festa” di un’Europa senz’anima nel vero senso della parola.

Sì, perché non è credibile mettere su un piano – quello del “terrorismo” – tutti i cattivi pronti a rovinare la “festa” e presentare come delle mammolette prese a studiare il meglio per noi gli stessi che, un colpo dietro l’altro, “commissariando” le nazioni europee, ci hanno esautorato di ogni sovranità, esponendoci oltretutto al pericolo di “spectre” che, come le migliori inchieste hanno dimostrato (Meyssan, Estulin…), sono fabbricate nello stesso esatto luogo dal quale escono i “rispettabili” cantori della “globalizzazione”, di cui questa “Unione Europea” è una diretta ed evidente espressione.

di Enrico Galoppini – 23/03/2017 Fonte: Il Discrimine

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58553

Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene!

La sinistra italiana è una solache “le sinistre” non menzionino il concetto di stato e nazioni (una volta invece ne proteggevano il ruolo fondamentale come regolatore dell’economia in funzione sociale, da decadi è una bestemmia pronunciare la parola nazione, infatti proprio le sinistre hanno abiurato e tradito questa politica economica) è meglio. Non sarebbero manco credibili se non per strumentalizzare e tentare di recuperare “punti”.
 

Molti di noi, mediamente, vivono immersi in un mondo di inconsapevolezze arredato per metà con la caverna di Platone e per l’altra dal migliore dei mondi possibili di Leibniz-Candide. Veniamo tenuti apposta in questo mondo estetico ed etico mentre le nostre élite operano costantemente nelle segrete, dove torturano la realtà coi più affilati strumenti e le tecniche più sofisticate. Sia torturare la realtà, sia tenercelo nascosto, viene fatto per il “nostro bene”, non reggeremmo allo shock e tutte le nostre sicurezze ne risentirebbero.

         (Pierluigi Fagan)
 
 
1. Il libro di Pierluigi Fagan Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump (Fazi, 2017) parla di Stati e di nazioni. Concetti tabù per la sinistra radicale, da non menzionare nemmeno. Dal canto loro, i cultori di destra del Blut und Boden invano vi cercheranno un’esaltazione della Patria e del Re e i seguaci dell’establishment culturale di sinistra avranno il dispiacere di veder messi a nudo il cosmopolitismo progressista e la narrazione della “fine degli stati-nazione”, che verranno chiamati col loro nome proprio: imperialismo.
Sono secoli che la sinistra (tutta, in vari gradi e sfumature) ci ricasca – o ci ritenta. E viene sbugiardata.
Ai suoi tempi Marx criticò l’internazionalismo dei proudhoniani francesi ritenendolo un sostegno allo sciovinismo francese: «Lafargue, senza neppur rendersene conto, per negazione delle nazionalità intende, sembra, il loro assorbimento da parte della nazione francese modello».
 
Mettete “Stati Uniti” al posto di “Francia” e vedrete quante cose quadrano.
Ci volle il realismo di Lenin per criticare l’ostilità di due grandi rivoluzionari come Rosa Luxemburg e Karl Radek all’idea di “autodeterminazione delle nazioni”.
Infine, con l’approfondirsi della crisi sistemica, la sinistra politica e intellettuale – con pochissime eccezioni, che pur esistono grazie al cielo – si è nuovamente comportata come l’inesperto di navigazione che essendo scoppiata la tempesta ha cercato di rimanere vicino alla costa conosciuta andando così a sbattere contro gli scogli, invece di prendere il mare aperto anche senza una meta chiarissima.
Si percepisce dietro a queste difficoltà un errore d’approccio che nasconde varie cose, a volte correlate tra loro a volte no, che vanno dall’opportunismo al dogmatismo, passando attraverso un pregiudizio (ma a volte un paravento) metodologico trasversale che chiamerò “concettualismo accademico”.
 
Cercherò allora di mettere in evidenza il metodo usato da Pierluigi Fagan e il suo vantaggio rispetto al concettualismo accademico, specialmente di stampo marxista.
2. Si parla ormai correntemente di deglobalizzazione. Bene! Finalmente ci siete arrivati! mi verrebbe da dire[1]. Se prima non ci si credeva, grazie ai postumi dell’ubriacatura globalizzatrice, oggi la presidenza Trump ha dato la sveglia. Un caffè nero che provoca conati di vomito e feroci mal di testa. Sempre così dopo una brutta sbornia.
E quindi occorre rifare i conti coi concetti di “Stato” e di “nazione”. O, alternativamente, continuare a vivere nel mondo di Papalla.
Giovanni Arrighi nel suo capolavoro “Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo” (Il Saggiatore, 1996) asseriva che occorre «dipanare il nodo del rapporto fra lo sviluppo dell’Europa, centrato sul commercio estero, e quella superiorità militare che ha consentito per almeno tre secoli agli europei di appropriarsi dei crescenti benefici dell’integrazione dell’economia su scala mondiale».
Il punto sta proprio qui. Lo sviluppo capitalistico occidentale nasce imperialista. Si è svolto cioè attraverso un processo invertito che non è partito dallo sviluppo interno per poi espandersi all’esterno con l’occupazione di spazi, ma è andato nella direzione inversa. La sua storia è quindi una storia imperiale ab origine e, come ha osservato Samir Amin, «non esiste nessuna teoria del capitalismo distinta dalla sua storia»
Invece i marxisti moderni si baloccano molto coi concetti astratti. I loro libri e le loro conferenze sono sostanzialmente luoghi e occasioni di divertimento. Poco male, se poi non si guardasse con sufficienza e sospetto chi cerca di capire nella realtà dove va il mondo e che cosa possiamo fare.
E invece da sempre chi non la pensa in modo conformista o ortodosso è oggetto di accuse gravi. Lo sapeva benissimo Gramsci, si magna licet, che canzonava chi lo accusava di spiritualismo, bergsonismo e persino di “futurismo marinettiano”. Ancora oggi, ci sono sconsiderati che pensano che Lenin fosse un agente dell’imperialismo prussiano e persino che Marx fosse un agente del capitale finanziario newyorkese[2]. Per quanto riguarda invece gli affari correnti, fanno insistente capolino accuse di “filo-putinismo” o “filo-trumpismo”. Basta non essere clintoniani e clintonoidi, basta chiedersi “Cosa sta succedendo? Perché sta succedendo?”, senza accontentarsi delle spiegazioni mainstream, ed è tutto un filare pro questo o pro quello. Al cittadino moderno vengono richiesti sudditanza e continui atti di fede. Dubbi mai. Se recalcitrante, vengono prospettati Ministeri della Verità e si incomincia a mettere in serio dubbio che sulle cose “importanti” sia il caso di far votare il “popolo sovrano”. Un neo servaggio. Propugnato dalla destra? No dalla sinistra. Quella sinistra che poi sbraita contro il populismo.
Questo stato di cose rende sempre più evidente che se un intellettuale non è “organico” nel senso di Gramsci, ovvero disciplinato da un progetto politico che intende – come si dice – “superare lo stato presente delle cose”, esso viene quasi inevitabilmente catturato dal senso comune dell’avversario, da chi lo stato presente delle cose se lo vuol cambiare lo vuole fare alla Gattopardo o alla Vicerè. E viene sedotto dalla sicurezza e dal senso di appartenenza che da questa cattura deriva[3].
Gli intellettuali fedeli solo a se stessi – come voleva e sperava Costanzo Preve – sono molto rari e destinati alla marginalità.
Le idee dominanti sono in ogni epoca quelle che hanno i mezzi per essere veicolate, propagandate ed essere protette culturalmente, politicamente e con la forza.
 
3. Il metodo di analisi di Pierluigi Fagan è quello della teoria della complessità. Questo approccio e quello di derivazione marxiana non sono antitetici, come spesso si crede, ma si compendiano. Io il punto di convergenza l’ho trovato nella nozione di “sistema dissipativo”.
Il processo di accumulazione, in quanto privo di un fine sociale è anche privo di un fine qualsiasi e quindi è letteralmente senza (un) fine. E’ autoperpetuante. Questa caratteristica genera crisi in continuazione. Crisi di sovrapproduzione, di sovraccumulazione, nell’andamento del saggio di profitto e altri fenomeni analizzati da Marx.
Le crisi, nel loro complesso e dal punto di vista dei sistemi dissipativi, si possono descrivere come una produzione di entropia (frutto delle contraddizioni del processo di accumulazione) che deve essere scaricata all’esterno.
Quindi il rapporto interno-esterno è centrale nell’analisi delle concrete società capitalistiche.
In particolare, la nascita del termocapitalismo occidentale, cioè del capitalismo nato in Occidente e poggiante massicciamente sull’utilizzo di fonti di energia, è retroflessa, come già si è detto. In particolare il moderno capitalismo europeo ha avuto origine dall’estroversione, trainata dal commercio estero, di un centro (l’Inghilterra) verso lo spazio esterno, combinata con un processo di retroversione dal commercio estero allo sviluppo industriale e agricolo nazionale. Ma è l’intero processo che conduce al capitalismo occidentale che nasce da una necessità di estroversione: di piccole entità.
 
Una necessità dovuta alla limitatezza delle loro risorse territoriali in relazione alla capacità di accumulazione. Si pensi al percorso che va dalle città-stato italiane e arriva, per l’appunto, a una piccola isola galleggiante nei freddi mari del Nord chiamata “Inghilterra” che col solo 1,7% del PIL mondiale di allora andò alla conquista o alla soggezione di Paesi che assieme contavano per il 60% del PIL mondiale.
Io affermo sempre che il capitalismo occidentale è nato con la battaglia di Plassey, una città del Bengala, nel 1757. E l’ho sostenuto recentemente anche in India, di fronte a militanti della sinistra radicale di quell’immenso Paese (solitamente marxisti-leninisti, ma non solo), che mi guardavano sorpresi ma interessati. Con la rapina del Bengala gli Inglesi ripianarono i debiti coi banchieri olandesi e riuscirono a investire nelle invenzioni della prima rivoluzione industriale. Il gioco iniziò così.
Ora, la capacità di scaricare all’esterno l’entropia generata dal centro (la proiezione di potenza e di capitali “esuberanti”, così come le delocalizzazioni per contrastare la caduta del saggio di profitto, sono esempi di questo movimento) implica che ci sia un esterno, che esso sia libero e che sia popolato da persone disposte a ricevere questa “spazzatura termica” (ad esempio producendo profitto per un centro altro). Già questo implica a sua volta che la dinamica della crisi è direttamente condizionata dai rapporti tra Stati, ovvero dalla configurazione dello spazio geopolitico. E questo spazio è uno spazio di sistemi.
Come ricorda Fagan, l’1,7% di PIL mondiale inglese era un sistema. Per questo ebbe la meglio sul 60% combinato di Cina e India, che non facevano sistema o per lo meno un sistema complesso e soprattutto fortemente dinamico come quello inglese (come mise bene in rilievo Jawarharl Nehru in The discovery of India, scritto mentre giaceva proprio nelle galere britanniche). E coi mezzi militari di ausilio a questo dinamismo.
 
4. La lettura del libro di Pierluigi Fagan induce una prima considerazione: non essere accademici permette di svincolarsi da quell’apparato o camicia di forza concettuale che è il solo ad essere ritenuto legittimo e riconosciuto dai pari. Fagan ha lavorato con le multinazionali, io ho lavorato con le multinazionali. Nessuno di noi due è propriamente un intellettuale col pedigree. Forse è per questo che lui, seguace della teoria della complessità e io, seguace di Marx, ci intendiamo. Non siamo dei “professionisti del concetto” e quindi non facciamo interminabili litigate sui concetti. Per dirla in termini popolari: andiamo al sodo.
I concetti, usati come strumenti, servono a dare un ordine alla realtà, di modo che sia intelligibile e agibile progettualmente. Il metodo di Marx della “risalita dall’astratto al concreto” fa proprio questo[4]. Occorre iniziare l’analisi da un piccolo nucleo di concetti “cellulari”, “elementari”, ma alla fine dell’analisi deve esserci la realtà, che è tale in quanto è “ricca di determinazioni”, come sostiene Marx. E questo è un riconoscimento della complessità del reale.
Ma il pensiero accademico molto spesso si ferma al culto devoto del concetto in sé. Questo è tipico degli intellettuali marxisti, affascinati dalla logica espositiva di Marx, o meglio del primo libro del Capitale, o meglio ancora dei primi tre capitoli del primo libro del Capitale. Ma questo culto del concetto è fustigato dallo stesso Marx, che nelle Glosse a Wagner ha affermato con un certo sarcasmo: «Prima di tutto, io non parto da “concetti, quindi neppure dal “concetto di valore”, e non devo perciò in alcun modo “dividere” questo concetto. Ciò da cui io parto è la forma sociale più semplice in cui si presenta il prodotto del lavoro nell’attuale società, il prodotto in quanto “merce”».
Non è lecito giocare con concetti astratti: «Alles das sind “Faseleien”», sono tutte “stupidaggini”, dice sbrigativamente Marx del filosofare degli economisti accademici tedeschi.
Questo difetto, queste “stupidaggini”, hanno avuto come conseguenza quella di disinnescare la carica rivoluzionaria del pensiero di Marx e di renderlo, per l’appunto, gradevole e gradito in ambito accademico. Era proprio il difetto di cui si era dovuto invece sbarazzare un marxista rivoluzionario come Lenin che contrapponeva gli eleganti schemi teorici di Bucharin (pur sempre ritenuto da Lenin come il miglior teorico del Partito) alla poco elegante natura della realtà: “Da questa disparità, da questa costruzione fatta con materiale difforme – per quanto spiacevole e poco armonico possa parere – non usciremo per un ben lungo periodo» [5].
La sfera culturale marxista è invece periodicamente percorsa dalla parola d’ordine del “ritorno a Marx”, proprio per recuperare i suoi puri “concetti”, mentre un “ritorno a Lenin” – e si capisce perché – sarebbe visto con orrore. E’ un fenomeno molto italiano ed europeo.
Nonostante alcune fiammate soggettivistiche e volontaristiche, il marxismo che da noi ha dominato a partire dal Sessantotto, una stagione che più o meno coincide con le prime avvisaglie della crisi sistemica attuale, si è configurato di fatto come una sorta di marxismo da II Internazionale, alla Kautsky o alla Bernstein, tutto rivolto a leggere nei fenomeni il concretizzarsi, finalmente, delle “condizioni” che preludono l’avvento del comunismo.
E come fece Kautsky con la sua idea di “superimperialismo”, si sono divinati i segnali di uno “spazio liscio” che prende il posto di uno “spazio striato”, increspato. Ovvero è stato annunciato un mondo unificato e appiattito dal capitalismo. Impero di Hardt e Negri è la sintesi più nota di questo annuncio. Ma al pari dell’ipotesi del “superimperialismo” di Kautsky, anche questo è stato un annuncio sfigato. Allora la confutazione a Kautsky fu il primo massacro interimperialistico, la risposta a Hardt e Negri sono stati l’11/9 e l’inizio delle guerre infinite. Di fatto, le due drammatiche confutazioni sono state in entrambi i casi contemporanee all’enunciazione della tesi.
5. L’analisi intellettuale riduce le coordinate e le variabili al minimo (putativamente coincidenti con le ipotesi minime dell’esposizione marxiana e dimenticandosi bellamente che la logica dell’esposizione non coincide mai con quella della scoperta – cosa che ogni scienziato dovrebbe sapere): scontro capitale-lavoro in un sistema omologante, teso allo smantellamento inevitabile di ogni differenza di etnia, di etica e di costumi, di religione, nazione, stato, casta considerati rimasugli pre-moderni e moderni.
E invece il mondo è un casino e così i bei concetti simmetrici ed elegantemente dispiegati non riescono a cogliere i fenomeni, per non parlare di ciò che sta sotto i fenomeni.
Sono troppo ingiusto, troppo critico, troppo grezzo, non capisco le raffinatezze dei ragionamenti? Ma non è che siamo invece un po’ troppo nella merda e qualcuno ancora non vuole capirlo per fedeltà identitaristiche? La reazione a questa incapacità analitico-politica, non è proprio il rifugiarsi in tutte quelle identità e fedeltà premoderne e moderne che si pensavano in via di dissoluzione? Il disastro della reazione non è un segnale di quello dell’azione?
Una reazione che, di certo, non incontra il favore né di Pierluigi Fagan né di chi scrive (e per questo siamo così critici; non per divertimento ma per confessata preoccupazione).
A quelle caratteristiche premoderne e moderne, alcuni associano valori (si veda il ritorno di istanze fasciste, xenofobe, razziste, nazionaliste, il culto per il Blut und Boden e il Medioevo). Non ci piace affatto, ma è inevitabile quando la sinistra perde il contatto con la realtà e si dedica a “utopie letali” come recita il titolo di un libro di Carlo Formenti che ha fatto arrabbiare molti.
Lo scontro di classe non avviene sulla Luna, ma in mezzo a dinamiche impregnate di etnie, religioni, nazioni, Stati, eccetera. Dinamiche con complesse motivazioni ideologiche, culturali, etiche, politiche e materiali. Dinamiche che hanno alle spalle una storia precedente e sono la causa di una storia seguente. E questa storia non si svolge nel vuoto interstellare, ma sulla Terra, su Gea, un ambiente fisico, geografico e materiale.
6. Il libro di Pierluigi Fagan è inevitabilmente anche un libro di Storia, nel senso che guarda gli ultimi decenni con distacco storico (che non vuol dire distacco morale). Lo riesce a fare perché il punto di vista sistemico gli consente di aumentare o diminuire la granularità dell’analisi e le maglie che connettono questi grani.
Se si osserva un quadro impressionista, come ad esempio il “Ponte giapponese” di Monet, se si va troppo vicino si vedranno piccole macchie di colore e null’altro. Occorre distanziarsi, e anche un bel po’, per distinguere il ponte. Allo stesso modo, se si va troppo vicino ai dettagli non correlati della realtà si dirà: “Chissà che cosa significa. E’ tutto un gran disordine”. La famosa “risalita dall’astratto al concreto” di Marx serve proprio a calibrare il livello di granularità dell’analisi della realtà per portarla alla coscienza del soggetto.
Ma quando finalmente si capisce che non bisogna avvicinare troppo il naso bensì distanziarsi un po’ per avere uno sguardo d’assieme che possa cogliere le correlazioni, far intuire pattern, bisogna stare molto attenti a non inforcare gli occhiali sbagliati e vedere quello che fa comodo vedere.
Perché la realtà è in movimento e il movimento spiazza e ciò che spiazza incomoda.
7. Quando la grana è grossa (Stati) i movimenti diventano geopolitici e geostorici. Nell’uso corretto di questi strumenti non c’è nessuna esaltazione della nozione di “potenza” né un interesse particolare per la lotta per il Lebensraum degli stati-nazione. C’è invece una riscoperta della materialità della Storia, della complessità del reale.
L’intellettualità accademica ha invece spesso dimenticato pressoché tutto ciò che costituisce il binomio “materialismo-Storia”. Ha dimenticato il materialismo perché ha espunto la materia, che appunto, nel nostro mondo si chiama Gea. Ha dimenticato la Storia perché l’ha ridotta alla formula per l’attesa delle “condizioni canoniche”, formula prelevata direttamente dalla caverna di Platone.
Una storia ridotta a formula, come a Marx non piaceva: «la “fatalità storica” di questo movimento è … espressamente ristretta ai paesi dell’Europa occidentale». Così Marx nella sua risposta a Vera Zasulič del 1881. Concetto che il rivoluzionario tedesco aveva già espresso in una lettera alla redazione della rivista russa Otečestvennye Zapiski del 1877 dove diceva:
«Nel capitolo sull’accumulazione originaria, io pretendo unicamente di indicare la via mediante la quale, nell’Occidente europeo, l’ordine economico capitalistico uscì dal grembo dell’ordine economico feudale [.]. Ecco tutto. Ma per il mio critico, è troppo poco. Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto».
8. L’intellettualità marxista blasonata ha inanellato un record di sconfitte materiali e di incomprensioni della realtà. Le ultime in ordine di tempo vanno dalle “primavere arabe” all’elezione di Trump[6]. Pur non essendo il tema principale del libro, Fagan utilizza il suo approccio per dare un senso alla “sorpresa” The Donald. E ora io cerco di sintetizzare questo senso dal mio punto di vista.
Se l’affollamento geopolitico del mondo e la sua complessità riducono agli USA (e in subordine all’Occidente) la possibilità di utilizzare l’esterno come spazio per la produzione materiale di ricchezza e potenza, questa produzione deve essere ricondotta e protetta là dove il potere della società capitalistica viene originariamente gestito: lo stato-nazione. Lì è il punto di avvio dell’espansione e lì è il punto di approdo della contrazione.
La lotta fra Trump e il vecchio ordine si svolge su questo sfondo del quale tutti i contendenti devono tener conto, volenti o nolenti. Assisteremo a colpi e contraccolpi, ma la direzione è segnata. In questo spazio affollato e quindi ristretto gli USA devono negoziare da una posizione di forza[7]. Ma questa forza, come si capisce usando un po’ di logica e buon senso, non può dipendere da circostanze esterne che non siano strettamente controllabili, altrimenti si entrerebbe in un giro vizioso. Il problema degli Stati Uniti – e la ragione dell’ostilità del “deep state” – è che essi sono invischiati fino al collo in circostanze esterne sempre meno controllabili, cioè nella globalizzazione e nella finanziarizzazione (che in realtà è il fattore principale). Globalizzazione e finanziarizzazione che hanno informato di sé proprio il “deep state” e il personale politico alleato che mostra infatti un’enorme fatica ad adattarsi al cambiamento persino quando gli gioverebbe (vedi le sanzioni alla Russia).
Questa è la realtà, il resto è rappresentazione. A meno che si pensi veramente che un miliardario americano si possa svegliare una bella mattina con l’idea di diventare presidente degli Stati Uniti, così solo perché gli garba.
La la land !
NOTE
[1] Si veda P. Pagliani, Al cuore della Terra e ritorno. Parte 2. La crisi che verrà: definanziarizzazione e deglobalizzazione. 2013 (scaricabile gratuitamente da http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=73540).
[2] Sarebbe stato meglio per Marx, così i suoi figli non sarebbero morti perché non poteva comprare il cibo e le medicine e non avrebbe dovuto a volte impegnare persino i calzoni per poter sopravvivere – l’agente dell’Alta Finanza peggio pagato del mondo!
[3] «[Il duca] deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica, aveva un’ultima ambizione: quella d’essere nominato senatore; se, quindi, per finir bene dinanzi all’opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s’era legato ancora più stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale [l’associazione locale della Destra], contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro questa società era sorta una Progressista, alla quale s’era fatto ascrivere Consalvo [nipote del duca e principe di Mirabella]. “Zio e nipote l’un contro l’altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchio?” dicevano in piazza; ma le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d’amore e d’accordo, che il duca era ben contento d’avere il nipote nel campo contrario, come il principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto, quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la sinistra non aveva ancora “un finanziere della forza del Sella”, né “oratori eleganti come Minghetti”. Ma a quelli che non nascondevano i disinganni prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: “L’errore è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto bisogno d’un pastore con relativi bastoni e cani di guardia…”». F. De Roberto, I Vicerè, pag. 258. Progetto Manuzio, http://www.classicistranieri.com/liberliber/De%20Roberto,%20Federico/i_vice_p.pdf
[4] Si veda K. Marx, Introduzione a Per la Critica dell’Economia Politica. Capitolo 3. Il metodo dell’economia politica.
[5] V. I. Lenin, Rapporto sul programma del partito, VIII congresso del PC(b)R, 19 marzo 1919.
[6] «Così qualche settimana dopo sono tornato a fargli visita [al Pentagono al generale del Joint Staff che aveva visto subito dopo l’11/9, NdA]. Stavamo già bombardando in Afghanistan. Chiesi: “Abbiamo ancora intenzione di fare la guerra all’Iraq?” E lui disse: “Oh, è molto peggio”. Raggiunse la sua scrivania. Prese un pezzo di carta e disse: “L’ho appena avuto da sopra – intendendo l’ufficio del Segretario della Difesa – oggi”. E disse: “Questa è una memo che descrive che stiamo per far fuori (take out) sette paesi in cinque anni, a iniziare dall’Iraq, e poi la Siria, il Libano, la Libia, la Somalia, il Sudan e per concludere, l’Iran.”. Chiesi: “E’ classificata?” Rispose: “Sì, signore”. Dissi: “Beh, allora non mostrarmela”». Generale Wesley Clark. Intervista alla rete TV “Democracy now”, 2007. Ecco la vera origine delle “primavere arabe”.
[7] Tra le cose su cui Trump sembra voler negoziare, per aver voce in capitolo, geopolitica e di business, ci sono le nuove “vie della seta” (OBOR: One Belt One Road).
di Piero Pagliani – 26/02/2017 Fonte: Megachip