Le sfumature del nazionalismo

Macron-Le-PenE’ di moda parlare male del nazionalismo. Emmanuel Macron, candidato di riferimento dei poteri forti per le prossime presidenziali francesi, in un’intervista incensatoria, apparsa su “la Repubblica”, è arrivato a fare  proprio un vecchio slogan di Mitterrand: “il nazionalismo è la guerra”. Quasi che dichiararsi identitari voglia  dire, per forza, ricreare la conflittualità tra i diversi Paesi europei.
La stoccata propagandistica di Macron ripropone peraltro un vecchio adagio, grazie al quale il nazionalismo è costantemente chiamato sul banco degli accusati  per rispondere dei peggiori crimini dell’umanità.  In realtà la questione è un po’ più complessa e va ripresa alle radici, cercando di andare all’assenza dell’idea nazionalista e delle sue possibili variabili.
 
Un utile “bussola” è la recente ristampa, per l’Editrice Oaks,  di un classico di Jacques Ploncard d’Assac, “Le dottrine del nazionalismo”. Il tempo trascorso dalla prima edizione  (1965) non  sminuisce il valore dell’opera, offrendo un panorama composito delle culture del nazionalismo europeo, declinato in molte delle sue variabili: dalle leggi dell’eredità spirituale opposte all’”Io”, all’individualismo,   di Edouard Drumond (per il quale “un essere” è un insieme, in quanto “composto di tradizioni che lo riconnettono a coloro che son vissuti prima di lui, di sentimenti che lo connettono alle persone che sono del suo stesso paese”)  al “determinismo” di Maurice Barrès, che vede nel nazionalismo la difesa dell’organismo nazionale ed il lievito di un nuovo socialismo, impegnato nella difesa materiale e morale della classe più numerosa e più povera;
dallo “spirito scientifico” di Paul Bourget, con la sua teoria dell’evoluzione nazionale (per cui “ogni generazione, come ogni istituzione, è un piano aggiunto” all’edificio nazionale e la costruzione tanto sarà più solida quanto più poggerà “sul piano sottostante”)
 
al “nazionalismo integrale” di Charles Maurras, evocazione non di un mito, ma di una folla umana di visi umani, di paesaggi, di monumenti (“Una patria – scrive Maurras –  sono campi, muri, torri, case; sono altari e tombe; sono uomini viventi, padre, madre e fratelli, e i fanciulli che giocano nei giardini, i contadini che mietono il grano, i giardinieri che colgono le rose, i mercanti, gli artigiani, gli operai, i soldati: non c’è al mondo cosa più concreta”);
da   Möller van den Bruck, che vede nella nazione una comunità di valori in continua evoluzione e nel nazionalismo “la coscienza di questo processo evolutivo”, a  Ernst von Salomon, il quale riconcilia socialismo e nazionalismo, individuando nel primo “quella tenuta interiore, quell’unità spirituale di cui il XIX secolo ci ha privato”, laddove – come nota   Ploncard d’Assac –  il razzismo hitleriano “trasforma la comunità in tribù errante che non ha altri limiti che quelli che la sua potenza le permette di raggiungere e di mantenere,né ha doveri che verso sé stessa”; dall’idea di Nazione di José Antonio Primo de Rivera, per il quale la Patria non è solamente “l’attrazione della terra in cui siamo nati”, né “l’emozione immediata e sentimentale che sentiamo in presenza del nostro suolo”, quanto soprattutto “un’unità di destino nell’universale”, all’integralismo lusitano di Antonio Sardinha, espresso dall’idea tradizionale della “permanenza nella continuità”, proiezione del genio di ciascuna patria nel più alto ideale della civiltà cristiana.
 
Nella  proposta di Ploncard d’Assac il  nazionalismo dottrinario emerge in tutta la sua complessità, invitandoci – come scrive Luca Gallesi,  ad introduzione de “Le dottrine del nazionalismo” – “ … a riprendere il filo di un discorso interrotto, di ricominciare a guardare i fatti per quello che furono e giudicare le idee senza preventive demonizzazioni”. Evitando – aggiungiamo noi – di restare vittime delle  dichiarazioni alla  Macron, sull’uguaglianza tra nazionalismo e guerra.
 
Anche qui può esserci d’aiuto il testo, “Romanticismo fascista”,  di un altro autore francese, Paul Sérant, uscito, nel 1960, per le Editions Fasquelle e poi pubblicato, nel 1961, da Sugar.
Sul tema del nazionalismo e della guerra Sérant offre pagine esemplari: “A partire dal 1936, vale a dire al tempo del Fronte popolare e della guerra di Spagna , si produce in Francia uno strano capovolgimento di posizioni in materia di politica estera. Gli uomini di sinistra, fino a quel momento pacifisti e partigiani d’una politica d’intesa internazionale, anche a prezzo di cospicui sacrifici da parte della Francia, si sentono minacciati dalla sconfitta della loro ideologia nei Paesi confinanti: e il loro pacifismo, che s’accompagnava a una simpatia per gli elementi democratici dei Paesi in questione, cede un po’ alla volta a un bellicismo ‘antifascista’”.
Dall’altra parte gli ambienti nazionalisti francesi auspicavano accordi con i Paesi protagonisti delle “rivoluzioni nazionali”. Sono emblematiche, in questa prospettiva,  le pagine sulla  guerra moderna di Drieu la Rochelle,  il quale parla di abominio del militarismo democratico, presagendo lo spaventoso risultato di un conflitto europeo, con milioni di morti, l’annientamento delle città ed un’Europa ridotta alla disperazione. Ugualmente “profetiche” le immagini de “L’Ecole des Cadavres” di Louis Ferdinad Céline, il quale accusa le democrazie di volere la guerra, con la Francia condannata comunque alla sconfitta, sia per mano degli avversari che degli alleati.
Con buona pace per Macron/Mitterand il nazionalismo non è insomma uguale alla guerra. Lo dice la complessità delle dottrine che concorrono a definirlo. Lo conferma l’esperienza storica.
L’auspicio – a questo punto – è che si metta  fine al facile qualunquismo antinazionale, portato di un europeismo scialbo e senz’anima. L’Europa merita molto di più di qualche facile slogan. Il  nazionalismo, che è parte costitutiva della nostra identità di europei, va capito piuttosto che criminalizzato.
 
di Mario Bozzi Sentieri      – 30/03/2017 Fonte: Mario Bozzi Sentieri

Crisi di sistema e populismo

È noto che per un sistema sociale complesso come quello liberal-capitalista attuale è essenziale tener sotto controllo tutti quegli eventi che potrebbero determinare una crisi di tipo strutturale. Vale a dire che le alternative in base alle quali si articola il conflitto politico devono essere compatibili con il “normale” funzionamento del sistema medesimo[1]. Praticamente, le alternative non selezionate dal sistema non devono essere conosciute o esplicitamente tematizzate dalla stragrande maggioranza dei cittadini. nwoLa scelta deve avvenire tra alternative che il sistema ha già selezionato, ossia tali da non danneggiare gli interessi politici ed economici del gruppi dominanti. Pertanto, l’ordine istituzionale si fonda non tanto sul consenso effettivamente esistente quanto piuttosto sulla sopravvalutazione del consenso effettivo e soprattutto sul fatto che tale sopravvalutazione riesca ad avere successo. In altri termini, il meccanismo mediante il quale si “pro-duce” il consenso in una moderna “democrazia” liberale è una finzione istituzionale, non la ricerca di un effettivo consenso, ma una formula rituale di giustificazione ideologica della politica, benché essenziale per il funzionamento del sistema sociale.
 
In sostanza, questo significa che la tecnologia sociale e la manipolazione del consenso devono far sì che non vengano mai messi seriamente in discussione quei procedimenti che permettono di prendere decisioni collettivamente vincolanti, “assorbendo” incertezza ed eliminando alternative pericolose per il sistema. Attraverso tali meccanismi si può allora avere la ragionevole certezza che prevalga ciò che il sistema seleziona, accrescendone la capacità di autoregolazione e sottraendo l’esperienza al rischio di una problematizzazione consapevole. Tuttavia, è palese che il sistema liberal-capitalistico non si sviluppa automaticamente, sia perché genera delle “aspettative” (crescenti) che deve necessariamente soddisfare – alimentando di conseguenza un conflitto che non può essere sempre risolto grazie ai meccanismi che regolano il sistema –sia perché la stessa formazione sociale liberal-capitalistica egemone (che di fatto è il “gendarme” che deve garantire il “normale” funzionamento del sistema liberal-capitalistico) deve “competere” con altre formazioni sociali. Il sistema sociale liberal-capitalistico si configura dunque come un sistema relativamente aperto sia sotto il profilo endogeno che sotto il profilo esogeno, ovverosia deve far fronte a due tipi di sfide, quelle che provengono dall’interno e quelle che provengono dall’esterno.
Logico allora che gli strateghi del polo atlantico dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica abbiano agito su due piani contemporaneamente per consolidare l’egemonia degli Stati Uniti: sul piano economico e finanziario promuovendo la gigantesca espansione del capitalismo finanziario (in particolare con l’abolizione della legge bancaria del 1933, nota come Glass-Steagall Act, durante l’amministrazione Clinton) che avrebbe portato alla crisi finanziaria del 2007-08; sul piano geopolitico intervenendo militarmente in Afghanistan e in Iraq, e ristrutturando la Nato al fine di saldare all’Atlantico il continente europeo e soprattutto la Germania ora nuovamente unita.
 
Nondimeno, già negli anni Ottanta del secolo scorso era chiaro, nonostante che fossero evidenti i segni della crisi irreversibile del sistema sovietico, che la base produttiva degli Stati Uniti non era in grado di “sostenere” un progetto di egemonia globale[2]. Del resto, lo storico francese Fernand Braudel vedeva nella prevalenza del capitalismo finanziario sull’economia “reale” il tipico “segnale dell’autunno” per il potere dello Stato capitalistico egemone[3]. Infatti, allorquando la crescita della produzione e dello scambio di merci, che contraddistingue un ciclo di accumulazione del capitale, si imbatte nei propri limiti, si è in presenza non solo di una crisi economica ma anche di una crisi della potenza capitalistica egemone, a cui i gruppi dominanti cercano di rimediare con una forte espansione del capitale finanziario. Ma la prevalenza del capitalismo finanziario è soltanto un rimedio temporaneo che non può evitare il “terremoto geopolitico” che si origina dal declino relativo della potenza egemone.
Un declino accentuato dal “contraccolpo” derivante dall’avere scatenato gli “spiriti animali” del capitalismo a livello mondiale e che ha visto nel giro di qualche lustro la Cina diventare la prima potenza industriale, favorita proprio da quella globalizzazione che doveva invece “suggellare” il dominio del sistema liberal-capitalistico imperniato sull’egemonia degli Stati Uniti.
Non sorprende allora che il cosiddetto “unipolarismo statunitense” sia durato solo qualche lustro e che gli Usa da un lato, abbiano dovuto concedere sempre più spazio a pericolosi e “irresponsabili” (per usare un eufemismo) attori geopolitici “subdominanti” come le petromonarchie del Golfo, al fine di ridisegnare la cartina geopolitica del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale in funzione degli interessi del polo atlantico; dall’altro, abbiano cercato di rafforzare la loro posizione in Europa per contrastare la rinascita della potenza russa sotto Putin, favorendo un’espansione della Nato ai confini occidentali della Russia e innescando così una crisi internazionale che se non ci fossero le armi nucleari probabilmente sarebbe già sfociata in un’altra guerra mondiale.
Com’era prevedibile questa “strategia del caos” ha creato le condizioni perché il terrorismo islamista si diffondesse a “macchia d’olio” non solo in Medio Oriente e in Africa ma anche nel Vecchio Continente, e al tempo stesso si generasse un’immigrazione massiva e incontrollata (che alcuni analisti considerano come una sorta di arma di distruzione di massa) verso l’Europa, stretta nella morsa di una crisi sociale ed economica che l’introduzione dell’euro e le politiche liberiste adottate dall’oligarchia euroatlantista hanno solo contribuito a rendere sempre più grave.
In definitiva, la crisi dell’attuale sistema liberal-capitalistico e in particolare dell’Unione Europea si configura ormai come una vera e propria crisi di sistema, dato che gli effetti “perversi” della crisi dell’egemonia statunitense si sommano a quelli di una crisi non solo economica ma politico-sociale del sistema liberal-capitalistico che non solo non riesce più a soddisfare “aspettative” che esso stesso (inevitabilmente) genera, ma nemmeno è più in grado di eliminare o di “rimuovere” alternative che non sono “in linea” con gli interessi dell’oligarchia euroatlantista.
Il cosiddetto “populismo”, che sta mettendo radici ovunque in Occidente, è perciò la reazione comprensibile all’incapacità del sistema liberal-capitalistico di “autoregolarsi”. La vittoria di Oki in Grecia (benché poi, in un certo senso, “tradita” dalle classe politica greca), la politica del governo ungherese, la Brexit, la crescita di movimenti populisti in diversi Paesi europei, lo stesso successo di Trump e last but not least la vittoria del No in Italia (che ha bocciato un riforma “pasticciata” della costituzione che prevedeva perfino che i parlamentari non fossero più i rappresentanti della Nazione e di fatto cedeva ulteriore sovranità nazionale agli eurocrati) sono tutti segnali che un nuovo “vento politico” sta facendo traballare le istituzioni politiche occidentali.
 
Si badi però che il paragone, caro a molti analisti neoliberali, con gli anni Trenta, è del tutto privo di fondamento. Difatti, il nazionalismo aggressivo negli anni Trenta aveva di mira la ridefinizione degli equilibri mondiali attraverso un “regolamento bellico dei conti”, ritenuto peraltro inevitabile sia dalle potenze revisioniste (le cosiddette “have nots”) che dalla stessa Unione Sovietica. Viceversa, l’esigenza di difendere la sovranità nazionale (sia pure riconoscendo la necessità di incastonare i singoli Stati in “grandi spazi” geopolitici e geoeconomici) non è altro che l’esigenza di rimediare ai “guasti” e ai disastri causati dalle politiche liberiste e aggressive del polo atlantico e in specie dell’oligarchia euroatlantista, allo scopo di difendere i diritti sociali ed economici dei popoli europei (e non solo europei) contro lo “strapotere” e l’arroganza dei “mercati”.
 
È in questa prospettiva geopolitica quindi che è necessario interpretare la carenza di cultura politica e perfino le “contraddizioni” (alcune delle quali certamente preoccupanti) che caratterizzano i diversi movimenti politici che i media mainstream definiscono sprezzantemente populisti. D’altronde, è lecito ritenere che il populismo, benché in quanto tale non sia di per sé un’alternativa “credibile” al sistema liberal-capitalista, sia il necessario “brodo di cultura” perché una tale alternativa possa davvero prendere forma, sebbene si possa essere sicuri che le élites occidentali vi si opporrebbero con ogni mezzo. Invero, nella presente fase storica, anziché sognare utopie anticapitalistiche, si dovrebbe considerare già un grande successo riuscire a favorire la cooperazione tra i popoli e mettere di nuovo il mercato “al servizio” del Politico, ovvero della giustizia sociale e dei bisogni “reali” degli individui. Comunque sia, non sarà la demonizzazione del populismo che potrà risolvere la crisi del sistema liberal-capitalistico, anche se non si può affatto escludere che quest’ultimo, pur di difendere gli interessi di un’oligarchia plutocratica e di una middle class (sedicente) cosmopolita, continui a generare conflitti e squilibri d’ogni sorta.
di Fabio Falchi – 06/12/2016
Fonte: Eurasia

[1] Fondamentale sotto questo aspetto è l’opera di Niklas Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979.
[2] A tale proposito si veda Paul Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze, Garzanti, Milano, 1989.
[3] Ha approfondito questo tema (benché in un’ottica decisamente economicistica) Giovanni Arrighi nel saggio Il lungo XX secolo, Il Saggiatore, Milano, 2014.

Il tramonto della classe politicante globalista

 personaggi politici al vertice dei governi occidentali, per lungo tempo avevano esercitato il potere nei loro paesi dando le spalle alla cittadinanza ed occupandosi prevalentemente degli interessi dei grandi gruppi finanziari e della stabilità dei mercati.
Al momento di presentarsi alla verifica del loro consenso, sono stati sfiduciati dalle loro opinioni pubbliche e ne hanno pagato il prezzo. Cameron, Obama, Hollande e Renzi non ripeteranno mai le fotografie di rito tutti assieme. Rimane ancora la Mekel come l’unica eccezione, in apparenza, perchè la sua popolarità è ormai in caduta libera presso la sua opinione pubblica.
Se si voleva avere la conferma della distanza creatasi fra le elite ed i propri cittadini, questa è stata dimostrata in modo inoppugnabile in questo 2016 e si è potuto comprovare che i cittadini (in grande maggioranza) si sono stancati delle decisioni prese dalle elites mondiali e sulla base delle loro impostazioni neoliberiste.
E’ accaduto in primis nel Regno Unito con la consumazione del Brexit, poi negli Stati Uniti con la vittoria di Trump e, più di recente, in Italia con le dimissioni di Matteo Renzi, dopo che questi è risultato sonoramente bocciato nel referendum sulla riforma della Costituzione.
Le decisioni prese da Bruxelles hanno prodotto un disastro sociale nei paesi europei con la scomparsa dei diritti e delle tutele sociali mentre la crisi dei rifugiati ha creato una situazione di destabilizzazione sociale e di allarme che ha prodotto un diffuso malcontento nelle opinioni pubbliche dei paesi europei, tanto che vari leaders europei (nell’Est Europa) hanno voltato le spalle a Bruxelles ed alla Merkel e hanno rifiutato le politiche della Commissione Europea in nome del recupero della sovranità.
La distanza della oligarchia di Bruxelles dai cittadini è apparsa enorme in particolare su questioni come quella dell’accoglienza dei migranti e profughi, sulle problematiche realtive alle sanzioni alla Russia e sulla bellicosa politica attuata dalla NATO che ha fatto tornare l’Europa in un pericoloso clima di “Guerra Fredda”.
 
Le inchieste ed i sondaggi di opinione hanno fallito le loro rilevazioni ed i risultati sono apparsi per loro una “sgradevole sorpresa”.
I sondaggi d’opinione avevano fallito già nel Regno Unito e questo è parso evidente al momento del Brexit. I britannici hanno votato a favore dell’uscita della UE, dopo che David Cameron aveva convocato un referendum per difendere la permanenza nella UE (remain).
 
Il premier britannico è stato sostituito dall’esponente conservatrice Theresa May che è stata incaricata di negoziare con Bruxelles l’uscita dalla UE.
Obama o Clinton: arriva  Trump
Ancora peggio negli USA dove, in occasione delle presidenziali. il candidato indicato da Obama e da tutto l’establishment, Hillary Clinton veniva indicto come “vincente”, mentre il suo rivale, Donad Trump, veniva fatto oggetto di una campagna denigratoria da parte dei media.
 
Il nuovo presidente, eletto negli USA per assumere la il cambiamento nel paese, è stato Trump, cosa che non è stata apparentemente gradita dalle elites mondiali che si sono subito organizzate per neutralizzare i possibili effetti negativi della sua nomina.
Hollande ed il Front National in Francia
I livelli di popolarità raggiunti dal presidente della Repubblica francese Hollande sono caduti nel punto più basso della Storia costituendo un record di impopolarità. Hollande, pressato dai suoi, è stato costretto a scendere dal suo piedistallo di vanagloria ed ha dovuto rassegnarsi a rinunciare ad una sua candidatura. Fatto enorme nella storia politica francese.
 
In un paese in forte declino economico e con problematiche di sicurezza e di minacce terroristiche, grazie alla sconsiderata politica di Hollande, emerge il partito nazionalista ed identitario della Marine Le Pen, la leader del Front National che sconfessa le politiche globaliste e di subordinazione a Washington ed a Bruxelles tenute da Hollande.
La Le Pen raccoglie un mare di consensi fra le classi popolari e fra i ceti operai e dei piccoli produttori, infuriati cone la UE e con il governo pseudo socialista. A contrastare la Le Pen l’establishment francese ha predisposto la candidatura di una figura della destra conservatrice e globalista mascherata: Francois Fillon.
Matteo Renzi è l’ultimo caso
Un leader non eletto ma nominato dall’alto che si era presentato come” rottamatore” ma che in realtà era eterodiretto per fare le riforme che gli venivano richieste dai potentati finanziari transnazionali. La sinistra globalista non voleva ammettere un fatto che pure era sotto gli occhi di tutti: Renzi era stato un personaggio cooptato dall’alto in posizione di capo dell’esecutivo ed era restìo a osservare le regole, quelle dei post comunisti e dei post democristiani. Lui si sentiva forte e voleva esercitare un potere quasi assoluto, nel governo e nel partito.
Per ottenere quel potere e non dover rispondere a vari contrappesi, ha avuto la trovata che era sembrata geniale: riformare la Costituzione. In realtà anche quella era una decisione venuta dall’alto. Lui si è immedesimato ed è partito a testa bassa a fare promozione e propaganda per la sua riforma delle riforme.
Quello che una buona parte dei cittadini italiani hanno compreso è che la riforma costituzionale targata Renzi/Boschi era in realtà un marchingegno che, con il pretesto dell’efficientismo e della riduzione dei costi della politica, aveva la sua essenziale finalità nel togliere ogni residua sovranità al popolo e inserire la clausola della supremazia delle norme europee in Costituzione.
Una buona parte dei cittadini italiani hanno poi percepito l’insicurezza, l’invasione di migranti travestiti da profughi ed alloggiati in comodi alberghi, la miseria sempre più diffusa, l’affossamento del ceto medio, l’emigrazione dei giovani per mancanza di lavoro, l’eliminazione dei diritti e la folle politica di sudditanza dell’Italia alle direttive USA e della Comunità Europea (dominata dagli interessi della Germania), tutte conseguenze prodotte dai governi globalisti al servizio delle centrali di potere sovranazionali.
All’elenco dei trombati manca adesso solltanto la Merkel, la sola rimasta al suo posto ma arriverà anche il suo turno. Il malcontento nell’opinione pubblica tedesca cresce di settimana in settimana. Solo questione di tempo.
Le foto di gruppo della classe politica  globalista, gli Obama.gli Hollande, i Cameron, la Merkel ed i Matteo Renzi, rimarranno soltanto come un  ricordo sbiadito di una fase storica da dimenticare. Il tempo delle autocelebrazioni è ormai finito.
Dic 07, 2016
di  Luciano Lago