Libertà, proprio così i ragazzi sono liberi

Niccolò, Mattia e Claudio sono totalmente liberi.

di Valsusa Report

Il Michele No Tav del film di Cecco Anzalone ancora non ci crede, “quando ho visto i ragazzi entrare nel presidio non ci potevo credere”. A distanza di tre giorni dalla liberazione, due dei sette anarchici imprigionati con la pretestuosa accusa di terrorismo varcano dinuovo le porte del presidio di Venaus. Una corsa in valle a salutare nel poco tempo a disposizione chi potevano incontrare e la promessa di una giornta tutti insieme. Sono liberi dopo quasi tre anni molti dei quali passati in regime duro del carcere di sorveglianza speciale AS1, misura restrittiva in carcere propinata proprio dalle regole dell’accusa di terrorismo. Accusa da cui per ben quattro volte, passando dalle più alte corti di giudizio,  sono stati riconosciuti innocenti.

Niccolò, Claudio e Mattia a seguito di una istanza di scarcerazione sono ora liberi senza restrizioni. Parallelamente anche Lucio, Graziano e Francesco hanno fatto istanza ma il giudice del loro processo ha deciso di liberarli con la misura non detentiva dell’obbligo di dimora, rispettivamente a Milano e Lecce. Si complica la situazione di Chiara perchè alcuni mesi fa il tribunale di Teramo l’ha condannata alla sorveglianza speciale, misura restrittiva che diventerebbe esecutiva qualora finisse gli attuali arresti domicilirai. “Ci vorrà ancora un po di tempo e pazienza per una misura unica in Italia ed applicata a pochi” dicono i No Tav presenti alla sera della grande sorpresa a Venaus.

Nei processi che hanno visto perdente il teorema terroristico dei PM Padalino e Rinaudo, rafforzato dalla presenza in Appello dal PG Maddalena, ha vinto l’espressione del dissenso. Un’opera non voluta e osteggiata prima dalla popolazione della valle ed oggi da una popolazione nazionale, può essere oggetto di manifestazione, anche contro un’opera pubblica, che ha il consenso dei governi. Una manifestazione anche al limite della violenza (sabotaggi ndr), può avere come pena la resistenza o la violenza aggravata o la complicità, ma non il terrorismo. Sette dei venti partecipanti di quella sera di maggio, preventivati nell’accusa in udienza d’Assise sono liberi.

V.R. 24.2.16

Il Pentagono sviluppa armi esotiche per contenere la Russia e la Cina

http://it.sputniknews.com/mondo/20160224/2158237/USA-difesa-geopolitica-tecnologia.html?utm_source=https%3A%2F%2Fwww.facebook.com%2F&utm_medium=short_url&utm_content=aG8W&utm_campaign=URL_shortening

Pentagono

© Sputnik. David B. Gleason


14:11 24.02.2016

Il Pentagono intende sfruttare nuove armi esotiche per contenere la Cina e la Russia, scrive il “Washington Post”.

Come riferito dai rappresentanti del Pentagono, intendono utilizzare le più recenti apparecchiature di intelligenza artificiale e macchinari per creare armi robotiche, “unità uomo-macchina”, così come super-soldati con elementi di difesa. Secondo il Pentagono, questi sistemi ad alta tecnologia sono il modo migliore per far fronte alle innovazioni introdotte nell’esercito di Russia e Cina.

“In questo modo, lo auspico, renderemo le nostre unità di combattimento più potenti e semineremo incertezza nelle menti dei cinesi e russi, nel caso decidessero di lottare contro di noi. Così saremo capaci di vincere la guerra con mezzi convenzionali. A mio parere in questo è compresa la dissuasione con mezzi non nucleari”, — ha detto il vice segretario alla Difesa Robert Work.

Si segnala che al Pentagono questa concezione viene chiamata “terza strategia compensativa”, per analogia con le precedenti due strategie dai tempi della “guerra fredda”.

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L’indifferenza dell’Occidente alle distruzioni nello Yemen

è un genocidio polically correct, approvato ed auspicato dalla società civile che infatti finge che lo Yemen non esista, nessun sit in meritano gli yemeniti
 
yemen
febbraio 23 2016
 
Il mondo intero ha pianto per Palmira, Hatra, Nimrud. La distruzione del centro storico della capitale dello Yemen, Sanaa, non provoca invece la stessa onda di emozione. Non in Occidente. «Secondo la General Organisation for Antiquities, Museums and Manuscripts (Goamm), a partire da marzo 47 siti sono stati distrutti nel corso degli scontri in Yemen», rende noto da Parigi l’archeologa del Centre national de la recherche scientifique (Cnrs) Lamya Khalidi. Tra di essi, figurano tre dei quattro siti dello Yemen classificati Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco: la stessa Sanaa, Zabid, capitale dello Yemen dal XIII al XV secolo, e Shibam, soprannominata la «Manhattan del deserto» per i suoi «grattacieli» costruiti nel XVI secolo.
 
Le ragioni di questa indifferenza occidentale? «Tradizionalmente, i rapporti tra gran parte dell’Europa e lo Yemen sono meno forti di quelli con la Siria. Il patrimonio yemenita, poi, non evoca l’antichità classica, come fa invece Palmira», suggerisce Samir Abdulac, vicepresidente del Comitato internazionale delle città e centri storici dell’Icomos (International Committee on Monuments and Sites). Ma le cause di questo silenzio sono senza dubbio politiche. Perché da marzo 2015, è una coalizione guidata dall’Arabia Saudita, alleata e partner dell’Occidente, a condurre violenti raid aerei sullo Yemen per scacciare le milizie sciite houthi, sostenute dall’Iran e dall’ex presidente yemenita Ali Abdallah Saleh. Una guerra aerea rafforzata da un embargo che ha portato oggi lo Yemen alle soglie di una catastrofe umanitaria (con le riserve alimentari di questo Paese, che conta già 5mila vittime, praticamente esaurite), che si aggiunge alla distruzione del suo patrimonio storico e culturale.
 
La situazione è tanto più complessa in quanto la distruzione del suo patrimonio millenario è deliberata, non un effetto collaterale al conflitto. I gruppi integralisti legati ad Al Qaeda e all’Isis, che approfittano del caos per accrescere la loro influenza, al momento controllano di fatto il territorio intorno al porto di Mukalla, nel Sud-Est del Paese. Qui cancellano santuari e tombe di santi musulmani. A questo, si aggiungono le distruzioni causate da combattimenti e attentati: in un attentato suicida del giugno del 2015 Al Qaeda ha causato danni importanti alla città storica di Shibam e l’Isis alla moschea di Qubat al Mahdi, nella città vecchia di Sanaa.
 
La maggior parte delle distruzioni, però, sembra causata dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita. «Eppure, spiega Anna Paolini, direttrice dell’ufficio Unesco di Doha, che rappresenta i Paesi del Golfo e lo Yemen, era stata informata dall’inizio della guerra dei siti da evitare, dei quali l’Unesco aveva fornito le coordinate».
Perché allora non sono stati evitati? Alcuni siti possono certo rivestire un interesse militare strategico per gli Houthi, come la fortezza medievale di Al Qahera, a Taez, nel Sud-Ovest del Paese, nel cuore degli altopiani, distrutta nel giugno scorso. «E purtroppo, in tempo di guerra, i militari non prendono in considerazione il valore storico o culturale di un sito se ritengono di doverlo bombardare», lamenta Samir Abdulac. Altri siti, però, avrebbero potuto non essere colpiti direttamente, ma essere stati vittime di danni collaterali. Così, l’antico sito di Baraqish, il cui tempio e le cui mura, appena restaurati, sono stati distrutti da un raid. «La coalizione aveva preso di mira un accampamento di archeologi, fortunatamente senza persone. Senza dubbio riteneva che contenesse degli armamenti, riferisce la Paolini. Ma l’Arabia Saudita non fornisce giustificazioni delle sue azioni».
 
Alcuni esperti sospettano così l’Arabia Saudita di scegliere come obiettivo proprio il patrimonio yemenita. A titolo d’esempio, l’archeologa Lamya Khalidi cita la diga di Ma’rib, l’antica capitale del Regno di Saba, costruita nell’VIII secolo a.C. e il maggiore sito antico della penisola araba, quasi integralmente polverizzata. «Si trova in una zona desertica. Quanti conoscono lo Yemen come me sanno che non può avere alcun interesse strategico e che non può nascondere nulla. L’Arabia Saudita disponeva delle coordinate di questo sito, che non può essere colpito per sbaglio», aggiunge. Stessa cosa per il Museo Nazionale di Dhamar, che ospitava 12mila reperti archeologici, distrutto a maggio perché alcuni ritenevano potesse nascondere delle armi. «Il personale della Goamm controllava l’accesso al museo 24 ore su 24. Come avrebbero potuto nascondervi delle armi?», denuncia Lamya Khalidi. Una distruzione ideologica, quindi, in sintonia con i crimini degli islamisti in Iraq e in Siria.
 
Le prime misure d’urgenza
Eppure, in questa guerra di estrema violenza, gli yemeniti, molto attaccati al loro patrimonio culturale (le case della città vecchia di Sanaa, di cui alcune antiche di 500 anni, sono sempre state abitate) tentano, con l’aiuto di organizzazioni non governative come l’Unesco, l’Icom e l’Icomos, di organizzarsi per restaurare e proteggere ciò che possono. È così che la General Organization for the Preservation of Historic Cities (Gophcy) ha istruito un dossier per ottenere un finanziamento di 4,3 milioni di dollari per restaurare 113 abitazioni danneggiate dai bombardamenti dell’estate scorsa. Prima dell’inizio della guerra, tutte le abitazioni storiche erano state inventariate
dall’Unesco. «Oggi abbiamo tutte le conoscenze necessarie per ricostruirle così com’erano. Ci mancano solo i fondi», si commuove al telefono da Sanaa il direttore del Gophcy, Nagi Thawabeh. «Se aspettiamo, i danni saranno irreversibili. Gli yemeniti, privati di un tetto, non tarderanno a ricostruire queste abitazioni in modo incontrollato, utilizzando del cemento», spiega.
 
«Abbiamo creato un’applicazione per compilare lo stato dei luoghi d’urgenza e impartito formazione in questo senso agli yemeniti», spiega Anna Paolini dell’Unesco. Queste azioni di «primo soccorso» e di diagnostica permettono di non aggravare i danni, e preservare ciò che è possibile, per esempio scattando fotografie utili e mettendo al sicuro elementi decorativi o architettonici. Ma hanno come fine ultimo, soprattutto, la compilazione di banche dati per la ricostruzione al termine del conflitto, se l’estensione dei danni non sarà eccessiva e se l’azione di recupero sarà davvero possibile. Soltanto alcuni musei, particolarmente vulnerabili, sono stati in grado di mettere al sicuro le loro collezioni. Il Museo di Dhamar non aveva potuto farlo. «Ma l’inventario delle sue collezioni ha consentito di ritrovare nei detriti e di ricostituire circa 700 oggetti», rivela Anna Paolini. Intanto, dice speranzoso Nagi Thawabeh, «dopo i ripetuti bombardamenti di Sanaa, da settimane non ci sono più state distruzioni nella città vecchia da parte saudita».
 
 

IL GOVERNO ITALIANO SENZA ESITAZIONI: “LA TURCHIA ENTRI IN EUROPA!”

sia mai chieder conto dei tagliagole che hanno commesso stragi e assassinano libici e siriani, certe stragi sono politically correct
 
gentiloni
febbraio 23 2016
– di Giampiero Venturi –
Durante la visita ad Ankara il Ministro degli Esteri italiano Gentiloni non ha usato mezze misure.
 
“L’Italia ha sempre appoggiato il percorso di avvicinamento della Turchia all’Unione europea e lo appoggerà ancor di più in futuro…”
 
Il ministro italiano dopo l’incontro col collega Cavusoglu ha dichiarato che l’apertura alla Turchia è fondamentale per la stabilità e per il rafforzamento del dialogo tra nazioni.
 
Il ministro turco, che per l’occasione ha ringraziato l’Italia per l’appoggio, è da settimane tra i più attivi esponenti della politica turca in seno alla crisi siriana, distinguendosi tra l’altro per affermazioni che sul piano del dialogo e della stabilità lasciano qualche dubbio. Cavusoglu, nonostante le perplessità espresse dalla comunità internazionale, è tra i sostenitori della costituzione di un “cuscino di sicurezza” in territorio siriano che garantisca la sicurezza ai confini meridionali di Ankara e tra coloro che hanno più volte patrocinato la necessità di un intervento diretto turco nel Paese arabo.
 
Il Ministro Gentiloni avrebbe anche sostenuto la tesi che l’ingresso della Turchia in Europa sarebbe in linea con una maggiore regolazione di flussi migratori dal blocco asiatico verso l’Europa.
 
La dichiarazioni del Ministro degli Esteri vanno a sovrapporsi a quelle del Ministro Pinotti dello scorso 29 novembre, quando la responsabile della Difesa accusò l’Europa (Francia e Germania in particolare) di non aver permesso l’ingresso in Turchia a suo tempo perdendo così un’occasione storica e complicando al tempo stesso l’attuale quadro in Medio Oriente.
 
Approfittiamo delle esternazioni per riflettere sotto due aspetti.
 
Al netto dell’efficacia di un indirizzo politico sempre volto a responsabilizzare il proprio operato senza considerare quello degli altri e nel rispetto dell’immenso patrimonio storico e culturale della nazione turca, ci si chiede quanto siano opportune le affermazioni dei nostri due ministri nell’attuale contesto politico, economico e sociale dell’Unione Europea.  In crisi d’identità istituzionale e politica, l’Unione, sempre più simile ad un ente burocratico dai connotati sfumati che all’idea di famiglia di popoli su cui era stata concepita, ha veramente bisogno di un’ulteriore allargamento dei propri confini? Riflettiamo almeno sul fatto che, almeno sulla carta, l’Unione potrebbe ritrovarsi in pochi anni con una Turchia in più e una Gran Bretagna in meno…
 
È davvero un ulteriore mercato di 80 milioni di cittadini ciò di cui noi europei abbiamo bisogno?
 
L’integrazione di Ankara è davvero sulla strada del riavvicinamento tra i cittadini e le istituzioni di Bruxelles in un momento di vuoto di immedesimazione e corrispondenza?
 
Lanciamo il dubbio rimanendo nel campo dell’opportunità storica e politica senza nemmeno sfiorare il problema delle coscienza europea relativamente alla compatibilità culturale tra Europa e Turchia che meriterebbe altri approfondimenti.
 
La seconda considerazione è contestuale agli attuali scenari mediorientali. Da molti mesi Difesa Online è in prima linea nei resoconti e nelle analisi del conflitto siriano e il ruolo della Turchia appare non privo di peso e responsabilità nell’evoluzione degli eventi politici e militari.
 
Gentiloni e Cavusoglu avrebbero auspicato un intervento di terra in Siria concertato tra potenze in sede internazionale. Se l’eventualità rientra in pieno nelle dinamiche e negli interessi di Ankara, ci si chiede dove sia l’opportunità per l‘Italia, per l’Unione e addirittura per l’Occidente.
 
Per quanto l’Italia condivida con la Turchia un’alleanza politico militare pluridecennale, le dichiarazioni del nostro governo sono valutabili sotto il profilo dell’opportunità strategica e geopolitica?
 
Una riflessione più ponderata in questi casi, forse non sembrerebbe di troppo.
 

Incident de niveau 1 à la centrale nucléaire du Bugey, près de Lyon


Par Antoine Sillières
 
Publié le 20/02/2016  à 10:15

L’Autorité de sûreté nucléaire a publié un communiqué évoquant un problème de résistance de la tuyauterie dans le circuit de refroidissement du réacteur numéro 2.

centrale bugey ()

DR

Recrute plombier expérimenté pour tuyauterie capricieuse. L’Autorité de sûreté nucléaire (ASN) a publié un communiqué d’incident concernant la centrale du Bugey, dans l’Ain, sur signalement de son exploitant EDF. Ce dernier a remarqué des anomalies dans le circuit de refroidissement d’un des réacteurs.

Vulnérabilité du circuit de refroidissement

Si trois des quatre fuites repérées à l’été dans le circuit de refroidissement du réacteur 2 de la centrale du Bugey avaient rapidement été colmatées par des colliers d’étanchéité, la dernière se montre plus capricieuse. Et EDF avait demandé des analyses complémentaires sur cette fuite, avant de finalement décider de réparer la quatrième fuite en janvier 2016. Mais les premiers résultats d’expertise “des tuyauteries déposées ont montré que l’épaisseur résiduelle des tuyauteries ne leur permettait pas résister à un séisme du niveau du séisme majoré de sécurité”, écrit l’ASN. 

Un incident sans conséquences selon EDF

Dans l’hypothèse -certes peu probable- de la survenue d’un tel séisme, le réacteur 2 n’aurait plus été refroidi. Or, le système de refroidissement est un des piliers de la sécurité dans ce type de centrales. “EDF aurait alors dû déployer des procédures plus complexes pour préserver le refroidissement du cœur du réacteur”, explique l’ASN

“Cet événement n’a pas eu de conséquence sur le personnel ni sur l’environnement de l’installation”, précise encore le communiqué. EDF l’a ainsi classé au niveau 1 sur l’échelle INES (Échelle internationale des incidents nucléaires).

Ovest. Venticinque anni di lotte No Tav in val di Susa

La cascina Maddalena e il confine del cantiere-fortilizio, gennaio 2016.
La cascina Maddalena e il confine del cantiere-fortilizio, gennaio 2016. (Michele Lapini)
REPORTAGE
22FEB 201611.54
, scrittore 

“Un posto in prima fila”

Alle 11.15 del 27 gennaio 2016, sotto un cielo denim chiaro, dopo aver attraversato il borgo di Chiomonte e raggiunto la riva sinistra della Dora, ci presentammo al checkpoint di via dell’Avanà, poco oltre la centrale idroelettrica.

La centrale. Sorella piccola delle montagne, sposa del fiume dal 1910, era stata nutrice delle industrie della val di Susa e di Torino. Si stagliava, virata in seppia e fiera del suo lavoro, in cartoline d’epoca vendute su ebay, e gli scolari venivano ancora a vederla, ad ammirarla, perché era stata una grande opera di quelle sensate,lei, e funzionava ancora, serviva ancora, lei. Altre opere lì nei paraggi, invece… tsk.

Al posto di guardia, una triste casupola esalò fumo biancastro e tre poliziotti blu di Prussia, che subito fermarono l’auto. Usarono la terza persona plurale come pronome di cortesia e il verbo “favorire” nell’accezione tipica delle guardie: “Favoriscano i documenti. Dove stanno andando?”.

Fu allora che cominciò il battibecco.

Volevamo andare prima alla Maddalena, la cascina sull’orlo del cantiere-fortilizio, poi ai terreni posseduti dai No Tav in località Colombera, per unirci a uno dei famosi “pranzi del mercoledì”. Con noi c’erano due dei 1.400 proprietari, Guido e Nicoletta.

Si chiamava la Colombera perché, sulla collina, si ergeva una torre abbandonata e ammantata di rampicanti che era servita, appunto, da colombaia. Un tempo ce n’erano tante, sparse in tutto il nord Italia, da Ventimiglia a Venezia. Si allevavano colombi per vari motivi: per mandarli in giro con messaggi; per addestrare gli stormi e farli volare in apposite competizioni; per farne richiami da caccia; per mangiarli… e per tutte queste cose insieme. E poi, i colombi erano belli. Erano magici. Ricordavo colombe bianche uscire in un frullo d’ali dalle maniche di Silvan. Mariano, il mio amico mago, mi aveva raccontato di un illusionista alcolizzato che aveva perso i sensi poco prima dello show e, crollando al suolo, aveva schiacciato tutte le colombe che portava nascoste nel blazer, prigioniere.

Alla mia domanda su chi avesse allevato colombi in quella torre, Abraracourcix aveva sciorinato informazioni: “Fino al 1713 Chiomonte e la val Clarea erano terra di confine tra il regno di Francia (e prima ancora il Delfinato) e le terre dei conti di Savoia… È probabile che ci fosse una guarnigione, e che questa allevasse piccioni per poter comunicare con le guarnigioni di Oulx e Briançon. In seguito la torre è rimasta, e probabilmente i colombi erano allevati per cibarsene”.

La Colombera mi faceva pensare al mago etilista dell’aneddoto: solinga, piena di fantasmi di uccelli da diporto, stava proprio sul ciglio di un dirupo e sembrava vacillare, sbilanciata da un cappuccio di rampicanti. Quanto al dirupo, s’affacciava su un orrido. Scendevi una scalinata e arrivavi alla sorpresa: uno specchio d’acqua sotterraneo che pochi conoscevano. Figurava già, con il nome di Lago piccolo, nellaCarta topografica in misura della Valle di Susa e di quelle di Cezane e Bardonneche divisa in nove parti, realizzata dai cartografi sabaudi tra il 1764 e il 1768. Era acqua risorgiva della Dora, sbucava lì passando per chissà quali anfratti, limpida, perfettamente trasparente e dunque verde smeraldo, come il fondo nel quale l’occhio andava a distendersi.

Nel 2008, quand’era ministro dei trasporti tale Antonio Di Pietro, nei pressi della Colombera doveva sbucare ben altro: il (ratataplan!) “tunnel di base” della Torino-Lione. Si parlava anche di un viadotto attraverso le Gorge della Dora. Il movimento aveva avuto l’idea di comprare il terreno, dividendolo poi in 1.397 minilotti da meno di un un metro quadro, ciascuno proprietà di un attivista. L’intento era complicare le procedure di esproprio; in subordine, si voleva stabilire un nuovo avamposto. La prima festa dell’acquisto collettivo, chiamata Compra un posto in prima fila, si era svolta il 30 marzo 2008, una delle tante giornate memorabili nella storia e nella tradizione orale dei No Tav.

Nel giugno dello stesso anno si era fatto il bis a Venaus: 1.500 acquirenti No Tav per il terreno dov’era sorto il presidio più famoso, quello sgomberato dalla polizia il 5 dicembre 2005 e riconquistato tre giorni dopo da una moltitudine mai vista prima, un’alluvione di corpi che aveva travolto e messo in fuga le forze dell’ordine. Era stata la vittoria più importante, quella che aveva costretto l’avversario a cambiare piani, a ritrarsi dalla bassa valle e salire, inerpicarsi, cercare una gola in alta valle dove andarsi a rintanare.

Il terzo acquisto di massa era avvenuto più alla chetichella. Nel gennaio 2010, i No Tav avevano appreso che il cantiere del “cunicolo geognostico”, quello sbaraccato a Venaus quattro anni prima, avrebbe aperto in val Clarea, tra Giaglione e Chiomonte, accanto ai piloni dell’autostrada, nei pressi della cascina che i valligiani chiamavano – per via di un’immagine di donna affrescata su un muro – La Maddalena. Sessantaquattro No Tav erano andati dal notaio e avevano comprato un terreno proprio dove la bestia voleva riaprire le fauci. Un terreno fino a quel momento oscuro e ingrato, ma strategico per contrastare gli invasori nonché, di lì a poco, destinato alla celebrità: la “particella numero 31, foglio XV, seminativo di 889 metri quadri”.

Gli attivisti controllano il cantiere di val Clarea, 5 settembre 2015. - Michele Lapini

Gli attivisti controllano il cantiere di val Clarea, 5 settembre 2015. (Michele Lapini)

Un ultimo raduno per l’acquisto di terreni minacciati si era svolto in un gelido e fradicio giorno d’ottobre del 2012, su un prato di San Giuliano di Susa. Più di mille persone a fare la fila sotto pioggia e nevischio, per presentarsi una alla volta davanti al notaio – lo stesso notaio delle volte precedenti, Roberto Martino, uno che in quelle circostanze doveva divertirsi un mondo – e comprare un metro quadro di terra a testa. Prezzo: 15 euro. Il regista Daniele Gaglianone aveva immortalato l’evento per includerlo nel suo documentario Qui.

Un animale bellissimo

L’acquisto più strategico si era rivelato il terzo, perché lo scontro si era rapidamente spostato in val Clarea. Il movimento aveva stabilito un presidio permanente, che nella tarda primavera del 2011 si era evoluto nella

Libera / Repubblica / della Maddalena.

Pronunciare quel nome ancora emozionava, i valsusini lo scandivano, lo facevano sembrare una poesia. Un esperimento di lotta e autogestione avanzatissimo, un minuscolo Rojava – che infatti in curdo vuol dire ovest – nel west della provincia di Torino. Due mesi che riempivano il movimento di nostalgia: dalla proclamazione del 23 maggio allo sgombero poliziesco del 27 giugno.

Il 3 luglio, il movimento aveva provato a ripetere il felice exploit di Venaus, di riprodurre quell’onda umana, travolgere gli usurpatori di terra e riprendersi la repubblica. Ma la val Clarea non era il fondovalle, e stavolta le forze dell’ordine erano pronte. Dopo una lunga giornata di avanzate, inseguimenti, nubi di lacrimogeno, manganellate e schermaglie nei boschi, la cornamusa dei No Tav aveva dovuto suonare la ritirata. Del vecchio presidio era rimasta una baita dove i No Tav facevano i turni, circondati dal cantiere che cominciava a ribollire, escrescere, sbuffare spore che divoravano il bosco.

Il 27 febbraio 2012, il cantiere aveva attaccato anche la baita. Durante l’assalto era avvenuto uno degli “incidenti” più noti della lotta No Tav: il contadino Luca Abbà, proprietario di uno dei metri quadri che il cantiere andava usurpando, era salito per protesta su un traliccio dell’alta tensione. Inseguito da un poliziotto, si era spostato sempre più su, finché non aveva preso la scossa ed era precipitato a terra, entrando in coma.

Luca si era salvato. I Cattolici per la vita della valle pensavano fosse anche merito loro: il Signore aveva ascoltato le loro preci. Beghine che pregavano per la salvezza di un anarchico! Il movimento No Tav era un animale bellissimo.

Assediare gli assediatori

Da allora i nemici si erano asserragliati in quella gola ed erano cambiati i rapporti tra movimento, popolazione della valle e grande opera. Non più la sfida in campo aperto, come ai tempi della battaglia del Seghino – 31 ottobre 2005 – e della riconquista di Venaus. Non più la militarizzazione appariscente del territorio e del consesso civile, con posti di blocco ovunque e forme di controllo odiose. No, da quel momento si trattava di inventare forme di creativa e capillare pressione sul cantiere.

L’articolo 19 della cosiddetta legge di stabilità 2012 – legge numero 183 del 12 novembre 2011 – aveva dichiarato il cantiere e l’area circostante “aree di interesse strategico nazionale”, equiparandole a zone militari, e come zone militari erano presidiate e difese. Non si trattava più solo di poliziotti: lungo i recinti e nei boschi si aggiravano militari di vari corpi, dagli alpini della Brigata Taurinense ai cacciatori di Sardegna, unità speciale dei carabinieri.

Il pacifista Turi Vaccaro nel cantiere mentre fa “la verticale” davanti ai funzionari di polizia, 5 settembre 2015. - Michele Lapini

Il pacifista Turi Vaccaro nel cantiere mentre fa “la verticale” davanti ai funzionari di polizia, 5 settembre 2015. (Michele Lapini)

Nel mio primo racconto No Tav per Internazionale – Folletti, streghe, santi e druidi in val Clarea, del marzo 2013 – avevo passato in rassegna svariate invenzioni e tattiche di guerriglia del movimento: campeggi, preghiere di gruppo, riti pagani, apparizioni di spiritelli, “battiture” e tagli delle reti… Ma c’era una grossa lacuna: erano rimasti fuori i “gesti profetici” del siciliano Turi Vaccaro, veterano di tutte le lotte pacifiste e antimilitariste da Comiso 1981 in avanti, anzi, da prima ancora.

Il 4 agosto 2011 Turi, penetrato nella “zona rossa” che cingeva il cantiere, era salito su un grande cedro. Era rimasto lassù, tra i rami, per due giorni e due notti, in sciopero della fame, bevendo solo la sua urina, comunicando con i No Tav tramite note scritte che appallottolava e gettava oltre la recinzione. In una delle ultime si leggeva: “Vorrei restare quassù, ma mi rimangono poche energie per continuare il digiuno e per resistere, soprattutto se ci sarà ancora una notte con pioggia e vento”. Si sarebbe “arreso” solo a don Luigi Ciotti, aveva detto poco dopo. Quest’ultimo – grandissimo performer – non si era fatto attendere: giunto in val Clarea, era salito su un’autoscala dei vigili del fuoco. Il prete e il santo si erano abbracciati a venti metri d’altezza, e Turi era sceso tra gli applausi del popolo No Tav.

Poco tempo dopo, senza una ragione difendibile, il cedro era stato abbattuto. La vendetta dei potenti sbeffeggiati deturpa il mondo.

Il 4 marzo 2012, una settimana dopo la caduta di Luca Abbà, Turi si era arrampicato sullo stesso traliccio. Ci era rimasto appollaiato tutta la notte. Le guardie, ancora scottate per le polemiche sul 27 febbraio, non avevano osato salire. Nessun tentativo di trascinarlo giù.

Il pranzo del mercoledì dei No Tav alla Colombera, 27 gennaio 2016. - Michele Lapini

Il pranzo del mercoledì dei No Tav alla Colombera, 27 gennaio 2016. (Michele Lapini)

Il 5 settembre 2015 Turi aveva eluso la sorveglianza ed era apparso all’improvviso nel cantiere, a due passi dai poliziotti allibiti, a torso nudo e in calzoncini, la barba grigia, i capelli lunghi e caldi di sole, nelle mani una bandiera No Tav, inatteso e più che mai incongruo, come un ologramma, però tangibile. Prima che le guardie potessero battere le ciglia due volte, si era messo nella posizione yoga del Sîrsâsana, quella che noi profani chiamiamo “la verticale”.

Una delle più recenti forme di pressione sul cantiere erano appunto i “pranzi del mercoledì”, e noi avevamo fame, e rieccoci dov’erano rimasti i nostri corpi mentre il pensiero spaziava: al checkpoint di via dell’Avanà.

Avevamo tutto il diritto di passare, ma i blu di Prussia ci tennero fermi a lungo mentre facevano controlli, telefonate, sentivano questo o quel funzionario del tale ufficio… Infine, ci dissero che chi non possedeva terreni non poteva entrare.

“Loro sono proprietari terrieri?”, ci chiesero, usando precisamente quell’espressione.

“No, io faccio il fotografo”, rispose Michele.

“E Lei?”, domandarono a me.

“Io faccio lo scrittore”.

“E Lei?”, rivolgendosi a Mariano.

“Scrittore anch’io”, e per fortuna non aggiunse “illusionista”.

Prima che le guardie chiedessero a tutti che lavoro facessero, Guido, Nicoletta e Simone cominciarono a protestare: “L’ordinanza del prefetto vieta l’accesso a quest’area solo dopo le 19, non avete nessun motivo per impedirci di passare”.

Quelli si riattaccarono al telefono, e poco dopo riferirono: “La dirigente comunica che, per la loro incolumità, devono lasciare sgombro questo passaggio e uscire da quest’area”.

“Ah, sì? Bene, fatela venire qui, la dirigente. Noi intanto chiamiamo i nostri avvocati”.

Forse li aveva insospettiti il numero, perché eravamo in sette: io, Michele, Simone, Filippo, Mariano, Guido e Nicoletta. Chissà cosa stavamo complottando!

Nel prosieguo del battibecco, arrivarono a dire che l’ordinanza da noi citata non era più valida, ché ogni giorno il prefetto ne emetteva una nuova. Una simile prassi ci parve dispendiosa e poco plausibile, così chiedemmo di vedere l’ordinanza di quel giorno. Dissero che non ce l’avevano.

Telefonammo all’avvocato Valentina Colletta, del Legal team No Tav. Disse che avrebbe chiamato direttamente la prefettura.

Mentre aspettavamo, qualcuno mi chiese: “Che articolo hai in mente di scrivere?”.

Per rispondere, dovetti riavvolgere il nastro.

Sentenzaiola

Mentre il 2015 affievoliva, e dopo una gragnuola di notizie che avevano ammaccato la reputazione in loco di alcuni vip torinesi ma non erano arrivate nel resto d’Italia, proposi a Internazionale un nuovo racconto sulla lotta in val di Susa. Da tempo lavoravo a un libro-monstre sul movimento e sentivo l’urgenza di fare un compendio. Un punto della situazione.

A un quarto di secolo dai primi vagiti di protesta, a che punto si trovava il movimento No Tav?

Turi Vaccaro viene trascinato via dalla polizia, 5 settembre 2015.  - Michele Lapini

Turi Vaccaro viene trascinato via dalla polizia, 5 settembre 2015. (Michele Lapini)

Nel novembre 2015 il Tribunale permanente dei popoli (Tpp), dopo un impegnativo lavoro istruttorio e un lungo dibattimento, aveva dichiarato:

In val di Susa si sono violati i diritti fondamentali degli abitanti e delle comunità locali. Da una parte, quelli di natura procedurale, come i diritti relativi alla piena informazione sugli obiettivi, le caratteristiche, le conseguenze del progetto della nuova linea ferroviaria tra Torino e Lione…; [i diritti] di partecipare, direttamente e attraverso i suoi rappresentanti istituzionali, nei processi decisionali relativi alla convenienza ed eventualmente al disegno e alla costruzione del Tav; di avere accesso a vie giudiziarie efficaci per esigere i diritti sopra menzionati. Dall’altra parte si sono violati diritti fondamentali civili e politici come la libertà di opinione, espressione, manifestazione e circolazione, come conseguenze delle strategie di criminalizzazione della protesta… [Ci sono state] violazioni che sono il prodotto di azioni deliberate e pianificate: la diffusione di informazioni contenenti falsità e manipolazione dei dati relativi alla necessità, alla utilità, all’impatto dei lavori; la simulazione di un processo partecipativo con l’istituzione dell’Osservatorio per il collegamento ferroviario Torino Lione, che arriva a escludere i dissidenti e ad annunciare un accordo [con le amministrazioni locali] inesistente… Pratiche amministrative, legislative, giudiziarie, di polizia che includono anche la persecuzione penale sproporzionata e la imposizione di multe eccessive e reiterate, l’uso sproporzionato della forza.

Parole durissime, motivate in un dispositivo di sentenza che il movimento aveva subito diffuso in rete, distribuito in migliaia di copie a stampa… e veicolato in modi “alternativi”.

La sera del 10 novembre il mio gruppo guerrigliero preferito, il Nucleo pintoni attivi (Npa), aveva organizzato una “sentenzaiola”, un lancio di copie della sentenza – arrotolate a mo’ di pergamena e legate con nastrini rossi – oltre la recinzione del cantiere Tav. Hai visto mai che un poliziotto s’incuriosisce e la legge? Macché, come donar sangue a una pietra. Di là dal filo spinato, solo sguardi vacui e sogghigni spenti. I poliziotti avevano preso le “pergamene” e le avevano rilanciate ai mittenti. Nel mentre, un attivista leggeva la sentenza al megafono, ma hai presente quando uno ostenta di non volerti ascoltare, si mette le mani sulle orecchie e salmodia qualcosa tipo lololololololololololo? Ecco, così. E i Pintoni s’erano forse fatti scoraggiare? Avevano perso anche solo un’oncia di buonumore? Non sia mai.
Allontanatisi dal cantiere, avevano portato una copia della sentenza alla caserma dei carabinieri di Susa, e avevano chiesto che fosse protocollata.

Erano attivisti in gran parte over 60, con svariati over 70 e perfino qualche over 80. Il gruppo prendeva il nome dal “pintone”, la bottiglia di vino da due litri. La sigla Npa, vagamente “lottarmatesca”, intendeva prendere per i fondelli quei cronisti, opinion-maker e uomini di legge che amavano dipingere una val di Susa in balìa di imprecisati terroristi. Un unico grande covo.

Repressione e intimidazione

Il Tribunale permanente dei popoli era un tribunale d’opinione che indagava sulle violazioni dei diritti umani e delle libertà civili. Era nato nel 1979 su iniziativa di Lelio Basso, l’autore del comma più bello e utopico della costituzione italiana, il secondo dell’articolo 3:

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”.

Il Tpp operava sulla scia del Tribunale Russell I, fondato da Bertrand Russell per indagare sui crimini di guerra degli Stati Uniti durante la guerra del Vietnam. Successive incarnazioni del Tribunale Russell si erano occupate delle dittature latinoamericane (Cile, Brasile, Uruguay), della questione palestinese e dell’etnocidio dei popoli amerindi. Anche il Tpp si era dato parecchio da fare, conducendo inchieste e tenendo sessioni in mezzo mondo.

Nell’autunno del 2015, accettando l’invito del Controsservatorio Valsusa, il tribunale si era insediato a Torino, aveva ascoltato decine di ore di testimonianze, acquisito relazioni di ingegneri geologi economisti giuristi… Aveva anche contattato i proponenti e difensori della grande opera, i quali avevano risposto schermendosi nel modo più banale e passivo-aggressivo: “Non abbiamo niente da dire, è tutto scritto nei documenti”.

I membri del tribunale avevano cercato di visitare il cantiere Tav… e toccato con mano il clima di repressione e intimidazione che circondava l’opera. “Nella loro visita alla zona”, si leggeva nel dispositivo della sentenza “i membri di una delegazione del Tpp sono stati trattati come potenziali delinquenti. Ciò rende evidente che gli effetti sulla vita quotidiana degli abitanti sono stati enormi…”.

“Il tribunale aveva fatto richiesta ufficiale al direttore dei lavori”, mi avrebbe raccontato l’attivista Ezio Bertok, “ma l’accesso era stato negato con vari pretesti. Abbiamo accompagnato la delegazione ai bordi del cantiere… Sono stati sottoposti a controlli di documenti, attese lunghe, registrazioni, continua osservazione con telecamere… Decine e decine di funzionari della Digos circondavano i giudici. Un atto intimidatorio, e secondo me anche stupido”.

I No Tav davanti alle recinzioni del cantiere-fortilizio, val Clarea, 5 settembre 2015, . - Michele Lapini

I No Tav davanti alle recinzioni del cantiere-fortilizio, val Clarea, 5 settembre 2015, . (Michele Lapini)

Sapevo bene di che parlava, era capitato anche a me nel gennaio 2014, quando avevo accompagnato in val Clarea Mark Savage e Lucy Ash, due giornalisti della Bbc. Una squadra di forzuti in mimetica e occhiali neri, con fare ostile, aveva circondato i due attoniti reporter e li aveva costretti a cancellare le foto del cantiere appena scattate con i telefonini. “Questo è un luogo pubblico dove si eseguono lavori pubblici spendendo soldi pubblici”, aveva commentato Mark. “Anche soldi dell’Unione europea. Io sono un cittadino dell’Ue, quei soldi escono dalle mie tasche e non posso vedere come vengono spesi?”. Vagliela a spiegare, agli inglesi, la legge di stabilità 2012.

I mezzi d’informazione mainstream nazionali avevano ignorato la sentenza del Tpp e quelli locali avevano tentato la via dell’irrisione, ma per il movimento era un risultato da valorizzare, una certificazione degli sforzi compiuti, un pieno riconoscimento delle ragioni di chi si opponeva alla grande opera.

Nel frattempo, dopo mesi in cui si era cercato di far passare l’idea di una valle “ormai pacificata”, nei pressi del cantiere erano ripresi gli scontri; lo scrittore Erri De Luca era stato inquisito per i contenuti di una sua intervista contro il Tav, processato per istigazione a delinquere e infine assolto perché il fatto “non sussisteva”; la corte di cassazione aveva smontato gli impianti accusatori di diverse inchieste contro il movimento, escludendo le fattispecie dei reati con finalità di terrorismo; il pool anti-No Tav messo in piedi dal procuratore Giancarlo Caselli – in valle li chiamavano “i pm con l’elmetto” – aveva sollevato tali e tante critiche negli ambienti del diritto e in una parte dell’opinione pubblica, che il nuovo procuratore Armando Spataro – non certo una “colomba” – aveva deciso di smantellarlo. Il 22 dicembre 2015, La Stampa aveva titolato: “Finita un’era, la Procura cambia strategia”.
Insomma, era il momento buono per passare di nuovo qualche giorno in valle, fare sopralluoghi e interviste, raccontare come stavano il movimento No Tav e – per sineddoche – il variegato movimento contro le grandi opere dannose, inutili e imposte, a un anno dal decreto definito “SbloccaItalia”. Nome che mi aveva sempre fatto pensare a un purgante.

Era una guerra di mondi, e per giunta asimmetrica. Il 6 novembre 2015, mentre il Tpp ascoltava testimonianze a Torino, il premier Renzi aveva estratto dal cilindro il coniglio del ponte sullo stretto di Messina. Sguardi colmi d’orrore: la bestiola era in putrefazione.

Il direttore aveva risposto: “Ok”.

Poi aveva aggiunto: “Porta con te un fotografo”.

Fine della prima parte.

Hai partecipato al Family Day? Il tuo articolo non sarà pubblicato

democrazia, libertà di pensiero ed opinione. Meno male che siamo nel libero occidente minacciato dai fascismi euroscettici, salvaguardiamo questo meravigliosto status quo.
 
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febbraio 23 2016
In Italia vige cotanta libertà di stampa, lo abbiamo scritto più volte, da essere “soltanto” al 73° posto nella classifica mondiale del 2014.
 
Così accade oggi che la giornalista Costanza Miriano, assoldata da  Repubblica per un numero sul femminismo e l’8 marzo, venga rispedita a casa. Che faccia il concetto antropologico e la puliscibagni [Cit.]
 
Motivo? Avere parteciipato il 30 gennaio scorso al Family Day.
 
La Miriano non si scuote e corregge: “Io non ho partecipato al Family Day. Io l’ho organizzato.”
 
Insomma: Repubblica rinuncia all’informazione imparziale, e rifiuta un articolo anche se con le unioni civili non c’entra proprio.
 
Costanza mia, troppi tubini neri, troppi libri bigotti e nemmeno un nastrino arcobaleno-uno (nemmeno per legarti i capelli quando fai jogging), per essere politically correct.
 
Vuoi mettere i diritti reclamati dagli LGBT con il tuo, sancito dall’articolo 19? Quello non vale più se vai al Family Day!
 
E poi, via, chi desidera oggi certi giornalisti! Rischiamo di salire di posto in classifica e superare – che so- il Burkina Faso, la Serbia, la Corea…
 
MIriano
 
 

Olimpiadi 2024

vedrete contestazioni in piazza? e rapporti dettagliati sui giornali? Sia mai, non si può ostacolare il “progresso”
 
19 febbraio 2016
 
Visto l’ostracismo di Facebook e quello dei media, ho pensato bene di riaprire, dopo parecchi anni di abbandono, il vecchio blog ( ‘IL NODO’ ). Ancora mi muovo male, perchè allora me lo seguiva l’amico Massimo, ma piano piano imparerò. Mi impegno a pubblicare almeno un nuovo pezzo ogni settimana chi vuole può seguirlo … e passare parola. Grazie.
 
olimpiadi
Tanto di cappello alla organizzazione scenico-tecnologico-mediatica, della candidatura italiana alle Olimpiadi 2024, gestita da Montezemolo e Malagò
 
(se per l’ambiguo Sala , diventare Sindaco di Milano è valso l’EXPO,   per loro, le Olimpiadi varranno almeno un Ministero)
A Mozzarella , han fatto dire che gli effetti economici , che per l’Italia produrranno gli investimenti del Comitato Olimpico 2024 , saranno come quelli del miracolo economico del 1960 .. il che chiarisce la dimensione del personaggio, a cui nessuno ha spiegato che nel 1960 la Lira era dello Stato, mentre ora , l’Euro, lo prendiamo in prestito dai banchieri della BCE e ci paghiamo pure sopra gli interessi.
 
Al centro dell’Evento mediatico c’erano due punti, entrambi fasulli, ma dati per scientificamente studiati :
 
– il costo, previsto in 5,3 miliardi
 
– l’occupazione
 
– la sua ricaduta sul PIL, calcolata in mezzo punto percentuale
 
Orbene…
 
Il costo
 
Per l’EXPO, dell’amico Sala, siamo passati dai 4,5 miliardi , previsti nel 2007, diventati 12 nelle previsioni del 2011 e chissà quanti saranno alla fine .
 
 
I conti finali Renzi li ha promessi per la primavera 2016, ma forse se ne è già scordato …
 
Il Fatto quotidiano ha parlato di un buco di 400 milioni, ma io credo sia sottostimato ed ho due indizi
 
1) Giuseppe Sala aveva detto che con 24 milioni di biglietti venduti si sarebbe avuto un pareggio di bilancio. Nella Conferenza stampa di chiusura , ha invece detto che si era superato l’obiettivo dei 21 milioni di visitatori… e ‘visitatori’ non significa ‘biglietti venduti’, tanto più che tutti hanno saputo degli input tassativamente dati dal PD, dopo gli scandali e i clamorosi ritardi nei lavori, a tutte le sue organizzazioni sindacali, cooperative, economiche, sociali, culturali, e politiche ( ma anche i vari Ministeri del Governo Renzi-Verdini, hanno fatto la loro parte) per organizzare visite da ogni angolo d’Italia e svolgervi i loro Congressi e Convegni .
 
2) Quote della Fondazione EXPO, sono state , per tempo, ‘scaricate’ alla Cassa Depositi e Prestiti (paga lo Stato) e , casualmente, il PD ha contemporaneamente messo il Direttore della EXPO Giuseppe Sala, nominato dal Governo Berlusconi e dalla Governatrice Lombarda , Moratti, nel Consilio della stessa CDP. (http://www.nanopress.it/cronaca/2015/11/13/bilancio-expo-2015-buco-nelle-casse-di-400-milioni-di-euro/97893/#refresh_ce )
L’occupazione
 
L’expo, investendo più (molti di più) di 12 miliardi, ne aveva promessi 70.000, sono stati 4.000 ( e stendiamo un pietoso velo su sottosalari e ‘volontariato imposto’ )
 
 
Renzi, Montezemolo e Calabrò, per le Olimpiadi invece, investendo  ‘solo’ 5, 3 miliardi (nostri) ne prevedono ben 177.000 … ( stracciando il precedente record della bugia stabilito dal Governo Berlusconi per l’Expo e prenotando la medaglia d’oro olimpica nel ‘lancio della Balla’)
 
Gli effetti sul PIL
 
Se l’Expo, con i suoi oltre 12 miliardi di investimento (allora previsti), secondo lo studio della Bocconi, avrebbe dovuto generare un incremento di valore aggiunto – tra il 2011 e il 2020– di 29 miliardi di euro ..(cosa che già risulta eccessivamente sovrastimata, ma rispondente al costo per un mutuo bancario ventennale)
 
 
… come può un investimento di 5,3 miliardi generare, in un solo anno, un aumento del PIL dello 0,5% (pari a circa 8 miliardi) ?
 
Ho tralasciato le implicazioni malavitose dell’Expo, cosa che si ripeterà con le Olimpiadi (imperante il PD-PDL), ma la Grecia ha già dimostrato il costo e la ricaduta dell’evento olimpico, che ancora deve essere assegnato all’Italia, ma è già entrato nelle tasse (accise) sulla benzina, per fronteggiare ‘ le prime spese’…
 
 

Mentre l’Italia arranca e sprofonda nella disoccupazione e deflazione, per Renzi la priorità è far passare il decreto sulle coppie gay

Feb 22, 2016
 
Renzi-con-Junker-e-Trusk
Renzi con Junker e Trusk
 
di Luciano Lago
 
Matteo Renzi, intervenendo oggi all’assemblea del Pd – fra le altre cose ha detto con enfasi: ” ……..siamo pronti a utilizzare tutti gli strumenti normativi e regolamentari per impedirlo (riaprire le discussioni sulle unioni civilli), con la stessa tenacia della legge elettorale, riforma Pa, lavoro. Non possiamo permetterci un’unica cosa: frustrare la speranza come abbiamo fatto con i Dico 10 anni fa”.
 
Il governo Renzi ed il PD, in pratica si avviano a chiedere la fiducia per far passare a tutti i costi la legge Cirinnà, quella che legalizza i diritti delle coppie gay e le adozioni per le coppie omosessuali.
Questa è inevitabilmente la tendenza e la strategia di tutti i governi dominati dalla sinistra mondialista al servizio di interessi esterni, quella strana tendenza (suggerita) di procedere ad una sostanziale compensazione fra diritti sociali e diritti civili individuali.
 
Lo stesso governo e lo stesso partito, il PD, che ha partecipato, come forza politica determinante, alla sagra per togliere i diritti sociali, da quelli sul lavoro (art.18) a quelli sull’assistenza sanitaria (limitazione ricette), a quelli sulle stesse pensioni (vedi Legge Fornero), a quelli sulle reversibilità delle pensioni, a quelli sulla casa gravata da imposte intollerabili per i ceti disagiati, oggi si impegna, come scelta prioritaria, nel garantire i diritti delle coppie gay.
 
Non ci sono politiche del Governo per agevolare il lavoro e le piccole imprese che chiudono, le attività artigianali che spariscono, i produttori messi in rovina dalle norme europee, le imprese che delocalizzano, ecc. .Non esiste  un vero piano di emergenza per contrastare la povertà in crescita in Italia, con il numero delle famiglie povere paurosamente aumentato come certificato dall’ISTAT, tuttavia si registra un interesse prioritario e prevalente del Governo nell’attribuire i diritti alle coppie gay.    Vedi: In Italia 10 milioni di poveri
Questo non è un caso ma una precisa strategia delle sinistre legate al grande capitale sovranazionale e subordinate alle direttive delle centrali di Bruelles e Francoforte, in ottemperanza a quanto dispone anche il FMI e gli altri potentati finanziari.
 
L’esempio concreto è quello che accade in Grecia dove il Governo delle sinistra di Tsipras concede per legge le unioni civili per i gay ma, con le privatizzazioni, distrugge il settore della sanità pubblica, azzera l’istruzione pubblica, taglia drasticamente le pensioni, i salari dei dipendenti pubblici e ne consente i licenziamenti, riduce sul lastrico gli agricoltori ed i piccoli produttori mentre si inchina al volere delle grandi banche creditrici dell’Unione europea ed uniforma le sue norme per consentire la svendita del patrimonio pubblico (isole comprese).
Tutto questo rientra in quanto stabilito dalle centrali si Bruxelles, di Francoforte e dei potentati finanziari, anzi sembra ormai certo che esista un vero e proprio decalogo, elaborato dai tecnocrati di Bruxelles,  suddiviso in varie sezioni, in particolare, sotto il capitolo: “Istruzioni ai governi per le politiche economiche”.
 
In questo capitolo “riservato”, la Commissione europea di Bruxelles raccomanda ai governi di essere ben attenti a non contravvenire alle direttive imposte dal nuovo sistema omologato di regole, fra queste regole: mantenere i mercati aperti in ogni settore, dall’alimentare alla grande distribuzione, privatizzazione di ogni servizio pubblico, dalla sanità ai trasporti alla scuola, libertà di investimento e facilitazioni per le grandi multinazionali, limitazioni sulle normative relative ai diritti del lavoro, licenziamenti liberi e contratti a tempo, tagli alle pensioni, innalzamento età pensionabile e limitazioni alla reversibilità, salari rapportati alla produttività ed al contesto sociale (domanda/offerta di lavoro), ticket sulle cure sanitarie, imposte sulla casa, sui terreni e su ogni forma di proprietà privata, anche se di piccole dimensioni, imposta sulle attività artigiane, sulla pesca e divieti vari per le consuetudini di produzione locale (formaggi, latticini, pesca, allevamento, ecc..).
Naturalmente queste regole sono particolarmente vincolanti per i paesi con alto livello di debito pubblico, come Grecia, Spagna, Italia e Portogallo.
 
Si tratta di regole dettate dai potentati finanziari, grandi banche come Goldman Sachs, FMI, Banca Mondiale, ecc. che sono creditrici dei governi e che ultimamente hanno imposto alla Commissione di adottare il Bail Inn, il principio per cui, se una banca va male, le sue perdite si accollano ai risparmiatori, salvo evitare che i banchieri rispondano dei danni causati con opportune leggi di esonero di responsabilità (vedi decreto salvabanche).
Tuttavia, a compensazione di questo pacchetto di norme, di cui ne abbiamo riportato soltanto alcune, esiste un decalogo, dettato dalla stessa Commissione, che consente, a compensazione, l’allargamento dei diritti individuali.
 
Nel decalogo si raccomanda: 1) concedere i diritti civili senza limiti, 2) accettare l’immigrazione di massa senza barriere, 3) consentire le leggi per la cittadinanza agli immigrati, 4) emanare al più presto le leggi per legalizzare i diritti delle coppie gay equiparati alla famiglia, 5) adeguare le leggi per le adozioni dei i gay, 6) consentire l’utero in affitto, 7) consentire l’eutanasia libera, ecc.. In pratica per tutti i diritti previsti dalla nuova morale relativista che è divenuta quella prevalente in Europa e che viene adottata dai paesi europei considerati più evoluti: dalla Svezia, alla Danimarca alla Francia, ecc..
 
Questo spiega la fretta del Governo Renzi di volersi adeguare a questo decalogo dettato da Bruxelles e potersi vantare nelle prossime riunioni con i colleghi pari grado degli altri paesi che anche l’Italia avrà fatto “i compiti a casa”, uniformandosi al “pensiero unico” dettato dalle centrali dell’oligarchia europea.
Di più, questo consentirà alla Commissione di emanare sanzioni verso quei paesi restii ad adattarsi a queste normative, in particolare ai paesi dell’Est Europa, come l’Ungheria di Orban, la Repubblica Ceka di Milos Zeman, la Slovacchia e la Polonia di Beata Szydło, paesi che non ne vogliono più sapere delle imposizioni di Bruxelles, a partire dalla sanzioni alla Russia ed all’immigrazione aperta, tanto che  hanno creato un gruppo fra di loro (gruppo di Visegrad) per contrastare le direttive di Bruxelles, in particolare su sanzioni, immigrazione e direttive su coppie gay e quant’altro.
 
Già nella precedente riunione, Matteo Renzi, svolgendo la parte del “Pierino” di turno, ha suggerito alla Commissione di negare i finanziamenti ai paesi che non vorranno adeguarsi alle direttive di Bruxelles ed in particolare quelle sull’immigrazione che prevedono l’accoglienza illimitata di migranti e profughi da qualsiasi parte provengano, come sta facendo l’Italia. Vedi: Niente fondi europei ai paesi che non accolgono i migranti
 
Questa dichiarazione gli ha procurato sarcasmo e sguardi carichi di odio da parte degli ungheresi e polacchi, i quali hanno anche giurato di farla pagare al “Pierino Italiano”, ma Renzi ha potuto godere della approvazione della Merkel e di Donald Tusk, quale “bravo alunno”, da considerare “primo della classe” in Europa.

I poveri sono bestie. Parola di Eugenio Scalfari

Feb 23, 2016
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Eugenio Scalfari
 
di Alceste
 
I tempi attuali hanno questo di particolare: dovremo viverli sino in fondo e berne la coppa sino alla feccia.
Uno dei maestri residui del pensiero italiano (un altro, celebratissimo, è crepato recentemente), il nababbo Eugenio Scalfari, nei giorni scorsi se ne è uscito con tale argomentazione: “i poveri soddisfano esclusivamente i loro istinti e voglie primari; non ne hanno di secondari: la ricerca di Dio, ad esempio; collezionare ceramiche Ming; leggere trattati di socialisti tedeschi dell’Ottocento; scrivere per il teatro; occuparsi di lirica et cetera. Il loro mondo (il mondo dei poveri) è chiuso, basico, animale”.
I poveri, ne consegue, dei bruti.
Ovviamente Scalfari ha ragione. Tutta la mia famiglia, ad esempio, in particolar modo i miei ascendenti diretti (nonni materni e paterni), son lì a confermare le sue tesi.  Aggiungo di più.
 
I poveri, quelli veri, quelli che ben presto popoleranno la nazione, sono pure brutti, sporchi e cattivi.
Brutti poiché le privazioni imbruttiscono; e un lavoro non intellettuale (lavoro intellettuale: scrivere articoli da quattro soldi con l’aria condizionata, i piedi sul tavolo e le sfogliatelle alla propria destra, ad esempio) non regala tempo per curarsi la barba come un orticello (altro esempio).
In quanto brutti i poveri attirano altri brutti: ne nascono, a meno di un terno secco cromosomico, figli brutti.
I poveri sono sporchi, poi, perché quando si è brutti, con un lavoro di merda, e la mattina ci si sveglia con una donna laida, grassa e sboccata al fianco (è un esempio pure questo) si va in depressione, e, in depressione, come tutti sanno, non si ha mica voglia di farsi la doccia, profumarsi con essenze che nemmeno si è in grado di comprare o tagliarsi i baffi in maniera cool.
 
Va da sè che un tizio che è brutto, con una moglie brutta, e figli brutti, senza una lira, con un lavoro merdoso e le ascelle che gli puzzano, si incattivisca ogni giorno che passa.
Queste mie considerazioni sembrano facili e posticce, ma non è così: si basano su una osservazione costante, empirica, trentennale, degli Italiani.
 
Quando dico che i poveri sono brutti intendo proprio questo: che esiste una relazione diretta, scientifica, causale, fra la mancanza di pecunia e le fattezze umane (le gambe delle donne: basta osservare le gambe delle nostre nonne e le gambe delle loro nipoti; la bellezza delle gambe delle donne è questione di censo. Le belle nipoti però non hanno da illudersi: le gambe delle loro figlie torneranno presto a incurvarsi).
 
Ed esiste una relazione diretta tra povertà e moralità umana (sempre dei poveri: ignoranti, zotici e maleducati).
Insomma Scalfari ha ragione: i poveri sono bestie.
 
Tuttavia oserei rivolgergli una domanda: com’è che i nababbi suoi pari (De Benedetti, Tronchetti Provera, Montezemolo, gli Agnelli et cetera) e tutti gli intellettuali che secondo lui intrattengono altissimi discorsi e pensose meditazioni (con una ruga sulla fronte), e tutti i dotti che ha il privilegio di interrogare con quesiti celesti sulla vita e sulla morte (vescovi illuminati, rabbini illuminatissimi, premi Nobel) – insomma tutta la sceltissima pletora di menti eccelse che i bisogni primari non sanno manco cosa siano, e vantano, invece, bisogni secondari, terziari, quaternari … come mai tutti questi eletti sono, alla fine della fiera, delle micidiali nullità?
È una semplice domanda, non altro.
 
Insomma, ragazzi miei, se l’italia è in declino da trent’anni almeno, tanto che la sua classe media è ormai in putrefazione culturale, a chi addebitare la colpa?
Non ai poveri, che pensano solo a magnà’, a beve e a scopà’ (i bisogni primari).
Cos’ha dato alla nazione De Benedetti? E Montezemolo? E il cardinal Martini, a ben pensarci, cosa ha fatto per impedire l’agonia dell’Italia? Hanno mai detto qualcosa, questi venerati maestri un tanto al chilo, contro la trasformazione d’un Paese geniale e bello in un mattatoio sociale (son solo tre esempi, potrei continuare per decine di pagine)?
 
Sorgono altre domande. Se i poveri sono come porci in calore, il cui unico scopo è guazzare nel tiepido brago della propria limitatezza, quali bisogni secondari aveva uno come Lapo Elkann? Privo di vere urgenze (proprie ai brutti, sporchi e cattivi), in realtà cosa cercava?
Son curiosità.
 
Che fanno sorgere altre curiosità. Esempio: cos’ha dato alla nazione Eugenio Scalfari? Come si son inverati i suoi bisogni secondari, terziari?
Mentre è sprofondato sui velluti della redazione di Repubblica meditando le superne cose de l’etternal gloria, insomma, che gli passa per la capoccia? Lui che è una delle punte più acuminate del genio nazionale.
 
Che gli passa per la testa a queste flebili increspature della storia della mediocrità, a parte tali sbocchi di boria suprematista, dopo decenni e decenni di chiacchiere, pontificazioni, giri di valzer, tradimenti? Quale debito vantano verso la comunità e il nostro futuro questi tronfi massoni del nulla?