Pinard e la fascia verde, bianca, rossa e…nera

post — 9 novembre 2012 at 13:31

Pinard e la fascia verde, bianca, rossa e…nera

di Giovanni Vighetti – E’ una scontata e già vista rappresentazione teatrale, quella messa in scena da Renzo Pinard Sindaco di Chiomonte; da La Stampa: “il primo cittadino annuncia la restituzione del nastro verde, bianco e rosso per lanciare un grido d’allarme dopo l’ennesima dimostrazione «che qui lo Stato non c’è»”.

Strane parole da parte di chi nel 1974 è stato arrestato per detenzione abusiva di armi e munizioni di guerra e con l’accusa di aver partecipato ad un campo paramilitare fascista in località Pian del Frais (Stampa del 16/17 giugno 1974- qui l’articolo su FB).

Certo nel corso della vita si può cambiare, è legittimo; se davvero si cambia.

Ma chi è stato coinvolto nelle “trame nere”, in una Valle fortemente caratterizzata dalla lotta partigiana, non può certo ergersi a paladino della legalità.

In questo caso poi il signor Pinard, per onestà intellettuale, dovrebbe riconoscere una quota, non indifferente, di responsabilità sui devastanti effetti della militarizzazione di un’importante area per l’economia del territorio chiomontino, per avere, di fatto, agevolato l’apertura del cantiere in Località Maddalena.

Ma la coerenza non è di casa per chi, in precedenza, aveva dichiarato che la fascia tricolore sarebbe stata restituita in presenza di una militarizzazione del territorio.

Il ministro dell’interno Cancellieri sarebbe quindi pronto a portare solidarietà “Non getti la fascia verrò a Chiomonte”. – “Il ministro ha promesso che verrà a Chiomonte entrando prima di tutto in municipio: la casa dello Stato” – spiega Pinard – Stampa del 3/11/2012

Se il Ministro vuole venire in Valle, ed è suo pieno diritto, dovrebbe farlo per entrare soprattutto nei Municipi di tutti i Comuni della Valle che da anni, inascoltati dallo Stato, si oppongono, con ragioni tecniche, economiche e ambientali, alla costruzione dell’insulsa linea ad alta velocità Susa- Saint Jean de Maurienne , visto che la Torino Lyon, al di là del tunnel di base, non esiste più come non esiste più il “Corridoio 5 Lisbona – Kiev” .

Dovrebbe venire in Valle di Susa per incontrare la comunità valsusina a cui è stata data, come unica risposta all’opposizione del progetto TAV, la militarizzazione del territorio, scelta non democratica che è all’origine di tutte le tensioni che si susseguono da anni.

Sulla presenza o meno dello Stato poi c’è da discutere…….. a nostro giudizio è ben presente e mostra il suo volto peggiore quello autoritario che non ascolta e che, con l’uso della forza, cerca di imporre, contro la volontà di una importante comunità locale e contro ogni ragione, la costruzione di un opera che non risponde agli interessi della collettività nazionale ma solo agli interessi privati di lobbie politiche-economiche che vogliono garantirsi, per quindici/venti anni, la possibilità di vampirizzare la finanza pubblica, mentre non ci sono i fondi per garantire il diritto allo studio ed alla salute, per garantire il dovuto reddito a decine di migliaia di esodati, e agli italiani continuano ad essere imposti pesanti sacrifici e riduzioni di diritti.

Tutto ciò è indecente.

Giovanni Vighetti

MINISTRO CANCELLIERI NON E’ CON LA MILITARIZZAZIONE CHE SI AFFRONTANO I PROBLEMI DELLA VAL DI SUSA

MINISTRO CANCELLIERI NON E’ CON LA MILITARIZZAZIONE CHE SI AFFRONTANO I PROBLEMI DELLA VAL DI SUSA

9NOV

EZIO LOCATELLI (PRC): MINISTRO CANCELLIERI NON E’ CON LA MILITARIZZAZIONE CHE SI AFFRONTANO I PROBLEMI DELLA VAL DI SUSA. LUNEDI’ IN MANIFESTAZIONE

“Non so se il Ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri si rende conto della gravità della visita che lunedì 12 novembre farà a forze di polizia, carabinieri, militari dell’esercito ed esponenti politici e amministratori protav in Val di Susa. La visita in questione, tanto più con queste caratteristiche smaccatamente di parte, ha il significato di sancire che la questione del Tav è una questione di ordine pubblico, di militarizzazione del territorio, se necessario di repressione. Nessuna considerazione e nessun ascolto per le domande sociali, politiche, amministrative che sollevano, a ragion veduta, elementi di forte contrarietà.
In Francia la Corte dei Conti manifesta apertamente il dubbio sulla sostenibilità e sull’effettiva utilità della nuova linea di alta velocità Torino Lione, in Italia ci ritroviamo una classe dirigente con il paraocchi, subalterna ai poteri forti, capace solo di minacciare soluzioni d’ordine. Proprio per questo lunedì mattina parteciperemo alle manifestazioni in valle, a fianco della popolazione che dice no alla militarizzazione di una valle, alla realizzazione di un’opera inutile e distruttiva che va a scapito di una politica per i trasporti, la sanità, la scuola pubblica, l’ambiente ”.
Ezio Locatelli, segretario provinciale Prc Torino

Torino, 9.11.2012

Unione Europea: Protezionismo contro 5 Paesi latinoamericani

Unione Europea: Protezionismo contro 5 Paesi latinoamericani

Porte chiuse al Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela 
L’Unione Europea (UE),  ha escluso 89 Parsi dal sistema di “preferenze generallizzate” (SPG). Dal 1 dicembre del 2014, con una decisione di evidente carattere protezionista, l’UE chiude il suo spazio ai prodotti provenienti dal Brasile, Argentina, Uruguay, Cuba e Venezuela perchè -a suo giudizio- sarebbero economie emergenti, ormai chiaramente emergenti. Si tratta di una mezza verità, applicabile ad alcuni di questi Paesi sudamericani, però soprprende non poco -per esempio- che l’economia cubana,
costantemente fatta segno di accuse di “ritardo e sottosviluppo”, in questa risoluzione venga accomunata a quelle emergenti.
Il venezuelano Rodrigo Cabeza, presidente del Parlamento latinoamericano, ha detto che la grave crisi in cui versa l’Europa la sta sospingendo verso il “..ritorno a politiche protezioniste dei mercati”. L’accordo SPG  permetteva l’accesso di manufatti e prodotti agricoli a 176 Paesi in via di sviluppo.
La sterzata protezionista in corso nell’UE, viene vista da altri osservatori, come una “risposta politica” contro i governi di quei Paesi che ” hanno deciso politiche per difendere la sovranità e l’indipendenza”. Brasile, Argentina, Uruguay e Venezuela sono diretti da governi di sinistra che hanno messo dei paletti evidenti al FMI e Banca Mondiale. “Bisogna rispondere con forza” dice Xoan Noya “l’UE sappia che non rimarremo con le mani in mano”.
http://selvasorg.blogspot.it/2012/11/unione-europea-protezionismo-contro-5.html?utm_source=feedburner&utm_medium=feed&utm_campaign=Feed:+selvas/blog+%28Selvas+Blog%29

Un esercito di ufficiali e poca truppa

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/inchiesta-italiana/2012/11/08/news/mandorle-46186503/?inchiesta=%2Fit%2Frepubblica%2Frep-it%2Finchiesta-italiana%2F2012%2F11%2F08%2Fnews%2Fla_casta_armata-46195729%2F

 

Un esercito di ufficiali e poca truppa
Mandorle e champagne per l’ammiraglio

Un esercito di ufficiali e poca truppa Mandorle e champagne per l'ammiraglio

La “spending review” delle Forze Armate sembra limitata a taglia della “bassa forza”. Ma anche tra le divise si riscontrano situazioni di evidenti sprechi. A partire dal numero spropositato di generali e al supestipendio dei vicecapi di Stato Maggiore 

Le mandorle dell’ammiraglio non si toccano. La spending review delle forze armate faccia pure il suo sporco lavoro, ma da un’altra parte. Si riduca la truppa, se serve, o si taglino i marescialli, però a Giuseppe De Giorgi, il comandante in capo della flotta italiana, non devono mancare le sue mandorle quando sale sulle navi. Meglio se tostate al momento, altrimenti vanno bene anche salate. Quell’accoglienza da impero borbonico riservatagli a Taranto l’8 settembre scorso a bordo dell’incrociatore “Mambella” (camerieri, tartine, champagne e ovviamente mandorle), di cui hanno dato conto i giornali, si era vista anche a maggio sulla “Caio Duilio” a La Spezia. E chissà quante altre volte, perché per la casta militare le vacche grasse non dimagriscono mai. Le indennità sono calcolate come se ancora ci fosse la Guerra Fredda, le pensioni rimangono dorate, c’è ancora qualcuno a lucidare le maniglie d’oro degli sfarzosi appartamenti di rappresentanza. Chi sono i privilegiati della Difesa?

LE MANDORLE DELL’AMMIRAGLIO. Bisogna leggerla tutta la mail che il Capitano di Vascello Liborio Francesco Palombella spedisce ai suoi sottoposti, il 3 maggio 2012, per capire fin dove arriva oggi l’anacronistico sfarzo concesso al militare privilegiato. Scrive Palombella, alla vigilia della visita di De Giorgi: “All’arrivo del Cinc (comandante in capo della squadra italiana, ndr) prevedere in quadrato l’aperitivo con vino bianco ghiacciato, mandorle salate, grana, olive verdi, pizzette, rustici, tartine. Prepararsi a servire caffè d’orzo o thé verde”. Poi un altro ufficiale entra nel dettaglio dei gusti dell’ammiraglio, guai a sbagliare: “Il caffè con orzo in tazza grande, senza zucchero, macchiato caldo. Il tè verde, senza zucchero”.

Stona, tutto questo. A La Spezia si domandano se l’ammiraglio gradisca il caffè in tazza grande o piccola, a Kabul ai militari italiani non è più concesso di andare a mangiare alla mensa americana, più abbondante e costosa. Stona, nell’era della crisi, qualsiasi forma di sperpero di denaro pubblico. Tutti i privilegi, tutto ciò che è casta non è più sopportabile. E quella dell’ammiraglio De Giorgi è solo una delle 400 e passa storie di benefit e favori goduti da chi ha il grado di generale, nelle forze armate italiane.

LA CASTA DEI GENERALI.
Già i numeri crudi, di per sé, parlano. Tra Esercito, Marina e Aeronautica ci sono 425 generali per 178 mila militari. Negli Stati Uniti sono in 900, il doppio, ma guidano un comparto che con 1.408.000 uomini è quasi dieci volte quello italiano. Per dire, noi abbiamo più generali di Corpo D’Armata, 64, che Corpi d’armata, circa una trentina. In Aeronautica 20 generali di Divisione per tre divisioni effettive. “Ad essere generosi, in Italia basterebbero 150 generali per svolgere gli stessi compiti”, scrive Andrea Nativi nel rapporto 2011 della Fondazione Icsa, che si occupa di Difesa e intelligence.

E così siamo arrivati al punto, paradossale, che i comandanti sono più dei comandati: 94 mila ufficiali e sottoufficiali, 83.400 uomini e donne della truppa. Nei prossimi due anni il personale, civile e militare, sarà tagliato di 8.571 unità. Entro il 2024, si legge nel testo del ddl di revisione appena approvato dal Senato, i 178 mila (somma di graduati e truppa) scenderanno a 150 mila. Ma i generali no, loro non si toccano. Perché avere la greca sulla spallina significa godere di uno status privilegiato. Significa uno stipendio annuale da 120 mila euro per i generali di Corpo d’armata (quelli col grado più alto, le tre stellette), circa 7 mila euro netti al mese. E si ha diritto all’alloggio di servizio gratuito nelle zone migliori della città, al telefonino, in alcuni casi all’autista (l’anno scorso sono state acquistate dalla Difesa 19 Maserati per gli alti ufficiali), a soggiorni low cost a Bardonecchia o a Milano Marittima. Significa attraversare le sforbiciate della spending review e uscirne illibati.

IL SUPERSTIPENDIO DEL VICE. Si chiama Sip l’eldorado dei generali. Speciale indennità pensionabile, un emolumento ad personam che fa schizzare lo stipendio dei dirigenti in alto. Molto in alto. Spetta al Capo di stato maggiore della Difesa, il generale Biagio Abrate, (482.019 euro all’anno), ai tre capi di stato maggiore di Esercito, Aeronautica e Marina (481.006 euro), al comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Leonardo Gallitelli (462.642 euro) e al segretario generale della

Difesa Claudio De Bertolis (451.072). Cifre che superano i 294 mila euro annuali (il trattamento riservato al Primo presidente di Cassazione) indicati dal decreto ” salva-Italia” come tetto degli stipendi dei manager pubblici. In sei costano al ministero 2,8 milioni di euro. Gli stessi soggetti quando lasciano ricevono una liquidazione che sfiora il milione di euro e una pensione da 15 mila netti al mese.

La Sip però viene misteriosamente concessa anche al vice comandante dei Carabinieri. Ciò aveva un senso fino a quando c’era un generale dell’Esercito a ricoprire il ruolo di vertice dell’Arma, non ancora promossa a forza armata. Dal 2000 in poi c’è un Comandante carabiniere, ma la Sip al suo vice è rimasta. E non è un caso che per quel ruolo si siano avvicendati, dall’inizio del 2012 ad oggi, già tre ufficiali e di media si rimane in carica non più di un anno. La cerchia dei privilegiati così si allarga un po’.

 

I cinque paesi dove emigrare e vivere con meno di 350€ al mese

Affitti a cinquanta euro al mese e pasti completi per pochi euro: la classifica dei posti dove vivere in tempi di crisi.

Affitti a cinquanta euro al mese e pasti completi per pochi euro: la classifica dei posti dove vivere in tempi di crisi.


Il minore costo della vita rispetto all’Italia è uno dei motivi che spinge molti a prendere seriamente in considerazione l’emigrazione. Occorre chiedersi dunque, quali sono le nazioni più economiche dove vivere e che offrono contemporaneamente una buona qualità della vita. 

La risposta la da il portale Opentravel con le 5 destinazioni dove si può vivere spendendo pochissimo. Si tratta, tra l’altro, anche di mete tra le più esotiche e belle del pianeta. Ecco quali sono: 

Thailandia: con 350 euro al mese non si riesce magari a trovare un appartamento con vista mare ma è possibile trovare alloggio a prezzi modici (21 euro al mese) intorno a Chiang Mai, al nord, o spendere intorno ai 60 euro minimo più vicino alla costa. Il basso costo del cibo venduto in strada in Thailandia (meno di un euro per pollo con riso o noodles) vi consente di mangiare per circa 150 euro al mese quindi vi rimarranno soldi per viaggi, ristoranti, shopping… 

Cambogia: la storia recente della Cambogia e la sua povertà non fanno di questa nazione una delle prime che possano venire in mente come destinazione per emigrare. Il costo della vita è però simile se non migliore di quello della Tailandia e con 350 euro al mese si può vivere nella capitale Phnom Penh. La città sta diventando sempre più popolare con stranieri quindi i prezzi degli alloggi stanno crescendo ed è difficile trovare qualcosa per meno di 150 euro al mese ma è possibile ridurre i costi condividendo con altri emigrati. Con i 220 euro rimasti è facile vivere in Cambogia. I prezzi del cibo sono simili o inferiori alla Thailandia e mangiare al ristorante vi costerà circa 1,50 euro. Utile ricordare che i costi della vita in Vietnam e Laos sono simili a quello della Cambogia. 

Filippine: la capitale Manila è troppo costosa ma nella provincia di Cebu, una delle più sviluppate delle Filippine con campi da golf, spiagge e centri commerciali, si può affittare un appartamento per circa 100 euro al mese. Il cibo è economico e con 150 euro al mese si coprono tutte le spese, compreso alcol e tabacco. Inoltre le Filippine offrono un visto speciale per pensionati che si può ottenere dall’età di 35 anni con un deposito di 50 mila dollari in una banca filippina. Sopra ai 50 anni occorre avere un deposito di 10 mila dollari e fornire prova di una pensione di 800 dollari al mese per singoli o di mille dollari al mese per coppia. 

Costa Rica: non ci vogliono molti soldi per sopravvivere in Costa Rica. Inoltre la nazione ha 12 zone climatiche diverse per accontentare tutti i gusti anche se il clima prevalente è quello tropicale. I prezzi in San José sono bassi, il costo della vita é tra i più bassi al mondo. Si può vivere con 425 euro al mese se condividete una casa o alloggio con amici. Ovviamente il costo di un affitto diminuisce allontanandosi da San Joé. A circa 75 chilometri si può affittare una casa di dimensioni medio-piccole per meno di 200 euro al mese. Al ristorante si mangia un’ottimo pasto con meno di 4 euro e cucinando per sè i prezzi sono ovviamente molto più bassi. Un casco di banane costa 30 centesimi mentre un pacchetto di sigarette costa 90 centesimi. 

Belize: il sogno di paradiso ad un prezzo contenuto può avverarsi in Belize, una delle nazioni più belle del Centro America. Ha bellissime spiagge, un clima sub-tropicale e la lingua ufficiale è l’Inglese. Il Belize è inoltre un paradiso per chi ama fare immersione grazie ad uno degli ecosistemi marini più belli al mondo.Il costo della vita è simile al Costa Rica. Per una grande casa a Cayo, ad un’ora di macchina da Belize City, si pagano circa 210 euro al mese, condividendo con due amici pagate solo 70 euro al mese. 

Belize.jpeg

 


fonte: cadoinpiedi.it

Orrore in Siria: ‘Esercito Libero’ sgozza bambina solo perchè sciita (IMMAGINI TERRIBILI)

Onu ed ong dove sono? Amnesty che dice? Una bambina sciita vale meno?

Orrore in Siria: ‘Esercito Libero’ sgozza bambina solo perchè sciita (IMMAGINI TERRIBILI)

Orrore in Siria: 'Esercito Libero' sgozza bambina solo perchè sciita (IMMAGINI TERRIBILI)

BAGHDAD – La tv satellitare iraqena ‘Ahlul Bait’ ha trasmesso giovedì mattine le immagini scioccanti di una bambina siriana sgozzata dai terroristi del cosiddetto ‘Esercito Libero’ in Siria solo perchè di confessione sciita.

Secondo la tv satellitare iraqena, l’intera famiglia della bambina ha fatto la stessa fine e secondo i dati in possesso della rete iraqena, sono almeno 1300 i siriani sciiti che l’esercito libero ha ucciso barbaramente. Recentemente Mohammad Al Arifi, tra i leader wahabbiti dell’Esercito Libero, di stanza in Arabia Saudita, aveva ordinato ai suoi di non diffondere le immagini delle loro ‘azioni’ in Siria ma le dimensioni delle barbarie sono ormai tali che nasconderle risulta evidentemente impossibile.

Ci scusiamo con gli utenti del sito per queste immagini, ma purtroppo sono la verità.

http://italian.irib.ir/notizie/mondo/item/116000-orrore-in-siria-esercito-libero-sgozza-bambina-solo-perch%C3%A8-sciita-immagini-terribili

Le spese pazze del Viminale e i conflitti di interesse del ministro Cancellieri

http://it.ibtimes.com/articles/37916/20121103/le-spese-pazze-del-viminale-e-i-conflitti-di-interesse-del-ministro-cancellieri.htm

Le spese pazze del Viminale e i conflitti di interesse del ministro Cancellieri

Read more: http://it.ibtimes.com/articles/37916/20121103/le-spese-pazze-del-viminale-e-i-conflitti-di-interesse-del-ministro-cancellieri.htm#ixzz2BiEbmzVH

Di Gianluca Iozzi | 03.11.2012 16:44 CET

Se da un lato c’è chi soffre a causa della crisi, tagliando le spese superflue, c’è anche chi questo problema non se lo pone proprio: la politica.

Reuters
Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri

Sembra quasi un paradosso: le spese, invece di diminuire aumentano, come nel caso del ministero dell’Interno, che ad esempio ha speso 600 mila euro per scarpe da donna destinate in origine a poliziotte, per poi scoprire che erano inutilizzabili perché troppo strette.

E che dire invece dei 500 milioni di euro che saranno destinati all’acquisto di nuovi braccialetti elettronici per i detenuti, anche se nell’arco di 8 anni ne sono stati usati soltanto 14?

Su questa storia si sono accesi i riflettori della Procura di Roma e della Corte dei Conti. In particolare quest’ultima vuole vederci chiaro su quanto speso dal Viminale per i braccialetti elettronici.

Nella delibera del 1 ottobre scorso i magistrati scrivono che il 6 novembre 2003 il ministero dell’Interno ha stipulato un contratto con Telecom per “l’installazione e l’assistenza di n. 400 dispositivi elettronici di controllo nei confronti di persone sottoposte alle misure cautelari e detentive per l’intero territorio nazionale”. La spesa relativa all’installazione e all’assistenza ammontava nel 2003 a 81.305.000 euro.

Ma qualcosa non quadra: poiché i magistrati contabili fanno notare che “malgrado i dubbi, gli inconvenienti e l’elevato costo, di  cui il ministero dell’Interno era assolutamente consapevole, il contratto con la Telecom  è stato “opportunamente migliorato sotto il  profilo tecnologico (anche con l’utilizzo di strumenti per la localizzazione satellitare)” e “con un aumento del numero di dispositivi utilizzabili (da 400 a 2.000)”.

A questo punto i magistrati hanno cominciato a chiedersi il perché di un simile atto, e dunque perché rinnovare la Convenzione con Telecom per il periodo 2012-2018 con un aggravio di spesa per il bilancio statale.

Soprattutto alla luce della elevatissima “spesa di oltre dieci milioni all’anno sostenuta durante la vigenza del primo contratto scaduto il 31.12.2011“.

Ma in questa storia c’è un dettaglio che merita di essere messo in luce: l’accordo con Telecom riguardo i braccialetti elettronici è stato siglato nel 2003 con scadenza 2011.

Nel 2012 è stato rinnovato dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per altri 7 anni. Ma guarda caso dal 26 settembre 2012 viene affidato a Piergiorgio Peluso il settore Administration, Finance and Control di Telecom Italia.

E chi sarà mai costui? Il figlio del ministro dell’Interno Cancellieri naturalmente.

Dal 2011 a settembre 2012 è stato direttore generale di Fondiaria Sai, la compagnia dei Ligresti zavorrata da oltre 1 miliardo di debiti.

Peluso è stato rimosso dalla sua carica poiché accusato di aver gestito in modo deleterio Fondiaria Sai , e accusato anche di aver siglato un accordo con Mediobanca e Unicredit per sfilare il controllo della compagnia assicurativa alla famiglia Ligresti.

Ma ciò non ha impedito alla compagnia di assicurargli una buonuscita di 3,6 milioni di euro.

Giusto per avere un’idea degli intrecci familiari in questa storia, è utile ricordare che Peluso, figlio dell’attuale ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, è stato assunto nella compagnia assicurativa grazie a Salvatore Ligresti, amico del ministro.

Fonti: TgCom24, Deliberazione n. 11/2012 Corte dei Conti, Telecom Italia

Read more: http://it.ibtimes.com/articles/37916/20121103/le-spese-pazze-del-viminale-e-i-conflitti-di-interesse-del-ministro-cancellieri.htm#ixzz2BiEFJQe6

 

LA FRANCIA PREPARA UNA GUERRA OMBRA NEL MALI

Parigi favorisce ufficialmente l’intervento da parte dell’esercito del Mali sostenuto da truppe dell’Unione Africana col supporto logistico fornito dall’ECOWAS, a cui l’Algeria ha già dato la sua tacita approvazione. In realtà, dietro le quinte il governo francese sta seriamente cercando di convincere gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali a sostenere un intervento (in)diretto.

Il 28 giugno scorso Ansar Dine e altri gruppi collegati ad al-Qa’ida – tra i quali il Movimento unito per il jihad in Africa Occidentale, responsabile del rapimento di Rossella Urruhanno annunciato di aver preso il pieno controllo del Nord del Mali, sconfiggendo i combattenti tuareg del Movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad (MNLA) nella battaglia di Goa.

Oggi l’Azawad è visto come la versione africana dell’Afghanistan di metà degli anni Novanta, ossia come base di addestramento e rifugio di formazioni jihadiste. Ma anche se il governo francese si è espresso pubblicamente a favore di un intervento armato nel nord del Mali, ha negato le voci di un invio di truppe francesi nel Paese. Invece, Parigi favorisce ufficialmente l’intervento da parte dell’esercito del Mali sostenuto da truppe dell’Unione Africana col supporto logistico fornito dall’ECOWAS, a cui l’Algeria ha già dato la sua tacita approvazione. In realtà, dietro le quinte il governo francese sta seriamente cercando di convincere gli Stati Uniti e altri Paesi occidentali a sostenere un intervento (in)diretto. Parigi invierà droni di sorveglianza per la raccolta di informazioni di sicurezza, ma girano voci che i francesi stiano arruolando mercenari da utilizzare contro le milizie islamiste.

Un intervento sul campo comporta molti rischi, se non altro per la complessità del quadro internazionale intorno al Mali. Secondo Linkiesta:

Il conflitto è ormai alle porte e il ruolo della Mauritania è centrale, assieme a quello dell’Algeria. Algeri, che in patria persegue una lotta senza quartiere contro le “katibat” islamiste, non vuole però impegnarsi oltre confine e spinge per una soluzione negoziale. Nouakchott, invece, si sta progressivamente allineando alle posizioni di Costa d’Avorio, Burkina Faso, Nigeria, e soprattutto del principale sostenitore dell’intervento, la Francia.
A tessere le trame nell’area è l’ex potenza coloniale. Parigi non può permettersi il lusso di scendere in campo direttamente con la propria armée, sia per evitare accuse di neo-imperialismo – Hollande ha più volte preso le distanze dal concetto di Françafrique – sia per non mettere a rischio le vite dei propri ostaggi, tuttora in mano ad Aqmi. Non resta che affidarsi alle organizzazioni regionali, in primo luogo alla Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas), che ha deciso di dispiegare una forza di circa 3.300 soldati.Che l’intervento sia «materia di settimane, non di mesi», come ha detto esplicitamente il ministro transalpino della Difesa, Jean-Yves le Drian, si è capito da vari segnali. L’ultimo, in ordine di tempo, è stata la decisione, da parte di Parigi, di inviare in Niger, entro la fine dell’anno, i droni Male Harfang rientrati dall’Afghanistan, in modo da sorvegliare la zona. Ma sono soprattutto i movimenti di truppe e di materiale bellico a mostrare che il countdown è partito.

Secondo il quotidiano algerino El-Khabar, il piano d’azione sarebbe stato già definito e prevederebbe l’immediata occupazione militare delle principali città e delle aree residenziali del Nord Mali, da parte di un contingente africano armato dai francesi. Una volta conquistate le roccaforti jihadiste, si provvederebbe poi a smantellare l’intera rete fondamentalista.
Il primo carico – veicoli pesanti, armi leggere e strumenti di comunicazione, per un totale di 80 milioni di euro – è stato spedito da una base transalpina in Senegal ed è sbarcato nel Nord del Burkina Faso, lungo i confini con il Niger. L’impegno di Parigi copre anche l’aspetto logistico. Le forze africane dovrebbero sobbarcarsi un’impresa onerosa, gestendo il controllo di un’area più grande della stessa Francia, per cui l’ex potenza coloniale sta studiando la costruzione di una propria base nel Mali centro-settentrionale, da realizzare una volta cacciati gli islamisti. Esercitazioni militari congiunte, a cui partecipano le forze speciali d’Oltralpe – 200, tra soldati e ufficiali – e un contingente formato da unità dell’esercito nigerino e di quello mauritano, si tengono da settimane in una zona lungo il confine tra il Niger e lo stesso Mali. È la conseguenza di un accordo di cooperazione tra la Francia e l’Ecowas, che mira a preparare l’adattamento dell’armée alle difficili condizioni del deserto africano.
Gli Stati Uniti, in piena campagna per le presidenziali, sono più prudenti. Il generale Carter Ham, comandante di Africom, la struttura creata nel 2008 per gestire le relazioni militari con il continente nero, ha dichiarato «che non esistono piani per un intervento diretto americano in Mali», ma che Washington sosterrebbe operazioni di peacekeeping e di contro-terrorismo. Obama ha autorizzato una serie di missioni segrete di intelligence nel continente, come rivelato a giugno dal Washington Post. Uno dei principali obiettivi è proprio Aqmi. Da tempo i droni a stelle e strisce sorvolano il Sahel alla ricerca delle basi operative degli jihadisti.
La missione di Romano Prodi, neo-inviato speciale dell’Onu per l’area, si annuncia spinosa. Tutti gli intrighi dell’Africa occidentale trovano oggi nel Mali un palcoscenico ideale per le loro sceneggiature. Un esempio? Secondo un recente report delle Nazioni Unite, i sostenitori dell’ex presidente ivoriano Gbagbo – attualmente in custodia all’Aja dopo un mandato di cattura della Corte Penale Internazionale – stanno cercando un’alleanza con Aqmi per destabilizzare l’intera area e riprendere il potere, cacciando il rivale del loro leader, Alassane Ouattara.

Un centinaio di membri delle forze speciali francesi sono già dispiegati nella regione. Non rimane che convincere i partner europei e gli Stati Uniti ad agire. Per adesso il Vecchio Continente ha dimostrato un tiepido sostegno. Il terrorismo nell’Africa occidentale è un problema europeo: lo è nel Mali – come nel Nord della Nigeria, dove Boko Haram continua a far saltare in aria chiese cristiane con sempre maggiore disinvoltura.

Il problema è questo. Lo scorso anno la Francia è stata promotrice (leggi: istigatrice) e capofila dell’intervento armato in Libia a sostegno delle milizie ribelli. I risultati li conosciamo: guerra costosa e destabilizzazione di un Paese già instabile, con preoccupanti conseguenze sull’equilibrio regionale – di cui la rivolta dei tuareg nel Mali, antefatto all’affermazione dei gruppi islamisti nell’area, è solo l’effetto collaterale più evidente. Dopo un’esperienza così sconfortante, Europa e America saranno ancora disposte a seguire Parigi in una nuova guerra tra le sabbie del Nord Africa?

Fonte: agoravox

Primavere arabe e Rivoluzioni SPA

Primavere arabe e Rivoluzioni SPA
Marcello Pamio – 8 novembre 2012

 

Naturalmente, la gente comune non vuole la guerra;

né in Russia, né in Inghilterra, né in America, né in Germania.

Questo è chiaro.

Alla fine, però, è il leader di un Paese a determinare la politica

ed è sempre abbastanza semplice costringere la gente a seguirlo,

che ci sia una democrazia, una dittatura fascista, un Parlamento

o una dittatura comunista.

Che abbiano voce o meno,

le persone possono sempre essere portate a seguire i propri leader.

E’ semplice. Tutto quello che bisogna fare è dire loro che sono sotto attacco e denunciare i pacifisti per la mancanza di patriottismo,

per esporre la nazione al pericolo.

Funziona allo stesso modo in ogni Paese.

Hermann Wilhelm Göering, Presidente del Reichstag tedesco

 

Nel gennaio 2011 nell’Africa settentrionale e nel Medio Oriente hanno cominciato a diffondersi a tappeto delle ribellioni “spontanee” e “locali” che sarebbero poi esplose nella cosiddetta Primavera Araba. Questo è quello che ci hanno fatto credere.

Ci sono voluti diversi mesi perché la verità venisse a galla, e cioè che dietro le sollevazioni popolari e libere si celava la lunga mano uksraeliana (Inghilterra, Usa e Israele).

Il New York Times ad aprile dello stesso anno ha dovuto intitolare: “Gruppi americani hanno favorito la diffusione della Primavera Araba”.

Chi sono questi gruppi e qual è il loro gioco?

Tanto per citarne qualcuno: “Otpor!” in Serbia e in altri paesi, il “Movimento Giovanile 6 aprile” in Egitto, il “Centro per i Diritti Umani” del Bahrain, il “Fronte Nazionale per la Salvezza della Libia”, “Donne sotto assedio” in Siria, “Golos” in Russia, la “Fratellanza Musulmana”, ecc. Questi gruppi hanno ricevuto, finanziamenti dal National Democratic Institute (NDI), dalFreedom House di Washington e addestramento dall’intelligence statunitense (CIA) e britannica (MI5).

Per meglio comprendere qual è il gioco, ad esempio il “Movimento Giovanile 6 aprile” è collegato con il CANVAS (Centro per l’Azione e le Strategie Applicate Non Violente), una ONG (Organizzazione non governativa) chiamata “Otpor!”, creata dal governo americano in Serbia nel 2000 e finanziata dall’Open Society Institute di George Soros, per rovesciare il governo di Slobodan Milosevic. Il CANVAS ha inoltre fornito assistenza ai manifestanti della “Rivoluzione Rosa” in Georgia e a quella “Arancione” in Ucraina.

Chi sceglie i colori delle Rivoluzioni?

L’attuale e potentissima élite economico-finanziaria, crea dal nulla organizzazioni non governative di facciata per poter lavorare indisturbato nei paesi che vuole rovesciare.
Esistono, oltre a NDI e Freedom House, altri centri utili a dirottare milioni di dollari dalle casse governative ed esportare la cosiddetta democrazia a stelle e strisce, per esempio il Fondo Nazionale per la Democrazia (National Endowment for Democracy) riceve ogni anno 100 milioni di dollari dal Congresso statunitense.

Vi sono però gruppi che non finanziano, ma creano letteralmente le Primavere e le Rivoluzioni, è il caso dell’International Crisis Group il cui motto ufficiale nel sito è il paradossale e ipocrita “Working to prevent conflict worldwide”, letteralmente: “lavorando per prevenire conflitti nel mondo”.
I nomi di alcuni membri del gruppo possono far comprendere la portata: il Presidente israeliano Simon Peres, il governatore della Banca d’Inghilterra Stanley Fisher, il banchiere-speculatore George Soros della Open Society Institute, gli storici della manipolazione della geopolitica come Zbigniew Brzezinski, Richard Armitage, Samuel Berger e il generale Wesley Clarck, e la nostrana Emma Bonino.

Tra i finanziatori vi sono le peggiori società del pianeta, tra cui le petrolifere BP, Chevron, Shell, Statoil e la società mineraria (platino, diamanti, minerali, ecc.) Anglo American PLC.

Risulta essere molto interessante e indicativo sapere che le società che partecipano attivamente alla distruzione ambientale, energetica e sociale di interi paesi e continenti, fanno parte del gruppo che “lavora per prevenire i conflitti nel mondo”!

Tra tutti i membri, merita un approfondimento a parte l’ebreo ungherese George Soros (il cui vero cognome poi modificato era Schwartz). Soros è il quindicesimo uomo più ricco al mondo, secondo la rivista Forbes, e uno dei maggiori e spietati speculatori planetari.

Membro, tra le altre cose, del Consiglio per le Relazioni con l’Estero (CFR, il governo ombra americano) e del Gruppo Bilderberg, finanziò Solidarnosc, fece crollare sterlina e lira nel 1992, e negli ultimi anni si è dilettato, tramite il suo Open Society Institute, a finanziare le varie Rivoluzioni. La sua collusione è a tal punto evidente che “il premier russo Vladimir Putin per difendere il proprio Paese dalle intromissioni esterne, avrebbe emesso un mandato di cattura nei confronti di Soros, accusato di speculare sul Rublo e di finanziare l’opposizione in vista delle elezioni di marzo” (ASI, Agenzia Stampa Italia).
Putin ha perfettamente ragione, perché c’è sempre Soros dietro le Pussy Riot, il gruppo russo di femministe riottose che, nel nome delle libertà, usano pornografia (atti sessuali di gruppo in luoghi pubblici, una di loro si è perfino fatta filmare in un supermercato mentre s’infilava un pollo dentro la vagina) e blasfemia, il tutto per creare rotture mirate interne all’attuale governo di Mosca.

Le immagini che circolano in Rete non lasciano spazio a dubbi: le ragazze esagitate si fanno fotografare sventolando la bandiera dell’Otpor!

 

Un’altra istituzione è il Brookings Institution.

Si tratta di un’organizzazione no-profit con sede a Washington, la cui missione è condurre ricerche indipendenti per poi fornire raccomandazioni pratiche su come rafforzare la democrazia americana, promuovere lo sviluppo economico e il benessere sociale, la sicurezza per tutti gli americani, e infine fissare una più aperta e prospera cooperazione internazionale.

E’ completamente sconosciuto, ma il Brookings è il think tank (serbatoio di pensiero) della politica americana, cioè uno dei gruppi più influenti al mondo.

Il Brookings riceve finanziamenti da Fondazioni Carnegie, Rockefeller e Ford, da banche come Goldman Sachs e Banca d’America e da industrie come Lockheed Martin (armi e difesa), Exxon, Boeing, General Electric, Alcoa, Nike, Gruppo Carlyle, Duke Energy, PepsiCo, At&T.

Il comitato è composto da dirigenti d’azienda, illustri accademici, funzionari governativi ed ex leader. E’ così influente questo gruppo che l’attuale embargo economico all’Iran è opera loro. Nello studio pubblicato nel 2009 dal titolo: “Quale strada verso la Persia?”, il Brookings ha esaminato attentamente le modalità con cui l’amministrazione statunitense possa influenzare il cambio di regime a Teheran, e il suggerimento, poi reso operativo, è stato di costringere il paese a penalizzanti sanzioni economiche. La realtà è che le analisi e le soluzioni fornite dal gruppo, vengono poi messe in atto dai camerieri dei banchieri: i politici.

Fa tutto parte spiega Flynt Leverett, ex ufficiale del Consiglio di Sicurezza Nazionale sotto Bush – di  una campagna di provocazione, finalizzata ad aumentare la pressione sull’Iran. L’idea è che a un certo punto gli iraniani risponderanno e allora l’Amministrazione avrà il pretesto per colpirli”.

Stanno cercando la scusante mediatica (armi nucleari o una risposta militare) per poi intervenire e rovesciare il regime.

 

Problema à Reazione à Soluzione

 

La Soluzione è il cambio di regime nei paesi considerati dall’élite il Male assoluto: Siria e Iran per esempio, il tutto per instaurare delle dittature militari e/o governi fantoccio filoccidentali; il Problema è creare divisioni e dissidi attraverso organizzazioni e la stampa, scontri armati, omicidi e stragi grazie a mercenari e spie, facendo poi cadere la colpa sul governo di turno, al fine di innescare la Reazione emotiva violenta delle persone.

Allora può intervenire l’esercito salvatore del Messia, lo zio Tom, che con missili intelligenti, bombe a grappolo, al fosforo, all’uranio impoverito, bombe nucleari tattiche e sporche può riportare la Pace e l’Armonia, tanto implorata dalla miserabile e stremata popolazione.

Non ricorda qualcosa di già visto?

Il ruolo della CIA

Cosa c’entra la CIA in tutto questo?

L’Agenzia di intelligence più famosa al mondo, grazie ai film propaganda di Hollywood, mette lo zampino da oltre sessant’anni in tutte le guerre, attentati, colpi di stato e Rivoluzioni.

Secondo la Commissione investigativa del senatore statunitense Church, la CIA avrebbe organizzato oltre 3000 operazioni maggiori e 10.000 operazioni minori che hanno provocato la morte di più di 6 milioni di persone.

Quando c’è qualcosa di illegale, i servizi segreti hanno sempre la mani in pasta.

Con i fondi neri che derivano dall’esportazione illegale di droga e armi, le intelligence finanziano gruppi armati, li addestrano e li preparano per i vari scenari globali.

Qualche esempio? Negli anni Ottanta i mujaheddin, quando combattevano in Afghanistan contro il nemico russo, erano dipinti, dalla cricca massonica CIA & Hollywood, come eroi e combattenti per le libertà. Venivano definiti come la “resistenza afghana”, e la loro guerra decennale è stata finanziata segretamente dall’intelligence.

Proprio dalla CIA-mujaheddin nasce al-Qaeda, che non è il nome di un gruppo terroristico, ma il nome di un database (o meglio “la base”) con tutti i nomi dei mujaheddin e trafficanti internazionali di armi utilizzato da CIA e dai regnanti sauditi. Per essere più precisi, si trattava di due file: “Q eidat il-Maaloomaat” e “Q eidat i-Taaleemaat”, tenuti in un unico file “Q eidat ilmu’ti’aat”, abbreviato dagli arabi in al-Qaeda, che in arabo significa la base.

Da allora la base, al-Qaeda, ha continuato a ricevere segretamente supporto dalle varie intelligence ed è stata utilizzata nei vari scenari: nel 2000 in Serbia (Esercito di Liberazione del Kosovo) fino ai nostri giorni, nella infinita e dissanguante “Guerra al terrorismo”.

Al-Qaeda era un database che è diventato uno strumento militare pronto per essere usato quando serve.

L’élite ha sempre avuto la necessità di mantenere attiva la paura di qualsiasi genere.

Il nemico è utilissimo perché da una parte permette di guadagnare migliaia di miliardi di dollari per le spese militari, di sicurezza e difesa, dall’altra occupare i media e distrarre l’attenzione del grande pubblico e infine, far passare leggi repressive, antiliberali e antidemocratiche.
Prima si faceva tutto questo grazie alla Russia e alla Guerra Fredda, ora, dopo la caduta del muro di Berlino, hanno dovuto creare dal nulla un altro nemico, uno molto più subdolo, invisibile e feroce: il terrorismo.

Il terrorismo diretto e indiretto oggi viene utilizzato in qualsiasi situazione: è il classico nemicoamico camaleontico, adattabile e funzionale al Sistema. Apparentemente è un nemico quando uccide civili inermi (attentati, stragi, 11 settembre 2001, ecc.), ma diventa utile quando permette l’intervento militare successivo (Afghanistan, Iraq, ecc.).

L’invenzione dell’Asse del Male

Il 2 marzo 2007 il generale Wesley Clarck in una intervista a Amy Goodman, ha spiegato che l’amministrazione Bush aveva programmato di “far fuori” sette paesi dell’Asse del Male: Iraq, Libano, Somalia, Libia, Siria e Iran.

L’agenda dell’élite, a prescindere dai vari burattini (Bush, Obama e gli altri), è stata portata avanti in maniera sistematica, ad eccezione dell’ultima roccaforte: l’Iran. Tutti gli altri paesi, chi più chi meno, sono stati “liberati” e “occidentalizzati”.

L’ultimo paese sovrano ad eccezione dell’Iran, è la Siria che è sempre stata anche nella “lista nera” di Israele: è l’ultimo Stato arabo indipendente, secolarizzato e multietnico in Medio Oriente, fedele alleato dell’ex Persia e quindi un ostacolo per l’egemonia israeliana sulla regione.
Una verità molto scomoda è che tutti i governi arabi che rifiutano di sottomettersi al dominio occidental-israeliano vengono tormentati con attentati e destabilizzati di continuo, fino a essere costretti, se vogliono sopravvivere, a sviluppare un apparato di sicurezza che risulta totalitario. A questo punto, quando fa loro più comodo, le potenze occidentali e Israele possono evidenziare, con toni accusatori, la mancanza di “libertà” all’interno delle nazioni prese di mira e avviare il processo di rovesciamento. Viene per così dire, guardata la pagliuzza nell’occhio degli altri, ma non la trave nei propri.

Come nasce una Rivoluzione colorata?

Ogni Rivoluzione che si rispetti, ha un nome e un colore diversi: Rivoluzione di Velluto in Cecoslovacchia, Rivoluzione del 5 maggio in Serbia, delle Rose in Georgia, dei Tulipani in Kirghizistan, dei Cedri in Libano, Arancione in Ucraina, Zafferano in Myanmar, Verde in Iran e Viola in Italia.
Colori e nomi a parte, dietro c’è sempre lo stesso artista e il medesimo motto: Divide et Impera.

Prendendo spunto dall’ultima strategia di gioco messa in atto in Siria, ecco una breve panoramica che ben descrive però quello che realmente è successo. Tale modello è lo stesso messo in atto anche negli altri paesi.

Prima viene fondata una o più ONG, Organizzazione non-governativa, per creare un clima di protesta nel paese preso di mira; alcuni provocatori ben pagati organizzano manifestazioni di piazza, per poi sparare sulla folla allo scopo di alimentare le violenze; creare e pubblicare in Rete video artefatti che danno l’illusione della repressione da parte del governo; si procede con l’invasione delle città di confine con forze speciali e squadroni della morte; si fomenta la guerra civile e si fabbricano i pretesti per un intervento militare dell’ONU o della NATO; il socialismo arabo e il governo popolare viene rimpiazzato da un governo fantoccio nelle mani dei banchieri di Wall Street e della City di Londra. Infine le multinazionali firmano i contratti miliardari per la “ricostruzione“ e la “sicurezza”.

In questo modo distruggono dall’interno un paese sovrano, sostituiscono i legittimi governanti mettendo al loro posto un governo fantoccio totalmente controllato, depredano le risorse del sottosuolo (minerali, metalli, petrolio, gas, acqua, ecc.), e infine, ricostruiscono dalle macerie, guadagnandoci migliaia di miliardi di dollari.

Esportare la democrazia, è la scusa ufficiale per cancellare dalle carte geografiche tutti i governi indipendenti e sovrani, che potrebbero essere da esempio ad altri, mettendo a rischio il controllo globale, e dall’altra parte, l’intervento militar-industriale serve per accaparrarsi le risorse energetiche e/o minerarie.

Pochi sanno che il Regno Unito ha investito ben 500 milioni di dollari nell’intervento della Nato in Libia, e non certo per liberare la popolazione da una dittatura pluridecennale. Secondo il Dipartimento del Commercio e degli Investimenti i contratti per la ricostruzione del paese (sanità, educazione, elettricità e risorse idriche) ammontano a più di 300 miliardi di dollari.

La guerra e la successiva ricostruzione fa diventare ricchissimi, visto che il rapporto è 1:600, cioè investi 1 dollaro e ne porti a casa 600.
La strategia è perfetta e soprattutto ben oliata.

La “Rivoluzione siriana”, i media e le false flag

La rivoluzione è iniziata nel marzo 2011, quando sono scoppiati i primi scontri armati, ma è stata concepita molto tempo prima…
Questa rivoluzione è la copia carbone della maggior parte dei “cambi di regime” incoraggiati e fomentati dalla CIA: mercenari, sicari (vedere uno dei nostri precedenti articoli dal titolo “Il sicario dell’economia”), squadroni della morte pagati centinaia di migliaia di dollari per accendere la miccia, il tutto seguito da una campagna di bombardamento al momento opportuno.

Esattamente quello che è accaduto in Libia, con britannici e israeliani che hanno coordinato le loro risorse e condiviso le dotazioni di combattenti mercenari di al-Qaeda reclutati.

In Libia e Siria, i cecchini e i criminali che hanno sparato sulla folla e sulla polizia, erano soldati mercenari pagati per farlo.
I media mainstream totalmente allineati, alterano e modificano sistematicamente le notizie per farci credere quello che l’élite vuole che noi crediamo: a sparare sulla folla sono stati i militari siriani  o libici.

Inventare atrocità mai commesse è uno dei mezzi più antichi ed efficaci per ottenere il supporto ad una guerra. Un esempio di questa strategia sono le notizie che accusavano Muammar Gheddafi di avere colpito dei pacifici dimostranti con aerei da combattimento, facendo una strage e uccidendo più di 6000 civili, il doppio delle Torri Gemelle. Queste notizie sono state il pretesto per l’espulsione del governo libico dal Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e per realizzare i crimini contro l’umanità verificatisi successivamente in Libia.
Non stupisce sapere che una delle fonti di queste gravissime accuse è la Lega Libica per i Diritti Umani, che riceve sovvenzioni direttamente dal Dipartimento di Stato americano…

L’esercito russo ha pubblicato un rapporto in cui si afferma che la zona dove sarebbe avvenuta la strage è monitorata costantemente dallo spazio con i loro satelliti, e nessun attacco ha mai avuto luogo! Avete sentito questa notizia? Non è mai avvenuta quella strage, quindi i media occidentali hanno riportato notizie false, inventate di sana pianta.

Le false flag o false bandiere, sono esattamente la strategia contraria: un attentato o una strage realmente accaduta, viene addebitata a qualcun altro. L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 è la pietra miliare delle false flag: l’auto-attentato è stato artatamente addebitato a dei talebani, diventati per l’occasione piloti provetti di Boeing.

I giornalisti embedden continuano ancora oggi, dopo ben 11 anni, a riportare la versione ufficiale, quella cioè politicamente corretta: i cattivi sono stati i talebani, mentre i buoni sono gli americani.

Per avere maggiori informazioni e chiarirsi eventuali dubbi su Rivoluzioni e Primavere arabe consiglio i seguenti libri: “Rivoluzioni S.p.A.: chi c’è dietro la Primavera Araba” di Alfredo Macchi, Alpine studio e “Obiettivo Siria”, Tony Cartalucci e Nile Bowie, Arianna editrice.

http://www.disinformazione.it/primavere_rivoluzioni_spa.htm

Dimissioni Izzo, il gelo del ministro Cancellieri

http://www.repubblica.it/cronaca/2012/11/08/news/dimissioni_izzo_il_gelo_del_ministro_cancellieri_sconcertata_cosa_cambiato_in_due_giorni_-46149142/

Dimissioni Izzo, il gelo del ministro Cancellieri
“Sconcertata, cosa è cambiato in due giorni?”

Il caos sul vicario del capo della Polizia irrita anche Monti e ora il governo valuta la posizione di Manganelli. Il numero due avrebbe deciso di lasciare anche per il timore di una accelerazione dell’inchiesta di Napoli. Due ipotesi sul tavolo: sostituire il solo vicario o cambiare da subito l’intero vertice del Dipartimento

di CARLO BONINI

ROMA – Stavolta il ministro dell’Interno Cancellieri ha accettato le dimissioni presentate dal vice capo della polizia, Nicola Izzo, chiamato in causa dalle denunce del “corvo” sugli appalti truccati al Viminale. Fonti vicine a Palazzo Chigi descrivono il premier Monti molto contrariato per lo spettacolo offerto dai vertici della polizia.

Cominciato male, l’affaire del Corvo si avvita nel peggiore dei modi. E le dimissioni del vicario del capo della polizia Nicola Izzo, per i modi e i tempi che le hanno sollecitate, aprono per il governo la “questione Manganelli”. Se cioè procedere alla ridefinizione dell’intero vertice del Dipartimento di Pubblica sicurezza o limitarsi ad affiancare al Capo un nuovo prefetto che sostituisca Izzo e lo accompagni alla scadenza naturale del mandato. E dunque oltre la scadenza di questa legislatura.

Un passaggio complicato e delicato, ma in qualche modo anche urgente, come il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri ha spiegato ieri in una nota dove segnala che “valuterà in tempi brevi la decisione da assumere” su chi debba essere il nuovo vicecapo della polizia. Proprio perché è dal nome e dal profilo del prefetto che verrà scelto che in qualche modo dipenderà il destino di Manganelli (se infatti la scelta dovesse cadere sull’attuale capo della segreteria del Dipartimento, Raffaele Valeri, prossimo alla pensione e che alcune indiscrezioni accreditano come front runner, questo significherebbe che la posizione di Manganelli uscirebbe

rafforzata). Ma anche una decisione che evidentemente non potrà prescindere da un confronto dello stesso ministro dell’Interno con il presidente del Consiglio Mario Monti, che, rientrato ieri pomeriggio a Roma, fonti di Palazzo Chigi descrivono di “umore piuttosto contrariato ” per lo spettacolo di estrema confusione offerto nelle ultime 48 ore dal vertice della Polizia.

Un aggettivo, “contrariato “, che fa il paio con lo “sconcerto” della Cancellieri (per usare le parole di fonti qualificate del Viminale nel descrivere lo stato d’animo del ministro), informata solo ieri all’ora del pranzo, da una lettera dello stesso Izzo, che le dimissioni da lei respinte appena 48 ore prima, dovevano ritenersi irrevocabili. Per ragioni per giunta non esplicitate e in qualche modo in piena contraddizione con la difesa pubblica e appassionata che di Izzo era tornato a fare Manganelli nella giornata di martedì, scommettendo sulla “continuità della squadra”. “Cosa è cambiato in poco più di un giorno?”, si è chiesta ieri il ministro e si chiede con lei il governo. Perché quel pasticcio? Che per giunta contribuivano ieri a rendere ancora più macroscopico fonti del Dipartimento, spiegando come la decisione di Izzo avesse “spiazzato persino Manganelli”. Quasi che i due avessero proceduto in questi giorni in ordine sparso.

Ebbene, se si deve stare alla sequenza delle ultime ventiquattr’ore, c’è un dettaglio che ragionevolmente spiega perché Izzo abbia deciso di tirarsi fuori proprio ora. Ed è lo spettro della chiusura indagini della Procura di Napoli, dove è indagato, insieme al prefetto Giovanna Iurato, per turbativa d’asta su un appalto di 37 milioni di euro del CEN. Martedì, Manganelli ha infatti incontrato il Procuratore di Napoli Giovanni Colangelo e se anche fosse vero, come il magistrato ha voluto far sapere ieri attraverso le agenzie, che l’argomento dell’inchiesta sul Viminale non sarebbe stato affrontato, è altrettanto ragionevole ipotizzare che da quel colloquio il capo della Polizia sia uscito con la stessa indicazione che, nelle scorse settimane, era arrivata per cortesia istituzionale alla stessa Cancellieri. Che “Napoli sta chiudendo”.

Informazione evidentemente neutra nel merito dell’inchiesta, ma decisiva per Izzo nel valutare probabilmente opportuno mettersi in questo momento al riparo da ogni possibile iniziativa della magistratura napoletana lasciando un incarico di vicecapo che, in quanto tale, lo vede vertice gerarchico e funzionale proprio di quella Direzione centrale per i servizi tecnico-logistici e la gestione patrimoniale su cui Napoli indaga.

La partita insomma si incrudelisce. E si carica di ulteriori veleni. Gli “aspiranti” alla successione di Manganelli vengono segnalati in queste ore in grande agitazione. Insistenti nello spendere un argomento che dovrebbe convincere il governo a fare un passo difficile. Che cioè Manganelli sarebbe ormai un’anatra zoppa, incapace di reggere la forza d’urto che questa vicenda del Corvo e degli appalti potrebbe scaricare sul Viminale nelle prossime settimane e mesi. Un argomento, tuttavia, che a ben vedere potrebbe paradossalmente convincere Monti e la Cancellieri dell’esatto contrario. Che non si cambia cioè un capo della polizia in un frangente di questo tipo.

(08 novembre 2012)