Tav, Francia e Italia unite nelle spese inutili

Tav, Francia e Italia unite nelle spese inutili 

 

Un po’ di equivoci da sgombrare subito: nessuno parla di redditività finanziaria della linea (cioè di vedere se i ricavi futuri possano superare i costi totali del progetto). Questo discorso si fa solo per le autostrade, chissà perché. Per le ferrovie si parla solo di redditività socioeconomica, che comprende i benefici di tempo delle merci e dei passeggeri, quelli dell’ambiente ecc. Se le nuove ferrovie dovessero recuperare i costi di investimento, le tariffe sarebbero tali che non le prenderebbe nessuno. Si assume sempre che questi costi rimangano a carico dello Stato, cioè dei contribuenti, e che tutti siano felici di pagarli (ma non gli utenti, anche qui chissà perché).

Ma i politici francesi, come quelli italiani, e come scrive oggi sul Fatto Andrea Gianbartolomei, hanno una volontà di ferro, e quei soldi dei contribuenti li vogliono assolutamente spendere, certo per il nostro bene, anzi, meglio, per il bene delle generazioni future, così se la spesa risulterà uno spreco assurdo, nessuno potrà chiamarli a rispondere.

Tuttavia il progetto della Torino-Lione, anche senza che i promotori italiani bipartisan lo abbiano ammesso, è stato fortemente ridimensionato: si costruirà solo il tunnel di base per le merci, poi la stesso Sole 24 Ore, grande sostenitore dell’opera, ammette che difficilmente si andrà oltre. Invece di sprecare 25 miliardi, se ne sprecheranno solo una decina. E questo perché per un verso non ci sono soldi, per un altro le proteste, tecniche e locali, un po’ devono aver fatto fischiare le orecchie ai promotori meno cinici. Sarebbe già qualcosa, e se il ridimensionamento fosse circondato da meno ipocrisia e retorica sarebbe ancora meglio (l’Europa lo vuole! Le infrastrutture creano la loro domanda! Serve all’ambiente! Crea occupazione! Balle colossali, in particolare queste ultime tre, ma anche la prima è molto meno vera di quanto si voglia far credere).

Purtroppo molte TAV si aggirano minacciose per l’Italia: la nuova linea AV Milano-Genova, giudicata inutile dallo stesso AD di FS Moretti, il valico del Brennero (forse la meno inutile dell’elenco, anche se gli austriaci han detto che non ci hanno i soldi), una linea in Sicilia di cui non si sono mai dibattuti i costi e i benefici attesi, la AV Brescia-Padova e poi il prosieguo Venezia-Trieste, ma soprattutto l’assurda Napoli-Bari, che fa risparmiare ai treni un’oretta, e dovrebbe per questo quadruplicare il traffico merci, che notoriamente se ne frega della velocità, gli interessano altre cose! I francesi, padri dell’alta velocità, non consentono ai treni merci di passare sulle loro linee. Noi, che siamo più furbi e più ricchi, abbiamo deciso grazie ai verdi, che sulle nostre linee AV ci devono poter passare, aumentando di molto il costo dei progetti, già spropositati.

Quelli sopra elencati son tutti giocattoli dai 5 miliardi di Euro in su, che, come si è detto, dovremo pagare in toto con le nostre tasse. E poi l’importante è aprire tutti i cantieri, soprattutto sotto elezioni, poi se non ci saranno i soldi per finirli, beh, qualcuno ci penserà.

Tutto per il nostro bene, si intende. E poi le ferrovie fan bene all’ambiente, perbacco!

http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/11/06/tav-francia-e-italia-unite-nelle-spese-inutili/405252/#.UJq7xHGknx0.facebook

Elezioni in vista: comincia la “sagra degli onesti”

Elezioni in vista: comincia la “sagra degli onesti”

di Enrico Galoppini – 07/11/2012

Fonte: europeanphoenix

Sarà capitato ad alcuni di voi, e comunque vi accadrà mano a mano che ci si avvicina alle fatidiche elezioni politiche della prossima primavera. Cominciano ad arrivare messaggi di posta elettronica da parte di questo o quel candidato, il quale, propinandovi il suo facciotto pulito ed ordinato, invita a votare per lui in quanto “persona onesta” in grado di “fare del bene”. Nei casi di maggior autoincensamento, chi vi avvicinerà per chiedere la vostra preferenza vi prometterà che ci farà “uscire dalla crisi”. Ma un punto caratterizza tutte queste promesse (da marinaio): la professione di “onestà”. Una sorta di autocertificazione allo scopo di assicurare l’acquir… ops, l’elettore, che il candidato in questione è esente da ‘vizi morali’[1].

Questa fregola di presentarsi come “onesti” fa leva su un aspetto tipico della mentalità moderna e su un esito inevitabile della vita politica in regime liberaldemocratico.

Da una parte, essendo progressivamente venuta meno l’intellettualità pura (praticamente scomparsa nel cosiddetto “Occidente” dal XVIII secolo), sostituita dall’erudizione e dall’intellettualismo (che attingono entrambi dalla sfera del razionale e della quantità), non resta che, come metro di giudizio, il moralismo, che attinge invece dalla sfera dell’irrazionale, e più precisamente da quella della sentimentalità prodotta dall’“attaccamento” per le cose del mondo[2].

È sotto gli occhi di tutti come la “politica” – plasticamente fotografata nei notiziari – sia diventata di fatto la rassegna del malaffare, delle ruberie, degli “scandali”, il tutto volto a far imbufalire la massa votante contro “gli sprechi”, “i costi della politica”, “la corruzione”. In breve contro “la casta” dei politici.

Un giorno, presso un negozio di abbigliamento, mi è capitato di vedere una pubblicità nella quale una ragazzina redarguiva i politici, incapaci di far fronte alla “crisi”, e per colpa dei quali il suo papà non può più darle la paghetta! Quando questa retorica moralizzatrice da quattro soldi raggiunge persino il mondo della pubblicità, direi che anche un bambino di tre anni può rendersi conto che tutta questa furia contro “la casta” fa tutt’uno con la proverbiale aria fritta.

Dunque, da una parte si ha la tendenza a ricondurre ogni questione a parametri moralistici,  specchio di un’ignoranza e di un’incompetenza davvero abissali, sintetizzate dall’incapacità di comprensione davvero “intellettuale”, dall’altra – dicevo – esiste un motivo strettamente inerente alla vita politica in regime liberaldemocratico.

Questo, per funzionare, ritiene debbano essere eletti dei rappresentanti in parlamento. I quali, secondo la retorica ufficiale, vi siedono per “legiferare” e svolgere una funzione di controllo sull’operato del governo (questo, soprattutto, lo dovrebbe fare la cosiddetta“opposizione”). Per fare ciò, sono ben remunerati, in maniera da prevenire ogni tentativo di corruzione nei loro confronti (notoriamente, uno povero in canna è maggiormente indotto a vendersi). Quindi, tanto per essere chiari al riguardo di tutta questa buffonata sui “costi della politica”, se c’è una voce di spesa che ha un senso, naturalmente entro i limiti del buon gusto, è quella relativa al compenso per i parlamentari[3].

Ma il politico, in regime liberaldemocratico non conta un fico secco, perché prima vengono la finanza e l’economia, e poi la politica. Questo “rappresentante del popolo”, presentato come un “potente”, è piuttosto il catalizzatore di una serie indefinita di corposi interessi promossi dai cosiddetti “lobbisti”, faccendieri che premono sull’uno o sull’altro parlamentare per ottenerne dei favori. In altre parole, il parlamentare ha il compito di trasformare in “legale” quel che altrimenti ripugna alla coscienza e contraddice ogni buon senso, imponendo alla collettività ciò di cui non avrebbe affatto bisogno per vivere bene.

Questa pressione esercitata da potentati finanziari ed economici comincia già in fase di campagna elettorale (addirittura nelle “primarie”), ed il caso più esplicito lo si ha proprio nel “faro della democrazia”, l’America, tanto che là fanno un vanto di questa spregevole pratica, coi pappagalli nostrani che ripetono a menadito la filastrocca. Non a caso, si ammette candidamente l’azione dei “lobbisti” presso il Parlamento Europeo di Strasburgo, come per evidenziarne l’estrema “modernità” secondo i parametri liberaldemocratici.

Da queste sintetiche considerazioni si comprende che presentarsi in campagna elettorale come “onesti”, quand’anche non si fosse già in partenza dei corrotti, è del tutto vano ed illusorio, poiché per il solo fatto di candidarsi si accettano implicitamente le regole del gioco della Liberaldemocrazia, nella quale – ripeto – il politico è subordinato all’economico, e l’economico addirittura al meramente affaristico e speculativo, come ormai anche i muri più o meno sanno.

“Onesto” ha la stessa radice di “onore”, e se proprio l’onore è quanto mai una virtù vilipesa e derisa dai moderni[4], è facile capire che pure l’onestà è andata a farsi friggere.

In Liberaldemocrazia dunque non può esistere un politico onesto, col senso dell’onore, semplicemente perché non ha la possibilità di farlo valere e, qualora lo volesse, verrebbe prima indotto a cambiare registro, poi, una volta saggiatane la tendenza a non voler ‘capire’, sarebbe colpito da uno “scandalo”, e come estrema ratio gli sarebbe riservata l’eliminazione pura e semplice.

Vale praticamente lo stesso discorso per molti altri ambiti, da quello del giornalismo[5] a quello della professione medica, con la differenza, non da poco, che mentre in questi altri settori vi è sempre la possibilità di sfuggire alle “regole del gioco” adottandone altre (con le fatiche e i rischi del caso)[6], in quello della “politica di professione” esiste solo un sistema, stante il regime liberaldemocratico. Poiché non si deve credere che ridursi in qualche gruppetto marginale, “extraparlamentare”, al di fuori delle istituzioni, sia “fare politica”: quello è puro folclore, in cui è sin troppo facile atteggiarsi ad onesti, per il fatto che non circola una lira![7]

Una vera politica onesta, fatta da onesti, non può dunque che passare per il superamento della Liberaldemocrazia, dell’uomo “moderno” da essa postulato e preteso, e dal ripristino della primazia del politico rispetto all’economico, per non parlare del finanziario.

Coloro che legiferano non dovrebbero pascolare come in una specie di mercato delle vacche in attesa che qualche lobbista passi a mungerle, ma, consapevoli della loro elevata funzione, dovrebbero essere uomini che, col senso dell’onore, operano nella misura in cui serve alla comunità, alla luce di quella sapienza tradizionale che ci dice che l’uomo, da quando esiste il mondo, è sempre lo stesso.

E se l’uomo è sempre lo stesso significa che i suoi bisogni profondi non sono mai cambiati. Quindi, quali benefici può apportargli la Liberaldemocrazia e l’inevitabile interazione tra politici e lobbisti?

Se la politica fosse una cosa seria, non esisterebbero né elezioni né partiti. Cosa può capire dell’interesse generale un “elettore”[8] che per tutta la vita non hai visto più in là del suo orticello? Com’è possibile praticare il “bene comune” se ci si presenta divisi in “partiti”?

Queste cose le sa benissimo chi ha inventato la Liberaldemocrazia: fare in modo che i peggiori pongano, in un simulacro di “potere”, altri “peggiori” come loro, imbastendo una gazzarra continua tra fazioni, la cui esistenza, più che uno “spreco”[9], è un delitto contro la concordia che Iddio vorrebbe che governasse tra gli uomini.

Ma finché uno è governato dal suo ego non può fare politica, non può reggere le sorti di una comunità. Questo perché l’egoismo comporta la frammentazione, la dispersione, la prevalenza delle forze centrifughe, e dunque la discordia.

La lingua araba ci aiuta non poco nel comprendere la questione. La radice hâ’-kâf-mîm comprende voci che rimandano all’idea di saggezza, giudizio/arbitrato e governo. Non fa una piega: solo chi è saggio, chi possiede in sé la sophia (hikma), ha i titoli per dirimere le vertenze tra gli uomini, dall’alto d’una serenità olimpica, al di là delle passioni, e pertanto ha le carte in regola per governare.

Dunque, la questione della “onestà” di chi governa – oltre che essere irrisolvibile in regime liberaldemocratico, che induce alla disonestà – è in fin dei conti mal posta. Al vertice d’una comunità in ordine dovrebbe stare chi è venuto a capo del proprio ego[10], perché quella è la condizione necessaria per non farsi trasportare dalla sentimentalità che quello naturalmente comporta.

Ecco perché un sistema che vede esseri presi nel loro ego “eleggere” altri che si trovano nella stessa “irrisolta” condizione non può che produrre una politica all’insegna della disonestà sistematica. Col triste e farsesco corollario di una “questione morale”, periodicamente riproposta, che vede una patetica gara a chi si professa più “onesto” degli altri!

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44452

Grillo. Un’uscita dal Novecento?

Grillo… Un’uscita dal Novecento?

di Angela Azzaro – 03/11/2012

Fonte: Gli Altri
C’è un altro modo, un altro lato, da cui osservare il fenomeno Beppe Grillo. È il lato più oscuro, perché riguarda non tanto i suoi meriti, le sue intuizioni, ma i difetti degli avversari. In particolare di quella sinistra che avrebbe dovuto rinnovarsi e che, pur annunciandolo come obiettivo, non lo ha fatto. Quante volte in questi anni abbiamo sentito i discorsi sul cambiamento, sull’apertura, sulla costruzione di qualcosa di diverso rispetto ai tradizionali partiti della storia del 900. Parole appunto. Parole che si sono scontrate forse ancor più che con l’incapacità dei singoli ad affrontare un reale percorso di cambiamento, con una storia che è stata introiettata e che è difficile far fuori, anche perché fondata sul dogma della sua perfezione. Inutile cercare altro, questo è il ragionamento, perché noi siamo da sempre i migliori, i più democratici, i più.

Il Movimento Cinque Stelle entra a gamba tesa su queste incertezze e su questa presunzione facendo traballare le vecchie ideologie e dando risposte nuove a chi chiedeva di andare da un’altra parte. Si tratta di risposte fasulle? Vedremo. Intanto sono risposte che rompono con certi meccanismi ormai arrugginiti, che sempre più stridono con il contesto e la rabbia. Ma anche la voglia di andare oltre una democrazia rappresentativa a pezzi. Su due punti in particolare Grillo ha spiazzato tutti, due punti centrali. La forma partito e il superamento della contrapposizione destra/sinistra.

Sono anni che la sinistra si masturba con i seminari sul superamento della forma partito, sulla sua inadeguatezza, sulla sua afasia, sulla sua arroganza. Le librerie sono piene di libri dai titoli più o meno evocativi, più o meno incazzati, più o meno fiduciosi: la democrazia è in crisi e sono in crisi anche tutti gli istituti di cui ci si era dotati per farla vivere in mezzo al popolo. Giusto. Peccato che poi al momento di fondare un partito, di creare un movimento, di fare qualsiasi accidenti di cosa che metta insieme due o tre persone, la strada obbligata sia sempre la stessa. La strada dei comitati centrali e periferici, delle assemblee, delle riunioni, dove poi a decidere sono sempre gli stessi. Ogni volta lo stesso barbatrucco. Si parte con l’innovazione, si sfoderano sorrisi di cambiamento, si inventano nomi fantasiosi e spesso originali. Poi la pozione avvelenata: tutto è uguale a prima. E chi ci aveva creduto, chi sperava davvero che per una volta la magia avrebbe funzionato rivive la stessa delusione. Ci sono uguali che sono più uguali degli altri. Il movimento Cinque Stelle che vive indubbiamente del leaderismo di Grillo prova a mettere in circolo idee nuove, nuovi modi di comunicare e di decidere, usando il web non come fattore aggiuntivo, ma come strumento principale di comunicazione e di relazione. È una sfida ancora aperta, che si scontra con il carisma e il potere del capo, ma che nelle realtà locali vive davvero di partecipazione ed entusiasmo. Al posto del soviettino rivisitato e rinominato, la rete reale e soprattutto virtuale.

Grillo rompe gli schemi anche sul terreno più importante: la fine delle ideologie. Il Movimento Cinque Stelle prende voti dal centrodestra, soprattutto al Nord là dove prima vinceva la Lega, e al centrosinistra, e lo fa parlando un linguaggio antisistema, populista, ma che risponde allo smarrimento rispetto a una politica nazionale completamente subalterna alle decisione della Banca centrale. Il punto qui non è tanto stabilire se le proposte di Grillo sono di destra o di sinistra, ma capire il fatto che lui si rivolge a tutti parlando un linguaggio sradicato completamente dalle appartenenze novecentesche. Parla a tutti, senza chiedere la loro carta di identità, il loro curriculum politico, la loro provenienza. Gli chiede: oggi la pensi come me? A sinistra questa cosa sembra impossibile. Il solco del passato è sempre stancamente vivo per tracciare identità definite, sclerotizzate in un’immagine che non corrisponde più al vissuto e al pensare delle persone. Se si smettesse di ragionare per schieramenti e intruppamenti e si andasse in mezzo alla gente, forse si scoprirebbe che – lasciato da parte l’armamentario del passato – i posizionamenti, i pensieri, le idee sono molto meno schematiche di ciò che abbiamo in testa. Ma anche in questo caso vale la presunzione di esseri i migliori. Migliori dal punto di vista antropologico, storico, politico. E che l’altro, l’altro che ogni volta congeliamo al di là della barricata, è pessimo, inferiore, razzista e fascista e filocapitalista. E quant’altro. Nel frattempo, tra una definizione e l’altra, tra una certezza e una sconfitta elettorale, il tempo fugge e la storia, non quella con la S maiuscola degli antichi fasti, quella più banale ma anche più spietata del presente, non perdona.

http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44439

Il potere dei cittadini contro i grandi del petrolio

Cari amici,


Tra pochi giorni il Parlamento nigeriano potrebbe varare una multa di 5 miliardi di dollari contro il gigante del petrolio e dell’inquinamento Shell e dare il via libera a una legge che per la prima volta nella storia chiederebbe conto alle compagnie petrolifere. Il Presidente è in favore della legge, ma i grandi del petrolio stanno facendo pressione affinché la riforma venga bocciata. Sommergiamoli con le nostre voci per ottenere giustizia per il popolo della Nigeria: unisciti alla richiesta urgente ora!


Clicca qui per firmare la petizione!

Tra pochi giorni il Parlamento della Nigeria potrebbe varare una multa di 5 miliardi di dollari contro il gigante del petrolio e dell’inquinamento Shell per una fuoriuscita che ha distrutto la vita di milioni di persone e dare il via libera a una legge che riterrebbe tutte le compagnie petrolifere responsabili per l’inquinamento e gli scempi che hanno causato. Siamo a un punto di svolta, ma se non ci faremo sentire ora i giganti del petrolio potrebbero farla franca.

Finalmente i grandi del petrolio stanno per pagare per la devastazione e la violenza che hanno creato. Il Presidente Jonathan è in favore della multa a Shell e i senatori progressisti spingono per una forte regolamentazione [virgola] ma le compagnie petrolifere sono sulle barricate e senza un enorme sostegno internazionale i parlamentari potrebbero rimanere schiacciati sotto la loro pressione.

I politici stanno per prendere la loro decisione in questi giorni: firma la petizione urgente al Parlamento della Nigeria affinché multi e sostenga la legge e girala a tutti. Non appena raggiungeremo 1 milione di firme porteremo il nostro appello da record alle porte del Parlamento della Nigeria:

http://www.avaaz.org/it/make_shell_pay_b/?blqXlcb&v=19120

Gli esperti dicono che ogni anno i giganti del petrolio riversano nel Delta del Niger una quantità di greggio equivalente a quello della superpetroliera Exxon Valdez, ma poiché si tratta dell’Africa i media vi prestano pochissima attenzione. Dopo una perdita avvenuta lo scorso dicembre nell’impianto petrolifero di Bonga, milioni di litri sono stati versati nell’oceano e hanno raggiunto la costa densamente abitata: si tratta di una delle più grandi perdite di petrolio in Africa di sempre. La multa e la legge in discussione in Parlamento sono un’occasione che capita una volta nella vita per tenere la schiena dritta contro i grandi del petrolio.

Le compagnie petrolifere hanno guadagnato 600 miliardi di dollari negli ultimi 50 anni in Nigeria, ma le popolazioni locali non ne hanno ricavato alcun beneficio. La loro terra, l’acqua potabile e le zone di pesca sono in rovina. E Shell spende centinaia di milioni di dollari l’anno in forze di sicurezzaper reprimere le proteste contro le sue attività nefaste.

L’industria del petrolio è cruciale per l’economia, ma le compagnie non sono mai state chiamate a rispondere per la devastazione causata dalle trivellazioni. Ora, il Presidente della Nigeria e alcuni coraggiosi parlamentari si sono espressi pubblicamente e potrebbero finalmente colpire i giganti del petrolio con pesanti multe per risarcire finalmente le vittime. Se dimostreremo a questi parlamentari che il mondo li sostiene in questo tornante della storia, potremo letteralmente cambiare la vita di milioni di persone. Clicca sotto per firmare la petizione urgente:

http://www.avaaz.org/it/make_shell_pay_b/?blqXlcb&v=19120

I membri di Avaaz hanno tenuto la schiena dritta contro i grandi del petrolio in tutto il mondo, intervendo contro la Chevron in Ecuador, la fuoriuscita di petrolio nel Golfo del Messico e per mettere fine ai sussidi ai combustibili fossili al vertice di Rio. Ora è il momento di fare lo stesso per la Nigeria. Facciamo in modo che i politici mandino un messaggio ai grandi del petrolio: il tempo della vostra impunità è finito.

Con speranza e determinazione,

Pascal, Patricia, Alex, Ricken, David, Rewan, e tutto il team di Avaaz

Nigeria, inflitta ammenda di 5 mld dollari a Shell (TMNews)
http://www.tmnews.it/rss/ultimora/20120717_145712_7EDD4778.html

Nigeria, la Shell alla sbarra (Internazionale)
http://www.internazionale.it/news/nigeria/2012/10/11/la-shell-alla-sbarra/

Nigeria: 4 contadini portano la Shell davanti ai giudici (La Stampa)
http://lastampa.it/2012/10/11/scienza/ambiente/nigeria-quattro-contadini-portano-la-shell-davanti-ai-giudici-5ysSMwkqJs6y3aHcnQwHKL/pagina.html

Wikileaks: uomini di Shell infiltrati nel governo nigeriano (RaiNews24)
http://www.rainews24.rai.it/it/news_print.php?newsid=148160

Il Delta del Niger sta morendo ed è colpa del petrolio (Corriere della Sera)
http://lepersoneeladignita.corriere.it/2011/08/06/il-delta-del-niger-sta-morendo-ed-e-colpa-del-petrolio/

I pescatori del Delta del Niger portano la Shell in tribunale (Euronews)
http://it.euronews.com/2012/10/11/i-pescatori-del-delta-del-niger-portano-la-shell-in-tribunale/

Vita al massimo, pensione minima

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“Partita iva chiusa a marzo, perchè le spese crescevano e il fatturato diminuiva. Per il governo PD-UDC-PDL non ero congruo. Il commercialista mi ha suggerito di fare fatture false per pagare più tasse e rientrare nei parametri (rimettendoci secca l’IVA eccetera, a fronte di incassi non avvvenuti). Ho chiuso la partita IVA e cessato l’attività (mi sono autoesodato, senza nessuna copertura) perchè MAI ho fatto un falso a mio favore, e non voglio farli per Monti, Bersani e la Fornero. Ho lavorato da quando avevo 12 anni. Mi sono laureato lavorando. Sono stato emigrante. Ho versato 32 anni di contributi, alcuni anche da dirigente industriale. Ma anche la pensione non ci sarà più, perchè ora mi attendono 15 anni senza versamenti, e poi mi arriverà la minima da 480 euro. Ora vivo con i risparmi di tutta la vita, finchè durano.” maurizio ., Novi Ligure

http://www.beppegrillo.it/2012/11/vita_al_massimo_pensione_minima.html

Di-partita iva

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“Sono un ingegnere libero professionista. Io e i miei colleghi siamo costretti ad esborsi impensabili e tutele pari a zero. Quelli che guadagnano cifre a cinque zeri per ogni prestazione sanno bene come evitare la mannaia dello studio di settore o di qualsiasi redditometro si voglia; di contro la “manovalanza professionale” (cioè noi piccoli liberi prof.) è tartassata in ogni modo possibile. Per fare un esempio basti pensare all’acconto IVA sui futuri guadagni che versiamo a dicembre. Noi che non abbiamo tredicesime di sorta paghiamo la tredicesima allo Stato. E poi gli evasori saremmo noi? Mentre chi ci governa gode di privilegi impensabili e non ne vogliono sapere di rinunciarci. Mi auguro che questo sistema di cose cambi altrimenti personalmente chiudo la partita IVA, smetto di lavorare e di pagare le tasse e vari balzelli e comincio a vivere alla giornata così vediamo a chi torchiate più.” un inegnere dell’Ass. UPIAL

http://www.beppegrillo.it/2012/11/di-partita_iva/index.html

 

ESSI CREDONO DI SPEZZARE IL CERCHIO E INVECE NON FANNO ALTRO CHE RINSALDARLO”

di Italo Romano

L’ultimo intellettuale italiano conosciuto dalle masse aveva individuato la radice sociale della crisi di questo sistema ultraliberista, relativista, edonista e capitalista.

Le sue invettive erano mirate e lucide. Proprio per questo è stato eliminato.

Oggi, questo monito (nell’immagine), ha più valore che mai.

In un mondo di servi, lacchè, grillini, piddini, nani, troie, acrobati e giullari, dove si può, e si deve, dire tutto e il contrario di tutto, in cui ogni cosa è lecita e il caos individualsta è scambiato per libertà, le sue parole dovrebbero infuocare la coscienza e la consapevolezza della gente.

Il popolo dormiente, annichilito, alienato e asservito, in un torpore atarassico con pochi precedenti nella storia, non si accorge che le modalità di lotta al sistema fin’ora utilizzate sono contigue e integranti al sistema stesso.

Difatti, è lo stesso potere ad elargire “prassi rivoluzionarie”. Esse rimangono ben nascoste dietro filosofie politcallly correct, facili demagogie, vuoti populismi, irritanti perbenismi e false ideologie alla moda, condite da rabbia, invidia e violenza. Queste prassi prendono piede con lo stessa velocità con cui si dissolvono.

Come scrisse Bertold Brecht:

“Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico”

L’unica cosa che accumana tutto questo incedere è che non cambiano il sistema di una virgola, anzi gli danno credito, lo rafforzano, rendendogli grazia, giustificandolo.

Vieniamo usati e veicolati come pedine, ma siamo troppo egocentrici per ammettere e/o accorgerci di essere dei burattini sotto il controllo di un sistema bestia che si nutre delle nostre frustrazioni e le usa per proprio tornaconto.

Noi viviamo i desideri di altri, vite sacrificate ad un mondo che non ci appartiene ma che accettiamo perchè è quello che abbiamo trovato. Inseguiamo falsi miti di progresso e stereotipi preconfezionati ad arte per renderci schiavi, magari pure fieri di esserlo.

Anche Erich Fromm sappe, a mio modesto avviso, riassumere quello siamo diventati:

“Se sono come tutti gli altri, se non ho sentimenti o pensieri che mi rendano differente, se mi adatto e accetto i costumi, l’abbigliamento, le idee, lo schema comportamentale di gruppo, allora sono salvato; salvato dalla terribile esperienza della solitudine. I sistemi dittatoriali utilizzano la minaccia e il terrore per indurre questo conformismo, i paesi democratici utilizzano la suggestione e la propaganda”.

E’ questa l’unica differenza tra una dittatura e un regime democratico. E la storia è piena di esempi da cui poter imparare. Solo che i molti non la studiano e di quei pochi che la fanno propria, solo la minoranza ha un quadro chiaro e completo, senza preconcetti.

Alla luce di ciò, appare chiaro che chi vuole combattere il sistema dall’interno ne è già complice.

Nel mondo interattivo del web 2.0., siamo sommersi di notizie, un caos prestabilito dove diventa difficile scegliere le informazioni necessarie per distinguerle dal mare di nulla da cui veniamo investiti quotidianamente.

E’ questa la nuova forma di censura? Una volta nascondevano la notizie, oggi non ce n’è bisogno, esse si perdono nell’oceano di internet.

Come scrisse Ray Bradbury nel suo celebre romanzo Fahrenheit 451:

“Riempi i loro crani di dati non combustibili, imbottiscili di “fatti” al punto che non si possano più muovere tanto sono pieni, ma sicuri di essere “veramente bene informati”. Dopo di che avranno la certezza di pensare, la sensazione di movimento, quando in realtà son fermi come un macigno. E saranno felici, perché fatti di questo genere sono sempre gli stessi. Non dar loro niente di scivoloso e ambiguo come la filosofia o la sociologia affinché possano pescare con questi ami fatti ch’è meglio restino dove si trovano. Con ami simili, pescheranno la malinconia e la tristezza”.

E’ il caso di renderci conto che noi siamo il sistema, noi ospitiamo nella nostra coscienza l’oppressore e il suo modus operandi.
Molti rivoluzionari non combattono il potere ma chi lo detiene, sperando di prenderne il posto. La vera lotta sta nella distruzione dei troni oltre che dei re.

Nel saggio Pedagogia degli oppressi, Paulo Freire descrive molto bene quanto cerco di comunicarvi:

“Il grande problema sorge quando ci si domanda come potranno gli oppressi, che ospitano in sè l’oppressore, parteciapre all’elaborazione della pedagogia della loro liberazione, dal momento che sono soggetti a dualismo e inautenticità. Solo nella misura in cui scopriranno di ospitare in sé l’oppressore, potranno contribuire alla creazione comune della pedagogia che li libera”.

Siamo una società corrotta e profondamente malata. E’ questa la vera crisi. Quella economica è solo una conseguenza, fatta di tecnicismi, interessi e fame di potere.

Alexis Clérel de Tocqueville ha ben esposto, oltre un secolo addietro con grande lungimiranza, cosa è in realtà questo regime oligarchico capitalista:

“Se cerco di immaginare il dispotismo moderno, vedo una folla smisurata di esseri simili ed eguali che volteggiano su se stessi per procurarsi piccoli e meschini piaceri di cui si pasce la loro anima”.

Il sistema siamo noi, che ci piaccia o meno, che lo accettiamo o meno.

Scendiamo dai pulpiti che ci siamo eretti, abbandoniamo superbia e vanagloria, e rifiutiamo la cultura utilitarista di sistema.

Questo è il peggiore dei mondi possibili e noi ne siamo complici e artefici, al pari di coloro contro cui agitiamo e sfoghiamo il nostro odio.

“Sul podio c’era l’individuo, in piedi. Era una figura del passato. La sua parola era una voce del passato. Stava in piedi ed essi lo ascoltavano in piedi.
“Ma perchè disse, avete costruito le vostre città come scatole cubiche, tracciato le vostre aiuole come quadrati, le vostre strade come rette! siete innamorati, con il duro amore delle vostre anime, delle linee, delle figure e delle forme dalle sporgenze angolose. Avete spinto l’ideale del blocco ai suoi eccessi estremi, siete i cubisti della pratica. Vi ferirete a morte sui bordi taglienti della vostra condizione”.

[Ferdinand Bordewijk – Blocchi]

http://www.oltrelacoltre.com/?p=14174&cpage=1#comment-216707

L’Africa agli Africani

L’Africa agli Africani

di Francesca Dessì – 03/11/2012

Fonte: Rinascita [scheda fonte]

Si continua a pensare, nel ventunesimo secolo, che l’Africa sia un continente senza storia e identità. Persiste ancora la convinzione che l’africano sia culturalmente inferiore. Gli africani, secondo i luoghi comuni, sono dei barbari, dei selvaggi che si uccidono a colpi di machete e che preferiscono vivere degli aiuti internazionali invece di coltivare le proprie terre e sfruttare le immense ricchezze del sottosuolo. Pertanto, rientra nella normalità delle cose che le grandi potenze possano continuare a “colonizzare”, anche se non apertamente, l’Africa saccheggiandola, destabilizzandola e rendendola dipendente dall’Occidente.
Altro luogo comune è che l’Africa è nata e resterà schiava. La storia dice un’altra cosa: ogni volta che un leader africano ha provato ha emancipare il proprio Paese dal giogo occidentale è stato ammazzato (dalla Cia, dal Mossad o comunque da complotti internazionali), è finito nel taccuino internazionale dei dittatori o sotto processo della Corte penale internazionale. La storia dice che l’Africa ha un’identità, o meglio, ne ha tante. Ha un passato storico, l’Africa non nasce con il colonialismo. La sua storia è antica e documentata. Ha sfornato filosofi e intellettuali apprezzati in tutto il mondo. Ma non è riuscita ad emanciparsi perché gli africani non sono uniti e quasi sempre si fanno la guerra l’uno contro l’altro, invece di portare avanti una lotta comune per lo sviluppo dell’intero Continente Nero.
 
La teoria dell’inferiorità
della razza africana
 
Analizzando filosofi e intellettuali di fine ottocento e inizio novecento, ci si accorge che molti dei pregiudizi che c’erano al tempo sono ancora presenti nella società odierna. Questi infatti giustificavano il colonialismo con l’inferiorità della razza e per la difesa della patria. È la Francia, il Paese della “libertè, egalitè e fraternitè”, la patria della teoria dell’inferiorità dell’africano, che appartiene ad un continente “senza storia”, “senza scrittura”, “senza identità” e “senza Stato”. In un celebre discorso, nel 1885, in Parlamento Jules Ferry, politico francese, giustificò il colonialismo per la difesa della patria: “Chi ci può assicurare che un giorno, nelle colonie su cui è stata solennemente riconosciuta la sovranità della Francia (…), a un dato momento, le popolazioni indigene non abbiano ad assalire le nostre colonie? Cosa farete allora? Bisogna affermare apertamente che le razze superiori hanno effettivamente dei diritti nei confronti di quelle inferiori” 1. Come lui, furono diversi i politici, i filosofi e gli intellettuali del tempo che affermarono la superiorità della razza bianca, ritenendo che l’unico metodo per “controllare” l’africano fosse educarlo per sottometterlo o tenerlo ignorante per soggiogarlo.
C’è anche un’altra corrente, che si afferma dopo la prima guerra mondiale, chiamato “razzismo paternalista”, secondo cui il “negro” viene visto come un “grande bambino”: è sorridente, ingenuo, credulone e buono.
L’inferiorità dell’africano verrà immortalata nella grande esposizione del mondo africano a Parigi nel 19312, quella che viene ricordata come lo zoo degli umani. Nonostante i surrealisti francesi, tra cui il famoso Renoir, invitarono la gente a non andare alla mostra, il sei maggio del ’31 migliaia di visitatori si avventurano per i padiglioni che celebravano la Grande Francia e nel giro di sei mesi si registrarono oltre 33 milioni di ingressi, più di quanti ve ne fossero stati all’Esposizione universale del 1889.
La curiosità di vedere “i primitivi dell’Africa”, i selvaggi rinchiusi in gabbie o in recinti come animali, molti dei quali morirono per le cattive condizioni in cui furono costretti a vivere e ad esibirsi, portò al trionfo della mostra. Allo stesso tempo furono in tanti coloro che contestarono la “mercificazione” dell’africano.
Ma non ci fu nessun cambiamento o risveglio delle coscienze. Il negro rimane un primitivo che servirà alla Francia per combattere la Seconda guerra mondiale, quando viene meno il numero dei soldati da mandare al fronte a cause delle forti perdite.
Su questo il colonnello francese Margin, chiamato il “macellaio dei senegalesi”, scrisse un libro “Force noir”, in cui spiegava i motivi metafisici e strategici del reclutamento degli africani. Secondo il colonnello, le truppe d’assalto dovevano essere reclutate tra i guerriglieri africani in quanto esseri primitivi abituati alla sottomissione. Migliaia di africani morirono durante la guerra, mandati in prima linea a combattere. La loro vita valeva meno di quella di un francese. Molti di questi si arruolarono volontariamente perché Parigi promise maggiori diritti e autonomia alle colonie e la cittadinanza francese. Ovviamente, le promesse non furono mantenute.
 
Primi movimenti
antimperialisti africani
 
Dopo la seconda guerra mondiale, negli anni Cinquanta, nascquero i primi movimenti antimperialisti africani, in particolar modo in Francia e in Gran Bretagna, che misero in discussione la colonizzazione e che portarono, nel 1960, all’indipendenza di diciassette Paesi africani.
Erano gli anni di filosofi del calibro di Frantz Fanon3, un grande psichiatra e attivista africano che affermò che l’uomo “nero” non era inferiore a quello “bianco” e che il colonialismo provoca malattie mentali non solo ai colonizzati ma anche ai colonizzatori. Secondo Fanon, la sfortuna dell’uomo nero è di essere nato schiavo, quella dell’uomo bianco di aver ucciso l’umanità. Sono gli anni di Aimè Césaire4, scrittore, poeta e politico, fondatore del movimento della Negritudine: “Nègre je suis, nègre je resterai”. La nozione di negritudine, che comprende i valori spirituali, artistici filosofici dei “Neri d’Africa”, diventerà l’ideologia delle lotte degli africani per l’indipendenza. Césaire, che riuscì a liberare la sua isola, la Martinica, dal giogo del colonialismo francese, facendola diventare un dipartimento d’oltremare della Francia, fu deputato nel suo Paese all’Assemblea nazionale francese, sindaco di Fort-de-France, membro del Partito comunista francese.
Con Léopold Sédar Senghor e Léon Gontran-Damas costituì un trio di letterati e accademici, attivisti dei diritti civili che in Europa a partire dagli anni ’20 hanno ingaggiato con il lume della ragione e la scrittura creativa la battaglia contro le discriminazioni razziali e il colonialismo oppressivo.
Con Senghor conobbe gli scritti del filosofo tedesco Hegel. Ispirato dalla frase hegeliana “non dalla negazione del singolo che si va all’universale, ma dall’approfondimento del singolo”, Césaire arrivò alla conclusione che “vedi, più saremo Negri, più saremo degli uomini”. Fu la base delle fondamenta della negritudine di Césaire.
Frequentando la Scuola Normale Superiore, lanciò nel 1932 la rivista “L’Etudiant noir”, dove per la prima volta gli scrittori neri respingevano i modelli letterari tradizionali. Césaire amava ricordare sempre che “l’odio non serve a niente; ci si diventa prigioniero”. La negritudine nacque in questa rivista e divenne un concetto promosso da Aimé Césaire e dai i suoi ferventi amici di strada a Parigi: il senegalese Léopold Sédar Senghor e il guyanese Léon Gontran Damas. Césaire fu colui che André Breton definì “il negro fondamentale”.
 
Senghor, il profeta
della negritudine
 
È doveroso soffermarsi sulla figura di Senghor, il cui soprannome era Sédar, “colui che non può essere umiliato”. Non si riassume in poche righe una vita lunga e esaltante come quella di Senghor, limitiamoci a elencarne le fasi principali. Potrebbe essere ricordato come il primo presidente africano che ha imposto nelle scuole l’insegnamento del greco e del latino accanto alle sei lingue principali del Paese, perché “solo uomini completi” potevano “difendere la propria cultura e la propria identità”. Ma sarebbe approssimativo. Nato a Djilor, in Senegal, studiò presso il prestigioso liceo Louis le Grand, tra gli amici di allora il compagno di scuola Georges Pompidou (il futuro presidente della Francia) e appunto Aimé Cédaire. Si laureò in lettere alla Sorbona. Nel 1933 divenne cittadino francese e questo gli permise di fare l’esame di Agrégation, basato sulla grammatica francese, che serviva per l’abilitazione all’insegnamento. Senghor fu il primo africano a insegnare in un’università francese. Durante la seconda guerra mondiale fu chiamato alle armi, cadde nelle mani dei tedeschi e finì in un campo di prigionia a Poitiers in Francia, dove ne approfittò per studiare la cultura tedesca e il grande Goethe 5.
Dopo , lo scempio e la devastazione del conflitto mondiale si dedicò alla carriera politica, divenne il primo deputato senegalese all’Assemblea Costituente Francese e poi il primo presidente della Repubblica senegalese dal 1960 al 1980.
Amante della letteratura e della cultura francese scoprirà la sua identità africana e fonderà insieme a Aimé Césaire e Léon G. Damas il movimento della negritudine. Che cos’è per lui la negritudine? “È l’insieme dei valori – economici e politici, intellettuali e morali, artistici e sociali – non solo dei popoli dell’Africa nera, ma anche delle minoranze nere delle Americhe (…) Ora, i militanti della negritudine assumono questi valori, li fecondano anche con apporti esterni, per viverli in prima persona, dando così il loro contributo di Negri nuovi alla Civiltà dell’Universale”.
Senghor e la sua negritudine sono stati criticati. Più da parte africana che europea. Sembrava troppo moderato. E dava fastidio il suo apprezzamento per la cultura dei bianchi: celebre, e contestato, il suo slogan “l’emozione è negra, la ragione è ellena”.
Per Senghor la negritudine è “umanesimo”. Studia la storia dell’Africa attraverso due testi, “Storia della civilizzazione” di Ferdinand G. Frobenius e “I negri” di Maurice Delafosse. Testi importanti perché per la prima volta si parla di civilizzazione africana. Frobenius documenta che alla fine del medioevo l’Africa era una civiltà organizzata e spiega che gli antichi regni hanno lasciato un percorso storico, un nucleo un marchio che ancora si ritrova nell’africano. Delafosse, il più grande africanista francese, dimostra che c’è stata una grande Africa, distrutta dal colonialismo.
Senghor apre all’umanesimo: le diverse culture si devono guardare con simpatia e non con tolleranza. L’uomo bianco può trovare qualcosa da apprezzare nella cultura africana e viceversa. È questa la grande lezione di Senghor, che si dimostrò un buon presidente per il Senegal. Istituì il multipartitismo e fu uno dei pochi presidenti a lasciare il suo incarico per dedicarsi al suo primo amore: la poesia.
È sempre in questi anni che prende piede, con il risveglio della coscienza africana, il movimento panafricanista: l’unione dei popoli africani.
La parola panafricanismo fu coniata nel 1900 dall’avvocato di Trinidad Henry Sylvester Williams che convocò a Londra una conferenza per “protestare contro il furto di terre nelle colonie, la discriminazione razziale e discutere in generale dei problemi dei neri” 6.
Conferenza che servì da modello a una serie di convegni svoltisi tra il 1919 e il 1945 che sancirono l’affermazione del panafricanismo.
Merita una riflessione in più il Quinto Congresso Panafricano, tenuto a Manchester nel 1945, che pose per la prima volta il problema della decolonizzazione e vide la partecipazione di molti attivisti che negli anni successivi avrebbero avuto un ruolo da protagonista nella conquista dell’indipendenza da parte dei loro Paesi come Kwame Nkrumah della Costa d’Oro (Ghana dopo il 1956), Jomo Kenyatta del Kenya e Julius Nyerere della Tanzania, i padri del panafricanismo.
Il Congresso approvò all’unanimità la Dichiarazione dei Popoli Colonizzati del Mondo, scritta da Kwame Nkrumah che recitava: “Crediamo nel diritto di tutti i popoli di autogovernarsi. (…) Tutte le colonie devono essere liberate dal controllo straniero imperialista (…). Diciamo ai popoli colonizzati che devono battersi per questi fini con tutti i mezzi a loro disposizione (…). Se vogliamo restare liberi, se vogliamo trarre beneficio dalle ricche risorse africane, dobbiamo unirci per pianificare la nostra difesa comune e il modo per sfruttare al meglio le nostre risorse materiali e umane, nell’interesse esclusivo di tutti i nostri popoli”.
Sono anni di sangue e di repressione nel continente nero. Ma nel 1960, passato alla storia come l’anno dell’Africa, Francia, Gran Bretagna e Belgio furono costretti a concedere l’indipendenza a ben diciassette Stati Africani, che entrano a far parte a pieno titolo della comunità internazionale. Soltanto le colonie portoghesi dovettero aspettare la metà degli anni Settanta. Nell’impossibilità di ridisegnare il continente, i confini dell’Africa rimasero quelli che i cartografi europei dell’Ottocento, al servizio di interessi imperiali, tracciarono e che tutt’oggi sono motivo di guerre.
Gli anni Sessanta furono anche quelli della nascita, il 25 maggio 1963, dell’Organizzazione per l’Unità africana, che nel 2002 sarebbe diventata l’Unione africana e avrebbe alimentato un’altra utopia: gli Stati Uniti d’Africa7.
Uno dei padri fondatori dell’Organizzazione per l’unità africana fu Kwame Nkrumah8, il padre del Ghana indipendente. Nkrumah si fa promotore assoluto della necessità di creare una entità africana che sia al di sopra dei singoli Stati perché “l’ovvia soluzione è data dall’unità” e perché “un’Unione degli Stati Africani in cui l’Africa intera parli con un’unica voce concorde può rafforzare la nostra influenza sulla scena internazionale”. La sua idea di unità troverà, come già detto, realizzazione nell’Organizzazione dell’Unità Africana (nata ad Addis Abeba nel 1963). Tuttavia, l’Oua, oggi Unione Africa (Ua) rimarrà lontana da ciò che egli aveva desiderato (una federazione di Stati con un mercato unico e una moneta unica; una strategia militare e difensiva comune; un’unica politica estera e diplomatica; una costituzione africana), in quanto si limiterà ad essere solo una organizzazione intergovernativa al servizio dell’Occidente.
 
Lumumba e Sankara, i due grandi leader africani
 
Sono tanti i leader africani che hanno combattuto contro il colonialismo e che si sono battuti contro le nuove forme di imperialismo che rendono oggi l’Africa ancora schiava dell’Occidente. Tra questi ci sono due uomini che hanno dato la vita per questa causa: uno è Patrice Emery Lumumba e l’altro Thomas Sankara. Il primo è stato primo ministro del Congo, ucciso brutalmente dal militare belga, Gerard Soete, dal colonnello dei servizi segreti francese, Louis Marlière e dall’agente della Cia, Lawrence Devlin. Lumumba fu ucciso da un cablogramma di Washington. Gerard Soete eseguì – come ammise davanti alla commissione parlamentare belga incaricata delle indagini a 40 anni di distanza dall’omicidio – solo un ordine: assassinare il primo ministro congolese Patrice Emery Lumumba e i suoi collaboratori Joseph Okito e Maurice Mpolo, macellare i loro corpi a colpi di accetta e scioglierne i pezzi nell’acido, per non lasciare tracce9. L’ordine portava la firma dell’allora capo della Cia, Allen Dulles ed era stato presumibilmente visionato dal presidente statunitense uscente Dwight Eisenhower e dalla monarchia belga.
Il motivo della sua brutale uccisione è spiegato dall’allora ufficiale di collegamento della Central Intelligence Agency (Cia) in Congo, Lawrence Devlin: “Correvano i tempi della guerra fredda: Lumumba era un pericolo per il Congo e per il resto del mondo, perché avrebbe permesso ai comunisti di installarsi nella regione, cambiando i rapporti di forza tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. E questo non lo voleva nessuno”.
Fu ucciso per le sue idee antiimperialiste, per il suo coraggio nel difendere la sovranità congolese, come risultò evidente durante la cerimonia di passaggio dei poteri tra la madrepatria belga e l’ex colonia il 30 giugno del 1960. Si racconta che nel giorno della festa dell’indipendenza, Lumumba era nervoso e prendeva appunti durante l’intervento di re Baldovino. I testimoni raccontano che strappò i fogli del discorso concordato nel momento in cui il re belga disse che “l’indipendenza del Congo costituiva la realizzazione dell’opera concepita dal genio di Leopoldo II. Opera intrapresa con coraggio e tenacia, e continuata con perseveranza dal Belgio”.
Indignato dalle parole di un re che aveva fatto massacrare oltre 10 milioni di congolesi, disse: “Abbiamo conosciuto le ironie, gli insulti e i colpi che dovevamo subire mattino, mezzogiorno e sera, perché eravamo dei negri. Chi dimenticherà che a un negro si dava del “tu” non come a un amico, ma perché il “voi” rispettoso era riservato ai bianchi? Abbiamo visto che la legge non era mai la stessa per un bianco o per un nero. Era accomodante per i primi e inumana per i secondi”. In un solo colpo, Lumumba, applauditissimo dagli africani, si inimicò il Belgio e l’intero Occidente, decretando la sua condanna a morte.
I problemi per il giovane primo ministro non tardarono ad arrivare: il 4 luglio dello stesso anno la polizia congolese si ammutinò: i sottoufficiali neri iniziarono a rifiutare gli ordini dei superiori che erano ancora di nazionalità belga. Il Paese fu travolto dalle violenze e dagli scontri di piazza. Approfittando di disordini in corso, l’11 luglio 1960 Moise Ciombe, il leader del partito Conakat, proclamò la secessione della provincia del Katanga, ricchissima di giacimenti minerari. A questo punto Lumumba, rifiutando un intervento militare belga per riportare l’ordine, si rivolse al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite perché inviassero i Caschi blu e accusò il governo di Bruxelles di aver fomentato la rivolta secessionista del Katanga. Come dimostrerà un’inchiesta parlamentare belga, i sospetti di Lumumba erano più che fondati. Ciombe infatti non disponeva di forze armate. I belgi gli fornirono mercenari e militari belgi, operazione per la quale erano stati stanziati 50 milioni di franchi dell’epoca (circa 7 milioni di euro di oggi), prelevati appositamente dai fondi segreti di Bruxelles.
Abbandonato dalle Nazioni Unite, il primo ministro congolese chiese aiuto al presidente statunitense Dwight Eisenhower, il quale su consiglio del direttore della Cia, Allen Dulles rifiutò di incontrarlo.
Abbandonato da tutti, Lumumba si rivolse allora al presidente sovietico Nikita Kruscev perché l’armata rossa intervenisse direttamente nella regione dei Grandi Laghi per riportare l’ordine nel Paese.
Washington, temendo un’invasione russa della regione dei Grandi Laghi, diede l’ordine di uccidere Lumumba, che fu assassinato il 17 gennaio 1961. La sua grandezza emerge nella sua ultima lettera scritta alla moglie dalla prigione di Elisabethville, prima di essere ucciso: “Mia cara compagna(…) Morto, vivo, libero o in prigione per ordine dei colonialisti, non é la mia persona che conta. È il Congo, il nostro povero popolo la cui indipendenza é stata trasformata in una gabbia dove ci guardano dall’esterno, a volte con benevola compassione, a volte con gioia e piacere. (…)Non siamo soli. L’Africa, l’Asia ed i popoli liberi e liberati di tutti gli angoli del mondo si troveranno sempre a fianco di milioni di Congolesi che abbandoneranno la lotta solo il giorno in cui non ci saranno più i colonizzatori ed i loro mercenari nel nostro paese. Poiché senza dignità non c’é libertà, senza giustizia non c’é dignità e senza indipendenza non ci sono uomini liberi. (…)L’Africa scriverà la sua storia, una storia di gloria e di dignità a nord e a sud del Sahara.”
La stessa sorte di Lumumba è capitata a un grande altro leader africano, il cui carisma spaventò l’Occidente. Il suo nome è Thomas Sankara, il presidente del Burkina Faso, il “Paese degli uomini onesti”. Fu assassinato, a 37 anni, in seguito ad un colpo di Stato ordito dalla Cia (con Parigi, la Libia e la Costa d’Avorio) ed eseguito dal suo “migliore” amico, Blaise Compaoré, che dopo averlo assassinato prese il potere, che tuttora mantiene. Pochi mesi prima della sua morte, in occasione dell’Assemblea dell’Oua, il 29 luglio ad Addis Abeba, in Etiopia, il “Che Guevara africano” decretò la sua condanna a morte annunciando l’intenzione di non voler pagare il debito internazionale: “Noi siamo estranei alla creazione di questo debito e dunque non dobbiamo pagarlo. (…)Il debito nella sua forma attuale è una riconquista coloniale organizzata con perizia. (…) Se noi non paghiamo, i prestatori di capitali non moriranno, ne siamo sicuri; se invece paghiamo, saremo noi a morire, possiamo esserne altrettanto certi”. Sempre nel suo discorso ad Addis-Abeba, Sankara dichiarò (…) io sono militare e porto un arma, ma signor Presidente, vorrei che ci disarmassimo. Perché io porto l’unica arma che possiedo, altri hanno nascosto le armi che pure portano. Allora col sostegno di tutti, cari fratelli potremo fare la pace a casa nostra. Potremmo anche usare le sue immense potenzialità per sviluppare l’Africa perché il nostro suolo e il nostro sottosuolo sono ricchi”.

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