Italia: Bene Comune. O no?

Italia: Bene Comune. O no?

Tra pochi giorni la neonata coalizione di centro-sinistra Italia. Bene Comune chiamerà al voto tutti i suoi sostenitori per decidere il candidato alla presidenza del Consiglio dei Ministri da presentare alle elezioni politiche del marzo (o aprile?) 2013. La competizione vede in gara cinque rappresentanti politici: Pierluigi Bersani, segretario nazionale del Partito Democratico, Matteo Renzi, sindaco di Firenze e membro del Partito Democratico, Niki Vendola, segretario nazionale di Sinistra Ecologia e Libertà e presidente della Regione Puglia, Bruno Tabacci, ex capogruppo di Alleanza per l’Italia e assessore al bilancio del Comune di Milano, Laura Puppato, capogruppo del Partito Democratico alla Regione Veneto.
Si tratta di una partita ancora aperta, sebbene appare quasi scontato che la vera sfida riguardi in realtà soltanto Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, in un confronto del tutto interno al Partito Democratico tra la “vecchia guardia” che compose L’Ulivo negli anni Novanta sostenendo Romano Prodi, e i “rottamatori”, una lunga e poco conosciuta lista di giovani amministratori locali saliti alla ribalta nella fase di fondazione del partito, tra il 2007 e il 2008.
L’unico possibile outsider della tenzone sembra essere Niki Vendola, ma il seguito elettorale di cui gode il suo partito non gli garantirà affatto la quota necessaria per poter pensare di insidiare i due candidati maggiori.
Per quanto riguarda i programmi, il comitato Italia. Bene Comune, che organizzerà l’intera fase elettorale di queste primarie, ha pubblicato una Carta d’Intenti che propone i fondamenti essenziali evidentemente comuni a tutti e cinque i personaggi politici in competizione.
Tema di grande importanza in tutti i programmi individuali è proprio quello legato al futuro dell’Unione Europea, al quale la Carta d’Intenti dedica un enfatico annuncio:

“La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà. Ma noi siamo l’Europa, nel senso che da lì viene la sola possibilità di salvare l’Italia: le sorti dell’integrazione politica coincidono largamente col nostro destino. Non c’è futuro per l’Italia se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo. La prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa. Per riuscirci agiremo in due direzioni. In primo luogo, rafforzando la piattaforma dei progressisti europei. Se l’austerità e l’equilibrio dei conti pubblici, pur necessari, diventano un dogma e un obiettivo in sé – senza alcuna attenzione per occupazione, investimenti, ricerca e formazione – finiscono per negare se stessi. Adesso c’è bisogno di correggere la rotta, accelerando l’integrazione politica, economica e fiscale, vera condizione di una difesa dell’Euro e di una riorganizzazione del nostro modello sociale. In secondo luogo, bisogna portare a compimento le promesse tradite della moneta unica e integrare la più grande area economica del pianeta in un modello di civiltà che nessun’altra nazione o continente è in grado di elaborare”

La volontà di contrastare quelle “regressioni nazionaliste, anti-europee e populiste, da sempre incompatibili con le radici di un’Europa democratica, aperta, inclusiva”, muove il centro-sinistra nella sua totalità. Bersani, nel suo programma afferma per esempio di lavorare “per un patto costituzionale che intrecci politiche nazionali e continentali nell’orizzonte degli Stati Uniti d’Europa”, mentre per Renzi “la crisi dell’euro ha mostrato che la costruzione europea è ancora imperfetta e deve essere completata, sulla linea di quello che avevano immaginato i padri fondatori”. Fuori dal coro appare, invece, Niki Vendola che prova a puntare su fumosi e sorpassati temi alternativi e new-global, nel chiaro tentativo di convogliare sulla sua candidatura il voto di quel ceto medio “bertinottiano” riconducibile ad una parte consistente dell’elettorato “alla sinistra” del Partito Democratico:

“In un mondo globalizzato,la competizione non è più a livello di singola impresa ma a livello di territori. Solo quelli in grado di offrire elementi identitari, vantaggi comparati non riproducibili in altri contesti, possono farcela. In questo senso l’Italia può ambire ad una vocazione “glocale”, che faccia leva sulla ricchezza del patrimonio storico, ambientale, architettonico, artistico, paesaggistico, trasformandolo in fattore di conoscenza, competenza e promozione della propria unicità nel mondo”

È evidente che il nodo relativo all’Europa non sia risolvibile né con le poetiche perifrasi “glocali” di Vendola né con quelli che vengono giustamente considerati arroccamenti “nazionalisti e populisti”. È tuttavia opportuno ricordare che tali fermenti germogliarono in Europa proprio con la Rivoluzione Francese e con quel pensiero “progressista” (borghese) cui l’intera Carta d’Intenti di Italia. Bene Comune si ispira. La deriva liberale del giacobinismo è sfociata necessariamente nella costituzione di nuovi soggetti nazionali fondati su principi costituzionali di natura etnocratica ed esclusivista, che – come ricordava già lo storico ungherese Ferenc Fejtö – distrussero in poco tempo quell’idea integrativa e “continentale” nata nella Mitteleuropa. La rivoluzione borghese europea, sebbene abbia inizialmente svolto un positivo ruolo di modernizzazione tecnica del continente, come riconosceva lo stesso Karl Marx, col tempo ha posto le basi per un salto di qualità spaventoso della competizione intercapitalistica in Europa e della sua proiezione coloniale nel resto del mondo. L’acquisita capacità di navigazione oceanica e l’applicazione al campo militare delle innovative conquiste tecnologiche cambiarono profondamente la concezione politica continentale, ponendo le basi per un crescendo di violenza ed odio sfociato nel disastro delle due guerre mondiali. E’ chiaro che un’eventuale integrazione europea seria e stabile debba tornare a pensare alla rivalutazione di quella koiné latino-slavo-germanica che caratterizzò gli Imperi Centrali (Prussia e Austria-Ungheria) per almeno quattro secoli, nell’ambito di una moderna e più ampia idea integrativa che includa il recupero di quel dialogo a lungo perduto con l’Oriente, e in particolar modo con la Russia e con la Cina, proprio come sta facendo la Germania.
Ma nei programmi dei candidati di Italia. Bene Comune tutto questo non esiste. Perciò l’integrazione europea sottolineata da tutti i candidati alla guida del centro-sinistra, a cosa fa riferimento? Gli Stati Uniti d’Europa proposti da Bersani cosa sono? L’Unione Europea cui la classe dirigente di un Paese evidentemente vittima delle politiche del rigore di Bruxelles dovrebbe volgere il proprio sguardo, è un progetto che va in direzione completamente opposta a quello proposto. Certamente dice bene Tabacci quando, senza peli sulla lingua, sostiene che per sviluppre una “capacità reale di mettere la finanza sotto controllo” bisogna accettare “una razionale e misurata cessione di sovranità nazionale”. Quello che, infatti, si dovrebbe intendere con la parola “sovranismo” non è un concetto fondato sulla condizione necessaria in base alla quale debba esistere un’unità a carattere geopolitico e geoeconomico, chiusa nello spazio ed invariabile nel tempo. Il sovranismo è un concetto che, in generale, privilegia il primato della politica e del principio costituzionale rispetto ai meccanismi dell’economia privata, ma questo può applicarsi a qualsiasi spazio, anche ad un ipotetico spazio europeo integrato.
Per definire la fattibilità di uno spazio geopolitico, dunque, entrano in campo altri criteri, come quello etno-linguistico, quello strategico, quello politico e quello geografico. L’Unione Europea così com’è oggi strutturata ha un senso?
Sul piano etno-linguistico, con l’eccezione di Finlandia, Ungheria ed Estonia, l’Europa è fondamentalmente unita dalle comuni radici indoeuropee dei suoi Paesi membri e si basa su un ritrovato compromesso tra i Paesi di tradizione cattolica e quelli di tradizione protestante. Restano, però, pesanti ombre in merito all’opportunità dei processi di integrazione di Paesi ortodossi come la Serbia (refrattaria all’ingresso) e la Bulgaria, o di Paesi addirittura estranei al contesto europeo come la Turchia e Israele.
Sul piano politico, cos’è l’Unione Europea? Nulla. Ad oggi non esiste una Costituzione Europea. Fallito il progetto costituzionale a seguito dei referendum votati in Francia e in Olanda nel 2005, il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, è un insieme di disposizioni che introducono misure di (de)regolamentazione in ambito economico e finanziario, dettando qualche buon proposito nel senso della solidarietà sociale tra gli Stati membri, rimasto tuttavia carta straccia durante questa fase di crisi, dove la Germania e la Francia hanno deciso di procedere lungo una linea politica di rigore senza troppo curarsi delle sue conseguenze in termini sociali e occupazionali.
Ne abbiamo avuto prova in Italia dove la “cura” adottata dal governo tecnico ha distrutto ogni garanzia sociale nel segno del rigore promosso da Monti, sebbene egli resti ben lontano da una sintonia con la Germania, come molti sospettano, ed anzi sia profondamente legato al mondo anglofono e alle sue ramificazioni economiche e finanziarie (ha infatti lavorato per la Goldman-Sachs, per Moody’s e per la Commissione Trilaterale). Eppure Bersani, che pure promette “alleggeriremo il prelievo sul lavoro e sull’impresa […] contrasteremo la precarietà”, esordisce dicendo che “il nostro posto è in Europa, lì dove Mario Monti ha avuto l’autorevolezza di riportarci dopo una decadenza che l’Italia non meritava”.
Sul piano geografico, l’Europa ha un senso? Sì, ma solo nella misura in cui si definisca come uno spazio incluso tra il Mar Baltico e lo Stretto di Gibilterra, cercando dunque di costruire un insieme di relazioni e di connessioni pacifiche e cooperative con le realtà direttamente prospicienti a questo spazio: il mondo russofono e postsovietico (Russia, Ucraina e Bielorussa) e il mondo arabo (Nordafrica e Vicino Oriente), coi quali Enrico Mattei aveva avuto l’accortezza di dialogare in maniera seria e rispettosa (e abbiamo visto che fine ha fatto). Passando, così, al piano strategico, la condizione attuale dell’Europa corrisponde a questa descrizione? Assolutamente no. Ed è lo stesso Bersani a procedere in modo ancor più incisivo sul solco di questa contraddizione geopolitica, quando afferma che dovrà essere responsabilità prioritaria del nostro Paese “assicurare il pieno sostegno, fino alla loro eventuale rinegoziazione, degli impegni internazionali già assunti dal nostro Paese o che dovranno esserlo in un prossimo futuro”.
A che fa riferimento Bersani? Ovviamente al Trattato Nord-Atlantico e alle missioni militari internazionali coordinate dai Paesi della NATO che vedono coinvolta l’Italia con suoi uomini e mezzi: Kosovo, Afghanistan e Libano.
È forse per questo che Bersani considera clamorosamente la deflagrazione dei Balcani negli anni Novanta come una “tragica eccezione” ad un ventennio di sostanziale pace in Europa. Quella “tragica eccezione”, come sappiamo, ha distrutto e umiliato la Serbia, ha favorito la nascita di uno Stato non riconosciuto dall’ONU, come il Kosovo, che tutt’oggi svolge un ruolo fondamentale nel reclutamento e nell’addestramento delle milizie integraliste legate alla rete del radicalismo salafita e wahabita. Credendo alle favole “manichee” giunte da Srebrenica nel 1995, il mondo intero fu impietosito dal presunto genocidio che i nazionalisti serbi avrebbero compiuto ai danni dei bosniaci musulmani, ma aveva dimenticato di considerare che a partire dal 1993 Sarajevo fu letteralmente presa d’assedio da trentamila miliziani di al-Qaeda provenienti dall’Azerbaigian, dalla Cecenia, dal Dagestan e dall’Arabia Saudita. Nel 1999, i devastanti bombardamenti del territorio serbo da parte delle forze NATO, tra le quali va segnalato il particolare attivismo imperialista di Turchia e Germania, vide l’Italia di Massimo D’Alema macchiarsi indelebilmente di una complicità nel progetto che l’amministrazione Clinton aveva pensato per la regione.
Identica strategia è stata recentemente applicata dai Paesi occidentali alla Libia e alla Siria, dove l’intervento “esterno” delle forze della NATO ha fornito e sta ancora fornendo un sostegno decisivo all’integralismo e al terrorismo. Fu proprio Bersani ad esporre un intervento alla Camera dai toni durissimi ed ostili, incitando il governo ad “intervenire, anche con strumento militare, per fermare il massacro di Gheddafi contro il suo popolo”, mentre fu proprio il suo predecessore alla guida del Partito, Dario Franceschini, a definire “inaccettabili” le esitazioni del governo Berlusconi di fronte alla crisi libica. Insomma: si doveva bombardare e subito, anche a costo di annichilire Sirte, Tripoli, Bani Walid e Misurata, città che di fatto oggi non esistono più; anche a costo di stracciare contratti e forniture energetiche per le nostre aziende di Stato (ENI, ENEL e Finmeccanica), in tempi di crisi economica; anche a costo di supportare gruppi di ribelli che nella grandissima maggioranza dei casi erano affiliati a organizzazioni terroristiche straniere. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia non esitarono a raccogliere la risoluzione 1973 dell’ONU per giustificare la costituzione di un’ennesima coalizione in seno alla NATO, mostrando ancora una volta la totale dipendenza geostrategica dell’Unione Europea dagli Stati Uniti. Quale autentica e reale Unione Europea, difatti, potrebbe accogliere in modo così acritico i diktat di una potenza esterna al suo territorio? Quale Stato europeo potrebbe mai dirsi sovrano se il suo territorio è ancora oggi occupato da centinaia di basi o installazioni militari di una potenza esterna? Ad oggi l’Unione Europea non ha un suo comando militare indipendente e sovrano, non possiede un esercito interforze autonomo dalla NATO e dall’ONU, eppure una larghissima parte dei bilanci per la Difesa dei Paesi europei e molti sistemi difensivi di fabbricazione europea (vedi Finmeccanica) vengono sfruttati al solo ed unico scopo di garantire gli impegni assunti dagli Stati membri nel quadro di quelle coalizioni a guida extraeuropea.
In questo caso, soltanto Vendola concede minime aperture ad un dibattito critico, considerando “urgente aprire un processo di ridiscussione della presenza di basi militari statunitensi sul territorio nazionale e di revisione partecipata del sistema delle servitù militari”, tuttavia l’idea pacifista e non-violenta che muove il suo ragionamento (“riduzione drastica delle spese militari nel nostro paese e di quelle a livello internazionale”, “conversione dell’industria bellica in sostegno alla conversione ecologica dell’economia” e altre baggianate del genere) lo porta sul binario morto della semplice revisione delle “dottrine nucleari della NATO” in base alla quale l’Italia dovrebbe seguire “l’esempio di altri paesi NATO che hanno deciso di non ospitare sul loro territorio nazionale ordigni nucleari tattici USA”. Nei fatti, la radicale messa in discussione della NATO a partire dalle sue fondamenta geostrategiche è lontana milioni di chilometri da questa prospettiva, specie se si considera che, ormai, dopo la Rivoluzione negli Affari Militari le armi tattiche nucleari costituiscono un mezzo di esclusiva deterrenza a cui si affiancano più precisi ordigni balistici a testata convenzionale e più efficienti sistemi ad alta tecnologia (droni, radar, reti ICT…).
La controprova dello sfasamento politico cui conduce l’ideologia dei “diritti umani” nella sua naturale deriva di “sinistra”, ce la fornisce la lettura che Vendola opera relativamente ai recenti eventi mediorientali, dove afferma che “i paesi che hanno invaso la Libia, dove ci sono immense riserve di petrolio, sono gli stessi che assistono silenziosamente complici ai massacri di Assad in Siria”. Quali massacri? Gli stessi che i Paesi NATO si sono inventati per invadere la Libia. Un circolo vizioso che potrebbe continuare all’infinito e dal quale non sembra esserci via d’uscita.
Questa pesantissima rigidità geopolitica diventa anche geoeconomica attraverso le decisioni stabilite presso la Commissione Trilaterale che, benché non governativa, raccoglie la partecipazione di politici, uomini d’affari e analisti delle tre aree a capitalismo avanzato (Nord America, Europa e Giappone), tutte integrate in almeno tre dei sei comandi militari internazionali degli Stati Uniti (US Eucom, US Northcom, US Pacom, US Southcom, US Centcom, US Africom) o nei partenariati atlantici.
Per l’Italia, oltre all’ormai nota presidenza europea dell’istituto presieduta da Mario Monti nel 2010, partecipano regolarmente alle sue riunioni: John Elkann, Giuseppe Orsi (presidente di Finmeccanica), Enrico Letta (vicesegretario del Partito Democratico), Carlo Pesenti (consigliere delegato di Italcementi), Luigi Ramponi (Popolo della Libertà), Gianfelice Rocca ( vicepresidente di Confindustria), Carlo Secchi (economista, ex eurodeputato e senatore), Maurizio Sella (presidente del gruppo Banca Sella), Marco Tronchetti Provera, Enrico Tomaso Cucchiani (a.d. di Intesa Sanpaolo), Marcello Sala (vicepresidente del CdA di Intesa Sanpaolo), Marta Dassù (sottosegretario agli Esteri del Governo Monti), Giuseppe Recchi (presidente di ENI), Stefano Silvestri (presidente dell’Istituto Affari Internazionali dal 2001 e giornalista de Il sole 24 ore), Franco Venturini (giornalista del Corriere della Sera), Federica Guidi (direttore esecutivo e vicepresidente di Ducati) e Paolo Andrea Colombo (presidente dell’Enel).
È evidente che l’Italia, allo stato odierno, non possieda la benché minima capacità di avviare una politica industriale autonoma. Dopo la distruzione dell’IRI e grandi dismissioni degli anni Novanta, qualsiasi idea di investimento pubblico o di partecipazione dello Stato all’impresa è da considerarsi impraticabile. La cura pensata da Monti per risanare le casse dello Stato ha condotto il nostro Paese non solo ad una pesantissima recessione ma anche ad un’ulteriore fase di deindustrializzazione che ha messo alle corde persino la Piccola e Media Impresa, proletarizzando gran parte del ceto medio produttivo ed annullando ogni residuale significato sindacale e concertativo presente nei contratti nazionali di lavoro.
Nonostante i suoi fallimenti manageriali, Sergio Marchionne, col consenso di tutto il panorama politico nazionale, continua tranquillamente a ricattare gli operai della FIAT e a guidare un’azienda parassitaria che negli ultimi trent’anni ha ricevuto 7,6 miliardi di euro dallo Stato, col “lieto fine” di risolverne i problemi interni consegnandola nelle mani di Chrysler. Nessuna proposta di nazionalizzazione in questo senso, viene avanzata dai candidati alle primarie di Italia. Bene Comune. Anzi, Renzi sembra vivere in un mondo suo personale dal momento che addirittura pretende che l’Italia, nelle condizioni presenti, riesca ad attrarre investimenti stranieri così da avere “un flusso aggiuntivo di investimenti in entrata di quasi 60 miliardi di euro, con la conseguente apertura di centinaia di migliaia di posti di lavoro e l’avvio di molti piani industriali fortemente innovativi”.
È inutile perciò parlare della necessità di integrare l’Europa e di procedere verso la costruzione dei cosiddetti Stati Uniti d’Europa, agitando propagandisticamente l’abusato pericolo di un “nazionalismo” che in realtà non esiste, senza specificare il ruolo politico e strategico delle istituzioni europee e il peso specifico dell’Italia. Rilanciare la politica economica in Italia oggi, significa restituire allo Stato un ruolo determinante nella gestione delle aziende strategiche, ricapitalizzare con denaro pubblico le banche di credito cooperativo per ridare ossigeno alla PMI, riportare sotto i 4.000 euro mensili gli stipendi dei dirigenti pubblici a tutti i livelli e tagliare il finanziamento delle aziende pubbliche a Confindustria (40 milioni di euro l’anno circa).
Paradossalmente, sebbene blanda, l’unica proposta concreta e rispondente alle necessità urgenti del Paese arriva da Tabacci, che denuncia senza mezzi termini la parzialità delle agenzie di rating e il loro ruolo geoeconomico:

“Le tre grandi agenzie di rating internazionali che oggi pontificano hanno la particolarità di essere controllate da grandi editori americani. E’ assurdo che a queste agenzie vengano attribuiti compiti determinanti come quello di valutare la tenuta degli Stati. Se non si sono accorte né del clamoroso scandalo americano della Enron, né di quello nostrano della Parmalat, ci sono delle precise ragioni. Queste importanti agenzie di rating in grande coprivano la finanza americana, nel piccolo praticavano commercio di rating, nel senso che, in cambio dell’incarico, assicuravano un giudizio positivo o di benevolenza”

Addirittura il democristiano Tabacci, forse consapevole di non avere alcuna possibilità di vincere, si concede un affondo molto pesante al sistema bancario, mostrandosi in questo molto più a “sinistra” dei suoi sfidanti:

“In questi anni il mondo bancario ha dato una risposta alla crisi di un’arroganza senza limiti. Si sono visti i banchieri fare fortuna spesso sulla pelle della povera gente. Come nella vicenda delle stock option: anche quando le cose andavano male per tutti, per i banchieri andavano bene. Siamo passati dall’idea del banchiere che valeva quanto il confessore a quella di banchieri-avvoltoi. Banchieri sempre più spregiudicati hanno usato i prodotti derivati, applicandoli non solo a strutture di debito, ma anche a quelle di risparmio”

Vale la pena menzionare a suo merito che Tabacci, come assessore al bilancio, ha concluso recentemente le pratiche per la restituzione del denaro alle casse pubbliche da parte delle quattro banche (JP Morgan, Depfa Bank, UBS e Deutsche Bank) responsabili del disastro dei derivati, acquistati dal Comune di Milano durante i mandati Albertini e Moratti.
Recentemente su facebook, è nata una pagina ironica dedicata proprio all’ex UDC, Bruno Tabacci, dall’emblematico nome “Marxisti per Tabacci”, dove il candidato alle primarie del centro-sinistra viene scherzosamente dipinto al fianco di Lenin e Stalin e la sua faccia inserita in un tripudio di slogan e simboli bolscevichi. Qualche sostenitore di Bersani se l’è presa, ma a noi la goliardia piace abbastanza. E poi, pensare che ai faccioni ammiccanti di Renzi, ai proverbi emiliani di Bersani o alle avventurose perifrasi di Vendola debba essere necessariamente conferita un’aura di serietà imparagonabile a quella pagina ironica, è davvero presuntuoso.
Scherzo per scherzo, chi proprio non riesce a fare a meno di andarsene a votare a queste primarie, voti il “compagno” Tabacci. La classe operaia ormai le ha viste davvero tutte. Chissà che non vedrà anche questa.
http://www.statopotenza.eu/4972/italia-bene-comune-o-no

Italia: Bene Comune. O no?ultima modifica: 2012-11-08T12:18:00+01:00da davi-luciano
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