Roma, polemiche sullo stipendio del capo di gabinetto della Raggi. A Milano Sala ha speso quasi il doppio con due nomine

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Roma, polemiche sullo stipendio del capo di gabinetto della Raggi. A Milano Sala ha speso quasi il doppio con due nomine

Pd all’attacco sul compenso di 193mila euro a Carla Raineri. Il capigruppo grillino in Senato Lucidi: “Democratici, doppia morale e doppi stipendi. Fucito, il predecessore, guadagnava 263mila euro”. Ecco nomine e spese dei neo sindaci di Milano e Torino. E come funziona la legge per le nomine dei ruoli nei comuni

di  | 13 agosto 2016

Carla Romana Raineri guadagnerà 193mila euro come nuovo capo di gabinetto del sindaco di Roma Virginia Raggi: troppo? Per il Partito democratico non ci sono dubbi, tanto che sulla nomina ha attaccato il M5s, accusato di spendere più dei predecessori. In giornata, però, è arrivata la smentita del Movimento 5 stelle. Stefano Lucidi, capogruppo grillino al Senato, ha ribaltato i numeri forniti dai democratici, secondo cui i quattro capi di gabinetto precedenti guadagnavano molto meno della Raineri. Nella fattispecie – ha scritto il deputato dem Marco Palumbo – “Basile 180mila euro (Alemanno), Basile75mila (Alemanno), Fucito 73mila (Marino). Raineri nuovo capo di gabinetto 193mila. Grazie Virgi per lo spreco…”. E mentre l’ex magistrato della Corte d’Appello di Milano ha spiegato che “al Campidoglio ci rimette”, Lucidi ha definito ipocriti gli esponenti del Pd perché “fanno finta di dimenticarsi che mentre la Raineri percepisce un solo stipendio in linea con il suo precedente incarico da magistrato, il capo di Gabinetto del sindaco Marino (Pd), Luigi Fucito guadagnava ben 263mila euro lordi sommando lo stipendio di 190mila euro da funzionario del Senato ai 73mila euro in Campidoglio. Pd, doppia morale e doppi incarichi“.

Da Milano a Roma passando per Torino: nomine, assunzioni, stipendi, strategie
Al netto della polemica e della matrice politica delle accuse, come si sono mossi in tema di nomine gli altri neo sindaci delle grandi città eletti ai ballottaggi dello scorso giugno? A Milano il primo cittadino Beppe Sala (Pd) ha nominato sia un nuovo capo di gabinetto che un nuovo city manager. Una pratica assai diffusa con l’insediamento della nuova squadra di governo, con il sindaco che mette uomini di fiducia in ruoli di importanza strategica. Nel capoluogo lombardo è il caso di Mario Vanni, avvocato, 33 anni, ex tesoriere del Pd meneghino nonché coordinatore della comunicazione e delle attività di promozione politica nella campagna elettorale dell’ex manager di Expo. Lo stipendio del professionista? Intorno ai 140mila euro. Un bel risparmio rispetto ai 193mila euro della Raineri, ma un costo non di poco conto se si considera che il successore di Pisapia ha nominato immediatamente anche un nuovo city manager (incarico non assegnato da Virginia Raggi). Trattasi di Arabella Caporello, 43 anni, marchigiana di nascita ma milanese d’adozione, fondatrice del circolo Pd della Pallacorda e renziana di ferro. La nuova city manager potrà arrivare a guadagnare 210mila euro: 180mila di fisso e 30mila di benefit al raggiungimento di determinati obiettivi. In tutto, quindi, Sala spenderà intorno ai 350mila euro per due ruoli chiave nell’amministrazione della città. Tanto? Poco? Per chi conosce il funzionamento delle macchine comunali delle grandi città si tratta di cifre in linea con gli emolumenti standard per i ruoli interessati. Diverso il caso di Torino, dove la sindaca Chiara Appendino ha mantenuto la promessa fatta in campagna elettorale e ha tagliato del 30% lo spoil system del predecessore Piero Fassino: via il portavoce dell’ex primo cittadino, il direttore generale, il capo di gabinetto, il coordinatore della segreteria, il responsabile marketing e turismo e altri dirigenti comunali. “Con questi soldi costituiremo un fondo da 5 milioni di euro per inserire i giovani nelle piccole e medie imprese” ha spiegato il nuovo sindaco di Torino. Strategie. Se giuste o sbagliate  è presto per dirlo.

Direttore generale, capo di gabinetto e city manager: come vengono nominati
Il direttore generale, il capo di gabinetto e il city manager sono ruoli strategici all’interno delle macchine comunali. Attenzione, però: strategici, ma non obbligatori. I comuni, infatti, possono anche farne a meno. Tutte e tre le figure sono di nomina squisitamentepolitica: in soldoni, il sindaco sceglie in totale autonomia e secondo i parametri di spesa fissati dagli statuti comunali. Per quanto riguarda il capo di gabinetto del sindaco, però, la riforma Madia ha posto dei paletti: se prima non c’erano limitazioni per la scelta dei papabili, ora invece è necessario un bando pubblico e delle competenze ad hoc. A Milano, in tal senso, ci sono stati dei problemi. Come raccontato da Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano, Sala ha nominato Vanni senza gara e gli ha dato uno stipendio da dirigente pur non essendo il diretto interessato un dirigente (nel precedente incarico all’Authority per l’energia era inquadrato come funzionario). Un intoppo non di secondaria importanza, visto che Vanni non poteva firmare gli atti da capo di gabinetto del sindaco. In un primo momento, infatti, i provvedimenti sono stati vidimati dal predecessore di Vanni. L’inconveniente è stato sottolineato nella prima seduta del Consiglio comunale da Basilio Rizzo, candidato sindaco per “Milano in Comune”, che ha chiesto come mai ora “si debba istituire un ‘dirigente del gabinetto del sindaco’ che abbia il potere di firma che il capo di gabinetto in carica non può avere”. Come ha risolto la grana Giuseppe Sala? Con una gara ad hoc. Postuma. E sul sito del Comune di Milano alla voce ‘capo di gabinetto del sindaco’ compare un nome: Mario Vanni. Diametralmente opposta, invece, la modalità di scelta del segretario generale del Comune. Si tratta di una nomina – questa sì – obbligatoria, che viene prescritta dalTesto Unico degli enti Locali. Il nome del prescelto va individuato all’interno dell’albo nazionale ad hoc. Lo stipendio?Fissato secondo parametri standard e uguali in tutta Italia. Per questo ruolo, insomma, la politica può poco o nulla.

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Il deputato “comunista” di Sel contro il taglio agli stipendi degli onorevoli: “Non siamo mica metalmeccanici”

http://www.repubblica.it/politica/2016/08/11/news/il_deputato_comunista_di_sel_contro_il_taglio_agli_stipendi_non_siamo_mica_metalmeccanici_-145812854/

Bufera sull’intervento di Arcangelo Sannicandro, ex Pci e Rifondazione, durante la discussione alla Camera: “Non siamo mica subordinati dell’ultima categoria”. Dopo le proteste le spiegazioni: “Non abbiamo né Inps né Inail”

di MATTEO PUCCIARELLI

11 agosto 2016

Il deputato "comunista" di Sel contro il taglio agli stipendi degli onorevoli: "Non siamo mica metalmeccanici"

Arcangelo Sannicandro durante il suo intervento alla Camera 

MILANO – La frase suona doppiamente infelice se messa in bocca a un parlamentare di Sinistra Ecologia e Libertà, per una vita nel Pci e poi in Rifondazione Comunista: “Non siamo lavoratori subordinati dell’ultima categoria dei metalmeccanici! Da uno a dieci noi chi siamo?”. A pronunciarla in aula nei giorni scorsi è stato Arcangelo Sannicandro, avvocato e deputato pugliese, e non in pochi nel suo partito hanno subito rilevato l’inopportunità del paragone per chi, in teoria, è cresciuto a pane e classe operaia (o braccianti agricoli, come nel caso di Sannicandro). Il contesto del suo intervento era la risposta a un ordine del giorno dei Cinque Stelle, i quali chiedevano all’Ufficio di presidenza di ridurre l’indennità di carica dei deputati da 10mila euro lordi a 5mila, al netto dei rimborsi per la diaria e per l’esercizio del mandato: in sostanza, il passaggio da 5mila euro netti a 3.200.

Contro il taglio degli stipendi, l’ex comunista Sannicandro: “Non siamo mica metalmeccanici”

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Tra le altre cose, Sel in parlamento un metalmeccanico della Fiat in carne e ossa l’ha mandato per davvero, cioè il senatore Giovanni Barozzino, a suo tempo licenziato dall’azienda dopo uno sciopero. Senza dimenticare che tra i banchi del partito siede un altro ex leader dei metalmeccanici della Fiom, Giorgio Airaudo.

Insomma, la presa di distanze di “censo” dalle tute blu da parte di un esponente comunista ha creato un piccolo putiferio in Sinistra Italiana, tanto che Sannicandro ha dovuto spiegarsi meglio su Facebook, caldamente invitato a farlo dai compagni di partito: “Tentavo di stabilire alcuni dati essenziali per affrontare il problema dell’indennità di carica dei deputati in modo oggettivo e non demagogico. Ho chiarito preliminarmente una ovvietà che è scomparsa dal lessico e dall’orizzonte culturale di tanti sia a destra che a sinistra, e cioè che i deputati e i senatori non sono lavoratori subordinati né autonomi. E cioè non sono operai, impiegati, artigiani, commercianti o liberi professionisti. Così come dice la Costituzione siamo rappresentanti attraverso cui il popolo esercita la sua sovranità. Se ciò non fosse sufficientemente chiaro, aggiungo che i deputati non sono assicurati né all’Inps e né all’Inail e né ricevono le prestazioni da questi all’occorrenza erogate, né sono inquadrati in un contratto collettivo nazionale”.

In occasione della discussione sul bilancio di previsione della Camera dei Deputati alcuni esponenti del movimento 5 stelle presentarono un ordine del giorno con cui chiedevano all’ufficio di presidenza di ridurre l’indennità di carica dei deputati ( da loro e da tanti altri definita stipendio) da 10.000 euro lordi a 5.000, al netto dei rimborsi per la diaria e per l’esercizio del mandato:in sostanza il passaggio da 5.000 euro netti a 3.200. Per i rimborsi chiedevano di sostituire il sistema in vigore della forfetizzazione con quello della rendicontazione. Il collega Gianni Melilla( Sinistra Italiana) aveva già chiarito che con il sistema della rendicontazione i colleghi del M5s spendevano in buona sostanza gli stessi soldi erogati dalla Camera a tutti i deputati. Analizzando, inoltre, le loro rendicontazioni ( e cioè la somma di scontrini, fatture ecc.) l’on. Gianni Melilla denunziava le cospicue spese sostenute da costoro per taxi, telefono, ristoranti ecc. Al fine di denunziare una delle più grossolane millanterie diffuse dal loro Movimento, chiariva anche come il fondo per l’aiuto alle piccole e medie imprese del Bilancio dello Stato era stato istituito dal governo Prodi e che alla sua dotazione essi avevano contribuito per lo 0,0067. Concludeva comunicando che i deputati di Sinistra Italiana versano mensilmente al partito 3.500 euro trattenendo per sé sulla indennità, non 3.200 come i colleghi del M5S, ma 1.500 euro. Questo è il contesto in cui si è inserito il mio intervento. Tentavo di stabilire alcuni dati essenziali per affrontare il problema dell’indennità di carica dei deputati in modo oggettivo e non demagogico. Ho chiarito preliminarmente una ovvietà che è scomparsa dal lessico e dall’orizzonte culturale di tanti sia a destra che a sinistra, e cioè che i deputati e i senatori non sono lavoratori subordinati né autonomi . E cioè non sono operai,impiegati,artigiani, commercianti o liberi professionisti. Così come dice la Costituzione siamo rappresentanti attraverso cui il popolo esercita la sua sovranità. Se ciò non fosse sufficientemente chiaro, aggiungo che i deputati non sono assicurati né all’Inps e né all’Inail e né ricevono le prestazioni da questi all’occorrenza erogate, nè sono inquadrati in un contratto collettivo nazionale. Premesso che i soldi che riceviamo non sono né retribuzione, né stipendio , né onorario ma correttamente una indennità erogata per 12 mesi( art.69 della Costituzione) per consentire anche a chi non avesse un reddito sufficiente per poter rappresentare i cittadini in Parlamento ho introdotto a questo punto il problema della determinazione della misura della indennità. A tal proposito ho chiarito che la legge aggancia le indennità dei parlamentari, quale vertice della politica, agli stipendi dei massimi vertici della magistratura.
Oggi ,come non è noto, questo legame è stato sospeso e le indennità dei deputati più volte ridotte. E per rispondere alla demagogia di chi sosteneva e sostiene che tutti i deputati vivano di politica e non hanno mai lavorato, perché privi di un mestiere, ho affermato che queste accuse provengono proprio da chi con la politica ha fatto un triplo salto in alto in termini di redditi e status sociale, laddove tanti altri dalla politica non hanno ricevuto alcun beneficio in termini economici. Invito a tal proposito a consultare sul sito della camera le dichiarazioni dei redditi di qualsiasi deputato relative all’anno 2013 e agli anni seguenti. 
In conclusione:
Dopo aver ricordato agli immemori deputati il fatto indiscusso che il parlamento è uno dei tre poteri dello Stato e che la misura delle indennità ne tiene conto ho contestato che l’attività parlamentare venisse classificata al livello di base della contrattazione collettiva, per esempio dei “metalmeccanici o di qualunque altra categoria”. Ricordo a chi lo ignorasse che ogni contratto collettivo, sia pubblico che privato, classifica i lavoratori in diversi livelli professionali e retributivi senza che questo sistema venga ritenuto lesivo della dignità e della libertà dei lavoratori. Né è ritenuto biasimevole chi si opponesse allo svilimento della propria professionalità. Constato amaramente che ai deputati non è concesso neanche questo mentre molto più condivisa è la diffusa opinione che i politici siano la feccia della società. Lontano da me, in definitiva, l’intento di offendere l’ultima categoria dei metalmeccanici. Ho speso una vita al loro fianco, da giovane come sindacalista della più umile delle categorie ed in seguito come amministratore e politico a vari livelli.
Della mia professione di avvocato voglio solo ricordare che è stata esercitata solo e sempre dalla parte dei lavoratori, anche metalmeccanici, insensibile alle lusinghe e non intimidito da pesanti minacce.
Comprendo la malafede e la disonestà intellettuale degli avversari politici,ma mi sorprende la superficialità con cui vengono recepite le strumentalizzazioni da parte di coloro che dovrebbero essere adusi ad avvertirle immediatamente.

On. Arcangelo Sannicandro
Roma 9 agosto 2016

“SIAMO EX DETENUTI, POLIZIA LIBICA CI HA IMBARCATO PER L’ITALIA”: ORA SONO IN HOTEL

http://voxnews.info/2015/04/28/siamo-ex-detenuti-polizia-libica-ci-ha-imbarcato-per-litalia-ora-sono-in-hotel/

Donne e bambini gridano le vedove allegre dei media di distrazione di massa. Detenuti delle carceri libiche, la scomoda realtà.

La polizia libica li ha prelevati a forza dal carcere dove erano rinchiusi e li ha fatti salire su barconi diretti in Italia. Ecco chi andiamo a prendere in tutto il Mediterraneo.

Ismail, Amadi, Dusmane, Mamadi che tra gli altri hanno confidato le loro testimonianze alla giornalista Flavia Amabile de “La Stampa”, vengono da Paesi dove non ci sono guerre né dittature, come la Sierra Leone. In Libia sono stati arrestati, loro non dicono per quale reato – è ovvio – poi, quando le autorità libiche si sono stufate di mantenerli, li hanno imbarcati per l’Italia.

Il resto lo hanno fatto gli scafisti di Stato della Marina o della Guardia Costiera.

Dalle carceri libiche ad hotel a 4 stelle: a spese nostre. ‘Profughi’.

“Tornate a casa vostra”. Quando la sinistra sputava sui profughi istriani

http://www.ilgiornale.it/news/politica/tornate-casa-vostra-quando-sinistra-cacciava-i-profughi-perc-1169028.html

Il Pci non conobbe la parola “accoglienza”. Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L’Unità scriveva: “Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane”

 – Gio, 10/09/2015 – 12:13

“Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mesa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano.

Da un lato della strada un gruppo gridava: ‘Fuori i fascisti da Trieste’, ‘Viva il comunismo e la libertà’ sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito eTogliatti“. Racconta così Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria.

Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947 l’Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistranon conobbe la parola ‘accoglienza’. Tutt’altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei “clandestini” che avevano osato lasciare il paradiso comunista.

Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c’erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. Nel capoluogo emiliano per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero.

Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è davvero l’erede del Pci. La sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica tutto questo. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l’Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l’acccoglienza verso lo straniero che considera un fratello. Quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati. “Sono comunisti. Gridano ‘fascisti’ a quella povera gente che scende dalla motonave (…). Urlano di ritornare da dove sono venuti”.

Non sono le parole di Matteo Salvini. “Tornate da dove siete venuti” era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D’Alema, Berlinguer e Veltroni.

L’Unità, nell’edizione del 30 novembre 1946, scriveva: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi”.

Oggi invocano l’asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciatono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe.

“Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia“.

Sant’Anna di Stazzema, 72 anni fa la strage nazista in cui vennero uccisi 560 civili. Mattarella: “E’ coscienza dell’Italia”

http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/08/12/santanna-di-stazzema-72-anni-fa-la-strage-nazista-in-cui-vennero-uccisi-560-civili-mattarella-e-coscienza-dellitalia/2970999/

Sant’Anna di Stazzema, 72 anni fa la strage nazista in cui vennero uccisi 560 civili. Mattarella: “E’ coscienza dell’Italia”

Il 12 agosto del 1944, reparti di élite delle Ss, aiutati dai fascisti locali, sterminarono la popolazione del piccolo paese della Versilia, ammazzando soprattutto donne, vecchi e bambini. Il capo dello Stato: “Il mio pensiero va alle tante vittime di uno dei più barbari e crudeli episodi consumati contro nostri concittadini inermi durante il secondo conflitto mondiale”
di  | 12 agosto 2016

Uccisero 560 persone in poche ore. Soprattutto donne, vecchi e bambini (leggi). Qualche ragazza incinta venne sventrata con i coltelli. Alcuni neonati vennero lanciati in aria e colpiti dagli spari come si fa al tiro al volo. Altri vennero infilzati con le baionette.Diedero fuoco a cadaveri e case (leggi). L’odore della carne bruciata avvolse tutto. Non ebbero pietà neppure per il prete. In pochi si salvarono (leggi). L’ultimo atto di quell’eccidio venne compiuto nella piazzetta davanti alla casa di Dio, che chissà dov’era quel giorno. Di sicuro non a Sant’Anna di Stazzema. Era il 12 agosto del 1944. Gli autori di quella carneficina facevano parte dei reparti di élite delle Ss. A fargli strada fino al paesino della Versilia furono i fascisti locali. I nazisti volevano dare la caccia ai partigiani: furono in grado solo di ammazzare innocenti colti di sorpresa. Fu una delle più terribili stragi compiute durante l’a ritirata nazista.

In risposta alla procura di Torino: scorretto confondere illegalità e violenza

http://effimera.org/risposta-alla-procura-torino-scorretto-confondere-illegalita-violenza/

effimera

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Durante l’incontro sulla libertà di ricerca svoltosi a Venaus lo scorso giovedì 21 luglio a seguito della condanna di Roberta Chiroli – tema che Effimera ha sollevato e seguito in queste settimane – i ricercatori, gli attivisti, gli studiosi e gli avvocati presenti hanno convenuto di scrivere collettivamente una lettera a La Stampa, chiedendone la pubblicazione. Il testo si intendeva come replica alla lettera aperta di Francesco Saluzzo, Armando Spataro, Alberto Perduca, vale a dire le massime autorità della procura torinese, ospitata qualche settimana prima sul quotidiano di Torino.

Ad oggi, non vi è stata risposta dalla redazione né la lettera è stata pubblicata. Come promesso, la rendiamo dunque pubblica qui e su altri mezzi di informazione libera.

* * * * *

Caro Direttore,

confidiamo che questa nostra lettera possa essere pubblicata  così come aveva in precedenza trovato spazio quella  a firma dei magistrati dirigenti presso la Procura piemontese ( Francesco Saluzzo, Armando Spataro, Alberto Perduca). Vorremmo replicare, per chiarezza, alle argomentazioni proposte.

Giovedì 21 luglio, a Venaus, si è svolto un incontro organizzato dal movimento No Tav, con la partecipazione  (e con la collaborazione) di ricercatori, studiosi, avvocati e docenti  universitari. Effimera ha presentato, durante i lavori, le 2314 firme raccolte in solidarietà a Roberta Chiroli per la condanna ricevuta sulla base della sua presunta partecipazione ad un’iniziativa No-Tav, sottolineando che la prova regina dell’accusa consisteva proprio nella sua tesi di laurea. Scopo dell’appassionata tavola rotonda era il discutere della libertà di ricerca in Italia, quando essa interessa argomenti “sensibili” come movimenti e forma di resistenza sociale.

La notizia della condanna ha suscitato grande preoccupazione nell’ambiente della ricerca universitaria; ad una prima verifica dei fatti e della dinamica del processo è risultato chiaro  che oggetto del processo non fossero tanto comportamenti materiali, ovvero azioni ritenute – a torto o a ragione – illegali; al centro della motivazione della condanna si colloca proprio il testo (il contenuto) della tesi di laurea, dunque e conseguentemente la stessa metodologia scelta per la ricerca che costituiva il corpo stesso della tesi di laurea. Abbiamo appurato che la condanna – per concorso morale , ribadiamo morale – abbandonava la richiesta di condanna per concorso materiale non sostenibile alla luce della documentazione visiva prodotta sia dalla difesa che dall’accusa E il concorso morale era motivato dall’utilizzo di una fondamentale metodologia di ricerca etnografica nota nel mondo come “osservazione partecipante”.

Ricordiamo che anche le quattro associazioni di studi di Antropologia hanno manifestato la loro preoccupazione per la condanna a Roberta Chiroli. Che il giudice e i magistrati inquirenti non conoscano le metodologie della ricerca etno-antropologica è già poco commendevole; vantarsene e fondare sulla non-conoscenza una sentenza di condanna è inaccettabile, crea un danno alla credibilità stessa dell’istituzione. Le motivazioni hanno confermato la lettura critica; e delle motivazioni non si trova traccia nel commento critico proveniente dai vertici della Procura piemontese (inutile polemizzare: questa lettura era l’unica possibile alla luce del processo, vista l’assoluzione della seconda ricercatrice imputata, che non aveva utilizzato lo stesso stile espositivo).

L’accusa dei tre magistrati piemontesi, ovvero di aver formulato l’appello per la liberà di ricerca prima ancora di conoscere le motivazione della condanna appare del tutto pretestuosa ed evanescente. Sono loro piuttosto che intervengono per fatto personale.

La vicenda dimostra inoltre una certa difficoltà della stessa Procura di Torino a far fronte all’ampliarsi delle critiche al modo di operare. Per esempio quella relativa al fatto che non vi sia una distribuzione tra gli uffici competenti dei processi istruiti per quanto riguarda la lotta No-tav (anche per una semplice “resistenza a pubblico ufficiale”, o per “occupazione di suolo pubblico”)  ma che essi vengano d’ufficio assegnati alla sezione “Terrorismo e eversione sociale”. Questa è davvero una pregiudiziale (tecnicamente incomprensibile) che già la dice lunga sulla volontà di risolvere il conflitto sociale con l’uso repressivo del procedimento giudiziario (il diritto penale del nemico, direbbero Livio Pepino e Marco Revelli).  Le piccate reazioni nei confronti di alcuni colleghi dell’ex procuratore piemontese (dal 1968 sino al 2008) Tinti ad alcuni colleghi di MD – Area, rei di chiedere maggior cautela nell’imbastire processi No-Tav al limite del ridicolo, dimostrano la necessità per la (monolitica?) procura di Torino, di avviare,per la prima volta,  una difesa pubblica del proprio operato. Operato, oramai caratterizzato in modo sempre più vistoso da una carica vessatoria e discriminatoria nei confronti degli attivisti No-Tav. Peccato, al riguardo, che il dott. Spataro non abbia ritenuto utile partecipare al dibattito, svoltosi proprio su questi temi, presente anche un suo collega inquirente, Enrico Zucca, di Genova. Presso la Galleria d’Arte Moderna veniva presentato uno straordinario e potente filmato documentario con titolo significativo: “Archiviato”. Era il 5 luglio, verteva sull’impunità dei gendarmi responsabili di violenza alle persone.

Nell’incontro sulla libertà di ricerca, a Venaus, tale deriva autoritaria e giustizialista è stata esaminata con estrema preoccupazione perché va a intaccare anche la stessa attività di ricerca e a condizionarne gli esiti.

La richiesta presentata nella lettera dei tre magistrati tende a eludere la sostanza del problema, con l’artifizio di un invito ad attenersi a  “precisazioni per non creare convincimenti fondati su distorte ricostruzioni dei fatti”. E chi non è d’accordo? Purtroppo tale “scrupolosa attenzione ai fatti” non sembra essere valida per gli stessi inquirenti, come dimostrano diverse inchieste, dove persone che commettono lo steso atto (ad esempio, aver oltrepassato un limite di passaggio) hanno subito trattamenti diversi, a seconda del loro ruolo e dei rapporti con le forze dell’ordine (per esempio, giornalisti liberi o giornalisti “embedded”). Oppure quando una documentazione visiva disconferma senza ogni ragionevole dubbio una versione fornita da un poliziotto o da un carabiniere, ma non viene presa in considerazione. Si preferisce piuttosto convalidare (e sentenziare) solo in danno degli antagonisti, anche contro l’evidenza.

Come un mantra, utile a giustificare la repressione, viene poi richiesto un auto da fe, una condanna acritica e immotivata di qualsiasi violazione della legge, equiparata senza distinzione a mera violenza; un auto da fe chiesto solo alla parte antagonista, mai a quella che detiene il controllo della forza e di fatto il monopolio della violenza.

Non è corretto confondere un comportamento illegale con un comportamento violento. Il movimento non violento (la tecnica di Gandhi) ha sempre praticato la protesta mediante “anche” la violazione della legge. Assumersene la responsabilità sociale, civile e politica nulla ha da spartire con il tema della violenza e, a maggior ragione, con quello del terrorismo. Per dare dignità all’azione repressiva si agitano suggestioni e si chiedono penitenze.

Va allora subito chiarito che in tutte le iniziative NoTav, gli “obiettivi” sono sempre stati i lavori di scasso, le ferite al territorio le recinzioni e l’occupazione militare delle proprietà pubbliche o private (anche del comune). Non le persone. Si tratta quindi di atti di resistenza all’ingiustizia e non di violenza terroristica. A  meno di usare definizioni pseudo giuridiche astratte per l’analizzare un processo sociale e  collettivo come quello del popolo di Valsusa, tali azioni non sono caratterizzate dalla volontà di colpire le persone, né a ottenere vantaggi per chi le esercita.

Sono azioni per e contro le “cose”, e per e contro le “persone”. In gioco sono istanze legittime, riassumibili nel diritto delle popolazioni che abitano in un territorio a rifiutare modifiche non necessarie dell’ambiente di vita, foriere di un apprezzabile degradazione della qualità dell’esistenza (parte integrante, peraltro, dei cosiddetti “diritti di nuova generazione”). Il tribunale dei popoli ha condannato lo stato italiano proprio per questo.

Non è soltanto illegalità (e certamente non è gandhiana) la violenza oggettivamente impunita, ma certa e certamente avvenuta, consumata dalle cosiddette forze dell’ordine (un termine atecnico, gergale, per riunire un corpo smilitarizzato come la polizia a  quello militare come i carabinieri). Le cariche, le ferite, i pestaggi sono violenza, e il tradimento della funzione costituisce, per i militari, concreta eversione. La lettera dei tre magistrati piemontesi contiene la serafica confessione di non aver potuto identificare i colpevoli, dunque la scarsa efficienza dell’apparato inquirente. Ma non abbiamo trovato l’auto da fe dei dirigenti di una procura che ha fallito nello stanare i colpevoli; la presa di distanza dai poliziotti violenti, l’impegno a scoprirli e punirli, la tolleranza zero nel prossimo futuro. A fronte dell’impunità diviene oggettivamente violenta intimidazione anche la condanna a due mesi di reclusione di Roberta Chiroli per concorso morale connesso alla ricerca oggetto della sua tesi di laurea.

Come libera assemblea di ricercatori non ci sfugge affatto che processi sociali collettivi come quelli in Val di Susa possano concretarsi, talvolta, in consapevoli trasparenti azioni simboliche e dimostrative che violano le norme vigenti; ma rifiutiamo che tali illegalità siano definite equiparate alla violenza terroristica. Non è per niente così! Una serena osservazione mostra anzi che non di rado alcuni comportamenti sono in origine dentro il perimetro del giuridicamente consentito, ma ne escono poi in ragione di una gestione (cattiva, malaccorta e miope) dell’ordine pubblico da parte di chi è preposto a tutelarlo nell’interesse di tutti e non solo delle imprese cantieristiche. L’impunità assicurata ai militi violenti (quella documentata in “Archiviato”) è un detonatore che provoca malessere, disagio, qualche volta perfino scontro acceso e violento.

Isolare la violenza? Certo. Ma come? Reprimendo la maggioranza e imponendo con la mannaia della legge il profitto del più forte? Non crediamo. Per questa via la pacificazione, come ebbe a notare il generale De Gaulle parlando d’altro, si rivela per la procura piemontese “un programma vasto”.

I partecipanti all’incontro “Ricerca e movimenti: quando si congiungono scatta la repressione”, Venaus, 21 luglio 2016

Immagine in apertura: “Eclissi di sole” di George Grosz, 1926