Riti voodoo per costringere minorenni a prostitursi, presi due nigeriani e un ghanese

prostitute nigerianema no è solo brava gente che scappa dalle guerre e dalla fame…..che importa se ci sono indagini della DIA che da anni indagano su questi gruppi mafiosi che compiono anche crimini rituali…tutte dicerie. Fortuna che alle femministe antirazziste antifasciste non importa della sorte e della vita di queste ragazze, per giunta straniere. E’ la mafia bellezza.


Arrestati a Lodi 7 nigeriani, tra i quali uno stregone: reclutavano le prostituteDurante un rito, alle ragazze veniva fatto firmare un contratto, in cui si impegnavano ad arrivare in Italia e lavorare fino a restituire 30mila euro

Riti voodoo per costringere minorenni a prostitursi, presi due nigeriani e un ghanese
Tre arresti della polizia in provincia di Caserta, finiscono in manette due nigeriane e un ghanese. L’inchiesta nata dal racconto choc di una minorenne
 
Sotto la minaccia dei riti voodoo costringevano ragazze minorenni a battere i marciapiedi, finiscono in manette due donne di nazionalità nigeriana e un uomo originario del Ghana, a Castelvolturno, in provincia di Caserta.
Il caso è venuto alla luce grazie alla fuga di una 17enne che, scappata dalle grinfie dei suoi aguzzini, ha rivelato il suo calvario agli inquirenti. Giunta in Italia nel 2016, riuscì a “sparire” nell’agosto del 2017, raggiungendo il Nord Italia. Qui ha rivelato ai poliziotti quello che era stato il suo incubo. La giovane ha raccontato di essere stata costretta a prostituirsi dalla “magia nera” praticata dalla maman, la donna che l’aveva “ospitata” in casa sua in Campania. Quando e se si ribellava, però, le minacce diventavano vere e proprie aggressioni fisiche. La “padrona” arrivò, come la giovane ha raccontato agli investigatori, a stringerle le mani alla gola per soffocarla. A condividere la sua sorte, ha raccontato la ragazza, c’erano anche altre due giovanissime che però gli inquirenti non sono riusciti ancora a rintracciare.
 
A dare aiuto alla “maman”, 48enne, c’erano il suo compagno di 32 anni e un’altra donna di 38, il cui ruolo sarebbe stato quello di supervisione sulle ragazze in strada. Doveva, cioé, osservare i comportamenti delle giovani e riferire eventuali problemi e insubordinazioni. Adesso rispondono, a vario titolo e in concorso tra di loro, dell’ipotesi di reato di riduzione in schiavitù pluriaggravata.
 
Gli arresti in Campania confermano che quello della prostituzione continua a rappresentare un affare lucroso e importante che arricchisce le cosche criminali africane.
Giovanni VassoGio, 15/02/2018 – 10:46

Licenziati per aver chiesto la busta paga

saranno stati i fascisti che cancellano e negano diritti….
 

Palermo, 9 feb. (AdnKronos) – Licenziati per aver preteso la busta paga dai loro datori di lavoro, una società di imprenditori cinesi. E’ accaduto a cinque palermitani che lavoravano, nei primi tempi in nero, per un centro commerciale di Bagheria (Palermo) gestito da una società cinese. Dopo un controllo della Guardia di finanza sono stati messi in regola e quando hanno chiesto di poter ricevere la busta paga effettiva sono stati licenziati. Il Tribunale del lavoro di Termini Imerese, con diverse sentenze, nel 2017 ha dichiarato nulli i loro licenziamenti, ha ordinato la loro reintegra e ha condannato l’azienda a pagare le retribuzioni maturate. Con le sentenze, la società è stata condannata a reintegrare i lavoratori nei rispettivi posti di lavoro e a pagare loro le retribuzioni maturate. I lavoratori hanno richiesto il pagamento in loro favore di una somma pari a 15 mensilità in sostituzione della reintegra. L’azienda non ha mai corrisposto ai lavoratori quanto stabilito dal Tribunale e per tale motivo alcuni di questi hanno avviato delle procedure esecutive contro la società, effettuando dei pignoramenti. “La battaglia che abbiamo condotto a fianco di questi lavoratori è stata in primo luogo per la difesa del sacrosanto diritto a un lavoro equamente compensato e retribuito – dicono il segretario della Cgil Palermo Enzo Campo e l’avvocato Pietro Vizzini – Occorre mantenere alta la guardia per contrastare il mancato rispetto delle leggi in materia di sicurezza, di diritti del lavoratore e di tutela ambientale, che consentono a un’impresa di ridurre i costi di produzione e, quindi, di vendere le proprie merci a prezzi molto più bassi di quelli di mercato”.

“Pagati 33 cent all’ora”, il call center della vergogna

call-centersono le meraviglie del progresso, della flessibilità di cui i mercati necessitano, le meraviglie delle prescrizioni europee fatte per far crescere i paesi…..Ci si può indignare quanto si vuole, fatto sta che il job act, abrogazione art 18, legge Biagi ed altre leggi furto l’hanno reso legale.

“Pagati 33 cent all’ora”, il call center della vergogna

Uno stipendio di 92 euro al mese, circa 33 centesimi all’ora, e decurtazioni ai pagamenti del corrispettivo di un’ora di lavoro per chi andava 5 minuti al bagno o arrivava con 3 minuti di ritardo. E’ quanto emerge da una denuncia della SLc Cgil di Taranto, riguardo un call center.

Sulla carta l’offerta era allettante: il call center di Taranto avrebbe offerto ai lavoratori circa 12mila euro all’anno, la realtà però “non solo era differente – spiega Andrea Lumino, segretario generale di SLc Cgil Taranto -, ma superava di gran lunga la più macabra immaginazione”.

I lavoratori impiegati nel call center da metà ottobre a dicembre si sono licenziati dopo “il primo allucinante bonifico di appena 92 euro per un intero mese di lavoro”, si legge in una nota del sindacato. “Alle loro rimostranze, l’azienda ha risposto che se per 5 minuti si lascia il posto per andare al bagno si perdeva una intera ora di lavoro. Anche per un ritardo di tre minuti l’azienda non riconosceva alle lavoratrici la retribuzione oraria”.

Il segretario generale di SLc Cgil Taranto ha annunciato che i legali del sindacato stanno valutando “la possibilità di collegare questa situazione alla legge contro il caporalato”. Subito dopo la conferenza stampa, si legge nel comunicato, è stato preparato un esposto denuncia dei lavoratori e del sindacato da inviare alla Procura della Repubblica, al Sindaco, al Presidente della Provincia e al Prefetto.

Pubblicato il: 19/12/2017 17:39

http://www.adnkronos.com/soldi/economia/2017/12/19/pagati-cent-all-ora-call-center-della-vergogna_381JfhzZ1382HRE83i0ZQM.html

 

Astigiano assunto per 1,95 ore a settimana “Una vergogna, ma è l’unico contratto che ha”

ma come, con tutti i “lottatori per il popolo”, per la solidarietà, per i diritti degli ultimi che polettici governano e che abbiamo nelle istituzioni come mai siamo a questi punti? Sarà colpa di casa pound, dei populisti e di chi minaccia questa splendida democrazia? Ma gli italiani non erano choosy? Se si può campare lavorando 2 ore a settimana per quelle cifre corrispondenti, perché non ci campano i nostri governanti mostrandoci come si fa?


Negli ultimi 10 anni il lavoro precario ha registrato un incremento del 45,5%
È l’unico lavoro che ha, dopo mesi di disoccupazione, e non può certo permettersi di perderlo. Quindi sceglie l’anonimato, ma non davanti al sindacato al quale denuncia «le condizioni vergognose» che ha dovuto accettare
 
Il «monte ore»
 
Il contratto che gli è stato proposto da una grande azienda astigiana prevede un impiego nel settore dei servizi per 1,95 ore a settimana per un totale di 8 ore e 44 minuti al mese. Nessun arrotondamento: si lavora per tre giorni a settimana, per 65 minuti a giornata. Non un minuto in più, nè uno in meno. «Ha firmato il contratto perchè è l’unica offerta che si è concretizzata dopo mesi di ricerche – spiega il segretario generale Nidil Cgil Asti, Giorgia Perrone -. Ci ha detto che sperava anche le ore potessero aumentare, prima o poi. Ma ad oggi così non è stato. Il contratto è stato prorogato, ma il monte ore è rimasto lo stesso, purtroppo».
Il «micro lavoro»
tabella paghe minime
Si chiama «micro lavoro» ed è la nuova frontiera del precariato. Quando la domanda supera l’offerta, si è disposti ad accettare qualunque impiego a qualunque condizione pur di scrollarsi di dosso il peso della disoccupazione.
«Questo non è l’unico caso del genere che ho dovuto trattare – aggiunge Perrone -. Ad Asti come in altre parti d’Italia. Soprattutto nell’ultimo periodo assistiamo ad un moltiplicarsi di questa forma di lavoro disumana in cui la persona è chiamata ad esercitare pratiche di vita estreme per arrivare alla fine del contratto di lavoro, per quanto indecente questo possa essere».
Una recente indagine dell’università di Oxford ha mappato il microlavoro nel mondo. I Paesi con la più alta concentrazione di microlavoratori sono Filippine, India, Bangladesh e Pakistan. «Come fare a pagare l’affitto, le bollette, con 8 ore e 44 minuti al mese? – chiede Perrone – siamo in presenza di condizioni di lavoro disumane in cui la persona è chiamata ad accettare condizioni di vita estreme per arrivare alla fine del contratto di lavoro. Chi si affaccia ora al mondo del lavoro, così come chi ci si ritrova improvvisamente dopo 20-30 anni di servizio, può trovarsi a dover valutare queste offerte indecenti».
 
Qualche dato
« Proprio oggi (ieri, 10 dicembre, ndr) sono stati pubblicati i dati sul lavoro precario della Fondazione Di Vittorio – aggiunge Perrone –. Sono 4 milioni 492mila gli italiani che si trovano nella cosiddetta area del disagio occupazionale (vale a dire coloro che in modo involontario svolgono un lavoro temporaneo o a tempo parziale), con un incremento del 45,5% rispetto al 2007». Il più alto degli ultimi dieci anni.
Pubblicato il 12/12/2017 Ultima modifica il 12/12/2017 alle ore 17:39 laura secci
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Il cannibalismo che piace

Ad agosto gli “espropriati” ossia latifondisti bianchi “ex” coloni  “chiedono” di essere risarciti della terra non proprio loro, allo Zimbawe dove Mugabe attuò la riforma agraria. Nell’ultimo mese, coincidenza, la stampa “che sta dalla parte degli ultimi” , intensifica le accuse contro il socialista patriota Mugabe con il solito corollario di storie che si attribuiscono ai “dittatori” (quelli che non ci stanno a farsi cannibalizzare dalle companies) , genocidio, arricchimento personale (eh già, mica come i nostri landgrabbingrappresentanti europei ed occidentali che si tolgono il pane di bocca per sfamare i disoccupati ed indigenti) fino ad arrivare al modo “stravagante” di vestirsi, manco fosse reato. Ed ora che Mugabe si è dimesso ( e chissà chi c’era ad operare sul campo per sobillare le folle) quelle terre scommetto rimarranno di proprietà dei 4100 “agricoltori” stranieri.
 
Tutta la stampa sostiene che questa riforma abbia peggiorato la distribuzione delle risorse agricole, ma perché gli “agricoltori bianchi” coltivavano la terra quasi a gratis solo per il gusto di sfamare gli indigeni?? SOTTO L’ART SUL LAND GRABBING CHE STA PER CANNIBALIZZARE IL MOZAMBICO, ALTRI DETTAGLI SUL “MOVENTE” CHE HA TRASFORMATO MUGABE NEL MOSTRO per la stampa occidentale tanto tanto “filantropa”. Può essere che Robert Mugabe non sia uno stinco di santo, difficilmente chi lotta per la liberazione del proprio popolo (almeno vale solo per la storia dell’occidente??) lo abbia fatto a tavolino giocando a carte, ma scusate se non credo ad una parola delle accuse rivolte a chi la stampa su ordine del potere trasforma in mostro, ci hanno mentito troppe volte, SEMPRE.
 
Le big companies espropriano, loro scappano (quelli che hanno i soldi per farlo) ed approdano in Italia, dove li “risarciamo” (appunto, i più “ricchi” che possono permettersi un “biglietto”, quindi una esigua parte) con i nostri soldi del danno subìto. Geniale, chapeau, maledetta elite. Profitto doppio.
Mozambico: land grabbing per la carta
Un progetto colossale: trasformare vaste aree dell’Africa in piantagioni per la produzione di carta. Sembra un vecchio sogno coloniale nel cuore del Mozambico, ma è storia di oggi. Dietro c’è la portoghese “The Navigator Company” e la sua filiale locale Portucel Mozambique. Le associazioni locali sono profondamente preoccupate per gli impatti sui mezzi di sussistenza delle popolazioni locali e sulla biodiversitàIl progetto ha già creato enormi danni, con numerose famiglie di contadini forzate a cedere la propria terra o convinte a transazioni-truffa da intermediari senza scrupoli, e ora si ritrovano senza mezzi di sostentamento. Anche le restanti aree di foresta asciutta (Miombo) sono in pericolo, poiché una parte di esse sarà convertita in piantagione, mentre le restanti saranno sottoposte alla pressione di contadini rimasti senza terra, o senza foreste in cui raccogliere legna o altri prodotti.
 
Un rapporto, “A Land Grab for Pulp” (land grabbing per la cellulosa – Il rapporto in inglese (PDF), lo potete scaricare QUI ) è stato pubblicato dall’Environmental Paper Network, assieme ad associazioni del Mozambico e del Portogallo, e spiega esattamente dove si svolge l’accaparramento di terra e include testimonianze di contadini che hanno perso la terra da cui dipendono per la sussistenza, in cambio di lavoro a breve termine (come arare il proprio stesso orto, per poi essere licenziati) e ora debbono cercare terra in luoghi remoti. Il rapporto mette in dubbio se sia stata effettuata una autentica consultazione delle popolazioni sotto impatto (sulla base del principio del consenso previo e informato). Il rapporto analizza anche i rischi e gli impatti ambientali del progetto, che convertirà l’habitat forestale e la biodiversità del Miombo in piantagioni monocolturali.
17.11.2017
Zimbabwe: proprietari bianchi chiedono “giustizia e risarcimenti” per riforma agraria
Harare, 22 ago 2017 – (Agenzia Nova) – I proprietari bianchi che hanno perso i propri terreni agricoli a seguito della controversa riforma agraria lanciata nel 2000 dal presidente dello Zimbabwe, Robert Mugabe, hanno avviato una “iniziativa legale” per ottenere “giustizia e risarcimenti”. Lo riporta il quotidiano locale “New Zimbabwe”. Gli agricoltori sono sostenuti da un gruppo sudafricano per i diritti civili, AfriForum, che ha sollevato il caso davanti alla Comunità di sviluppo dell’Africa australe (Sadc). Nella petizione presentata si legge che l’avvio del procedimento è stato già notificato al presidente Mugabe e a tre ministri del governo di Harare.
Solo la scorsa settimana, in occasione delle celebrazioni della Giornata degli eroi, il presidente Mugabe ha dichiarato che i cittadini che a seguito della riforma agraria dello Zimbabwe hanno ucciso proprietari terrieri bianchi “non dovrebbero essere processati”. “Non porteremo mai davanti alla giustizia chi ha ucciso coloro che si sono opposti alla riforma. Continuo a chiedermi perché dovremmo arrestarli”, ha affermato il capo dello Stato di Harare. Parole che non hanno mancato di scatenare un vespaio di polemiche, in particolare sui social network, dopo un periodo in cui a chiedere le dimissioni del 93enne Mugabe, intenzionato a candidarsi anche alle prossime elezioni presidenziali, era stata messa in dubbio persino da veterani del partito al potere, lo Zanu-Pf.
La riforma agraria voluta da Mugabe ebbe inizio nel 2000 con la confisca di terreni a circa 4 mila proprietari bianchi, cui era rimasto il controllo delle migliori terre coltivabili del paese anche dopo la fine del processo di decolonizzazione. In seguito, lo stesso capo dello Stato avrebbe ammesso il fallimento della riforma, che secondo gli osservatori sarebbe alla base della profonda crisi economica tuttora attraversata dallo Zimbabwe. “Credo che abbiamo dato troppi terreni alla nostra gente. Non sono in grado di gestirli”, avrebbe dichiarato Mugabe nel 2015. (Res)
estratto da un art del 2010 de Il Giornale Zimbabwe, il 40% delle terre dei bianchi agli amici di Mugabe
Gli espropri hanno favorito l’elite vicina al dittatore, beffati i neri poveri che secondo la propaganda di regime dovevano trarne vantaggio.Una «nuova elite nera di circa 2.200 persone, controlla – ha scritto l’agenzia – quasi la metà delle terre più redditizie espropriate a circa 4.100 agricoltori bianchi».  Prima del 2000, data di inizio della campagna di espropri forzosi – scrive l’agenzia – 4.500 membri della Commercial farmers’ Union, in prevalenza bianchi, e 1.500 altri agricoltori bianchi non affiliati possedevano quasi 15 milioni di ettari delle terre migliori del Paese dell’Africa australe. Dieci anni dopo, ne rimangono meno di 400.
quindi sarebbe normale che ci siano 4100 “agricoltori” bianchi in una terra che non è loro?  e difatti in un art del TIcino on line datat 24.06.2002 li chiama con il loro nome: latifondisti
Zimbabwe: riforma agraria, scade ultimatum per latifondisti
HARARE – Ancora il problema agrario in primo piano in Zimbabwe: per quasi 3.000 latifondisti bianchi scatta a mezzanotte il divieto di continuare a sfruttare la loro terra, ma molti di essi sono pronti a contravvenire all´ordine che causerebbe la perdita di tonnellate di raccolto.
L´ordine di interrompere la coltivazione dei latifondi è l´ultimo tentativo, da parte del governo del presidente Robert Mugabe, nell´annosa battaglia per ´sequestrare´ la terra ai bianchi e redistribuirla alla popolazione nera. Una mossa necessaria, secondo il governo, per riequilibrare la situazione iniqua creata durante il periodo coloniale.
Il governo di Mugabe ha emendato la legge sull´acquisizione della terra il 10 maggio, ordinando ai latifondisti proprietari di terra destinata all´esproprio di fermare qualsiasi attività entro 45 giorni. Essi dovrebbero evacuare le rispettive proprietà entro il 10 agosto.
In base alla legge, un proprietario terriero rischia fino a due anni di prigione e/o una multa se non cessa, dalla mezzanotte di oggi, ogni lavoro relativo all´azienda. Negli ultimi due anni i sostenitori di Mugabe hanno lanciato più volte violenti attacchi alle proprietà dei latifondisti facendo precipitare il paese nel caos, ma la scottante questione della redistribuzione della terra non è ancora stata risolta.
D´altra parte, obietta una portavoce dell´Unione dei proprietari terrieri, in questo modo verrebbe compromesso un raccolto di cereali, cruciale per il prossimo inverno, in un paese che già deve far fronte a una grave crisi alimentare.
un pò di coreografia, un genocidio con la collaborazione dell'”esperto” dittatore koreano
Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe dal 1987, attualmente detenuto dall’esercito, oltre che il capo di Stato più anziano del mondo (ha 93 anni), è anche uno dei più controversi. A renderlo discusso non sono però solo le violazioni dei diritti umani dei quali è accusato e lo stato pietoso nel quale ha ridotto l’economia del Paese, celebre per l’iperinflazione da Repubblica di Weimar, ma anche le colorite dichiarazioni, i lussi da satrapo e il pittoresco abbigliamento, (quando non è in giacca e cravatta, sembra un incrocio tra una star del rap e un gangster dei bassifondi). È anche per queste bizzarrie che Mugabe, pur non essendo altrettanto sanguinario, entrerà nella storia, a fianco di Bokassa e Idi Amin, come uno degli autocrati più improbabili e stravaganti che abbiano funestato l’Africa.
Ha utilizzato istruttori nordcoreani per la pulizia etnica
Nel 1983, quando Mugabe ancora era primo ministro, il governo di Harare scatenò un massacro durato anni nei confronti dei cittadini di etnia Ndebele, i discendenti degli Zulu che vivevano in quelle terre. Si calcola che i civili uccisi furono 20 mila, sterminati dalla temutissima Quinta Brigata dell’esercito dello Zimbabwe, addestrata da 106 istruttori nordcoreani dei quali Mugabe aveva chiesto appositamente l’invio all’allora dittatore nordcoreano Kim Il Sung. Altre migliaia di persone finirono nei campi di concentramento
di FRANCESCO RUSSO 15 novembre 2017, 17:12
tratto da

L’ossessione delle coop? Dare lavoro ai migranti

migranti al lavoroci devono pagare le pensioni così che poi noi ce la spassiamo alle Maldive. Per questo i corsi di formazione non li fanno per i ragazzi italiani, poi sono choosy. I giovani migranti si accontentano di meno, quando non devi pagare bollette vitto e alloggio è più facile però-
L’ossessione delle coop? Dare lavoro ai migranti
 
Milano 26 Luglio – Proponiamo i falsi miti buonisti di una sinistra che conosce solo ideologie, analizzati con severità e rigore in un articolo di Giuseppe De Lorenzo su Il Giornale.
“Il Financial Times, autorevole organo del capitalismo occidentale, aveva avuto il coraggio di scriverlo qualche anno fa: i flussi migratori abbasseranno i salari.
E lo stesso sosteneva il politologo francese Henri Hude: “O si delocalizzano i posti di lavoro che costano troppo, o si fanno venire dei lavoratori che si potranno pagare di meno”. Semplice e lineare.
Non tutti però sono d’accordo. Il partito del “gli immigrati ci pagano le pensioni” non credono che l’afflusso di migranti possa provocare danni al mercato del lavoro in un Paese dove 37 giovani su 100 non hanno un impiego e l’11% non gode di uno stipendio mensile. E così l’attenzione sovente si concentra sulle opportunità da dare ai richiedenti asilo ospitati nelle strutture di accoglienza anziché ai disoccupati italiani.
 
I profughi in mezza Italia vengono stati usati dai Comuni per le attività più variegate: pulizia dei giardini, servizio di pedibus per i bambini dell’asilo, volontariato e via dicendo. Tutto con la complicità delle cooperative sociali che li hanno a carico. Ben contente di trovargli pure un’occupazone (magari nelle loro fila).
 
L’ultimo caso viene da Oderzo, paesino in provincia di Treviso. Qui il sindaco leghista Maria Scardellato ha criticato aspramente la decisione di una società locale di offrire i propri ospiti alle aziende per uno stage da 400 euro al mese. “Migranti usati come schiavi dalle cooperative”, ha detto il primo cittadino.
 
A lasciare di stucco, infatti, è la missiva spedita dall’associazione alle aziende locali in cui emerge a pieno ciò che i buonisti non vogliono vedere. “Si tratta di ragazzi gentili, umili, volenterosi, con ottima resistenza fisica e che non avanzano alcuna pretesa dal punto di vista retributivo, professionale o di turnazione”. Chiaro, no? “Nessuna pretesa retributiva”. Perché allora pagare salario, contributi e tasse per un italiano in fila alle agenzie interinali quando c’è chi si accontenta di molto meno? “Capiscono e parlano italiano – scrive la coop – ed inoltre sono iscritti a Garanzia Giovani Veneto, oltre che al centro di impiego. Il progetto Garanzia Giovani dà la possibilità alle aziende di assumere i ragazzi tramite un contratto di stage (per la durata minima di 3 mesi) con una retribuzione di 400 euro al mese. Già alcuni dei nostri ragazzi sono stati inseriti in aziende del territorio. Hanno tutti i documenti in regola per lavorare (permesso di soggiorno e codice fiscale)”. Non l’ha presa molto bene l’assessore regionale al Lavoro del Veneto, Elena Donazzan (Fi).
“Il progetto si rivolge esclusivamente ai residenti in Veneto ed è uno strumento che abbiamo messo in campo per aiutare i nostri ragazzi in cerca di occupazione, non certo per simili iniziative”. Non è la prima volta, però, che le associazioni impegnate nell’accoglienza cercano di sfruttare le maglie delle leggi italiane per trovare un impiego ai profughi.
A ottobre del 2016 il responsabile di Legacoopsociali Emilia-Romagna, Alberto Alberani, aveva proposto al governo di iscrivere i migranti al Servizio Civile Nazionale per poi farli sfacchinare nelle coop a spese dello Stato.
L’idea era quella di far firmare ai richiedenti asilo un contratto di 12 mesi con un impegno settimanale dalle 24 alle 36 ore. Lo stipendio mensile doveva ammontare a 14,46 euro netti al giorno, che al mese fanno 433,80 euro. Più o meno la stessa cifra ipotizzata dalla società triestina per gli stage di chi “non ha pretese retributive”. Alla faccia degli italiani che vorrebbero conservare il diritto ad una vita dignitosa.
 
Per carità: la legge prevede che gli immigrati dopo due mesi in Italia possano iniziare a lavorare qualora trovino un impiego. Spesso finiscono col bighellonare tutto il giorno nei centri di accoglienza, lautamente coccolati a spese dei contribuenti. Ma c’è anche ci ha pensato di farne un altro uso. La cooperativa Versoprobo di Vercelli, per esempio, a marzo decise di utilizzare i propri ospiti per le opere di ristrutturazione di un hotel dove avrebbe voluto aprire una nuova struttura per profughi. I migranti scaricarono il camion senza compenso o contratto e così in qualche modo l’azienda risparmiò sui costi di ristrutturazione risparmiandosi la fatica, e l’onere, di pagare regolarmente un operaio. Magari italiano. Di quelli che “non vogliono fare più quei mestieri”.

Operai precari contro i garantiti. In fabbrica la guerra tra poveri

composadeccola la democrazia tutto diritti e libertà da preservare da populisti e la “minacciosa” Casapound. Non c’è niente da fare, inutile ribadire che il dumping sociale innescato ed inasprito introducendo manodopera a basso costo dai paesi stranieri DANNEGGIA ANCHE I LAVORATORI MIGRANTI, sei razzista lo stesso. Viene il dubbio che chi obietta urlando al razzismo ABBIA MOLTO A CUORE GLI AFFARI di questi prenditori.

Operai precari contro i garantiti. In fabbrica la guerra tra poveri

Mantova, i lavoratori in esubero delle cooperative bloccano l’ingresso dell’azienda. Gli altri dipendenti protestano e scoppia la rissa. La polizia usa i lacrimogeni
Lunedì scorso la tensione alla Composad di Viadana ha raggiunto l’apice ed è intervenuta la polizia
Ci sono 6 indiani, un pakistano e un marocchino. Stanno sul tetto di un capannone di un’azienda da lunedì scorso. Hanno perso il lavoro con una cooperativa che gestiva il reparto imballaggi. Boulediem Aburradia è il marocchino. Ha un cappello di paglia per ripararsi dal sole che non serve a niente quando piove: «Mi hanno detto che sono un esubero. Io sono solo uno che vuole lavorare. Sono in Italia da 11 anni. Per 10 ho lavorato qui dentro. E da qui non me ne vado». All’inizio quelli che avevano perso il posto erano 271. Una parte – 150 a tempo determinato, altri 50 con contratto a termine di 3 mesi – sono rientrati in azienda con un’altra cooperativa. Chi è rimasto fuori è salito sul tetto per protesta. Oppure staziona davanti a questa azienda in un presidio permanente che va avanti da 4 settimane, in un vialone tutto capannoni vicino a Viadana che è vicina Mantova dove adesso sono in fila sedie di plastica e tendoni e una cucina da campo.
Ci sono 200 operai italiani. Stanno dentro questa azienda con la camionetta della polizia sulla porta. Vogliono lavorare e hanno paura di perdere il posto. Il reparto imballaggi è quasi fermo. Lunedì quelli di fuori non facevano entrare i camion. Allora sono usciti quelli di dentro. Poi è arrivata la polizia. Tutti hanno spintonato tutti. La polizia ha usato i lacrimogeni. Giuliano Grossi del reparto Logistica e spedizioni lavora qui dentro da 15 anni. Dice che non si può avere paura di andare a lavorare. Dice che la paura più grande è non avere più il lavoro: «Siamo in difficoltà con le commesse esterne. Bisognava continuare a trattare. Le cose non si risolvono andando sui tetti o facendo i presidi, facendosi scudo di donne e bambini. Noi che lavoriamo qui dentro siamo loro ostaggi. Siamo impotenti nel tutelare il nostro posto di lavoro con il rischio di perderlo».
 
C’era una volta la lotta di classe. Adesso c’è la lotta «nella» classe. Tutti contro tutti alla Composad di Viadana che dicono sia un bel posto dove lavorare anche se si fanno i turni di 24 ore e le macchine a controllo numerico non si fermano mai. Fanno mobili in kit e li vendono in tutto il mondo. Li fanno proprio qui dentro anche se poi li vendono all’Ikea, alla Leroy Merlin, nei Brico center, nei centri commerciali francesi della Conforama e pure ai giapponesi di Smile. A sentirli, quelli di dentro e quelli di fuori, hanno le stesse preoccupazioni e dicono le stesse cose. Perchè la lotta «nella» classe non è tra gli operai e i padroni come si faceva una volta. Adesso è tra gli operai garantiti e gli operai precari, tra i dipendenti e gli esternalizzati. Anche se nessuno lo dice apertamente è pure tra gli italiani e gli immigrati, anche se oramai parlano il dialetto mantovano meglio dei mantovani che non lo parlano più.
 
Dietro a questo pasticcio ci sarebbe una storia di appalti e commesse, di cooperative che si ritirano e poi perdono la gara, di consorzi che si fanno e si disfano. All’inizio i lavoratori interinali facevano capo alla Viadana Facchini. Che poi ha perso l’appalto vinto dalla Clo di Milano. La Clo di Milano allora si è alleata con la Viadana facchini e ha costituto la 3L per avere i facchini di prima ma più di 200 non ne voleva. Si sono messi di mezzo i sindacati. Tutti hanno firmato l’accordo meno quelli del Cobas. Stefano Re dei Cobas non ha firmato: «Da qui non ci spostiamo fino a che non abbiamo rassicurazione che tutti rientrino in azienda». In realtà ci sarebbe pure altro. Gli stipendi di maggio non sono stati pagati dalla cooperativa. E non ci sono garanzie sulle buone uscite di chi decidesse di cercare un altro lavoro.
 
Fallou Diao ha 50 anni, è arrivato dal Senegal che ne aveva 19, un posto di lavoro ce l’aveva e non capisce perchè non può più riaverlo: «Ho guidato il carrello per 10 anni al reparto imballaggi. 1200 euro al mese. Perchè non vado più bene?». Quelli di fuori dicono che gli «scartati» sono i più sindacalizzati. Quelli di dentro dicono che non si possono riportare in fabbrica chi va sui tetti o i 35 che sono stati denunciati dalla polizia negli spintonamenti di lunedì. Alessandro Saviola, presidente del Gruppo Mauro Saviola che controlla Composad, nella vicenda ci entra di striscio ma dice le stesse cose dei lavoratori di dentro: «Non ne possiamo più, noi vogliamo soltanto lavorare. Lo Stato non ci tutela». Le identiche parole, uguali alla sillaba di Rani Saroj, indiana del Punjab, oramai talmente mantovana che tutti chiamano Emma: «Sono in Italia da 13 anni. Da 7 lavoro con la cooperativa per 980 euro al mese. Anche mio marito lavorava con la cooperativa e lo hanno messo fuori. Abitiamo a Dosolo con i nostri 2 figli. Non facevamo nemmeno i turni insieme. Adesso ci hanno detto che forse solo uno di noi due potrà rientrare in fabbrica. Chissà come ci sceglieranno?».
30/06/2017 alle ore 07:05
 
fabio poletti
inviato a viadana (mantova)

“Noi costretti in tribunale gratis”. Salta il rimborso dei praticanti Previsti solo 400 euro al mese. Per 1300 tirocinanti saltano pure quelli

gratis picchia testaitaliani, PROPRIO CHOOSY VERO? Sarà colpa di Casa Pound se i diritti qualcuno li ha venduti. La democrazia che va preservata dai “populisti” eccola qua
“Noi costretti in tribunale gratis”. Salta il rimborso dei praticanti Previsti solo 400 euro al mese. Per 1300 tirocinanti saltano pure quelli
 
Per migliaia di giovani laureati a pieni voti, diciotto mesi negli uffici giudiziari italiani sono un’esperienza formativa straordinaria, ma a perdere .
Per i malanni della giustizia italiana, stretta tra carenza cronica di organico e lo smaltimento di circa tre milioni e mezzo di fascicoli di arretrato, i tirocinanti sono una risorsa preziosa. Peccato però non valga il contrario: per migliaia di giovani laureati a pieni voti, diciotto mesi negli uffici giudiziari italiani sono un’esperienza formativa straordinaria, ma a perdere. Di ricevere uno stipendio, neanche a parlarne. Ma c’è di peggio: a sorpresa è saltata pure la borsa di studio.
 
Il tirocinio in tribunale è una delle possibili strade, con la scuola di specializzazione e il titolo di avvocato, per sostenere il concorso di magistratura: si tratta di affiancare un giudice per 18 mesi, assistere alle udienze e aiutarlo nella stesura dei provvedimenti. Sulla carta, i tirocini previsti dal cosiddetto Decreto del Fare del 2013 hanno l’obiettivo di «migliorare l’efficienza del sistema giudiziario» e sono destinati ai laureati con meno di 30 anni e un voto di laurea superiore a 105. In pratica, da lunedì al venerdì e per un minimo di sei ore al giorno, il piccolo esercito di tirocinanti aiuta ad alleggerire la mole di lavoro dei giudici. Nel 2015 il ministero della Giustizia decise di prevedere un rimborso spese di 400 euro al mese, da distribuire sulla base del reddito delle famiglie, stanziando un fondo di 8 milioni di euro.
Anche se con grande ritardo, oltre 1500 volenterosi, cioè tutti i tirocinanti, sono stati rimborsati. Portare gli aspiranti magistrati nei tribunali italiani si è rivelato un’idea azzeccata, tanto che nel 2016 le richieste di tirocini da parte dei tribunali italiani sono più che raddoppiate. Ma le risorse per pagare le borse di studio sono rimaste le stesse.
Così la settimana scorsa 1300 dei 4mila volenterosi hanno scoperto che dal ministero non riceveranno nemmeno un euro, perché esclusi dalla graduatoria stilata sul reddito delle famiglie. «Ad aprile ho concluso i diciotto mesi, mi aspettavo circa 7mila euro, ma alla fine ne ho ricevuti solo 1200 per il 2015 – racconta Elena Cante, 27 anni, barese laureata a pieni voti alla Cattolica di Milano -. A luglio tenterò il concorso di magistratura, ho svolto il tirocinio in contemporanea con la scuola di specializzazione. Tutto a spese della mia famiglia, e ritengo sia una grave ingiustizia: siamo trattati come studenti, anche se non lo siamo più da un pezzo».
 
La graduatoria pubblicata la settimana scorsa ha escluso poco meno della metà dei partecipanti sulla base dell’Isee, calcolato per le prestazioni erogate per il diritto allo studio universitario. Nessuno di loro però è uno studente, tanto è vero che per il fisco la borsa è equiparata alle retribuzioni da lavoro dipendente.
Per protestare, i ragazzi hanno creato un gruppo su Facebook e scritto una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando. «È assurdo che lo Stato, che impone ai liberi professionisti e alle aziende di retribuire i propri stagisti, anche solo sotto forma di rimborso spese, sia il primo a non rispettare i suoi obblighi – scrivono i giovani e beffati tirocinanti -. Le nostre proposte sono tre: un ulteriore stanziamento dei fondi, una redistribuzione delle risorse o l’accesso a numero chiuso, anche se andrebbe contro l’interesse di tutti. Lo chiediamo perché il lavoro è lavoro, e va pagato».
 
«Non si tratta di una sorprendente vicenda isolata – commenta Claudio Riccio, esponente del comitato nazionale di Sinistra italiana, che ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda -. Dai volontari dell’Expo agli scontrinisti della Biblioteca nazionale di Roma, c’e un’intera generazione a cui viene chiesto di lavorare grati in nome dell’esperienza, del sacrificio e di un rigo in più sul curriculum». «Non ci sono orari prestabiliti, non dobbiamo timbrare il cartellino, tanto per capirci – racconta Daniele Labianca, 25 anni, tra i tirocinanti senza rimborso del tribunale di Foggia -. Anche lavorando come praticante avvocato la storia è la stessa: la regola in Italia è il praticantato gratuito. Per chi cambia città, ci sono pure le spese di vitto e alloggio, sempre e solo a carico dei genitori. Anche se sei laureato bene e in tempo, preparato e disposto a sacrificarti, dopo la laurea in giurisprudenza soldi non se ne vedono mai». NADIA FERRIGO
TORINO

“Eliminare la vita se troppo costosa”: ecco chi è Jacques Attali, maestro di Macron

Macron Attalil’eugenetica politically correct si basa su criteri economici quindi intoccabili, parola di filantropi. Basta dire anti fa ED IL GALOPPINO DELL’ELITE è SERVITO.

Sei povero? EUTANASIA. Magari con fattura inviata ai parenti, ovvio.


La Commissione Attali e l’Italia del 2008, nessuna sorpresa sul programma tanto caro alle sinistre europeiste
 
Parigi, 30 apr – Studi in ingegneria all’École polytechnique, dottorato in science economiche e specializzazione all’Ena, l’École nationale d’administration dalla quale escono i più importanti dirigenti della pubblica amministrazione francese. Il curriculum di Jacques Attali, è di tutto rispetto, con un cursus honorum che dopo numerose esperienze anche all’Eliseo l’ha portato, oggi, ad essere professore di economia all’Università Paris IX – Dauphine.
Attali è anche l’uomo che ha ‘scoperto’ Emmanuel Macron, presentandolo al presidente Hollande del quale è diventato consigliere. E ora che il candidato di En Marche! si appresta ad arrivare al ballottaggio con non poche chance di spuntarla su Marine Le Pen, è fra i papabili per la carica di ministro dell’Economia. Non sarebbe la prima volta che Attali si presta alla politica, avendo già ricoperto delicati incarichi come quello di collaboratore del presidente Francois Mitterand in un sodalizio cominciato nel 1973 e diventato ancora più stretto quando, nel 1981, l’esponente socialista sarà eletto presidente della repubblica.
 
E proprio del 1981 è l’intervista rilasciata per un libro di Michel Salomon, L’Avenir de la Vie (Il Futuro della Vita), edito per i tipi di Seghers, nel quale Attali spiega la sua visione in merito al futuro dello stato sociale: “Si potrà accettare l’idea di allungare la speranza di vita a condizione di rendere gli anziani solvibili e creare in tal modo in mercato“. Come risolvere il problema? “L’eutanasia sarà uno degli strumenti essenziali del nostro futuro”, spiega, aggiungendo che “in una società capitalista, delle macchine permetteranno di eliminare la vita quando questa sarà insopportabile o economicamente troppo costosa“.
 
30/04/2017  Nicola Mattei – Il Primato Nazionale

Trump e Starbucks tra il bene e il male

slaverySe prendiamo un minimo di distanza critica da quanto sta avvenendo negli Usa e osserviamo il braccio di ferro tra Donald Trump e i suoi avversari, dobbiamo riconoscere che gli schieramenti sono delineati a perfezione e disposti secondo una logica assoluta.
Prima, però, sgombriamo il campo da un equivoco. L’opinione pubblica americana non è quella marea di buoni sentimenti e di braccia aperte ai migranti che i giornali che non amano Trump (cioè, quasi tutti) si impegnano a raccontarci. In un sondaggio del Pew Research Center svolto nell’ottobre 2016, in piena campagna per le presidenziali, il 54% degli elettori registrati (quelli davvero intenzionati a votare, i più impegnati) disse di non sentire alcun dovere morale nei confronti dei profughi siriani, mentre solo il 41% affermò il contrario.
E la stessa percentuale di elettori disse che gli Usa dovevano badare ai propri problemi e lasciare che gli altri Paesi risolvessero i loro da soli, contro un 42% che pensava il contrario. Quindi è assai probabile che, a proposito delle decisioni di Donald Trump, stiamo assistendo al solito fenomeno dei diversi rumori: l’albero che cade produce più fragore della foresta che cresce.
Questo serve anche a spiegare perché vi sia una precisa geometria nel contrasto tra il Presidente e vasti strati della società Usa, contrasto che mette in scena culture ma anche interessi ben contrapposti. Guardiamo le aziende più celebri tra quelle che, in un modo o nell’altro, hanno preso posizione contro The Donald, ovvero Starbucks, Airbnb, Google, Nike.
Emblematiche le parole di Mark Parker, amministratore delegato di Nike: «Crediamo in un mondo dove tutti possono celebrare il potere della diversità». Bello, ma falso. Se così fosse, perché queste aziende vogliono vendere a tutti, in ogni parte del mondo, lo stesso prodotto? Le stesse scarpe, gli stessi caffè, in India come in Sudafrica, a Milano come a Timbuktu? Queste aziende rappresentano storie di successo della globalizzazione che, come il termine stesso indica, vuole appiattire le differenze, non esaltarle.
Vuole creare un unico consumatore globale, che ha gli stessi gusti e le stesse esigenze in qualunque Paese si trovi. Uniformità, altro che diversità.
Tutto questo lo diciamo con spirito laico, senza alcun intento demonizzatore. E intimi alla globalizzazione sono aziende come Google e Airbnb, che vendono un bene materiale e immateriale allo stesso tempo, uguale per tutti. Che sarebbe di queste grandi imprese se la Rete non fosse globale, se spostarsi per il globo non fosse facile, se la Rete non permettesse di comunicare con chi vogliamo quando vogliamo?
È, appunto, la globalizzazione nelle sue espressioni più dinamiche, innovative e creative. Un fenomeno che critichiamo e apprezziamo nello stesso tempo. Ma Trump e i suoi 59,8 milioni di elettori non è a questo mondo che guardano. Davvero nessuno ha notato che i primi manager e imprenditori da lui ricevuti alla Casa Bianca sono stati quelli di un’industria tradizionale come quella dell’automobile?
Trump ha in testa l’operaio, l’agricoltore, il piccolo imprenditore, il bottegaio, l’industriale che produce beni solidi, categorie per cui la globalizzazione è un problema più che un’opportunità. Gente che vede nello straniero in arrivo un fastidio da gestire più che un fratello da abbracciare. I Millennials, la «generazione Erasmus», per dirla con categorie nostre, che sono il riferimento di Nike e Starbucks, per Trump sono solo i figli dei suoi elettori. E basta dare un’occhiata ai flussi elettorali per rendersene conto: l’elettore-tipo di Trump è un maschio bianco che ha più di 40 anni, un reddito medio e vive in centri medi o piccoli, quando non addirittura rurali. Ed è stato impoverito dallo sprofondo della finanza globalizzata per il quale nessuno ha poi davvero pagato.
In tutto questo, molti vedono la lotta tra nuovo e vecchio, bene e male, futuro e passato, progresso e conservazione. È una lettura possibile, forse anche giustificata ma semplicistica. Starbucks dice di voler assumere iracheni che abbiano collaborato con le forze armate americane, ma non spiega dov’era quando nel 2004 i profughi iracheni, travolti dall’invasione Usa, erano agli ultimi posti nella graduatoria dei rifugiati accolti dagli Usa. Né Trump chiarisce quanto petrolio si debba estrarre in un Paese che è già il primo produttore del mondo, né quante automobili possano ancora circolare. Quando si scontrano gli interessi, anche il bene e il male diventano più difficili da riconoscere.
di Fulvio Scaglione – 31/01/2017
Fonte: Fulvio Scaglione