Trump e Starbucks tra il bene e il male

slaverySe prendiamo un minimo di distanza critica da quanto sta avvenendo negli Usa e osserviamo il braccio di ferro tra Donald Trump e i suoi avversari, dobbiamo riconoscere che gli schieramenti sono delineati a perfezione e disposti secondo una logica assoluta.
Prima, però, sgombriamo il campo da un equivoco. L’opinione pubblica americana non è quella marea di buoni sentimenti e di braccia aperte ai migranti che i giornali che non amano Trump (cioè, quasi tutti) si impegnano a raccontarci. In un sondaggio del Pew Research Center svolto nell’ottobre 2016, in piena campagna per le presidenziali, il 54% degli elettori registrati (quelli davvero intenzionati a votare, i più impegnati) disse di non sentire alcun dovere morale nei confronti dei profughi siriani, mentre solo il 41% affermò il contrario.
E la stessa percentuale di elettori disse che gli Usa dovevano badare ai propri problemi e lasciare che gli altri Paesi risolvessero i loro da soli, contro un 42% che pensava il contrario. Quindi è assai probabile che, a proposito delle decisioni di Donald Trump, stiamo assistendo al solito fenomeno dei diversi rumori: l’albero che cade produce più fragore della foresta che cresce.
Questo serve anche a spiegare perché vi sia una precisa geometria nel contrasto tra il Presidente e vasti strati della società Usa, contrasto che mette in scena culture ma anche interessi ben contrapposti. Guardiamo le aziende più celebri tra quelle che, in un modo o nell’altro, hanno preso posizione contro The Donald, ovvero Starbucks, Airbnb, Google, Nike.
Emblematiche le parole di Mark Parker, amministratore delegato di Nike: «Crediamo in un mondo dove tutti possono celebrare il potere della diversità». Bello, ma falso. Se così fosse, perché queste aziende vogliono vendere a tutti, in ogni parte del mondo, lo stesso prodotto? Le stesse scarpe, gli stessi caffè, in India come in Sudafrica, a Milano come a Timbuktu? Queste aziende rappresentano storie di successo della globalizzazione che, come il termine stesso indica, vuole appiattire le differenze, non esaltarle.
Vuole creare un unico consumatore globale, che ha gli stessi gusti e le stesse esigenze in qualunque Paese si trovi. Uniformità, altro che diversità.
Tutto questo lo diciamo con spirito laico, senza alcun intento demonizzatore. E intimi alla globalizzazione sono aziende come Google e Airbnb, che vendono un bene materiale e immateriale allo stesso tempo, uguale per tutti. Che sarebbe di queste grandi imprese se la Rete non fosse globale, se spostarsi per il globo non fosse facile, se la Rete non permettesse di comunicare con chi vogliamo quando vogliamo?
È, appunto, la globalizzazione nelle sue espressioni più dinamiche, innovative e creative. Un fenomeno che critichiamo e apprezziamo nello stesso tempo. Ma Trump e i suoi 59,8 milioni di elettori non è a questo mondo che guardano. Davvero nessuno ha notato che i primi manager e imprenditori da lui ricevuti alla Casa Bianca sono stati quelli di un’industria tradizionale come quella dell’automobile?
Trump ha in testa l’operaio, l’agricoltore, il piccolo imprenditore, il bottegaio, l’industriale che produce beni solidi, categorie per cui la globalizzazione è un problema più che un’opportunità. Gente che vede nello straniero in arrivo un fastidio da gestire più che un fratello da abbracciare. I Millennials, la «generazione Erasmus», per dirla con categorie nostre, che sono il riferimento di Nike e Starbucks, per Trump sono solo i figli dei suoi elettori. E basta dare un’occhiata ai flussi elettorali per rendersene conto: l’elettore-tipo di Trump è un maschio bianco che ha più di 40 anni, un reddito medio e vive in centri medi o piccoli, quando non addirittura rurali. Ed è stato impoverito dallo sprofondo della finanza globalizzata per il quale nessuno ha poi davvero pagato.
In tutto questo, molti vedono la lotta tra nuovo e vecchio, bene e male, futuro e passato, progresso e conservazione. È una lettura possibile, forse anche giustificata ma semplicistica. Starbucks dice di voler assumere iracheni che abbiano collaborato con le forze armate americane, ma non spiega dov’era quando nel 2004 i profughi iracheni, travolti dall’invasione Usa, erano agli ultimi posti nella graduatoria dei rifugiati accolti dagli Usa. Né Trump chiarisce quanto petrolio si debba estrarre in un Paese che è già il primo produttore del mondo, né quante automobili possano ancora circolare. Quando si scontrano gli interessi, anche il bene e il male diventano più difficili da riconoscere.
di Fulvio Scaglione – 31/01/2017
Fonte: Fulvio Scaglione

I valori anti Trump: lo sfruttamento del lavoro

Nike e marchi sfruttamentoOrmai sappiamo che chi detta l’agenda alla cosiddetta società civile disgustata dal popolo (visto chi la comanda non dovrebbe destare alcuna sorpresa) è gente come Soros, un magnate speculatore, ma ora anche i “grandi marchi” o meglio, le corporate come ci insegna Repubblica sono usciti allo scoperto. Si sà, le multinazionali sono tanto tanto solidali e anti razziste, sfruttano chiunque più o meno allo stesso modo e questo è grande indice di progresso a quanto pare per i moralizzatori del mondo. Ora il dumping sociale è trasformato in “inclusione” sociale, in integrazione quindi lo sfruttamento E’ UNA COSA BUONA.

Starbucks aprirà a Milano ed in vista probabilmente dei cambiamenti climatici decide di sostituire le piante autoctone con piante tipiche di climi caldi. Un emblema, così ragiona il capitale. Plasma, modifica a piacimento il creato, inclusi GLI UMANI. Starbucks non condivide la politica migratoria di Trump, fa sapere che assumerà i “rifugiati”. Dove più che in Italia può sfruttare clandestini e manodopera a nero, se non nel regno del CAPORALATO?

Avvisate comunque Starbucks che i richiedenti asilo, in attesa di riconoscimento dello status di rifugiati, NON POSSONO LAVORARE, per legge, almeno per i primi 6 mesi. Ma per quanto importa loro delle leggi ed in Italia non siamo famosi per farle rispettare.

NIKE fa sapere di non condividere le politiche migratorie di Trump, è una questione di morale. E dato che lotta contro le discriminazioni, SFRUTTA tutti i lavoratori in modo eguale.

Immagino che risulti in linea con i loro “valori” così come i valori della cosiddetta società civile, lo sfruttamento di manodopera, inclusa quella minorile. Ne prendiamo atto trattasi di rispetto dei diritti umani da imporre in giro per il mondo onde non essere tacciati di essere retrogradi.

Rimando solo ad un link Multinazionali del dolore. Caso quattro: Nike, articolo del 2013

Riporto l’inizio:

La Nike, multinazionale americana che produce e distribuisce in tutto il mondo scarpe e palloni di calcio, sfrutta la manodopera a basso costo soprattutto nei paesi dell’Asia come la Cina, la Thailandia, l’Indonesia, la Corea del Sud, il Vietnam. Il salario medio giornaliero di un lavoratore è di 50 centesimi per circa 12 ore di lavoro e gli operai, spesso bambini, sono esposti perennemente alle malattie perché lavorano a stretto contatto con i vapori di colle, solventi e vernici.  Le ribellioni e gli scioperi sono oppressi con torture e spesso uccisioni da parte delle polizie locali.

Cara Nike, di cosa hai paura? Di dover produrre le tue scarpe e ammenicoli negli Usa se negli Usa li vuoi vendere? Sei terrorizzata a dover pagare il minimo salariale ai lavoratori americani che certo non è quello che corrispondi ad un minore del Pakistan?