Operai precari contro i garantiti. In fabbrica la guerra tra poveri

composadeccola la democrazia tutto diritti e libertà da preservare da populisti e la “minacciosa” Casapound. Non c’è niente da fare, inutile ribadire che il dumping sociale innescato ed inasprito introducendo manodopera a basso costo dai paesi stranieri DANNEGGIA ANCHE I LAVORATORI MIGRANTI, sei razzista lo stesso. Viene il dubbio che chi obietta urlando al razzismo ABBIA MOLTO A CUORE GLI AFFARI di questi prenditori.

Operai precari contro i garantiti. In fabbrica la guerra tra poveri

Mantova, i lavoratori in esubero delle cooperative bloccano l’ingresso dell’azienda. Gli altri dipendenti protestano e scoppia la rissa. La polizia usa i lacrimogeni
Lunedì scorso la tensione alla Composad di Viadana ha raggiunto l’apice ed è intervenuta la polizia
Ci sono 6 indiani, un pakistano e un marocchino. Stanno sul tetto di un capannone di un’azienda da lunedì scorso. Hanno perso il lavoro con una cooperativa che gestiva il reparto imballaggi. Boulediem Aburradia è il marocchino. Ha un cappello di paglia per ripararsi dal sole che non serve a niente quando piove: «Mi hanno detto che sono un esubero. Io sono solo uno che vuole lavorare. Sono in Italia da 11 anni. Per 10 ho lavorato qui dentro. E da qui non me ne vado». All’inizio quelli che avevano perso il posto erano 271. Una parte – 150 a tempo determinato, altri 50 con contratto a termine di 3 mesi – sono rientrati in azienda con un’altra cooperativa. Chi è rimasto fuori è salito sul tetto per protesta. Oppure staziona davanti a questa azienda in un presidio permanente che va avanti da 4 settimane, in un vialone tutto capannoni vicino a Viadana che è vicina Mantova dove adesso sono in fila sedie di plastica e tendoni e una cucina da campo.
Ci sono 200 operai italiani. Stanno dentro questa azienda con la camionetta della polizia sulla porta. Vogliono lavorare e hanno paura di perdere il posto. Il reparto imballaggi è quasi fermo. Lunedì quelli di fuori non facevano entrare i camion. Allora sono usciti quelli di dentro. Poi è arrivata la polizia. Tutti hanno spintonato tutti. La polizia ha usato i lacrimogeni. Giuliano Grossi del reparto Logistica e spedizioni lavora qui dentro da 15 anni. Dice che non si può avere paura di andare a lavorare. Dice che la paura più grande è non avere più il lavoro: «Siamo in difficoltà con le commesse esterne. Bisognava continuare a trattare. Le cose non si risolvono andando sui tetti o facendo i presidi, facendosi scudo di donne e bambini. Noi che lavoriamo qui dentro siamo loro ostaggi. Siamo impotenti nel tutelare il nostro posto di lavoro con il rischio di perderlo».
 
C’era una volta la lotta di classe. Adesso c’è la lotta «nella» classe. Tutti contro tutti alla Composad di Viadana che dicono sia un bel posto dove lavorare anche se si fanno i turni di 24 ore e le macchine a controllo numerico non si fermano mai. Fanno mobili in kit e li vendono in tutto il mondo. Li fanno proprio qui dentro anche se poi li vendono all’Ikea, alla Leroy Merlin, nei Brico center, nei centri commerciali francesi della Conforama e pure ai giapponesi di Smile. A sentirli, quelli di dentro e quelli di fuori, hanno le stesse preoccupazioni e dicono le stesse cose. Perchè la lotta «nella» classe non è tra gli operai e i padroni come si faceva una volta. Adesso è tra gli operai garantiti e gli operai precari, tra i dipendenti e gli esternalizzati. Anche se nessuno lo dice apertamente è pure tra gli italiani e gli immigrati, anche se oramai parlano il dialetto mantovano meglio dei mantovani che non lo parlano più.
 
Dietro a questo pasticcio ci sarebbe una storia di appalti e commesse, di cooperative che si ritirano e poi perdono la gara, di consorzi che si fanno e si disfano. All’inizio i lavoratori interinali facevano capo alla Viadana Facchini. Che poi ha perso l’appalto vinto dalla Clo di Milano. La Clo di Milano allora si è alleata con la Viadana facchini e ha costituto la 3L per avere i facchini di prima ma più di 200 non ne voleva. Si sono messi di mezzo i sindacati. Tutti hanno firmato l’accordo meno quelli del Cobas. Stefano Re dei Cobas non ha firmato: «Da qui non ci spostiamo fino a che non abbiamo rassicurazione che tutti rientrino in azienda». In realtà ci sarebbe pure altro. Gli stipendi di maggio non sono stati pagati dalla cooperativa. E non ci sono garanzie sulle buone uscite di chi decidesse di cercare un altro lavoro.
 
Fallou Diao ha 50 anni, è arrivato dal Senegal che ne aveva 19, un posto di lavoro ce l’aveva e non capisce perchè non può più riaverlo: «Ho guidato il carrello per 10 anni al reparto imballaggi. 1200 euro al mese. Perchè non vado più bene?». Quelli di fuori dicono che gli «scartati» sono i più sindacalizzati. Quelli di dentro dicono che non si possono riportare in fabbrica chi va sui tetti o i 35 che sono stati denunciati dalla polizia negli spintonamenti di lunedì. Alessandro Saviola, presidente del Gruppo Mauro Saviola che controlla Composad, nella vicenda ci entra di striscio ma dice le stesse cose dei lavoratori di dentro: «Non ne possiamo più, noi vogliamo soltanto lavorare. Lo Stato non ci tutela». Le identiche parole, uguali alla sillaba di Rani Saroj, indiana del Punjab, oramai talmente mantovana che tutti chiamano Emma: «Sono in Italia da 13 anni. Da 7 lavoro con la cooperativa per 980 euro al mese. Anche mio marito lavorava con la cooperativa e lo hanno messo fuori. Abitiamo a Dosolo con i nostri 2 figli. Non facevamo nemmeno i turni insieme. Adesso ci hanno detto che forse solo uno di noi due potrà rientrare in fabbrica. Chissà come ci sceglieranno?».
30/06/2017 alle ore 07:05
 
fabio poletti
inviato a viadana (mantova)

Un contribuente su due dichiara al Fisco meno di 15 mila euro l’anno.

ma come sarà mai possibile? Italiani, tutti ricchi ed evasori. Chi scrive i titoli di sti giornalacci a forza di scrivere le stronzate di regime è convinto che in Italia si percepiscano lauti stipendi, tra voucher e precariato, che vi sia un boom economico che ovviamente caccia via i choosy dal paese perché non vogliono lavorare……banda bassotti

Se abbiamo un tasso di occupazione del 57% (calcolando anche chi lavora un giorno solo con il voucher, chi è in cig etc) va da se che c’è un 43% della forza lavoro che non ha lavoro (ossia niente reddito) o lavora in nero almeno una parte non stimata. Che pensano che gli italiani a 600 euro al mese, a termine o che vengono retribuiti con voucher abbiano tesoretti alle Bahamas?

Il titolo del corriere: Fisco, reddito medio è di 20.690 euro. Non versano l’Irpef più di 12 milioni

Titolo inorridito della busiarda Un contribuente su due dichiara al Fisco meno di 15 mila euro l’anno. Solo il 5,2% supera i 50 mila euro all’anno

Non si possono pubblicare i nomi di quei riccastri che hanno fatto fallire MPS salvata con soldi di tutti i contribuenti ma si deve denigrare chi non dichiara più di 15mila euro l’anno? CHE FORSE NON CI SI ARRIVA A GUADAGNARLI a suon di contratti ad minchiam?

eh certo, che volete dare soldi ai poveri? Roba da schifosi populisti..guai

Dichiarazioni dei redditi, l’anno scorso 438mila italiani hanno dovuto restituire il bonus 80 euro perché troppo poveri
Il dato si ricava dalle tabelle del Tesoro relative ai redditi 2015. In tutto sono stati 1,7 milioni i contribuenti che si sono visti chiedere indietro lo sgravio. E hanno dovuto pagare in un’unica soluzione, visto che non è stata consentita la rateizzazione. Il 45% degli italiani ha dichiarato meno di 15mila euro. Solo 34mila persone hanno attestato di averne portati a casa oltre 300mila
Più di 438mila italiani con redditi molto bassi hanno dovuto restituire allo Stato il bonus di 80 euro ricevuto nel 2015. Perché al momento di compilare la dichiarazione hanno scoperto di aver guadagnato meno di 7.500 euro, troppo poco per averne diritto. E’ quello che emerge dalle tabelle del ministero dell’Economia sulle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2016 e relative agli introiti dell’anno prima. Contando anche i contribuenti che hanno superato il tetto massimo dei 26mila euro, le persone a cui lo Stato ha chiesto indietro il bonus Irpef da 80 euro voluto dall’ex premier Matteo Renzi sono state 1,7 milioni. Di questi, 966mila lo hanno reso integralmente e 765mila in parte, facendo tornare nelle casse dell’erario 508 milioni complessivi a fronte dei 9 miliardi spesi.
Lo scorso anno, quando ilfattoquotidiano.it ha fatto emergere questo paradosso e raccontato molte storie di persone che si erano viste costrette a restituire i soldi, le cifre erano più basse perché relative al 2014, quando il bonus – concesso ai contribuenti che guadagnano tra gli 8mila e i 26mila euro – era stato in vigore solo per otto mesi. Avevano quindi dovuto ridarlo 1,4 milioni di persone tra cui 341mila incapienti, cioè appunto coloro che guadagnano talmente poco da non versare l’Irpef perché detrazioni e deduzioni superano l’ammontare dell’imposta che dovrebbero pagare. Va ricordato che i soldi vanno restituiti in un’unica soluzione, perché il governo non ha mai tenuto fede all’impegno di concedere almeno la rateizzazione. Questo nonostante il ministro Pier Carlo Padoan, al culmine delle polemiche sulla beffa del bonus prima versato e poi chiesto indietro, avesse promesso: “Cercheremo modalità per alleviare la restituzione”.
Il 45% dei contribuenti ha dichiarato meno di 15mila euro – Tornando ai dati delle dichiarazioni dei redditi, il 45% dei contribuenti italiani lo scorso anno ha dichiarato al fisco meno di 15mila euro e solo il 5,2% più di 50mila. I fortunati che hanno portato a casa oltre 300mila euro sono stati invece solo 34mila, un misero 0,08% sul totale. Questo, almeno, stando alle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2016 e relative agli introiti dell’anno prima. Dai dati diffusi martedì dal Tesoro emerge però che “rispetto all’anno precedente aumenta sia il numero dei soggetti che dichiarano più di 50.000 euro (+65.000) sia l’ammontare dell’Irpef dichiarata (+1,9 miliardi)”. Resta il fatto che i contribuenti nella fascia superiore ai 50mila euro versano ben il 38% dell’imposta totale.
12,2 milioni di italiani non hanno versato l’Irpef – Nel complesso sono stati circa 40,8 milioni i contribuenti che hanno assolto l’obbligo della dichiarazione Irpef nell’anno d’imposta 2015, in aumento dello 0,1% rispetto all’anno precedente. Circa 10 milioni di soggetti hanno un’imposta netta pari a zero, perché guadagnano poco e le detrazioni e deduzioni compensano quello che dovrebbero versare al fisco. Considerando anche i contribuenti la cui Irpef è interamente compensata dal bonus di 80 euro, nel 2015 a non versare l’imposta sono stati 12,2 milioni di italiani.
Metà dei contribuenti ha dichiarato meno di 16.600 euro – Il reddito complessivo totale dichiarato è ammontato a circa 833 miliardi di euro, per un valore medio di 20.690 euro, +1,3% sul 2014. Il reddito del contribuente mediano è stato però di 16.643 euro: vale a dire che la metà dei contribuenti non supera 16.643 euro di reddito complessivo dichiarato. La regione con reddito medio complessivo più elevato è ancora una volta la Lombardia (24.520 euro), seguita dalla Provincia Autonoma di Bolzano (22.860), mentre la Calabria presenta il reddito medio più basso (14.780 euro). Anche nel 2015 il reddito medio nelle regioni del Sud e del Centro è cresciuto meno rispetto alla media nazionale.
Lavoratori autonomi in testa con oltre 38mila euro medi. I dipendenti si fermano a 20mila – I redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentano circa l’82% del reddito complessivo dichiarato. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 20.660 euro, quello dei pensionati a 16.870 euro, in crescita dell’1%. I lavoratori autonomi hanno il reddito medio più elevato, pari a 38.290 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 19.990 euro. Il Tesoro ribadisce però che “non è possibile dai dati pubblicati comparare il reddito degli imprenditori con quello dei “propri dipendenti””, in quanto “tra gli imprenditori sono compresi coloro che non hanno personale alle loro dipendenze” e svolgono di fatto un’attività autonoma. Il reddito medio da partecipazione in società di persone e assimilate risulta di 17.020 euro. Risultano in crescita, oltre alle pensioni, anche i redditi medi d’impresa (+8,6%), da lavoro autonomo (+7,6%) e da partecipazione (+6,1%), mentre diminuiscono lievemente i redditi medi da lavoro dipendente (-0,2%).
di F. Q. | 28 febbraio 2017

Un contribuente su due dichiara al Fisco meno di 15 mila euro l’anno

ma come sarà mai possibile? Italiani, tutti ricchi ed evasori. Chi scrive i titoli di sti giornalacci a forza di scrivere le stronzate di regime è convinto che in Italia si percepiscano lauti stipendi, tra voucher e precariato, che vi sia un boom economico che ovviamente caccia via i choosy dal paese perché non vogliono lavorare……banda bassotti

Se abbiamo un tasso di occupazione del 57% (calcolando anche chi lavora un giorno solo con il voucher, chi è in cig etc) va da se che c’è un 43% della forza lavoro che non ha lavoro (ossia niente reddito) o lavora in nero almeno una parte non stimata. Che pensano che gli italiani a 600 euro al mese, a termine o che vengono retribuiti con voucher abbiano tesoretti alle Bahamas?

Il titolo del corriere: Fisco, reddito medio è di 20.690 euro. Non versano l’Irpef più di 12 milioni

Titolo inorridito della busiarda Un contribuente su due dichiara al Fisco meno di 15 mila euro l’anno. Solo il 5,2% supera i 50 mila euro all’anno

Non si possono pubblicare i nomi di quei riccastri che hanno fatto fallire MPS salvata con soldi di tutti i contribuenti ma si deve denigrare chi non dichiara più di 15mila euro l’anno? CHE FORSE NON CI SI ARRIVA A GUADAGNARLI a suon di contratti ad minchiam?

eh certo, che volete dare soldi ai poveri? Roba da schifosi populisti..guai

Dichiarazioni dei redditi, l’anno scorso 438mila italiani hanno dovuto restituire il bonus 80 euro perché troppo poveri
Il dato si ricava dalle tabelle del Tesoro relative ai redditi 2015. In tutto sono stati 1,7 milioni i contribuenti che si sono visti chiedere indietro lo sgravio. E hanno dovuto pagare in un’unica soluzione, visto che non è stata consentita la rateizzazione. Il 45% degli italiani ha dichiarato meno di 15mila euro. Solo 34mila persone hanno attestato di averne portati a casa oltre 300mila
Più di 438mila italiani con redditi molto bassi hanno dovuto restituire allo Stato il bonus di 80 euro ricevuto nel 2015. Perché al momento di compilare la dichiarazione hanno scoperto di aver guadagnato meno di 7.500 euro, troppo poco per averne diritto. E’ quello che emerge dalle tabelle del ministero dell’Economia sulle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2016 e relative agli introiti dell’anno prima. Contando anche i contribuenti che hanno superato il tetto massimo dei 26mila euro, le persone a cui lo Stato ha chiesto indietro il bonus Irpef da 80 euro voluto dall’ex premier Matteo Renzi sono state 1,7 milioni. Di questi, 966mila lo hanno reso integralmente e 765mila in parte, facendo tornare nelle casse dell’erario 508 milioni complessivi a fronte dei 9 miliardi spesi.
Lo scorso anno, quando ilfattoquotidiano.it ha fatto emergere questo paradosso e raccontato molte storie di persone che si erano viste costrette a restituire i soldi, le cifre erano più basse perché relative al 2014, quando il bonus – concesso ai contribuenti che guadagnano tra gli 8mila e i 26mila euro – era stato in vigore solo per otto mesi. Avevano quindi dovuto ridarlo 1,4 milioni di persone tra cui 341mila incapienti, cioè appunto coloro che guadagnano talmente poco da non versare l’Irpef perché detrazioni e deduzioni superano l’ammontare dell’imposta che dovrebbero pagare. Va ricordato che i soldi vanno restituiti in un’unica soluzione, perché il governo non ha mai tenuto fede all’impegno di concedere almeno la rateizzazione. Questo nonostante il ministro Pier Carlo Padoan, al culmine delle polemiche sulla beffa del bonus prima versato e poi chiesto indietro, avesse promesso: “Cercheremo modalità per alleviare la restituzione”.
Il 45% dei contribuenti ha dichiarato meno di 15mila euro – Tornando ai dati delle dichiarazioni dei redditi, il 45% dei contribuenti italiani lo scorso anno ha dichiarato al fisco meno di 15mila euro e solo il 5,2% più di 50mila. I fortunati che hanno portato a casa oltre 300mila euro sono stati invece solo 34mila, un misero 0,08% sul totale. Questo, almeno, stando alle dichiarazioni dei redditi presentate nel 2016 e relative agli introiti dell’anno prima. Dai dati diffusi martedì dal Tesoro emerge però che “rispetto all’anno precedente aumenta sia il numero dei soggetti che dichiarano più di 50.000 euro (+65.000) sia l’ammontare dell’Irpef dichiarata (+1,9 miliardi)”. Resta il fatto che i contribuenti nella fascia superiore ai 50mila euro versano ben il 38% dell’imposta totale.
12,2 milioni di italiani non hanno versato l’Irpef – Nel complesso sono stati circa 40,8 milioni i contribuenti che hanno assolto l’obbligo della dichiarazione Irpef nell’anno d’imposta 2015, in aumento dello 0,1% rispetto all’anno precedente. Circa 10 milioni di soggetti hanno un’imposta netta pari a zero, perché guadagnano poco e le detrazioni e deduzioni compensano quello che dovrebbero versare al fisco. Considerando anche i contribuenti la cui Irpef è interamente compensata dal bonus di 80 euro, nel 2015 a non versare l’imposta sono stati 12,2 milioni di italiani.
Metà dei contribuenti ha dichiarato meno di 16.600 euro – Il reddito complessivo totale dichiarato è ammontato a circa 833 miliardi di euro, per un valore medio di 20.690 euro, +1,3% sul 2014. Il reddito del contribuente mediano è stato però di 16.643 euro: vale a dire che la metà dei contribuenti non supera 16.643 euro di reddito complessivo dichiarato. La regione con reddito medio complessivo più elevato è ancora una volta la Lombardia (24.520 euro), seguita dalla Provincia Autonoma di Bolzano (22.860), mentre la Calabria presenta il reddito medio più basso (14.780 euro). Anche nel 2015 il reddito medio nelle regioni del Sud e del Centro è cresciuto meno rispetto alla media nazionale.
Lavoratori autonomi in testa con oltre 38mila euro medi. I dipendenti si fermano a 20mila – I redditi da lavoro dipendente e da pensione rappresentano circa l’82% del reddito complessivo dichiarato. Il reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti è pari a 20.660 euro, quello dei pensionati a 16.870 euro, in crescita dell’1%. I lavoratori autonomi hanno il reddito medio più elevato, pari a 38.290 euro, mentre il reddito medio dichiarato dagli imprenditori è pari a 19.990 euro. Il Tesoro ribadisce però che “non è possibile dai dati pubblicati comparare il reddito degli imprenditori con quello dei “propri dipendenti””, in quanto “tra gli imprenditori sono compresi coloro che non hanno personale alle loro dipendenze” e svolgono di fatto un’attività autonoma. Il reddito medio da partecipazione in società di persone e assimilate risulta di 17.020 euro. Risultano in crescita, oltre alle pensioni, anche i redditi medi d’impresa (+8,6%), da lavoro autonomo (+7,6%) e da partecipazione (+6,1%), mentre diminuiscono lievemente i redditi medi da lavoro dipendente (-0,2%).
di F. Q. | 28 febbraio 2017

Più flessibilità del lavoro crea davvero più occupazione? Ecco cosa dicono i dati

ci voleva na scienza. Basta vedere i paesi nordici dove le tutele esistono, dove ci sono sindacati che fanno VERAMENTE gli interessi dei lavoratori. Grazie intanto a chi ha collaborato al genocidio di una generazione ed istigazione al suicidio di chi da “vecchio” non trova lavoro.

Pubblichiamo un post di Emiliano Brancaccio, Nadia Garbellini e Raffaele Giammetti*

La libertà di licenziamento e le altre forme di deregolamentazione del lavoro favoriscono le assunzioni? Svariati esponenti di governo e del mondo dei media hanno sostenuto che l’aumento dell’occupazione che si è registrato negli ultimi mesi in Italia sarebbe frutto della ulteriore flessibilità dei contratti sancita dal Jobs Act.

Questa tesi, come vedremo, non trova riscontri nella ricerca prevalente in materia. Un primo dubbio sulla supposta relazione tra riforma del lavoro e occupazione sorge mettendo semplicemente a confronto i dati ufficiali sull’Italia con quelli relativi agli altri paesi europei. Dall’entrata in vigore del Jobs Act, la crescita dell’occupazione dipendente nel nostro paese è stata molto più modesta rispetto all’aumento medio degli occupati che si è registrato nell’eurozona; nello stesso arco di tempo, inoltre, non si rilevano significativi avvicinamenti dell’Italia alla media europea (dati Ameco Eurostat). In altre parole, paesi in cui negli ultimi due anni non si sono registrati cambiamenti nella legislazione del lavoro, hanno visto crescere l’occupazione decisamente più che in Italia.

L’esito di questa banale comparazione non è casuale. Dopo un ventennio di ricerche dedicate all’argomento, la più influente analisi economica ha escluso l’esistenza di relazioni statistiche significative tra precarizzazione del lavoro e occupazione. Economisti e istituzioni che per lungo tempo hanno salutato con favore le politiche di deregolamentazione del lavoro, hanno dovuto riconoscere che non vi sono evidenze sufficienti per sostenere che tali politiche favoriscano le assunzioni.

Alcuni riferimenti aiuteranno il lettore a sincerarsi di questo approdo della ricerca scientifica in materia. Nel 2006, in una celebre rassegna dedicata all’argomento, l’ex capo-economista del FMI Olivier Blanchard arrivò a dichiarare che «le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi» [1]. A conclusioni analoghe è giunto Tito Boeri, che da un’ampia ricognizione di studi in materia realizzata con Jan van Ours e pubblicata nel 2008, rilevò che su tredici ricerche sugli stock di occupati e disoccupati esaminate, soltanto una segnalava una relazione tra riduzione delle tutele e crescita dell’occupazione mentre altre nove davano risultati indeterminati e tre addirittura indicavano che la maggior precarizzazione del lavoro è statisticamente associata a riduzioni dell’occupazione e aumenti della disoccupazione [2].

Ancor più significative sono le ammissioni di quelle istituzioni internazionali che per lungo tempo hanno esortato i governi a procedere lungo la via della flessibilità del lavoro. Nell’Employment Outlook del 1999 l’OCSE evidenziò l’assenza di correlazioni tra le norme a protezione dei lavoratori e i tassi di disoccupazione [3]. Il test dell’OCSE è stato in seguito da più parti replicato con dati aggiornati, e ha dato sempre lo stesso risultato. [4]

Il grafico seguente riproduce l’analisi empirica dell’OCSE estendendola a dati relativi all’arco 1985-2013 (Figura 1). Sull’asse verticale è riportato il tasso di disoccupazione medio in ciascun paese. Sull’asse orizzontale è riportato il livello medio dell’indice di protezione del lavoro nei vari paesi calcolato dall’OCSE. Se esistesse una relazione statistica significativa tra le due variabili, i punti rappresentativi di ogni paese esaminato dovrebbero aggregarsi intorno a una linea crescente da sinistra verso destra, a indicare un nesso tra livelli più alti dell’indice di protezione dei lavoratori e livelli più alti della disoccupazione. Invece, come si evince dal grafico, i punti si disperdono sul diagramma, a riprova dell’assenza di una relazione statistica tra tutele del lavoro e disoccupazione.

Figura 1il test dell’OCSE su flessibilità e disoccupazione, riprodotto con dati aggiornati (Fonte: D. Suppa, Appendice, in E. Brancaccio, Anti-Blanchard, 2° ed., Franco Angeli, Milano 2016; dati OECD).

graficobrancaccio

Più di recente, il World Development Report pubblicato nel 2013 dalla World Bank è giunto alla seguente conclusione: «Nuovi dati e metodologie più rigorose hanno scatenato un’ondata di studi empirici negli ultimi due decenni sugli effetti della regolamentazione del lavoro […] Sulla base di questa ondata di nuove ricerche, l’impatto globale della maggiore flessibilità del lavoro è inferiore all’intensità che il dibattito suggerirebbe. Per la maggior parte, le stime tendono ad essere insignificanti o modeste» [5]. Ed ancora, il World Economic Outlook 2016 del FMI evidenzia che «le riforme che facilitano il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato non hanno, in media, effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche» [6].

Sulla stessa lunghezza d’onda si situa l’Employment Outlook 2016 dell’OCSE, in cui si legge: «La maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo» [7]. Infine, con riferimento specifico al Jobs Act, uno studio di Sestito e Viviano pubblicato da Bankitalia nel 2015 attribuisce alla maggior libertà di licenziamento introdotta dalla nuova normativa soltanto il cinque percento dell’aumento totale delle assunzioni a tempo indeterminato [8]. Una possibile spiegazione di questi risultati è che la precarizzazione dei contratti può forse indurre le imprese ad assumere lavoratori nelle fasi di ripresa economica, ma consente loro di liberarsi facilmente di quegli stessi lavoratori nei periodi di crisi: alla fine, tra creazione e distruzione di posti di lavoro l’effetto netto delle deregolamentazioni sull’occupazione risulta essere pressoché nullo.

La precarizzazione può invece avere un effetto tangibile sul potere contrattuale dei lavoratori, e per questa via può deprimere i salari e ampliare le disuguaglianze tra i redditi. Questa tesi è stata avanzata, tra gli altri, dall’economista Richard Freeman dell’Università di Harvard, e di recente ha trovato riscontri in varie ricerche empiriche [9]. Da un’analisi sui paesi OCSE effettuata sul periodo 1991-2013 e recentemente presentata alla Scuola superiore della Magistratura, abbiamo rilevato che una unità in meno nei livelli di protezione del lavoro non presenta relazioni significative con la crescita complessiva del Pil mentre risulta statisticamente associata a una quota del reddito nazionale destinata ai salari mediamente più bassa di circa mezzo punto percentuale.

Inoltre, abbiamo verificato che eventuali shock nella legislazione del lavoro che riducano gli indici di protezione dei lavoratori di circa mezzo punto, nel quinquennio successivo risultano statisticamente associati a riduzioni cumulate della quota salari fino a quattro punti percentuali complessivi e a incrementi corrispondenti della quota di reddito destinata ai profitti e alle rendite [10]. A quanto pare, le riforme del lavoro risultano correlate non alla crescita dell’occupazione e del reddito nazionale, quanto piuttosto agli esiti del conflitto distributivo sulla ripartizione di quest’ultimo.

* Rispettivamente Università del Sannio, Università di Bergamo, Università Politecnica delle Marche

NOTE

[1] Blanchard, O. (2006). European Unemployment: The Evolution of Facts and Ideas, Economic Policy, 45.
[2] Boeri, T., van Ours J. (2008). Economia dei mercati del Lavoro imperfetti, Egea, Milano.
[3] OECD (1999), Employment Outlook, June.
[4] Suppa, D. (2016). Appendice statistica, in E. Brancaccio, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia. Seconda edizione, Franco Angeli, Milano.
[5] World Bank (2013), World Development Report 2013: Jobs. Washington D.C.: World Bank Publications.
[6] International Monetary Fund (2016), Time for a supply side boost? Macroeconomic effects of labor and product market reforms in advanced economies. In World Economic Outlook 2016. Washington, DC: IMF.
[7] OECD (2016), OECD Employment Outlook 2016 (Paris: OECD).
[8] Sestito, P., Viviano, E. (2015). Hiring incentives and/or firing cost reduction? Evaluating the impact of the 2015 policies on the Italian labour market, Banca d’Italia, Occasional Papers, n. 325.
[9] Freeman, R. (2008). Labor market institutions around the world. London, LSE CEP Discussion Paper No 844. Cfr. anche Campos, N.F. and J.B. Nugent (2015), The Freeman Conjecture, IZA/World Bank Conference on Employment and Development: Technological Change and Jobs, Bonn.
[10] Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2016), Labour deregulation, gdp growth and functional income distribution, di prossima pubblicazione (draft presentato al seminario “La riforma del mercato del lavoro tra diritto ed economia”, Scuola Superiore della Magistratura, Scandicci (FI), 26 ottobre). Cfr. anche, Brancaccio, E., Garbellini, N., Giammetti, R. (2017), Dagli slogan alle evidenze: una rassegna sugli effetti delle deregolamentazioni del lavoro, in Buffa, F. (a cura di) (2017), La nuova disciplina del mercato del lavoro, Key Editore, Roma.

FONTE