L’OMS, L’AZZOLINA, IL VIRUS: UN CIRCO E TRE CLOWN … IL GINOCCHIO DEL POLIZIOTTO SUL COLLO DI GEORGE FLOYD, IL GINOCCHIO USA SUL COLLO DEL MONDO … LA RIVOLUZIONE COLORATA TORNA A CASA

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SABATO 13 GIUGNO 2020

 

Statue abbattute. “Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato” (George Orwell)

Covid-19: tocca agli studenti

Come spesso, diamo un’occhiata in casa e poi ce ne andiamo fuori. In casa abbiamo fatto tremare i penati con la risata omerica, fatta però tra denti digrignanti, innescata da un paio di labbra rosso-cardinale, con sotto una ministra dell’Istruzione, dalle quali era uscito la formidabile, per quanto lugubre, battuta di scolari sotto plexiglass. Affine ad Alcmeone che, uccisa la madre, fu privata del senno dalle Erinni, Lucia Azzolina, avendo ucciso l’Istruzione, madre sua e di tutti noi, aveva subito analoga sorte. E fu la pazzia a dettarle deliri che solo degli irresponsabili come noi potevano prendere per barzellette. Tipo, facciamo che metà studia da remoto, e l’altra in presenza. E giù cataratte di ghignate.  Facciamo che voi entrare alle 8, voialtri alle 10, e voi laggiù a mezzogiorno. E visto che studenti come pesci nella boccia di plexiglass non vi stanno bene, facciamo che di plexiglass gli mettiamo solo una visiera da astronauta.

Mancano duecentomila insegnanti? Abbiamo altrettanti supplenti votati alla supplenza eterna E voi, ragazzi, andate a studiare sui prati, sotto i ponti, a gennaio sul laghetto ghiacciato, nei cinema e nei musei. Con plexiglas sul muso. Così, se ci cadete sopra, vi tagliate la carotide, ma vi salvate dal virus. Quante alle aule di 13 ragazzi ben distanziati, ne avremmo pronte centomila, ma solo dopo che Colao vi avrà convinti che studiare da casa e su schermi vi permette di finire imbecilli e squilibrati fin dalla terza media.

Ma non ce la dobbiamo prendere con due sfavillanti labbra rosse, per quanto minchiate ne escano. Se guardiamo all’Azzolina e le sue labbra come soggetto erotico le riconosciamo un ruolo assolutamente degno e la distanziamo – è il dogma salvifico del tempo – dalle donne dalle cui labbra, meno vermiglie, escono concetti e non minchiate. Del resto, ciò che determina i borborigmi culturali che sgocciolano da quelle belle labbra, non è altro che quanto una ministra di Conte, Zingaretti e di Maio, con rispettive task force di illuminati, deve al magistero dell’OMS, cui tutti si sottopongono. Mascherine inutili, no necessarie, no nocive; guanti indispensabili, no, che schifo, fanno malissimo, clorochina si si si, clorochina no no no, clorichina si si si, test sierologici buoni, test sierologici cattivissimi, gli asintomatici ti impestano tutti, nessun contagio dagli asintomatici… A seconda dell’input che via via prevale e dei talleri che via via arrivano da Bill Gates, o sono negati da Trump. Cosa mai possiamo pretendere dalla bella Lucia quando a istruirla  ci stanno dei cazzari col botto.

C’è rivoluzione colorata e rivoluzione colorata

Di “rivoluzioni colorate” contro governi non integrati, quelle concepite, organizzate e finanziate da organismi del Deep State USA per conto di globalizzatori imperiali e neoliberisti – CIA, NED, NSA, la Open Society di Soros, USAID, Amnesty, HRW, Avaaz e altre ONG – ce ne sono o di massa, che sfruttano rimostranze popolari, o di totalmente spurie. Di queste, solitamente riconoscibilissime per i soggetti messi in campo, si sono visti esempi in Libia, Siria, Serbia, Venezuela. Delle prime, il modello storico è quello egiziano, prima di “primavere arabe” assai diverse tra loro, le più recenti essendosi verificate in Libano, Algeria e Sudan. Al Cairo, una rivolta popolare contro un tiranno installato dell’imperialismo, Hosni Mubaraq, ma che era anche diretta contro i suoi sponsor in Occidente e Israele, fu presto infiltrata da manipolatori di segno opposto e consegnata nelle mani dei Fratelli Musulmani, storica opzione britannica e poi neocolonialista

L’esperienza, nata da elezioni boicottate da tutti fuorchè dalla Fratellanza, vide eletto con il 17% dei voti l’integralista Mohamed Al Morsi, che, prima di essere spazzato via da una nuova sollevazione di massa, riuscì a imporre a cittadini, lavoratori e aderenti ad altre confessioni un regime repressivo anche peggiore di quello del suo predecessore. Con la successiva elezione del presidente Abdel Fattah Al Sisi, i moti popolari cessarono e ai Fratelli, come ai loro padrini, non rimase che il ricorso al suo braccio terrorista, l’Isis. Quello che “il manifesto”, sostenendo spie spedite in Egitto dai servizi britannici, chiama “l’opposizione al despota Al Sisi”.

George Floyd in Palestina

George Floyd: razzismo poliziesco e razzismo foglia di fico

 Le proteste in atto dal giorno dell’uccisione di George Floyd mediante ginocchio sul collo e altre ginocchia sul petto, il 20 maggio, sono del tipo egiziano: coinvolgono masse di cittadini mossi da giusta indignazione per i feroci abusi di una polizia fatta da Obama esercito in tutti i suoi mezzi e metodi. In una prima fase caratterizzata da violenza e saccheggi, ha visto poi crescere, fino alla preminenza, la partecipazione di bianchi i quali, al rifiuto del razzismo, aggiungevano la denuncia dell’iniquità sociale, esasperata dalle micidiali misure di restrizione con pretesto coronavirus. Queste, come ovunque, dettate eminentemente, contro lo scetticismo del presidente Trump, dalla cupola sanitario-farmaceutica facente capo al virologo vaccinista Anthony Fauci e allo stesso Bill Gates

Il poliziotto USA stile Obama

Gridare al razzismo, abbattere Trump

Colto fin dalle prime battute e nettamente percepita da Trump e dal suo entourage e seguito politico-sociale, l’obiettivo delle proteste divenne lo stesso presidente e il voto di novembre che rischia di confermarne il mandato, a meno che non lo travolgano sconvolgimenti sociali finalizzati ad aggravare un’economia che, a dispetto del covid-19, pare ancora reggere meglio che in altri paesi. Apparvero, nel ruolo di capi, alcune formazioni militarizzate legate al Partito Democratico e più direttamente gestite dal governo parallelo USA, o Deep State. Quello che Trump, a dispetto dei suoi accomodamenti, non lo ha mai digerito.

Soros e “Antifa”

Come al tempo dei tumulti contro la vittoria di Trump nel 2016 e la sconfitta della prediletta Hillary Clinton, continuatrice del militarismo guerrafondaio e del golpismo dell’amministrazione Obama, sotto la copertura della condivisibile parola d’ordine Assembramenti buoniantirazzista e antifascista, presero la direzione della rivolta i “Black Lives Matter” e gli “Antifa”. Entrambe organizzazioni che godono dei finanziamenti, del supporto mediatico e del sostegno propagandistico di ambienti legati all’obama-clintonismo, al Deep State, all’Intelligence. La prima delle due è partita grazie a 33 milioni di dollari versatile da George Soros. Il corrispettivo italiota sono le Sardine e utili idioti di pseudosinistra che si sono ritrovati “contro il razzismo” a Piazza del Popolo, il 7 giugno. In queste occasioni vedete molti pugni. Non sono quelli della rivoluzione. IL pugno chiuso lo ha reinventato e pervertito Otpor, il gruppo anti-Milosevic di Soros a Belgrado.

Le criptomilizie dell’élite

Vi figurano protagonisti eccelsi della ricchezza americana e mondiale, quali la Open Society di Soros,Amazon, America Express, Bank of America, Apple, Barclay’s Bank, BP, Citygroup, Coca Cola, eBay, FILA, Goldman Sachs, Google, IBM, Ikea, Levi’s, Vuitton, Merck, McDonald’s, Microsoft, Nike, Pepsi, Pfizer, Sanofi, Starbucks, Uber, Wall Mart. Complessivamente le 279 maggiori multinazionali e banche Usa, compresi i colossi farmaceutici e compresi alcuni tra i più spietati sfruttatori razzisti del lavoro a basso costo e a pessimo ambiente. All’indirizzo unitario ci pensano i Rockefeller, i Rotschild, i Soros, la cabala che si riunisce come Bilderberg, o a Davos. A volte in Vaticano.

Da come la nostra popolazione si è sottomessa, obbediente e terrorizzata, alle falcidie di libertà, diritti umani e civili, salute, solidarietà sociale, autodeterminazione, commissionata dalla cosca tecnoscientifica internazionale e domestica al Conte Pippo, non dovremmo meravigliarci di come tante brave persone si siano fatte trascinare in piazza da manipolatori di questa risma. Che tutto avevano in testa fuorchè razzismo e fascismo, ma invece l’eliminazione dell’inaffidabile testamatta Trump che, al di là dei toni da sconquasso imminente, mai si decideva ad andar giù davvero pesante con Russia, Cina, Iran, Libia, Siria. Anzi, iniziava a preparare il ritiro delle truppe USA da Afghanistan, Iraq e Germania, tutte indispensabili per la guerra a Putin. E, gravissimo, si faceva beffe dell’apocalisse pandemica e tagliava i fondi ai commandos OMS di Bill Gates.

A questo punto, però, non è dribblabile la domanda di come si siano fatti abbindolare centinaia di migliaia di bravi americani, che avevano assistito rassegnati alla violenza razzista della polizia, cronica sotto tutte le amministrazioni federali e statuali, mentre abbruttiva la società in cui vivevano, riflettendo altre violenze, sociali ed economiche. Come stavolta si siano fatti trascinare a una rivolta che è diventata il clou della campagna elettorale dei nemici di Donald Trump: il partito democratico e tutto l’apparato militar-finanziario-digitale che, dal fallimentare Russiagate, all’epifania di un imbroglione senile, butterato dagli scandali ucraini e altri, come l’impresentabile Joe Biden candidato presidenziale, ha condotto una guerra senza tregua a chi si teme possa rivincere le elezioni.

Assembramenti buoni, assembramenti cattivi, razzisti di complemento e razzisti in sevizio permanente effettivo.


Una chiave di lettura la dà, nel nostro piccolo, la discrepanza che caratterizza i plausi e i biasimi indirizzati dal nostro establishment destro-“sinistro”, e comunque imperialista, rispettivamente agli assembramenti. “cattivi”, quelli di chi si oppone alle manipolazioni e privazioni, di portata epocale, della falsa pandemia, e “buoni” quelli di chi urla “abbasso il razzismo” (e intende “abbasso Trump”), o “viva la democrazia” (intendendo il ritorno del colonialismo anglosassone a Hong Kong).

La sollevazione nordamericana senza precedenti, con le sue più modeste ricadute europee, per i suoi agenti potrebbe anche sfociare in guerra civile, letale per le chances di Trump a novembre e prodromo di uno Stato di Polizia auspicato a livello mondiale dai gestori della pandemia. Uno stato d’emergenza permanente che sospenda il processo elettorale e favorisca la rimozione forzata del presidente. Ma più che altro, nei vari Stati americani coinvolti (tutti governati dai Democratici), come a Berlino, Londra, Parigi, Roma, le manifestazioni hanno lo strategicamente prezioso effetto collaterale di mettere il razzista cartonato al posto del razzista in carne, ossa, uniforme, consiglio d’amministrazione, servizio segreto, Stato.

Nancy Pelosi e parlamentari Democratici in ginocchio per Floyd


Con l’inginocchiarsi di eroi della convivenza umana, come i soliti VIP di servizio nello sport e a Hollywood, e come la speaker del Senato Nancy Pelosi e i suoi, tutti virulentemente guerrafondai, dall’Iraq 1991 in poi; o con le invettive contro Trump di Bush Junior, quello delle Torri Gemelle, o del mega-imbroglione e spergiuro Colin Powell, ministro della Difesa che truffò il mondo intero sulle armi di distruzione di massa di Saddam, ora si permette di sollevare l’indice contro Trump, siamo al parossismo dell’ipocrisia. E capiamo il tasso di depistaggio insito nei tumulti in corso. Come ne è segnata al massimo grado l’intera Operazione Covid-19.

Il ginocchio sul collo di 7,3 miliardi di George Floyd, neri, bianchi, gialli, bruni

Gli Usa hanno condotto in media una guerra all’anno da quanto il bubbone si è installato nel Nuovo Mondo. A dispetto del virus, le proseguono in Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Somalia, Yemen, Africa e le minacciano a Russia, Cina, Venezuela e Iran.. A forza di crimini inflitti ad altri, ma costati al suo stesso popolo ha accumulato un debito di 26 trilioni, 70.000 dollari a persona, il più grande della Storia, ma che, a forza di impunità, non pagherà mai. Da Bush padre, attraverso Clinton, Bush il minore, Obama fino a Trump, il Deep State che li ha espressi tutti, salvo l’ultimo, governa uno Stato che conduce sette guerre pubbliche e una trentina di occulte, per milioni di morti e oceani di distruzione. Impone sanzioni a nazioni libere che mirano al genocidio. Opera colpi di Stato militari o colorati ovunque ci si distacchi dagli ordini di servizio delle élites. Impone ai governanti Nato di sabotare gli interessi del proprio paese per favorire quelli degli Usa e della Cupola, di cui è l’arma principale. Per cui, in piena reclamata pandemia mortale, manda il suo esercito a imperversare in Europa lungo la frontiera russa.

Coloro che utilizzano i mezzi più efferati per ridurre in quantità e qualità la specie umana, le specie viventi, appartengono in stragrande maggioranza a questo Stato e alla stessa confessione. Perseguono un Nuovo Ordine Mondiale totalitario, disumano, transumano, basato su un iper-bio-tecno-fascismo, in cui è permesso di vegetare solo all’uomo digitale, sanitarizzato, distanziato dalla sua specie e dalla natura. L’uomo-macchina.

Con il 4,5% della popolazione mondiale, ha una forza armata delle dimensioni e dei costi pari a quelle degli undici paesi che lo seguono e che arrivano al 50% dell’umanità. Ha il più alto numero di suicidi, omicidi, tossicodipendenti (oppiacei e psicofarmaci), malati da farmaci, assassinati da polizia, carcerati pro capita, del mondo (2,3 milioni, di cui i neri, il 13% della popolazione, sono il 50%). Forma i suoi giovani a perpetuare la “nazione eccezionale” con un’educazione alla violenza sociale e bellica, a forza di film, spettacoli, gare e videogiochi di devastazione e stragi.

Meglio buttar giù statue che l’establishment


Ora questa nazione decapita e rovescia le statue dei benemeriti di ieri, oggi malfattori. A buttare giù qualche necro-simbolo della “civiltà” occidentale, tipo Cristoforo Colombo, si prova pure comprensione. Se non fosse che chi approva tali “rimozioni”, punta a rimuovere la Storia intera. Elemento fastidioso nell’immaginario collettivo dei popoli, e, soprattutto, di quelli oppressi: la memoria. Senza la quale è molto più facile manipolare la gente. Giudicare personaggi di ieri con i criteri di oggi, perlopiù balordi o falsi, ma politicamente corretti, serve a questo, a recidere il passato, le radici.

E, comunque, sempre meglio protestare contro lontani morti, buttandone giù le statue, che, diononvoglia, contro gli attuali innumerevoli crimini di guerra e contro l’umanità dell’Occidente. Le élites del Potere sono estasiate di tanta rivolta. Di solito l’incitamento a una folla decapitatrice, inferocita per altra causa, viene da chi di quell’altra causa è responsabile. Non per nulla il nostro organetto del Deep State, “il manifesto”, mette in pagina ben tre articoli di peana ai distruttori di monumenti. Lasciando che si taglino teste di marmo, si conta di evitare che gli si taglino quelle vere.

P.S.

Io che ho vissuto nelle città tedesche come Dresda, mentre Winston Churchill le inceneriva  con tutta la gente dentro; io che ho per terza patria l’Iraq, polverizzato dagli eredi ed emuli di Churchill, che già ne aveva gasato la popolazione settant’anni prima; io che ho frequentato i luoghi e gli esseri viventi in tanta parte del mondo, mentre venivano devastati dai simil-Churchill, dell’imbrattamento della statua del mostro da parte dei suoi stessi concittadini, non posso che essere felice.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 15:54

Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l’ambiente e per la nostra salute

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Gli allevamenti industriali si rivelano sempre più dannosi e favoriscono il salto di specie dei virus. E questa pandemia mette sotto accusa un intero sistema di produzione e consumo

DI STEFANO LIBERTI

05 maggio 2020

Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l'ambiente e per la nostra salute

Alla fine Kenneth Sullivan si è dovuto arrendere. Il 12 aprile scorso, l’amministratore delegato della Smithfield Food ha annunciato con uno scarno comunicato la chiusura a tempo indeterminato dello stabilimento di Sioux Falls, in South Dakota. Non poteva fare altrimenti: superati i 700 casi, la fabbrica era diventata uno dei principali cluster di contagio al Covid-19 degli Stati Uniti.

Che l’infezione si sia trasmessa in modo così massiccio proprio all’interno di quell’impianto è quasi una nemesi della natura. Perché Smithfield non è un’azienda qualsiasi: nata nel 1936 nell’omonimo paesino della Virginia, si è imposta negli anni come la principale produttrice di carne di maiale d’America. Un suino su quattro negli Stati Uniti viene macellato in uno dei suoi stabilimenti. Da quando, nel 2013, è stata acquisita dal gruppo cinese Wh per la modica cifra di 4,7 miliardi di dollari, è diventata parte di un conglomerato multinazionale che oggi vanta il titolo di maggiore trasformatore di carne di maiale del mondo.

Il virus originatosi da una zoonosi, cioè da un salto di specie tra animale e umano, è riuscito quindi a interrompere la produzione di carne in uno dei mattatoi più grandi d’America (a Sioux Falls in tempi normali vengono macellati 20mila capi al giorno).

Secondo le ricostruzioni più accreditate il coronavirus che sta bloccando il mondo sarebbe fuoriuscito dal mercato umido di Wuhan e sarebbe passato da un pipistrello a un pangolino e da questo a un essere umano. È però riduttivo puntare il dito soltanto contro l’usanza cinese di consumare animali selvatici. Questa pandemia interpella invece un intero sistema di produzione e di consumo, basato su quella che viene definita in inglese “livestock revolution”, cioè la diffusione a livello planetario dell’allevamento intensivo. Esattamente il modello incarnato da Smithfield e dai suoi acquirenti cinesi.

Lo interpella per diverse e variegate ragioni. La prima e più evidente è che gli allevamenti intensivi sono una possibile e pericolosa fucina di virus e di altri agenti patogeni. Come sottolinea un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unep) del 2016, «circa il 60 per cento delle malattie infettive negli umani derivano da una zoonosi. Se molte hanno origine nella fauna selvatica, il bestiame d’allevamento serve spesso da ponte epidemiologico tra la fauna selvatica e l’infezione umana».

Gli allevamenti possono fare cioè da intermediari per il salto di specie. Non abbiamo evidenze che ciò sia accaduto nel caso del virus Sars-CoV-2 all’origine dell’infezione ormai nota come Covid-19. La pandemia è nuova; le ricerche sono in corso. La teoria del pangolino è ancora quella più in voga, anche se alcuni studiosi avanzano l’ipotesi che il passaggio potrebbe essere avvenuto attraverso i maiali. Quel che è certo è invece che il bestiame d’allevamento ha svolto funzione di intermediario per altre infezioni virali che si sono diffuse negli anni scorsi, anche se con effetti meno rovinosi di quella attuale. Fra queste: le influenze aviarie H5N1 e H7N9, passate attraverso il pollame, e l’influenza suina H1N1, che nel 2009 si è sviluppata a partire dal continente americano infettando in maniera lieve tra il 10 e il 20 per cento della popolazione mondiale.

A rendere particolarmente vulnerabile l’allevamento industriale sono le sue caratteristiche strutturali: non solo l’elevata densità del bestiame, ma anche la sua scarsa varietà genetica. Creati in appositi laboratori che selezionano le linee più adatte alle esigenze dell’industria e del mercato (alta riproduttività, crescita rapida, capacità di adattamento allo stato di confinamento), gli animali sono di fatto cloni l’uno dell’altro. Così una qualsiasi infezione può rivelarsi devastante, come dimostra in modo cristallino il caso recentissimo della peste suina africana (Asf). Rimasta lontana dai riflettori perché non contagia gli esseri umani, questa malattia virale ha decimato nel 2019 la popolazione dei suini in Cina: secondo i ricercatori dell’accreditato gruppo olandese Raboresearch, avrebbe causato la morte di circa 200 milioni di capi, portando a un aumento del prezzo della carne e a una crescente richiesta di importazioni dall’estero, in particolare dagli stabilimenti americani della stessa Smithfield. Se non è chiaro come abbiano fatto i produttori cinesi a smaltire i resti di un numero così gigantesco di animali, tanto che un’inchiesta del New York Times ipotizza che li abbiano comunque macellati e venduti, la vicenda dimostra l’incredibile fragilità di un sistema di produzione basato su un modello così standardizzato, geneticamente omogeneo e pertanto poco resistente agli shock esterni.

Per ovviare al problema, l’industria della carne si affida alla medicina. Tonnellate di antibiotici sono somministrati agli animali come misura profilattica: non vengono cioè dati loro quando si ammalano, ma sempre e comunque, per evitare che si ammalino. Il risultato è che oggi il 73 per cento degli antibiotici prodotti al mondo è utilizzato nella zootecnia. Con una conseguenza di non poco conto: questi farmaci si diffondono nell’ambiente e favoriscono la nascita di super-batteri resistenti, suscettibili poi di attaccare l’essere umano rimasto a quel punto senza difese. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni anno nel mondo muoiono 700mila persone in conseguenza all’antibiotico-resistenza. La stessa agenzia dell’Onu prevede che nel 2050 ci saranno 10 milioni di morti l’anno per questa causa. Numeri rispetto ai quali l’odierna pandemia di Covid-19 ci potrebbe sembrare una passeggiata di salute.

Ma la generalizzazione di questo modello di produzione ha impatti anche più ampi, perché porta alla modifica sostanziale di interi habitat naturali e alla destrutturazione del rapporto tra aree selvatiche e aree agricole. L’allevamento intensivo non è solo il capannone in cui sono rinchiusi gli animali. È, secondo la definizione dello studioso canadese Tony Weis, un «complesso industriale interconnesso di bestiame-cereali-semi oleosi».
Confinati nei loro recinti, gli animali devono infatti essere alimentati.

Non a caso negli Stati Uniti l’allevamento intensivo è chiamato Concentrated animal feeding operation (Cafo) – Operazione di nutrimento di animali concentrati. Nella sua terribile asetticità, la definizione si rivela calzante: le singole bestie sono meri ingranaggi di una catena di montaggio che li nutre, li fa ingrassare e li manda al macello. Non più esseri senzienti, ma macchine per produrre carne. Applicazione del modello fordista all’allevamento, il sistema ha portato a un incremento smisurato del numero di capi: ogni anno vengono allevati e macellati a livello globale 70 miliardi d’animali. Secondo le previsioni di Weis, che ha dedicato diversi libri all’impatto ecologico della “livestock revolution”, nel 2050 questa cifra toccherà i 120 miliardi.

Dove si prendono i prodotti necessari a nutrire tutte queste bestie? Oggi un terzo delle terre arabili sono utilizzate per coltivare soia e mais destinati alla zootecnia. La Cina, che ha visto negli ultimi anni il numero di animali allevati e il consumo di carne aumentare vertiginosamente, importa annualmente dal Brasile più di 50 milioni di tonnellate di soia. Per far fronte a questa crescente domanda, aree di savana e di foresta Amazzonica vengono disboscate, milioni di ettari sono convertiti alla produzione agricola, con effetti collaterali potenzialmente devastanti. Come ha scritto sul New York Times David Quammen, che nel suo libro-inchiesta “Spillover” (Adelphi, 2014) ha previsto l’attuale pandemia, «invadiamo foreste tropicali e altri paesaggi selvatici, che ospitano tante specie animali e vegetali – e al loro interno, tanti virus sconosciuti. Distruggiamo eco-sistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando questo accade, hanno bisogno di un nuovo ospite. Che spesso siamo noi».

L’assottigliamento della frontiera tra aree selvatiche e aree agricole, insieme all’urbanizzazione crescente e allo svuotamento delle campagne in conseguenza alla scomparsa dei piccoli contadini, è un processo globale, dagli incalcolabili impatti ambientali, sociali e sanitari. È un movimento in cui l’allevamento intensivo – e il complesso di monocolture a esso intrinsecamente legato – gioca un ruolo cruciale.

Questo processo è guidato da un pugno di grandi aziende che controllano l’intera filiera produttiva, definendo le modalità d’allevamento, le linee genetiche, il numero di capi, le quantità di mangime e di antibiotici che vengono loro somministrati. Sono ditte come la Smithfield, membri di colossi multinazionali che fanno economie di scala e impongono in tutto il pianeta un modo di produzione unico e standardizzato. Queste aziende prosperano e macinano profitti perché non si fanno carico dei reali costi di produzione, ma scaricano le cosiddette esternalità negative sull’ambiente e sugli ecosistemi che ne risultano compromessi. Forse il Sars-Cov2 è un messaggio che ha voluto inviarci la natura per metterci in guardia contro l’insostenibilità di questo modello di sviluppo, di cui l’allevamento intensivo è solo una delle criticità. Quel che è certo è che la chiusura forzata dello stabilimento di Sioux Falls per Covid-19 assume da questo punto di vista il sapore di una beffarda rivalsa.

In Val Susa riparte la mobilitazione No Tav dopo il lockdown

https://www.infoaut.org/no-tavbeni-comuni/in-val-susa-riparte-la-mobilitazione-no-tav-dopo-il-lockdown?fbclid=IwAR1_53Tn5R1_1tuL2ktkZOzhKGPE5XNobu4-jEpksIO4MkdVUEik5CH2nFM

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Il popolo No Tav ritorna a farsi sentire. Dopo i mesi del lockdown il movimento ricomincia a rodare la quotidianità di lotta in vista dell’estate.

In Val Susa riparte la mobilitazione No Tav dopo il lockdown
 

Mentre il governo e la politica dei palazzi pensano di rilanciare l’economia attraverso il solito piano di grandi opere inutili, dimostrando di non aver capito nulla della pandemia, e Confindustria e Telt chiedono a gran voce la “sburocratizzazione” del TAV (dunque sostanzialmente di poter speculare senza dover rendere conto a nessuno), il movimento inizia a confrontarsi, discutere ed attivarsi di fronte alle nuove sfide della fase.

Giovedì le Fomne No Tav hanno organizzato un aperitivo di solidarietà davanti alla casa di Nicoletta, ancora costretta ai domiciliari.

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Ieri invece il movimento ha ricominciato a recarsi ai cancelli della centrale di Chiomonte per una delle tradizionali apericene con battitura per presidiare il territorio.

Nonostante l’emergenza Covid imponga una riflessione su come vadano utilizzate le risorse (con 500 metri di TAV ad esempio si potrebbe costruire un ospedale da 1200 posti letto), il sistema del cemento e del mattone cerca in ogni modo di sfruttare questa faglia di tempo tra la crisi sanitaria e quella economica per imporre questa opera inutile sul territorio. Ma il movimento No Tav, come sempre, si attiene al motto partigiano: “Ai nostri posti ci troverete”.

A sarà dura!

Tav, appalti da un miliardo. La burocrazia rallenta i lavori

https://www.lastampa.it/topnews/economia-finanza/2020/06/11/news/tav-appalti-da-un-miliardo-la-burocrazia-rallenta-i-lavori-1.38952473

Il direttore generale di Telt lancia l’allarme. Il tappo nei ministeri dei Trasporti e dell’Ambiente

Tav, appalti da un miliardo. La burocrazia rallenta i lavori

TORINO. Lunedì 8 giugno si è conclusa la prima consegna delle offerte per gli appalti da 2,3 miliardi per costruire la parte francese del tunnel di base della Torino-Lione. Poi ci saranno altri due momenti per presentare le offerte: il 18 e il 28 di questo mese. Solo a maggio Telt, la società incaricata di realizzare la tratta internazionale ha assegnato lavori per 250 milioni di euro ed entro l’anno partiranno muove attività in Italia per 200 milioni. «La pandemia – spiega Mario Virano, direttore generale di Telt – non ha bloccato la nostra attività e così a cavallo tra il 2020 e il 2021 arriveranno le offerte per gli appalti da un miliardo sul lato Italia. Stiamo parlando di opere civili per 4 miliardi che possono essere un volano per la ripresa dei due paesi».
Nel suo ufficio di Torino, però, il dg della società, racconta anche di un «discreto numero di problemi e inquietudini» e di «sensazioni negative» sul futuro dell’opera che ha registrato in questi mesi di lockdown e di contatti a distanza. Inquietudini «che non derivano dalla politica o da atti amministrativi» ma che «nascono dalle condizioni applicative delle norme» e, soprattutto, dalla “burocrazia italiana che rischia di frenare e condizionare la nostra attività».
Che cosa sta succedendo? In queste settimane dai palazzi della politica romana rimbalzano indiscrezioni su quali strumenti scegliere per sbloccare le infrastrutture di questo paese. Dentro la maggioranza giallo-rossa non è stata ancora una quadra ed è questa incertezza che desta i timori di Virano: «Nonostante la pausa di riflessione politica dell’Italia che per 12 mesi ha sospeso le procedure di realizzazione dell’opera, l’Ue ha confermato nella sua totalità il finanziamento di 814 milioni. Non è stato perso un centesimo ma in cambio Italia e Francia hanno firmato un nuovo accordo con Inea, l’agenzia europea delle infrastrutture, che sposta al 2022 il periodo spendere quei fondi ma impone anche il rispetto stringenti di 258 parametri con controlli regolari e tempi definiti. Se queste scadenze non verranno rispettate non solo c’è il rischio di rimettere in discussione quel finanziamento, ma anche di arrivare indeboliti alle trattative per l’assegnazione del budget 2021-2027, stiamo parlando di 2,5-3 miliardi di contributi europei».
Dunque bene la semplificazione del governo ma è necessario intervenire sui nodi sensibili delle procedure e sulle modalità operative, fissando tempi congrui entro cui la burocrazia ministeriale deve rispondere. «Già oggi – spiega Virano – per le approvazioni delle micro-varianti esecutive le varie strutture ministeriali coinvolte devono dare il loro parere entro 45 giorni, ma nella realtà i tempi si dilatano e per ottenere il via libera serve almeno un anno, un anno e mezzo». In queste settimane gli uffici legislativi di Telt hanno esaminato le migliori pratiche nazionali ed internazionali per accelerare i cantieri e secondo Virano la soluzione migliore potrebbe essere quella di «fissare tempi congrui». Che cosa significa: «Se per i ministeri 45 giorni sono pochi per dare una risposta si possono portare a novanta ma, passato quel periodo, e in assenza di una presa di posizione delle strutture deve scattare la regola del silenzio assenso o deve essere previsto l’intervento di un commissario». E visto che nella valutazione di un progetto servono i pareri non solo del ministero dei trasporti ma anche di quello dell’ambiente e delle direzioni che si occupano di tutela dei paesaggi. Ecco perché secondo Virano la soluzione potrebbe arrivare dalla «creazione di un tavolo che comprenda tutti i dicasteri che devono esprimersi su un progetto». Un modello che potrebbe essere usato, secondo Virano, è quello del Ponte Morandi a Genova.