COLONIALISMO: BERLINO 1885- BERLINO 2020 —– E’ IL TURNO DELLA LIBIA —– LA SOLITA MANINA MISTERIOSA NELLA CADUTA DELL’AEREO A TEHRAN

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MONDOCANE

GIOVEDÌ 16 GENNAIO 2020

 

Bombe inesplose tra Tehran e Tripoli

Le notizie-bomba che vi nascondono sono: 1) Un cyberattacco USA che con ogni probabilità, secondo il NYT, nella notte dell’8 gennaio ha abbattuto il Boeing 737-800 ucraino sopra Tehran, con i suoi 176 passeggeri ed equipaggio e che forse darà il via alla battaglia finale tra patrioti e vendipatria iraniani;  2) Il generale Soleimani, che aveva lo status diplomatico, era in missione di pace con piena consapevolezza USA. Era stato invitato a Baghdad dal premier iracheno Abdul Mahdi per mediare nella contesa tra Iraq e Arabia Saudita. Gli americani ne erano al corrente e ne hanno approfittato per allestire la trappola e ucciderlo. 3) il regime fantoccio dei Fratelli musulmani a Tripoli, difeso dagli stessi tagliagole Isis e Al Qaida che, per conto Usa-Nato-Turchia, hanno imperversato in Siria, Iraq, Nigeria e a cui corrono in soccorso gli sponsor neocolonialisti che pretendevano di combatterli. Allora servivano a frantumare Siria e Iraq, oggi li si impiega per spartirsi la Libia, come si progetta dai convenuti a Berlino.

Si abbattono torri, si abbattono aerei….
La prova degli occultamenti relativi all’abbattimento dell’aereo sopra Tehran nella notte della risposta iraniana all’assassinio del generale Qassem Soleimani, viene pubblicata nientemeno che dal New York Times, standard aureo del giornalismo imperiale e guerrafondaio. Pur di vantarsi di un crimine riuscito, a volte i suoi apologeti si scordano della riservatezza. Di Libia e degli irresponsabili e fieri sguatteri Nato, Conte, Di Maio e Guerini, che cianciano di interventi più o meno armati, più o meno nazionali o internazionali, parliamo dopo.

Ho partecipato a una conferenza in video su Iran e Libia dell’ottima web-tv “Byoblu” dell’amico Claudio Messora (mercoledì 15 gennaio, ore 18). Oltre a me c’erano un competente ex-capo di Stato Maggiore e due propalatori di versioni Nato degli avvenimenti nel mondo. Doveroso negare qualsiasi attenzione alle panzane atlanticistico-sioniste che sparavano in faccia agli spettatori. Per riassumerle ne bastano due. Nella prima si diceva che l’aereo ucraino era stato abbattuto dai Guardiani della Rivoluzione perché, con ogni probabilità, vi si trovava a bordo un qualche personaggio poco gradito al regime. Per cui valeva la pena ammazzare 176 persone di cui 90 concittadini. La seconda, ancora meglio, supponeva che il missile fosse partito dal ditino di un ragazzetto inesperto dei Pasdaran. E’ la stampa, baby. E solo disponendo di un audience di gente in coma neanche tanto vigile, può sfidare il ridicolo a tal punto. Non credo sia il caso del pubblico di Byoblu, per fortuna.

Ma la stampa è anche, ahinoi, il “New York Times”, standard aureo del giornalismo che si finge di sinistra, sta con il Partito Democratico, col Pentagono, con i ben 16 servizi di Intelligence Usa e immancabilmente con tutto ciò che queste nobili forze di pace e diritti umani producono. Quello che, nella foga di uno scoop, oppure nella tracotanza di chi sa se stesso e i suoi referenti impuniti, parrebbe uno scivolone del quotidiano a direzione talmudica, al mondo stupefatto dovrebbe apparire come un’ammissione agghiacciante. Riassumo.

Miracolo: beccare con la fionda una mosca in cima alla Torre di Pisa….

Un cronista investigativo e video-esperto del NYT, Christian Triebert, ottiene da un dissidente iraniano, Nariman Gharib, molto popolare da quelle parti per il suo ruolo di fustigatore delle malefatte del regime degli Ayatollah, un video di 19 secondi girato da un anonimo video-maker a Tehran. E lo pubblica sul NYT. Triebert e Gharib sono anche collaboratori del sito “Bellingcat”, definitosi di giornalismo investigativo e, con ogni evidenza, megafono dei seminatori di sesquipedali balle antirusse. Non per nulla viene ospitato anche dal “Fatto Quotidiano”. Che cosa c’è nel video?

L’esatto momento in cui un missile e poi un altro colpiscono e fanno esplodere il Boeing ucraino uccidendo 179 persone, di cui 90 giovani iraniani, perlopiù in viaggio di studio. Ebbene? I cellulari oramai sono miliardi e i videomaker pronti per qualsiasi evenienza, pochi di meno. Tutto normale? Anche che l’anonimo videomaker si trovasse alla periferia di Tehran, in una zona industriale derelitta, poco prima dell’alba, con tanto di telecamera professionale, puntata sul punto del cielo notturno dove sarebbe passato l’aereo e dove lo avrebbe colpito il missile. Prendere quel punto in quell’istante era come da terra beccare una mosca in cima alla Torre di Pisa. Culo? O precognizione?

…. o con la camera un puntino che esplode nel cielo buio della notte

Le compagnie aeree avevano sospeso in quelle ore i decolli e gli atterraggi a Tehran, Poche ore prima, missili iraniani avevano disfatto due basi USA in Iraq. L’unico aereo decollato in pieno marasma notturno era il Boeing della Ucraina Airlines. Chi si è messo di notte a puntare un punto preciso nel buio, sapeva. Chi ha fatto decollare 176 sicure vittime, sapeva? Di certo sapevano i comandi militari USA in Iraq che, poche ore prima, sarebbero arrivati su quelle basi oltre 20 missili iraniani. Li aveva avvertiti il governo iracheno che, a sua volta, era stato avvisato da Tehran. Tanto che i militari USA e della Coalizione, compresi i nostri professionisti, ebbero modo di mettersi al sicuro. E qualcosa sapevano anche i numerosi aerei statunitensi che ronzavano attorno ai confini aerei dell’Iran nei momenti precisi dell’abbattimento dell’aereo.

Guerra cibernetica: non è la prima volta

In Iran si ricordano i casi del tutto analoghi dell’Il-20 russo abbattuto nel 2018 dalla contraerea siriana mentre pensava di colpire un caccia israeliano che si nascondeva dietro a quello russo e quello del MH-17 malese colpito nel 2014 sopra il Donbass da un missile Thor russo (in dotazione agli ucraini dal tempo dell’URSS). E si parla di guerra elettronica e di attacco cibernetico. Che gli Usa abbiano sviluppato la tecnologia dei cyber-attacchi di questo tipo è noto e ammesso. Che con tale tecnologia si possa interferire nei radar altrui, facendo apparire minacce volanti e che i comandi degli aerei possono essere controllati dall’esterno è altrettanto noto e assodato. Che l’operatore notturno di Tehran, puntando la sua camera su un punto nero nel cielo in quel momento sapesse cosa stava per avvenire è ancora più assodato. Qualcuno dei nostri eroi dell’informazione libera e democratica vi ha sottoposto almeno qualche dubbio su quanto avvenuto nella notte di Tehran, dopo che il segretario di Stato Pompeo e il ministro della Guerra Esper avevano fregato Trump imponendogli di attribuirsi l’assassinio di Soleimani e l’Iran aveva risposto devastando due basi USA?

Ahmadinejad e Rouhani

Gli schieramenti che si confrontano in Iran. Quelle vere e quelle viste in Occidente

Non meno interessante, ma riguarda l’Iran, è quanto succede dopo la tragedia. I comandi militari e quelli dei Guardiani della Rivoluzione si sono riservati un comunicato definitivo. Il presidente Rouhani e il ministro degli Esteri Zarif hanno invece subito condiviso la versione accreditata in Occidente, del missile iraniano che ha preso l’aereo per errore della contraerea. E sollecitano i militari a chiedere scusa. Ne hanno preso spunto le Sardine sorosiane di Tehran per rimettersi in piazza contro il “regime” e per far calare l’ombra mediatica sui sette milioni che avevano seguito la bara di Qassem Soleimani nella sola capitale.

I “bravi analisti”, gli stessi che il taumaturgo Trump fa tutto lui e ignavi segretari di Stato e Consiglieri della Sicurezza neocon gli vanno dietro come pecorelle, vedono in Iran l’eterna divisione tra “ultraconservatori” (alla Khamenei e Ahmadinejad) e “moderati o progressisti” (tipo Khatami, Rouhani, Zarif). Curiosamente, sotto Ahmadinejad, oltre al riscatto delle classi lavoratrici e dei poveri, c’è stato anche il più forte allentamento delle prescrizioni islamiche, tipo sull’abbigliamento delle donne, mentre, con i “moderati”, si è tornati alle restrizioni clericali.

Per una contrapposizione meno banale, consentitami anche dalla conoscenza diretta dell’Iran, del suo popolo e delle sue istituzioni, va chiarito che in Iran c’è la classica e immancabile divisione di classe. Da un lato chi esprime la volontà e i bisogni delle classi popolari, le più colpite dalle criminali sanzioni, e chi quelli dell’alta borghesia e dei grossi bazari ansiosi di scambi a largo raggio e a qualsiasi costo politico. I primi, i presunti ultraconservatori, costituiscono la base elettorale di presidenti laici come Ahmadinejad, di segno sociale e patriottico e dunque antimperialista. I quartieri alti producono dirigenti come Khatami, Rouhani, o il famigerato speculatore Rafsanjani, detto “lo Squalo”, tutti pronti alla mediazione, al compromesso, ansiosi di neoliberismo. Sono gli autori del tafazziano accordo sul nucleare voluto dall’astuto Obama per bloccare, con l’annullamento del nucleare civile, peraltro legalissimo, l’intero sviluppo industriale e sociale dell’Iran,  come era stato promosso dal laico Ahmadinejad. Tra questi due schieramenti si gioca il destino del grande paese, della sua resistenza, come del Vicino e Medio Oriente.

Da una Berlino all’altra: corsi e ricorsi coloniali

A Berlino, tra il 1984 e il 1885, le restaurate monarchie d’Europa riunirono, sotto il cancelliere Otto von Bismarck, i portatori dei loro interessi vetero-feudali e neo-capitalisti per muoversi a un nuovo assalto al Sud del mondo, Africa nello specifico, e spartirsi territori, risorse e vie strategiche. Che la conferenza sulla Libia veda coinvolti gli stessi predatori di allora, associati al nuovo protagonista imperialista USA e a Stati di contorno, è il segno della tracotanza impunita con cui, sotto la maschera benevola dei diritti umani, come allora sotto quella della civiltà e del progresso, le potenze dell’Occidente si apprestano a nuove aggressioni, devastazioni, genocidi, rapine a mano armata, liberista, missionaria e ONG. Oggi come ieri, nel segno e con la benedizione della Croce.

Tutto procedeva da anni nel tran-tran di chi deplorava l’attacco e la distruzione della pacifica e prospera Libia unita, da esso stesso commessi; per poi approfittare del controllo dei Fratelli musulmani di Al Serraj su segmenti del tripolitano con il suo business dei migranti. Business sia promosso (dalle Ong e referenti politici globalizzanti), sia avversato (dai cercatori di elettori spaventati). Ci si adattava alla spartizione nei fatti della Libia; si calcolavano la porzioni di idrocarburi da spartire e si contava sul caos libico perché la ricolonizzazione del Sahel da parte di Francia e compari non fosse disturbata da un ritorno a una Libia forte e autonoma. Tutto questo, sotto copertura di un governo riconosciuto dalla “comunità internazionale” (un sesto dell’umanità) e dall’ONU, era la ricaduta benefica di un graditissimo colpo di Stato islamista dei jihadisti misuratini, che aveva costretto l’ultimo parlamento e governo legittimi, eletti democraticamente, a rifugiarsi a Tobruq. Governo di cui il generale Khalifa Haftar, comandante del Esercito Nazionale Libico (ENL), e il legittimo ministro degli Esteri.

Guai se non ci fossero i cari fratellini musulmani

I Fratelli Musulmani, come s’è visto in molte occasioni, recentemente col presidente Morsi in Egitto, cacciato da una rivoluzione di popolo che poi si sono intestati i militari, sono, da quando furono inventati dai britannici negli anni ’20, la Quinta Colonna del colonialismo occidentale nel mondo arabo, prima europeo, poi Usa-Nato. Quando un movimento civile e militare, diretto da Tobruk, è riuscito a ottenere il consenso della maggioranza delle tribù, compresa quella di Gheddafi e il controllo sull’80% del territorio nazionale e stava per realizzare la liberazione di Tripoli, ecco che tutti si sono svegliati di soprassalto. E’ partita,  prima piano, poi con accelerazione frenetica, la girandola degli incontri diplomatici (con Conte e Di Maio che ridicolmente si rincorrevano di capitale in capitale), delle conferenze di mediazione, dei soccorsi al fidato burattino Fayez al Serraj  che, guarda il caso, è di origine etnica turca. A Erdogan questo è bastato per rivendicare a sé la “provincia ex-ottomana”, spostarvi da Idlib migliaia di scuoiatori e stupratori jihadisti di Isis e Al Qaida e concordare con il socio di minoranza turco-libico il possesso delle acque tra Turchia e Libia e degli idrocarburi ivi contenuti (con tanti saluti, oltrechè a Grecia e Cipro, a Greta e al Green New Deal).

C’è da ghignare sul fatto che per molti che avevano dato del macellaio a Erdogan per la cacciata dei curdi dai territori siriani,da questi invasi e occupati con l’aiuto Usa, ora lo vedono di buon occhio, perché promette di bloccare, magari far fuori, il generale amico di Al Sisis, “dittatore egiziano e assassino di Regeni”. Per altri, la venuta dei turchi è benvenuta nella misura in cui il sultano non se ne approfitti troppo e lasci ad altri porzioni del bottino petrolifero, idrico e geopolitico. Il congresso di Berlino, di cui l’assonanza con quello del 1885 è chiaramente voluta, è a questo che punta.

Il cattivo anticurdo diventa il buono anti-Haftar
Tanto più che a Mosca, Putin, lo “Zar” – che ha appena avviato una riforma costituzionale mirata a democratizzare l’assetto istituzionale con un premier eletto dalla Duma e non più nominato dal presidente (riforma ovviamente letta in Occidente, “manifesto” & Co, come ulteriore spinta dello “Zar” all’autocrazia) – ha sparigliato facendo sottoscrivere una tregua a Erdogan e al pesantemente pressato Serraj. Ma non a Haftar, che ha considerato la proposta irriguardosa e offensiva nei riguardi del popolo libico e del suo parlamento. E non a torto. Le tregue che, dagli incontri di Astana in qua, Mosca ha concordato con il neo-ottomano, dalle aree di de-escalation in Siria, al governatorato di Idlib zeppo di tagliatori di gola da cento paesi, fino a questa, sono tutte servite e serviranno, anche contro le intenzioni russe, a far riprendere fiato ai jihadisti in difficoltà e a farli rifornire di armi e uomini. Né dei tagliagole, né dei loro protettori (USA, Nato e Turchia) c’è mai stato da fidarsi. Ne ce ne sarà in Libia. La buona figura mediatrice e pacificatrice che Putin ha tutti i tioli per rivendicare rispetto alla psicopatologia bellica degli USA e dei loro ascari, a volte comporta un prezzo troppo alto. Lo sanno i siriani quando guardano a Idlib, alla cosiddetta “fascia di sicurezza” presa dai turchi, o alla regione del Nord Est sotto occupazione USA.

Lasciateci almeno i migranti e un po’ di petrolio

Libici trucidati dai soldati di Graziani

Gli italianuzzi senza arte né parte, ma con un solido e sanguinario passato coloniale in Libia, si danno un gran e inutile da fare. Con Haftar potrebbe rinascere una Libia unita e indipendente. Se avessimo avuto l’intelligenza di stare con colui che ha ragione e non con i fantoccio Isis di Tripoli e i cacciatori di neri di Misurata, l’ENI avrebbe avuto la migliore delle chance rispetto ai concorrenti (ENI, che fa la vera politica estera italiana, scevra dai servilismi partitici e perciò viene demonizzata dagli atlantistico-sionisti alla Travaglio e Stefano Feltri-Bilderberg).

Ma Haftar rischia anche di far seccare una fonte vitale di reddito, prestigio e propaganda di quella lobby plurilaterale che prospera sullo svuotamento dell’Africa da depredare e dei nuovi schiavi con cui esaltare la fetta padronale del mercato del lavoro. Se prende Misurata e Tripoli, ha promesso di farla finita con la detenzione e il traffico di esseri umani che costituiscono il profitto e l’arma di ricatto dei Fratelli musulmani e delle loro milizie armate “governate”, si fa per dire, da Serraj. Che ne sarà delle Ong di Soros e Merkel, delle speronatrici di navi militari italiane, delle cooperative, della Caritas, degli Angelus di Bergoglio, degli argomenti di Salvini, del profumo d’incenso attorno ai buonisti della maggioranza?

 Haftar e Said al Islam, figlio di Muammar Gheddafi

Di Maio e Conte farneticano di caschi blù europei (che non esistono) da mettere a guardia del bidone e salvare Serraj. Un mini-Pompeo italiota che fa il ministro della Difesa vorrebbe che quel dicastero fosse dell’Offesa e pretende, insieme ai suoi generaloni, una “rimodulazione del nostro impegno militare in Libia”. Oltre ai 400 militari scandalosamente mescolati tra i bruti di Misurata. Hanno il coraggio di parlare di “Forza di interposizione”, che non significa altro che la sciagurata spartizione della Libia tra Cirenaica e Tripolitania. Colonialisti d’accatto. Qui, dopo i 600mila libici massacrati da Graziani e il paese distrutto con il concorso dei bombardieri di Giorgio Napolitano, noi non abbiamo che “una parola d’ordine, categorica e imperativa per tutti”: starsene fuori dalle gonadi. Aì vari occidentali, colpevoli delle peggiori tragedie inflitte all’umanità nel Sud del mondo non spetta parola in capitolo. La Libia ai libici e la soluzione non può che essere militare, come lo è stata in Siria, Iraq, Vietnam. Giù le mani dal Sud del mondo. La “soluzione politica”, ai tempi delle lotte di liberazione, è sempre e solo una fregatura. Non si può che stare con Haftar. Anche perché, se quelli di Serraj incarcerano e impiccano i gheddafiani, lui li ha riabilitati e accolti.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 20:08

 

Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/01/15/grandi-opere-dalle-promesse-elettorali-a-nuovi-piani-flessibili/5671560/

Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

Serve un approccio di pianificazione che punti a soluzioni più tecnologiche e alla manutenzione. E che sia meno impattante sull’ambiente e più aperto alla concorrenza

Un nuovo piano nazionale dei trasporti sembra essere nelle intenzioni della ministra De Micheli, come lo è stato di molti ministri precedenti. I grandi piani politicamente piacciono. In teoria, cosa c’è di meglio? Finalmente le scelte sono rese coerenti tra loro, dibattibili in pubblico in modo organico, e le risorse assicurate. Razionalità e trasparenza regneranno sovrane. In pratica la storia non funziona così, anzi proprio al contrario, e occorre capire perché. E questo non solo in Italia. Ma incominciamo da noi. Sono stati fatti due piani generali dei trasporti (Pgt) e mezzo (un Pgtl, cui si era aggiunta la logistica). Sono rimasti tutti lettera morta, e da subito. Poi nel 2001 è arrivata la lavagna di Berlusconi da Vespa, con le 19 grandi opere, che non pretendevano di essere un piano: era una lista di soldi (nostri) da spendere per far felici tutti. Una operazione a suo modo onesta: il fine era il consenso elettorale, e questo era per la prima volta dichiarato senza perifrasi. Poi dopo una pausa (di riflessione?) è arrivato un altro super elenco: i 133 miliardi delle opere strategiche di Delrio, nemmeno queste valutate in alcun modo. Anche questo elenco non osava chiamarsi “piano”, ma per le infrastrutture lo era.

Le infrastrutture di trasporto sono diventate promesse elettorali (persino il Tav, in negativo: “Non si farà mai”!). M5S tentò di cambiare logica facendo qualche analisi costi-benefici, ma si arrese subito alla forza politica del partito del cemento. Ma perché i mega-piani infrastrutturali non possono funzionare? Perché in questa fase tutto cambia velocemente, i soldi pubblici sono scarsi, e i rischi di sprechi in questo contesto sono grandissimi. Cambiano gli obiettivi, con il cambiare dei governi. L’ambiente è diventato più importante, forse anche dello sviluppo economico. Emerge un crescente problema di disparità della ricchezza e dei redditi. Si accelera l’urbanizzazione. Cambia la geopolitica (la via della Seta, i flussi degli scambi mondiali, il turismo). Cambia la popolazione che invecchia e in alcune regioni del Sud si riduce in modo rilevante. Cambiano le tecnologie, e in fretta: veicoli stradali sempre più sicuri e meno inquinanti (forse autonomi). Cambiano i mercati con l’apertura alla concorrenza già avvenuta in cielo e sull’alta velocità, e speriamo si estenda a concessioni e servizi collettivi. Cambia il mercato del lavoro, e la mobilità connessa. Cambia la disponibilità di soldi pubblici, in funzione di condizioni e situazioni interne e esterne non prevedibili. Come diceva Darwin: “Non sono le specie più grandi e forti che sopravvivono, ma quelle che meglio si adattano ai cambiamenti”.

Niente mega-piani strategici allora? Non è così semplice: le maggiori infrastrutture sono opere di lungo periodo (10 anni in media): come si fa a non programmarle per tempo? Una prima risposta è tecnica: in un contesto così variabile, i rischi di sprecare soldi pubblici aumentano, quindi, potendo scegliere, è meglio orientarsi su soluzioni più flessibili, per esempio frazionare al massimo i maggiori investimenti nel tempo, rendendoli funzionali all’eventuale crescere della domanda di trasporto. Persino i progetti dei “corridoi europei” (noti come Ten-T) son stati temporalizzati in funzione della domanda, che è risultata inferiore al previsto (per esempio, i francesi non faranno nulla fino al 2038 dall’uscita dal tunnel Tav a Lione, causa traffico insufficiente, di fatto cancellando il corridoio europeo relativo). Se flessibilità (nello spazio, cioè “dove”, e nel tempo, cioè “quando”) diventa la giusta regola degli investimenti nei trasporti, alla flessibilità giova molto che le opere siano anche redditizie in termini finanziari. Questo, oltre a far bene alle casse pubbliche, rende maggiori le possibilità di ri-indirizzare risorse fresche se le esigenze e economiche sociali cambiano. Opere che “congelino” vaste quantità di denaro pubblico rendono le scelte politiche meno flessibili.

Va ricordato il grande esempio dell’Inghilterra all’inizio dell’800, quando fu costruito un grande numero di canali navigabili che fu rapidamente abbandonato all’avvento delle più flessibili ed economiche ferrovie: uno spreco terribile (anche metà delle linee ferroviarie subirono la stessa sorte con l’avvento del trasporto stradale, un secolo dopo). Le soluzioni tecnologiche sono più flessibili di quelle infrastrutturali, oltre che creare più occupazione e di tipo più stabile. Ma il “partito del cemento” è ancora ben radicato: a questo sembra essersi attaccato anche il partito di Renzi con un piano da 130 miliardi. E dell’alta velocità al Sud ha parlato, sembra, anche il primo ministro (quelle linee rimarrebbero sicuramente deserte, basta il retro della busta per fare i conti). Un approccio di pianificazione che punti di più su soluzioni tecnologiche, sulla manutenzione e sul potenziamento graduale dell’esistente, sarebbe più flessibile, probabilmente meno impattante sull’ambiente, e certo più aperto alla concorrenza (le gare per le soluzioni tecnologiche e per le piccole opere funzionano). Ma proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere non gradito a molti.

Il leader delle “Sardine” è amico dei petrolieri: il paradosso smascherato da un ambientalista abruzzese

http://www.ecoaltomolise.net/leader-delle-sardine-amico-dei-petrolieri-paradosso-smascherato-un-ambientalista-abruzzese/?fbclid=IwAR2kdu2Z5GM9c9vuVTgWu6-TdwH7pbAoe1D8e1aEEH3TcmMXmYNET_GMIvU

Il post di Augusto De Sanctis dedicato a Mattia Santori destinato a far discutere

Francesco Bottone Nov 24, 2019

24 novembre 2019

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Un post destinato a far discutere a livello nazionale quello postato sui social da Augusto De Sanctis, noto ambientalista abruzzese, secondo il quale il leader delle Sardine, tale Mattia Santori, avrebbe delle singolari posizioni in materia di petrolio ed energia probabilmente ignorate dal resto del movimento.

Di seguito il post pubblicato sulla pagina Facebook del noto ambientalista abruzzese:

«Nel manifesto delle Sardine c’è un riferimento alla bellezza. Sacrosanto. Poi leggo che il cosiddetto leader Mattia Santori è uno degli autori del mitico “Coesistenza tra Idrocarburi e Agricoltura, Pesca e Turismo in Italia“, scritto con i petrolieri (Assomineraria) per sdoganare le trivelle in Italia. Noi abruzzesi lo conosciamo bene questo testo in quanto nella lotta contro il mega progetto petrolifero Ombrina, Confindustria locale lo usò a piene mani per sostenere la compatibilità dell’intervento che avrebbe reso l’Abruzzo nero petrolio. Ora grazie a quella lotta abbiamo la ciclabile costiera e un mare, almeno in quel tratto, sgombro (giacché parliamo di pesci, nda) da piattaforme. Lo stesso Santori è autore di diversi altri illuminanti pezzi sul petrolio (due tra gli altri: “Sblocca Italia e trivellazioni. Novità, rivendicazioni, dati di fatto” e “Non solo Nimby, in Basilicata c’è chi dice sì“) che la dicono lunga sulla “giovinezza” e “leggerezza” del soggetto, in piena epoca di cambiamenti climatici. Vecchio dentro, mi verrebbe da dire. Tra l’altro, e non credo sia un omonimo visti i sostenitori (è un allievo del prof. Clò, nda), fece appello contro il sì al referendum sulle trivelle. Un testo da leggere, oggi, con la crisi dei cambiamenti climatici che sta massacrando il nostro paese (https://formiche.net/…/referendum-no-triv-17-aprile-idroca…/). Vedremo se gli altri sostenitori del neonato movimento avranno le stesse posizioni o meno sul tema ambiente, se considereranno una forma di “bellezza” una grande trivella piazzata nel nostro mare».

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Il Texas viaggerà ad alta velocità col made in Italy

http://www.ilgiornale.it/news/texas-viagger-ad-alta-velocit-col-made-italy-1813439.html

La prima Tav degli Usa, che collegherà Dallas a Houston, sarà realizzata dall’ingegneria di Salini Impregilo e percorsa dai supertreni giapponesi

La ferrovia ha fatto l’America, ma l’America si è (quasi) dimenticata della ferrovia. Un paradosso solo apparente. Pochi, pochissimi statunitensi ricordano che il 10 maggio 1869 due grandi squadre una proveniente da Chicago, l’altra da San Francisco stabilirono il collegamento ferroviario tra le due coste a Promontory Point, vicino a Salt Lake City.

Fu un’impresa memorabile. Le rudimentali tecniche dell’epoca ricordate le scene di C’era una volta il West di Sergio Leone? facevano paventare errori di calcolo e rendevano molto aleatoria la giunzione dei due tronchi. I binari posati in fretta e furia sul terreno senza massicciata, erano di pessima qualità, ma i costruttori non ci fecero caso. L’importante era far scivolare le locomotive «American type», dal vistoso fumaiolo e munite dal caratteristico cacciabuoi anteriore, attraverso la linea intercontinentale e poi lungo tutti i 112.000 chilometri di binari, la più grande rete del mondo. Cinquant’anni dopo l’apogeo: nel 1928 gli USA disponevano del 32 per cento delle ferrovie del pianeta a fronte di una popolazione del 6,1 per cento e di una superficie del 5,7.

Raggiunta la primizia mondiale arrivò, imprevisto quanto rapidissimo, il declino del «cavallo di ferro», un tramonto segnato da due nomi iconici: Henry Ford, il genio dell’industria automobilistica, e i fratelli Wright, i pionieri dell’aeronautica. In una manciata d’anni, presidenti e governi decisero d’investire massicciamente su automobili e autostrade, su aerei e aeroporti piuttosto che su treni e stazioni. Nella seconda metà del Novecento il crollo definitivo: nel 1946 i km/passeggero (ossia i chilometri che ogni passeggero compiva in un anno) erano 770 milioni, nel 1964 appena 298 milioni. Oggi poco meno di 20 milioni. Nel 1954 c’erano oltre 2.500 treni a lunga percorrenza, nel 1969 500, oggi nessuno. L’Amtrack, società federale delle ferrovie e unica a gestire il trasporto passeggeri (i privati preferiscono investire esclusivamente sul comparto cargo) è ormai un fossile industriale, con convogli lenti, obsoleti e sempre meno utenti.

In questo quadro sconsolante, dal Texas arriva ora un forte segnale in controtendenza. A primavera si apriranno i cantieri per la costruzione della Texas High Speed Rail, la prima linea statunitense ad Alta Velocità, trecentonovanta chilometri di binari che collegheranno Dallas e Houston, rispettivamente quarta e quinta realtà economica degli USA. Un progetto giustamente ambizioso che mira a rivoluzionare vita e abitudini dei texani: nelle ore di picco i convogli sfrecceranno tra le due città con uno stop nella Brazos Valley dove sorge la Texas A&M University, la seconda università degli States ogni 30 minuti riducendo drasticamente i tempi di percorrenza. Invece d’impiegare quattro-cinque ore di macchina percorrendo una delle autostrade più pericolose e congestionate della Federazione o due (compresi i tempi d’imbarco ed esclusi i ritardi) volando, si arriverà a destinazione in soli novanta minuti.

Per i sette milioni di passeggeri annui previsti nel 2026 a fine lavori ma l’obiettivo è spostarne sul ferro almeno 13) un indubbio risparmio di tempo, sicurezza e comfort e per tutti un notevole beneficio ambientale: il super treno ridurrà le emissioni di CO2 di circa 700mila tonnellate l’anno. Non a caso (avvertite i No Tav di casa nostra e il lunare Toninelli) gli ecologisti locali sono i più entusiasti sostenitori del progetto.

Dato significativo, gli americani, consci della loro arretratezza in campo ferroviario, hanno dovuto affidarsi all’esperienza delle aziende straniere, in particolare giapponesi e italiane. Per razionalizzare e velocizzare al massimo i lavori si è evitato di dividere la grande opera in lotti è stata prevista un’unica soluzione con pochi selezionatissimi partners. Sul percorso verrà impiegato il Tokaido Shinkansen N700S, il nuovo gioiello della Central Japan Railways ideato per le Olimpiadi 2020 di Tokyo. I convogli saranno di otto carrozze e con una velocità operativa di 320 km/h.

La parte del leone, fortunatamente, sarà però di Salini Impregilo, un’eccellenza tutta tricolore, che da decenni opera con successo in tutto il mondo. Attraverso Lane Construction Corporation, il braccio americano acquisito nel 2016, il gruppo realizzerà la progettazione e costruzione dei viadotti (50 per cento del tracciato) e le sezioni in rilevato, l’installazione del sistema di binari e l’allineamento di tutti gli edifici e servizi per la manutenzione e lo stoccaggio dei materiali. Accanto a Impregilo vi saranno anche i tecnici di Italferr, la società d’ingegneria del Gruppo Ferrovie dello Stato; quindici specialisti cureranno gli aspetti progettuali propedeutici alla costruzione della linea.

Alla firma del contratto, lo scorso 13 settembre a Dallas, un soddisfatto quanto misurato Pietro Salini, amministratore delegato del gruppo, ha dichiarato: «Siamo entusiasti di avere questa opportunità unica nel suo genere che ci consente di apportare la nostra vasta esperienza e il nostro know-how in questo progetto. Portare l’Alta Velocità su rotaia in Texas e in America, in qualità di leader dei lavori di progettazione e costruzione, è un’esperienza unica di cui siamo onorati».

In conclusione, ancora qualche numero: interamente sostenuta da capitali privati la realizzazione della Texas High Speed Rail costerà 20 miliardi e svilupperà 10mila nuovi posti di lavoro durante la fase costruttiva e altri 1500 permanenti. Una volta operativa, avrà ricadute economiche importanti per lo Stato del Texas (36 miliardi di dollari nei prossimi 25 anni). Per Salini Impregilo il super-contratto «design built» vale 12,7 miliardi di euro. Ancora una volta «italians do it better»