Grazia per Nicoletta Dosio, non un atto di clemenza

Nicoletta Dosio
Nicoletta Dosio

La proposta di una campagna per la concessione della grazia a Nicoletta Dosio, la precisazione dell’interessata di essere contraria a ogni soluzione individuale, le prese di distanza di diversi comitati e siti No Tav hanno aperto un confronto sul che fare di fronte alla stretta repressiva in atto contro le lotte sociali. È un confronto importante, anzi necessario, per evitare che, come spesso accade, una volta spenti i riflettori si spengano anche, fuori dalla comunità della Val Susa, l’attenzione e la tensione.

Essendo tra coloro che hanno lanciato, proprio su queste pagine, la proposta della grazia mi compete approfondirne le ragioni, anche perché il confronto degli argomenti può contribuire ad aprire nuove strade (che pure oggi non vedo).
C’è un punto fermo. La concessione della grazia come misura di «clemenza» di carattere individuale sarebbe in evidente contrasto con la scelta di Nicoletta di rinunciare a chiedere misure alternative al carcere. Quella rinuncia è stata un atto di coerenza etica ma anche – vorrei dire soprattutto – un gesto politico per denunciare e contestare l’escalation repressiva (ben oltre i vincoli legislativi) nei confronti della stessa Nicoletta e di tutto il movimento No Tav. Ciò è ben chiaro a tutti coloro che hanno parlato di grazia, i quali hanno esplicitamente sostenuto che deve trattarsi «non di un atto di clemenza individuale ma di un segnale di cambiamento generalizzato di una politica e di un intervento giudiziario che mostrano sempre più il loro fallimento». Di questo – non d’altro – occorre, dunque, parlare. Può, la grazia, essere un gesto politico, un elemento di discontinuità, un segnale di cambiamento?

La risposta non può fermarsi al dato emotivo legato al termine «grazia», che fa pensare a un provvedimento individuale e in qualche misura «compassionevole». Da tempo non è così e la grazia ha acquisito, in positivo e in negativo, un carattere squisitamente politico e una valenza generale. Ovunque. Mandela è uscito dal carcere grazie a un provvedimento di liberazione individuale che ha, peraltro, decretato la fine dell’apartheid e il crollo del regime bianco del Sudafrica. E a nessuno sfugge il significato che avrebbe sull’evoluzione della questione curda la liberazione di Abdullah Öcalan (non a caso mai presa in considerazione dal regime di Erdogan, neppur dopo 20 anni di prigionia in condizioni di totale isolamento). Sul piano nazionale, poi, c’è un caso clamoroso: le grazie – più di una – concesse agli agenti della Cia responsabili del sequestro di Abu Omar a Milano non hanno avuto nulla di «personale» ma sono state solo l’esplicito mortificante riconoscimento della subalternità italiana ai desiderata e al potere degli Stati Uniti. Le situazioni sono evidentemente diverse: non vanno assimilate ma valgono a dimostrare l’accentuata valenza generale dell’istituto. In questo contesto, un provvedimento di liberazione di Nicoletta (deciso di ufficio dal presidente della Repubblica) avrebbe all’evidenza una ricaduta politica, in controtendenza rispetto alle scelte repressive della magistratura, che ne uscirebbero a dir poco incrinate, e, più in generale, all’atteggiamento istituzionale di chiusura di fronte alla lotta contro il Tav.

Ci sono delle obiezioni. Due su tutte. La prima è che sarebbe ben più chiara e leggibile un’amnistia politica o sociale. È certamente vero. Personalmente ne sostengo da anni la necessità «per tutti i reati bagatellari (per i quali la sanzione penale è in ogni caso inadeguata e sproporzionata) e, a prescindere dalla pena, per quei delitti che stigmatizzano le persone (ovviamente quelle sgradevoli o sgradite) più che i fatti e di cui si trovano molteplici esempi nella legge sugli stupefacenti, in quella sull’immigrazione e nella parte del codice penale dedicata all’ordine pubblico» (così, su queste pagine, il 29 agosto 2013, Un’amnistia che guardi al futuro). Di più, penso che anche il solo parlarne «significhi aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale». Ma l’amnistia richiede il voto favorevole dei due terzi del Parlamento e ciò la rende all’evidenza impraticabile nell’attuale contesto politico. Nessun atteggiamento rinunciatario, ovviamente, ma la percezione che occorre costruire le condizioni per la sua praticabilità modificando equilibri politici e incidendo sugli orientamenti repressivi dell’opinione pubblica. Proprio la grazia, demandata al presidente della Repubblica, potrebbe essere un primo passo in questo senso.

La seconda obiezione è che le possibilità di concessione della grazia sono, per usare un eufemismo, assai limitate. Vero anche questo. Ma una mobilitazione per un risultato possibile, anche se difficile, avrebbe una molteplicità di effetti positivi: costringerebbe la politica, la cultura, il mondo del lavoro a schierarsi, metterebbe in atto nuove alleanze, ridarebbe centralità alla questione del Tav (oggi accantonata in base alla, pur falsa, affermazione che ormai tutto è deciso e non c’è più nulla da fare). Non sarebbe, in ogni caso, poca cosa.

IRAN, PER SAPERE DI COSA PARLIAMO

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MONDOCANE

DOMENICA 5 GENNAIO 2020

A integrazione del mio precedente pezzo “Soleimani, il Che Guevara del Medioriente”, che mi permetto di raccomandare a chi non si accontenta delle narrazioni di regime

Il punto su una situazione che ha ritrovato in piazza milioni di onesti combattenti per la verità e la giustizia e ha spazzato le consorterie di Sardine a stelle e strisce dalle piazze “colorate” nei vari paesi da riportare all’ordine imperiale.

L’intera nostra classe politica, con seguito di sicofanti mediatici (compresi iraniani convenientemente occidentalizzati, vedi “il manifesto), ontologicamente autorelegatasi a funzioni di complemento e servizio di despoti globali, balbetta tremebonda dinnanzi ad eventi di cui non capisce nulla e che non ha la minima idea di come affrontare. Eunuco tra energumeni che manovrano la politica internazionale, si rifugia negli stereotipi propagandistici e mistificatori dei suoi padroni Usa e UE, ben ammaestrata in questo senso dalle voci, presunte sagge e super partes, quirinalizie e vaticanesi.

Abbiamo un ministro degli esteri privo di qualsiasi preparazione ed esperienza nel gigantesco campo a cui è demandato e che, a partire da un Pinochet collocato in Venezuela, non sa di cosa stia parlando e borbotta cosa insignificanti su “dialogo e moderazione”. Smarrito tra le sue formule legulee, un po’ Don Abbondio e un po’ Azzeccagarbugli, un capo di governo buono per ogni stagione, ogni compromesso e ogni connubio, se ne rimane nascosto per giorni, ridotto a grattarsi la tinta testa nella preoccupazione su che pesci prendere, che non siano Sardine, o gamberi a ritroso verso il nulla. Pesci che, ancora e sempre, non diano il minimo fastidio a chi gira il mondo bucandolo qua e là con il martello penumatico e ventilando di usare quello atomico.

 Altro che “rivoluzione colorata”!

Il fracassone di una opposizione di cartone, che è tutta boati e distintivo, si distingue dal resto del mondo ululando sanguinarie scempiaggini contro un martire eroico del riscatto umano. In tal modo la sua strepitata sensibilità patriottica offre i nostri ascari imperiali su un piatto d’argento alla ritorsione di chi avrebbe ogni titolo per compierla. Ascari di cui il ritiro da tutte, in parte misteriose e occulte, missioni all’estero, dovremmo urgentemente e moralmente imporre prima di subito. Abominio praticato, quello di Salvini, dopo aver provato a spremere un bancomat a Mosca, per ricuperare le grazie di un presidente travolto da fatti decisi dai veri protagonisti del verminaio a stelle e strisce.

Baghdad, funerali di Qassem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, leader degli Hezbollah iracheni

Fatti che l’uomo con la testa polentata (e che ci saremmo augurati di migliore pasta nel confronto con il male assoluto che l’élite rappresenta) è costretto a inseguire e intestarsi. Fatti di cui, in ogni caso, con le sue oscillazioni e il suo ricorrente prostrarsi ad armieri, multinazionali e banchieri, porta la sua parte di responsabilità. Fatti che ora, con grottesca ipocrisia, gli vengono rimproverati dal Partito di Obama e dello Stato Profondo, il partito della forsennata russofobia (con i suoi ragazzi di bottega a casa nostra), nella continuità di una strategia per cui, qualsiasi cosa faccia, o che gli si attribuisce, Trump va cannoneggiato e ricondotto all’ordine. Anche perché una ripresa della sua linea moderata, di distensione e isolazionismo, quella che lo fece vincere nel 2016, prometterebbe di farlo trionfare anche alle presidenziali di fine anno, visto che il Russiagate è svaporato nella sua nullità, che l’impeachment fallirà e l’economia Usa, da lui impostata, va a gonfie vele (anche perché trainata dai colossi delle armi che sanno con chi allearsi e chi convincere).

Baghdad, funerali di Qassem Soleimani e Abu Mahdi al-Muhandis, leader degli Hezbollah iracheni

Un solo uomo politico di rango, inevitabilmente dei migliori Cinquestelle, Alessandro Di Battista (datemi pure del fissato, tanto son fatti), dice pane al pane e vino al vino sulla mostruosità di una superpotenza che va travolgendo ogni regola e diritto della convivenza umana e, in preda a psicopatologia da nevrosi necrofila ossessiva, ci sta trascinando tutti all’orlo di un pianeta che pare tornato a essere piatto, tanta è l’insipienza di chi lo manovra. Non per nulla, Dibba stava per andare in Iran, per quei reportage eccellenti a cui ci aveva abituato dall’America Latina.

A tutto questo, un omuncolo scribacchino e audiovisivo come il sottoscritto, non sa che opporre un tentativo di luce sulla cupa ignoranza nella quale ci vogliono far sprofondare quando si tratta di minchionarci su chi sia amico e chi nemico.

In diretta dall’occhio del ciclone che sta turbando il mondo, il primo docufilm, non dettato dalla propaganda imperialista e “progressista”, sul paese che in occidente viene definito il cuore dell’Asse del Male, una minaccia mortale alla sicurezza globale. Un viaggio per tutto il paese alla ricerca di una verità vera, vissuto nel rapporto diretto con cittadini, lavoratori, medici, studenti, donne, luoghi e protagonisti delle istituzioni. Una società serena, solidale, coesa, che va percorrendo la sua propria via verso l’emancipazione e la modernità. Una storia che copre quasi tre millenni, partendo da Ciro il Grande e che, nella modernità, ha avuto due grandi emancipatori: Mossadeqh e Ahmadinejad e un eroe da scolpire nella Storia degli uomini, Qassem Soleimani. Tutti laici.

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Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 17:07

UCCISO IL VINCITORE DELLA VERA GUERRA AL TERRORISMO —- SOLEIMANI, IL CHE GUEVARA DEL MEDIORIENTE —- COSA C’ENTRA GIANLUIGI PARAGONE? C’ENTRA, C’ENTRA. COME CI DIMOSTRA ALESSANDRO DI BATTISTA

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MONDOCANE

VENERDÌ 3 GENNAIO 2020

Guerra AL terrorismo? Guerra DEL terrorismo!

Il generale Qassem Soleimani è stato assassinato il 2 gennaio 2020 a Baghdad da un drone statunitense. Insieme a lui sono cadute altre 8 persone, tra cui il dirigente delle Forze di Mobilitazione Popolare irachene (Haashd al-Shaabi), Abu Mahdi al-Muhandis. E’ l’ennesimo atto di guerra illegale, di aggressione ai termini di Norimberga, diventato la costante della politica estera Usa.

Qassem Soleimani, comandante della Brigata “Al Quds” (Gerusalemme) delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, era nato nel 1957 da una famiglia di contadini nel villaggio montagnoso di Rabord, nella provincia di Kerman, vicino alle montagne dell’Afghanistan. Lo hanno assassinato coloro che, dal 2001, 11 settembre, nel nome della “Guerra al terrorismo”, terrorizzano il mondo intero con una serie di guerre terroristiche contro paesi e popoli che non si sono mai sognati di attaccarli, di cui non si vede né la fine, né l’ombra di una vittoria americana e Nato. Autentico difensore di popoli, sul piano militare era paragonato al maresciallo Zukov, vincitore di Hitler, o a Rommel, da Hitler assassinato.

 Soleimani e Ahmadinejad, Ahmadinejad e Chavez

Qassem Soleimani era la mente e il braccio strategici dell’Iran contro gli aggressori dell’Iran e dell’intero Medioriente. Primo consigliere della Guida Suprema, Ali Khamenei, era politicamente vicinissimo a Mahmud Ahmadinejad, l’ex-presidente amato dal popolo per la sua sensibilità sociale e l’irriducibile antimperialismo, grande amico di Hugo Chavez. Il suo successore, Hassan Rouhani, firmatario dell’accordo capestro con cui Obama costrinse l’Iran a smantellare la sua industria nucleare mirata a fini clinici ed energetici, trattato poi rinnegato da Trump, nel 2013 era invece stato eletto, nell’infausta divisione del campo radicale, dallo schieramento di destra, sostenuto dall’alta borghesia di Tehran.

In Iran, da Ahmadinejad, sul fronte di Soleimani

Quando, durante il secondo mandato di Ahmadinejad, per girare un documentario conobbi in profondità il meraviglioso paese e il suo popolo cordiale e sereno, a smentita assoluta delle descrizioni calunniose che se ne fanno da noi per compiacerne i nemici, nostri padroni, capitai nelle innevate montagne al confine con l’Afghanistan. Era la zona dove Soleimani era nato ed era presidiata da unità militari in quella fase da lui comandate. Si trattava della guerra ai trafficanti afghani di oppio ed eroina che, sotto la supervisione degli occupanti Usa, grandi promotori della produzione di droga, provavano a infiltrare in Iran stupefacenti. Operazione che, per i contrabbandieri significava enormi profitti, per gli americani la destabilizzazione sanitaria e sociale del paese disobbediente e già minato dalle loro feroci sanzioni.

Confine Iran-Afghanistan

Quando in un avamposto vidi appeso il poster del Che Guevara, immagine del resto diffusa in tutto il Medioriente e chiesi ai soldati di parlarmene, mi fu risposto: “Il nostro Che Guevara è il generale Qassem! E tale il comandante dei Pasdaran si dimostrò anche in Siria e in Iraq, nell’addestrare e guidare le milizie popolare, Hezbollah e altre, miste scite e sunnite, tutte animate da un fortissimo sentimento patriottico ed unitario. E sono stati tale addestramento e tali motivazioni a farne la forza risolutiva nella sconfitta dell’Isis a Mosul e poi in tutto l’Iraq, e nella cacciata di Daesh e delle varie formazioni Al Qaida dalla maggior parte della Siria.

Iraq dell’Iran o degli iracheni?

Ora la belluina stampa occidentale abbaierà con più forza contro un Iraq che, grazie anche al comandante delle sue milizie popolari, si starebbe facendo longa manus dell’Iran. A prescindere dal fatto che ciò favorirebbe meglio l’autodeterminazione della nazione, che non l’occupazione e il tiranneggiamento statunitensi, con i saccheggi delle risorse petrolifere che comporta, Qassem Soleimani non ha fatto altro che assolvere a quella che un tempo si chiamava solidarietà internazionalista con un popolo aggredito. Sui manifestanti che hanno invaso l’ambasciata Usa sventolavano appaiati la bandiera nazionale irachena, sempre quella di Saddam, e i vessilli degli Hezbollah e di altre brigate patriottiche.

Bandiere irachene e di Hezbollah sull’ambasciata Usa in fiamme

Innumerevoli, evidenziate in video, foto, documenti e testimonianze, sono state le prove fornite dalle unità di Soleimani e dagli eserciti iracheno e siriano, sulla collaborazione di Stati Uniti e Nato con le orde dei jihadisti: armamenti, rifornimenti di ogni genere da aerei, intelligence, evacuazione da situazioni compromesse, come a Raqqa e Mosul. Oltre alle note e documentate attività di finanziamento, addestramento e fornitura di armi, nei paesi vicini, Turchia, Arabia Saudita, Giordania, supervisionati dagli Usa.

Tale era la popolarità, oltre che la forza militare, delle milizie volontarie guidate da Soleimani che, in Iraq, poterono esercitare una fortissima pressione sui successivi governi che, installati con il beneplacito di Washington, gradualmente assunsero posizioni sempre più ostili all’occupante e alle migliaia di militari e mezzi tuttora nel paese. Quando Trump trasferì dalla Siria truppe in Iraq, accadde l’inverosimile: il Parlamento iracheno compatto chiese agli Stati Uniti di togliere il disturbo.

 Se l’attacco dei manifestanti iracheni all’ambasciata statunitense di Baghdad, la penetrazione nella blindatissima Zona Verde e l’incendio di parti della rappresentanza diplomatica vengono da Washington e dai suoi corifei nostrani portati a pretesto della strage in cui è perito Soleimani, il movente è un altro. Il generale iraniano e i combattenti iracheni hanno una volta di più negato che intrighi e complotti antinazionali e imperialisti prevalessero. Soprattutto – ed è questo che ha ridato coscienza e orgoglio nazionali agli iracheni – hanno sconfitto il possente mercenariato Isis-Al Qaida a cui gli Usa e l’Occidente tutto avevano dato il mandato di completare l’annientamento di due nazioni: Siria e Iraq. Il drone della strage di Baghdad era il portatore di questa vendetta.

Forze di Mobilitazione Popolare

Vendetta per aver sconfitto i mercenari Usa

Da anni sorrido al mantra di Giulietto Chiesa che, dagli anni ’90, va annunciando l’imminente Armageddon, la guerra mondiale, magari atomica, a giorni. Non ho mai capito se si trattasse di autentico timore, traveggole, o di qualcosa di strumentale. In ogni caso, come si vedeva allora e come s’è visto poi, tale conflagrazione globale non si prospettava per niente. C’erano e ci sono le sette guerre di Bush e poi di Obama, ma restano confinate nelle regioni da ricuperare al colonialismo. Oggi è tutto il coro degli strepitoni mediatici che intravvede bagliori di apocalisse all’orizzonte. Ovviamente, mica tanto per l’irriducibile bellicosità dell’apparato militar-industriale Usa, il Deep State e il suo Partito Democratico, quanto per un “Iran irresponsabile” che promette risposte. Senza la quale risposta, che io penso verrà comunque calmierata da Mosca, il paese perderebbe credibilità, sia all’interno, sia in tutta la regione, nel mondo arabo, nell’Islam di cui è il simbolo del riscatto. Magari sbaglio. Le 50 atomiche che Washington sposterebbe dalla base turca di  Incirlik a Ghedi (BS) e che, nell’abietto servilismo della classe politica, si aggiungono alle altre 70-90 già nel nostro paese, non sono un buon auspicio.

Quanto alle dinamiche che hanno prodotto l’attentato terroristico di Baghdad, personalmente ritengo che sia stato ancora lo Stato Profondo Usa a prendere la mano all’eternamente traccheggiante Trump. Nel riferirsi alla matrice dell’operazione tutti accennano a Pompeo, segretario di Stato, a Mark Esper, ministro della Difesa, entrambi neocon, e al Pentagono. Il Trump che dilaga sui social per ogni mosca che vola, il Trump che aveva legato le sue speranze di secondo mandato alla distensione con Putin, con i nordcoreani e che non si decideva mai sull’attacco all’Iran, preteso anche da Netaniahu, su Facebook si era limitato a pubblicare la bandiera statunitense. Troppo poco per un tweeter maniacale e un successone militare del genere.

Luigi Paragone, Qassem Suleimani e omini, ominicchi e quaquaraquà

Nel titolo ho avvicinato Gianluigi Paragone, deputato 5Stelle, espulso dal Movimento, a Qassem Soleimani, nientemeno. Raffronto indubbiamente azzardato. Ma, si parva licet componere magnis, cosa che, quando si va per simboli, si può, provo a dimostrare che nel piccolo si rispecchia il grande e viceversa. Sia l’ambito della nostra miserevole repubblica, sia quello dell’assassinio di Soleimani inseriti nel quadro di un conflitto mondiale, fanno parte dell’ambito umano. E qui che, ci si trovi bimbetti nel nido, o generali, o presidenti, o manager, possiamo avere, nelle parole di Sciascia, omini, ominicchi e quaquaraquà.

E su questo piano abbiamo un uomo, Soleimani, un ominicchio, Trump, e tanti quaquaraquà, tutti i media e i politici (il patetico capoleghista in testa) che rovesciano la frittata e cianciano dell’assassinio di un uomo, di un grande uomo, di un uomo umano, come della rimozione di una minaccia. E abbiamo un uomo, Paragone, un ominicchio, Di Maio e i quaquaraquà da poltrona, sedia e strapuntino che, con l’osso in bocca, abbaiano contro colui che “non è stato alle regole”.

Siamo ad Antigone, a capocchia invocata per la mozza ONG di Soros, che sperona navi italiane. Paragone non ha obbedito alle regole che dovrebbero tenere a bada eventuali dissidenti del capo ominicchio, anche quando fa puttanate, o tradimenti di tutto ciò per cui è stato portato dove si trova e dove non merita minimamente di trovarsi. Paragone è stato alle regole che ha concordato con quella parte del popolo di uomini che lo ha votato. Non ha votato vergogne, le leggi imposta dagli avvoltoi UE e dai grassatori mafiopidini, repulsive a quel popolo e, perciò inevitabilmente a lui.

L’ho conosciuto da eccellente giornalista, competente come pochi su banche, finanza, manomorta europea e realizzatore della trasmissione “La Gabbia”, dove finalmente s’è visto qualche 5Stelle e si è tirato qualche schiaffazzo ai dominanti. Titolo appropriato, la Gabbia, se si pensa che spiccava in una rete, La7, dove informazione e analisi sono quelle di Gruber, Formigli, Floris, Giletti, Damilano, Zoro….. Senza dubbio uno dei più validi rappresentanti di quello che è stato – e spero sia tuttora – un autentico anelito al riscatto.

Non per nulla è uscito dal suo Grande Silenzio, Alessandro Di Battista: “Gianluigi è infinitamente più grillino di tanti che si professano tali. Non c’è mai stata una volta che non fossi d’accordo con lui”. Il 33% delle ultime politiche lo si deve a questi uomini e ai valori per la fedeltà a contro i quali un ominicchio senz’arte né parte si permette espulsioni. Sembra che ne abbia nel mirino un’altra trentina, di “uomini”.

Magari. Contiamo su di loro, su Paragone, su Di Battista, su Fioramonti, altro esempio di intelligenza e coerenza, dimessosi da ministro dell’Istruzione in opposizione all’eterna strategia dei padroni: rimbecillire i giovani italiani, tagliandogli fondi e conoscenza. Anche rendendoli obesi con le famigerate merendine e bevande zuccherine che un ministro, come non lo si era mai visto da quelle parti, voleva strappare agli intossicatori. Aspettiamo gli altri: Morra, Corrao, Lezzi, Lanutti, i tantissimi sul territorio. Non è più tempo di esitare. L’ominicchio, col vecchio guru uscito di senno, ha ridotto una galassia luminosa, il 33%, a pochi detriti stellari. Paragone, Di Battista, gli altri, i confusi, i persi per strada, tutto quello che non è né ominicchio, né quaquaraquà, riprendano il discorso, riaccendano le stelle spente dagli ominicchi e odiate dai quaquaraquà, ma ancora care al meglio di questa povera Italia.

Pubblicato da Fulvio Grimaldi alle ore 19:22

Nicoletta: se un anno di carcere vi sembra poco…

https://volerelaluna.it/tav/2020/01/03/nicoletta-se-un-anno-di-carcere-vi-sembra-poco/?fbclid=IwAR19UxO-LEExmuKJQKsEM8hKNphQZeQal70wjji_aJ0v6Uu4W5Rsosu3Uig

03-01-2020 – di: 

Le parole sulla carcerazione di Nicoletta Dosio del Procuratore Generale della Repubblica di Torino, che ha ritenuto di dover replicare alle molte critiche e proteste contro questo provvedimento nei confronti di una ex professoressa di lettere antiche affermando che sono state rispettate tutte le procedure, devono spingere a una riflessione.

In primo luogo, ciò che il Procuratore non pare cogliere è il significato profondo della scelta della prof. Dosio, che non può certo essere semplificato in un rifiuto di presentare delle istanze. Decidere di non chiedere nulla, affermare che non si è disponibili ad essere carcerieri di sé stessi (queste le parole utilizzate da Nicoletta nel dire che non avrebbe rispettato eventuali restrizioni connesse a una detenzione domiciliare), è stata la scelta consapevole di una donna che ha spiegato che non aveva nulla per cui doversi “riabilitare”. Nicoletta è stata condannata a un anno per violenza privata e interruzione di pubblico servizio in concorso con altri perché aveva tenuto uno striscione, al bordo dell’autostrada, nel corso di una manifestazione No TAV che per circa un’ora aveva invitato gli automobilisti ad attraversare la barriera autostradale di Avigliana non pagando il pedaggio (con un danno di 777 euro alle autostrade). Una condotta che giustificava, secondo la Procura, una pena di ben tre anni (questa la pena chiesta in primo grado dal PM) e che ha comunque condotto alla condanna di Nicoletta a un anno di carcere.

Non stupisce che alcuni non vogliano cogliere il senso di estrema dignità e coerenza della decisione di non utilizzare quelle pur sacrosante misure alternative alla detenzione che esistono grazie ad anni di lotte. Nulla ritiene di avere Nicoletta per cui doversi rieducare, e nulla ritiene di aver fatto per cui aver “meritato” un anno di carcere. Nulla ha dunque Nicoletta da chiedere alla clemenza del sovrano, e altro non può fare che subire quello che le viene imposto.

Quel che piuttosto con la sua scelta di coerenza e dignità Nicoletta ha voluto denunciare, facendo del suo corpo detenuto un’arma non violenta (contrapposta alla violenza delle istituzioni), è l’uso (e spesso l’abuso) del sistema repressivo penale contro il movimento No TAV in particolare, e contro tutti i movimenti che esprimono istanze, a volte ma non sempre radicali, di dissenso e conflitto sociale. Decine di processi, centinaia di indagati e condannati, misure di prevenzione richieste (come non pensare a chi era andato a combattere contro l’ISIS e al suo ritorno si è visto chiedere la sorveglianza speciale perché era anche un No TAV) e ottenute, fogli di via, sono l’unico modo che lo Stato ha trovato per rispondere alla protesta (a volte violenta certo, ma più spesso pacifica e non violenta, come nel caso che ha portato alla condanna di Nicoletta) dei No TAV, e sono spesso l’unico modo che lo Stato trova per rispondere al conflitto sociale. Conflitto che ‒ è bene precisare ‒ non è antitetico alla democrazia, ma ne è anzi elemento essenziale di vitalità (laddove oggi, sempre di più, si vorrebbe una democrazia anestetizzata e plebiscitaria). E allora Nicoletta non aveva altra scelta che rifiutarsi di chiedere scusa e non fuggire dal carcere nel quale ingiustamente la si è voluta rinchiudere.

Risposta repressiva, si diceva, dello Stato: quando una manifestazione viene contrastata e repressa con lacrimogeni e manganelli, quando le persone vengono arrestate, processate e (a volte o spesso) condannate per aver manifestato, è lo Stato che sta lanciando lacrimogeni, che sta manganellando, che sta arrestando, processando, condannando. E quando queste sono le uniche risposte che lo Stato mette in campo contro il conflitto sociale e il dissenso, come nel caso del movimento No TAV, allora a entrare in crisi è la tenuta del sistema democratico.

Certo, si può (correttamente) obiettare che un giudice ha valutato che quelle condotte costituiscono reato e che ha condannato i suoi autori seguendo una procedura garantita dalla legge. Formalmente tutto vero. Il problema, guardando al dato sostanziale, è che perseguire una condotta è spesso frutto di una scelta di politica giudiziaria, che inquadrare un fatto in una determinata fattispecie è frutto di attività interpretativa non sempre e non solo tecnica ma spesso anche “politica” (quanto meno nel senso di aderente a quella che si ritiene la volontà o l’utilità della maggioranza), che decidere di portare avanti un fascicolo o un altro non è (quasi) mai frutto del caso o del semplice ordine temporale ma deriva da scelte precise e consapevoli, che condannare a una determinata pena è frutto di una scelta provocata (a volte) da valutazioni politiche (si noti che per i reati per i quali Nicoletta è stata condannata la legge prevede una pena minima di quindici giorni e che, quindi, decidere di condannare a un anno ha un preciso significato: nella sentenza di condanna della Corte di appello si evoca del resto «il collegamento degli imputati con l’ala più radicale e violenta del movimento No TAV e, di conseguenza, la pericolosità sociale» sì che ad essere punito duramente, più che il fatto di reato, è l’autore del fatto in quanto tale, in quanto parte di un movimento). E, ancora, che celebrare ogni processo per fatti legati al conflitto sociale con le forze dell’ordine massicciamente presenti e riconoscibili nelle aule giudiziarie (come accade a Torino) ha un significato che esula dalle esigenze di ordine pubblico e disvela una volontà di costruzione mediatica del nemico.

Alla luce di tutto ciò diventa più agevole comprendere che l’esecuzione della pena detentiva di un anno di reclusione nei confronti di Nicoletta è solo l’ultima (probabilmente la meno discrezionale) di una serie di valutazioni non solo tecniche ma fondamentalmente politiche, con conseguenti decisioni che – in questo come in moltissimi altri casi, a Torino contro il movimento No TAV come altrove verso ciò che è ritenuto conflittuale e distonico rispetto al volere omologato – hanno infine condotto al carcere.

Le sbarre che dal 30 dicembre circondano il corpo di Nicoletta impongono di preoccuparsi e di interrogarsi su ciò che questa discrezionale giustizializzazione della risposta a quanto si considera non coerente con l’“ordine costituito” può comportare per quella che ancora aspira a essere una democrazia.

Il popolo valsusino di Greta Thunberg si schiera a fianco di Nicoletta Dosio

https://www.lastampa.it/torino/2020/01/04/news/il-popolo-valsusino-di-greta-thunberg-si-schiera-a-fianco-di-nicoletta-dosio-1.38286572?fbclid=IwAR3hQaAT324CmVoJ7F9U_cdvFysEGX_MuPs2DdeML5udj_mwT3X5ESPCIUY

L’attivista No-Tav di Bussoleno è finita in carcere lunedì scorso in seguito alla condanna per una manifestazione di protesta del 2012


La fiaccolta di Bussoleno in favore della Dosio

BUSSOLENO. Anche il popolo valsusino di Greta Thunberg si schiera al fianco di Nicoletta Dosio, l’attivista No-Tav di Bussoleno finita in carcere lunedì scorso in seguito alla condanna per una manifestazione di protesta del 2012. Stamattina, sabato 4 gennaio, il Gruppo Clima Valsusa ha diramato una lettera aperta a sostegno dell’ex professoressa di liceo arrestata a 73 anni e ora detenuta alle Vallette per «una delle tante azioni di disubbidienza civile non violenta messe in campo dai militanti No Tav» sottolinea l’associazione ambientalista che nelle scorse settimane ha animato il primo Fridays for future organizzato in Valle, ad Avigliana.

«Tutti noi conosciamo e apprezziamo l’idealismo e la rettitudine di Nicoletta, così come ci riconosciamo debitori nei confronti dei militanti che ormai da decenni mettono in campo energie, intelligenza, tempo per cercare di contrastare un’opera inutile, costosissima e devastante da un punto di vista ambientale» spiega il Gruppo ambientalista a pochi giorni dall’analoga presa di posizione dell’Anpi di Bussoleno.
«Ci pare che si stiano condannando cittadini che dovrebbero essere considerati benemeriti, soprattutto in un momento in cui risulta ormai certo che all’umanità restano pochi anni per invertire la rotta e salvare il pianeta dagli effetti catastrofici dell’emergenza climatica e della devastazione degli ecosistemi. Bisogna uscire dalla cecità indotta ad arte dai grandi poteri economici che traggono beneficio da questo sistema» accusano gli esponenti di Clima Valsusa.

Nicoletta ci scrive dal carcere

https://www.notav.info/post/nicoletta-ci-scrive-dal-carcere/

notav.info

 31 Dicembre 2019 at 20:48

Sto bene, sono contenta della scelta che ho fatto perché è il risultato di una causa giusta e bella, la lotta NoTav che è anche la lotta per un modello di società diverso e nasce dalla consapevolezza che quello presente non è l’unico dei mondi possibili.

Sento la solidarietà collettiva e provo di persona cosa sia una famiglia di lotta. L’appoggio e l’affetto che mi avete dimostrato quando sono stata arrestata, e le manifestazioni la cui eco mi è arrivata da lontano, confermano che la scelta è giusta e che potrò portarla fino in fondo con gioia.

Parlo di voi alle altre detenute e ripeto che la solidarietà data a me è per tutte le donne e gli uomini che queste mura insensate rinchiudono.

In questo stesso carcere ci sono anche altri cari compagni, Giorgio, Mattia e Luca che sento più che mai vicini ed abbraccio.

Un abbraccio ed un bacio a tutte e tutti voi.

Siamo dalla parte giusta.

Avanti NoTav!

Perché l’arresto di Nicoletta Dosio dovrebbe far incazzare tutti, non solo i No Tav

https://www.fanpage.it/attualita/perche-larresto-di-nicoletta-dosio-dovrebbe-far-incazzare-tutti-non-solo-i-no-tav/

 

Nicoletta Dosio, storica militante No Tav, è stata prelevata ieri nella sua casa di Bussoleno e condotta nel carcere di Torino. Pochi giorni fa diceva: “Di Tav non si parla più. Lo si considera un capitolo chiuso: e quindi con il mio corpo dietro le sbarre voglio riaprire questa storia indecente”. Ecco perché il suo arresto deve indignarci tutti. Ed ecco perché la sua coerenza è un esempio da seguire.

31 DICEMBRE 2019 13:12 di Davide Falcioni

Il 2019 si conclude con l’arresto di Nicoletta Dosio, storica militante No Tav, attivista da sempre impegnata contro il progetto dell’alta velocità Torino – Lione, ma anche donna che negli anni in molte altre lotte ha saputo sempre prendere una posizione netta stando dalla parte dei più deboli: nella sua casa di Bussoleno, in Val di Susa, ha dato ospitalità a migranti con i piedi congelati dalla neve che tentavano di attraversare le Alpi per raggiungere la Francia, ad attivisti di ogni età, sabotatori dei lavori al cantiere della Tav, partigiani curdi o palestinesi, scrittori, intellettuali e decine di uomini e donne che cercavano semplicemente un letto e una doccia calda nelle dure giornate di protesta alle recinzioni che proteggono le imprese impegnate nei lavori – ancora preliminari e ben lungi dal vedere la fine – della Tav.

Nicoletta non è solo un’ex insegnante di 73 anni di greco e latino, non è solo una “pasionaria dai capelli rossi” come scrivono molti giornali: descriverla come una pensionata mansueta dedita all’uncinetto e alle buone letture serve solo a depotenziarne la carica politica, a trascinare la sua storia in un pietismo odioso. Quanto di più lontano ci sia dalla realtà. Nicoletta è una delle vittime di un sistema repressivo – messo in atto dalla Procura di Torino – che tratta un tema politico di primo piano come la costruzione di una grande opera come una banale questione di ordine pubblico e che negli anni ha portato alla sbarra centinaia di persone con le accuse più disparate, persino quella di terrorismo. Nicoletta è un’attivista politica, una militante comunista impenitente, un’ambientalista dalla coerenza esemplare che ha deciso di portare alle estreme conseguenze le idee in cui crede e che lo fa da una vita, da ben prima che certi temi – come la difesa dell’ambiente – diventassero “pop” in tutto il mondo. Nicoletta non è una “nonnina”: è una combattente dalla statura enorme. “Andrò in carcere – commentava alcuni giorni fa, ben conscia di quello che stava per accaderle – dove troverò altri oppressi, altri ultimi, con cui solidarizzare e creare una nuova famiglia. Andrò in carcere perché di Tav non si parla più. Lo si considera un capitolo chiuso: e quindi con il mio corpo dietro le sbarre voglio riaprire questa storia indecente”.

Nicoletta è ora dietro le sbarre del carcere Le Vallette di Torino. I suoi avvocati Valentina Colletta ed Emanuele D’Amico l’hanno incontrata stamattina nel reparto dei “nuovi giunti”. “Condivide la cella con un’altra detenuta. Il suo umore è buono e ci ha confermato di preferire il carcere alle misure alternative”. Nei mesi scorsi  Nicoletta Dosio infatti aveva annunciato di non voler essere “carceriera di se stessa”. “Ha un’ora d’aria la mattina e una il pomeriggio. Sta bene, legge molto e sa che migliaia di persone si stanno mobilitano per lei. Non mette minimamente in dubbio la decisione presa. Rimarrà dietro le sbarre per un anno”.

In quanti sarebbero disposti a sostenere un peso del genere sulle proprie spalle? In quanti sarebbero in grado di mettere in gioco la propria libertà per una causa? In pochi, scommetto. Perché sì, lottare costa caro. Farlo nel mondo reale, e non solo sui social, ha sempre delle conseguenze: costa in termini economici, costa in salute, costa in amicizie che si perdono, costa per le notti insonni passate a fissare il soffitto. Costa per il dolore delle preoccupazioni inflitte ai familiari, per la delusione di un saluto negato da chi credevi ti sostenesse. Spesso significa rischiare di perdere un lavoro e in qualche caso anche la libertà, come nel caso di Nicoletta Dosio. Lottare costa caro, se lo si fa per davvero, ma è anche una delle poche cose per le quali vale veramente la pena vivere.

Per questo l’arresto di Nicoletta non deve solo indignarci. Che siate No Tav, volontari di una ONG che salva migranti in mare, operai in sciopero contro la chiusura di una fabbrica o terremotati abbandonati del Centro Italia, il volto di Nicoletta, il suo pugno chiuso, il sorriso luminoso nell’auto dei carabinieri che la sta portando in carcere sono un insegnamento su come affrontare il 2020. Con rabbia, amore e coerenza.

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Arresto di Nicoletta: l’Italia in due foto

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Ieri nel tardo pomeriggio Nicoletta Dosio, storica attivista No Tav, è stata arrestata dai Carabinieri e dalla Digos.

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Verrà portata poi in carcere per scontare la pena di un anno a cui è stata condannata per una manifestazione del 2012 insieme ad altri 11 attivisti. La manifestazione, che aveva visto centinaia di No Tav invadere l’autostrada che da Torino porta in Francia, avveniva nel contesto di una intensa settimana di mobilitazione avvenuta dopo la caduta di Luca Abbà dal traliccio in occasione dell’ampliamento del cantiere di Chiomonte. La rabbia era molta e in tutta Italia semplici cittadini erano scesi in piazza per manifestare la propria solidarietà al popolo valsusino in lotta. Il movimento No Tav aveva collettivamente deciso, a seguito delle dichiarazioni del premier Monti, di alzare i caselli dell’autostrada più cara d’Italia per venti minuti e far transitare liberamente le auto per protestare contro il governo, ma anche per evidenziare il rapporto stretto che c’è tra la costruzione delle grandi opere inutili e il carovita che colpisce tutti. Le tasse degli italiani impiegate nella costruzione del Tav Torino – Lione si sarebbero potute utilizzare per scopi diversi, ad esempio per la messa in sicurezza delle infrastrutture esistenti e dunque erano e sono tutt’ora ingiusti balzelli rapinati per fini privatistici.

Come un segno del destino, a cui non crediamo, ma che se esistesse in questi ultimi mesi sarebbe stato molto avaro nei confronti delle lobby del cemento e del tondino, nello stesso momento in cui Nicoletta veniva trasferita in carcere, sull’autostrada A26 crollava parte della volta di una galleria per fortuna senza causare feriti. Un ennesimo crollo sulle autostrade della Liguria e del Piemonte dopo quello tragico del ponte Morandi e quelli per caso senza vittime dell’ultima ondata di nubifragi.

Un paese che si sgretola alla prima pioggia è la prima foto dell’Italia di oggi. Ma non solo, un paese in cui i responsabili di questi disastri rimangono impuniti, mentre ancora nel teatrino parlamentare si discute sull’opportunità o meno di ritirare le concessioni delle autostrade liguri ai Benetton. Un paese in cui la regola del profitto, della gestione privata del bene pubblico è la vera unica norma inviolabile che si abbatte sulla testa tanto di chi incolpevole subisce gli effetti della malagestione, tanto su quella di chi frappone il proprio corpo e la propria mente a questa logica omicida.

Quel semplice gesto di Nicoletta e di molti altri No Tav è stato condannato così duramente dal tribunale di Torino complice del potere del cemento e del tondino, non per la gravità del fatto (un casello aperto al libero transito per 20 minuti), ma perché dimostrava che c’era un’altra possibilità rispetto all’arrendersi all’inerzia di questi ciclici disastri, venduti come sventure, ma con responsabilità invece specifiche. Responsabilità di Stato, di aziende, di polizia e costruttori. Il gesto di quella giornata dimostrava che ci si poteva ribellare all’uso privatistico del denaro pubblico e ai profitti astronomici che pochi fanno su infrastrutture costruite con i soldi di tutti e oltretutto mal gestite. Si colpiva dove fa più male: nel portafoglio di aziende come SITAF, come Autostrade per l’Italia.

La seconda foto dell’Italia di oggi è quella del sorriso sereno di Nicoletta mentre viene arrestata, che è il sorriso di una intera resistenza. Un’Italia che dal basso, con dignità, contro la meschinità e l’odio dei potenti si oppone alle ingiustizie, a qualsiasi età e in qualunque luogo, perché oggi è sempre il tempo di resistere. Mentre i potenti nascondono i loro volti da topi di fogna quando vengono beccati per una malefatta, piagnucolano per non essere processati, ridono al telefono durante i disastri e se ne infischiano dei morti che hanno sulla coscienza, Nicoletta affronta la repressione di Stato a testa alta, con il suo popolo, i cittadini di Bussoleno, che scende spontaneamente in piazza per opporsi all’arresto con un muro popolare che per due ore impedisce ai carabinieri di trasferirla a Vallette. Nicoletta ha rifiutato le misure alternative al carcere, perché non voleva farsi carceriera di se stessa ai domiciliari, perché non voleva un trattamento diverso dai molti che finiscono in galera ogni giorno ingiustamente o a causa di un sistema che sfrutta ed emargina, nonostante la sua età. Le ha rifiutate per dimostrare che l’orgoglio di una resistenza vale molto di più della vergogna di uno Stato che subdolamente e di nascosto arresta una anziana (solo anagraficamente) signora in una notte tra Natale e Capodanno per proteggere gli affari sporchi di imprenditori parassiti, politici e mafiosi. Ci dice che si può sempre fare paura al potere anche quando questo sceglie di rinchiuderci e cerca di intimidirci e umiliarci.

L’arresto di Nicoletta è l’ennesimo segno della stupidità di un potere che si fa forte coi deboli e debole coi forti, che applica la legge alla lettera in maniera il più punitiva possibile nei confronti di una legittima protesta e usa gentilezze e deroghe nei confronti chi devasta, distrugge e uccide in nome del proprio tornaconto personale. Una legge e un potere così, come ci insegna il movimento No Tav, non si può che violare, non si può che deridere, non si può che contrastare. Il popolo valsusino e i No Tav di tutta Italia hanno già dichiarato che non lasceranno sola Nicoletta e tutti gli/le altr* compagn* colpit* dall’ingiustizia di Stato e che rinnoveranno il loro impegno nella lotta perché liberare tutti, ancora una volta, vuol dire lottare ancora. In tutto il paese sono in corso e lo saranno nei prossimi giorni presidi e manifestazioni di solidarietàOggi alle 18 il movimento ha convocato un presidio di fronte alla caserma dei Carabinieri di Susa che in serata sarà seguito da un saluto al carcere delle Vallette, mentre per il primo di gennaio sempre alle ore 18 vi sarà una fiaccolata per le strade di Bussoleno.

Alle sirene del potere, ai giornali compiacenti, a chi sfrutta e devasta non possiamo che ripetere che non si può fermare il vento.

Rojava: violenze diffuse contro donne curde

A due mesi dall’offensiva turca, nel Nordest della Siria non si fermano le violenze contro i curdi: attacchi, rapimenti, stupri, omicidi. A parlare è Lana Hussein, combattente dell’Ypj: «Le donne sono il target numero 1: per noi il rischio è altissimo»

 

Rapimenti, stupri, omicidi. E poi imposizione della lingua turca e islamizzazione forzata. A due mesi dall’inizio dell’aggressione turca, la situazione nel Rojava, regione autonoma del Kurdistan in Siria, non è migliorata. Nonostante la sottoscrizione di due accordi di pace, uno tra Turchia Stati Uniti, l’altro tra Turchia e Russia. E le atrocità colpiscono soprattutto le donne.

La missione turca era nata per stabilire una safe zone, una zona sicura, lungo la striscia nel nord-est della Siria, dopo la decisione del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di ritirare le truppe americane dalla regione. Ma secondo gli attivisti curdi, il vero obiettivo dei turchi è di occupare tutta l’area, non solo quei 30 km di terra.

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rojava oggi
Combattenti dell’Ypg – Foto: Kurdishstruggle (via Flickr)

Il Rojava oggi: la guerra della Turchia in Siria continua

«La Turchia non sta rispettando il cessate il fuoco sancito dagli accordi e gli attacchi continuano», dice l’attivista curda Lana Hussein a Osservatorio Diritti.

«Dal 17 ottobre al 3 dicembre ci sono stati 143 attacchi di terra, 124 dal cielo e 147 di artiglieria pesante. Sono state usate anche armi chimiche e munizioni al fosforo bianco. Per non parlare dei massacri e delle atrocità compiute contro la popolazione civile».

Si parla di 1.100 chilometri invasi fino ad oggi e 88 villaggi occupati. Dall’inizio dell’offensiva 478 civili hanno perso la vita, 1.070 sono stati feriti e più di 300 mila sfollati. Ottocentodieci scuole sono state chiuse, di cui 20 sono andate completamente distrutte, e 86 mila studenti oggi non possono più studiare.

Donne sotto attacco in Rojava e la difesa di Ypg e Ypj

«Le donne sono il target numero 1: per noi il rischio è altissimo», racconta Lana Hussein, che da due anni fa parte dell’Unità di protezione delle donne (Ypj), l’esercito femminile curdo che insieme all’Ypg, l’Unità di protezione popolare, è riuscito a proteggere il Rojava dall’avanzata dell’Isis, combattendo al fianco dell’esercito degli Stati Uniti.

«Solo ad Afrin 40 donne hanno perso la vita, 100 sono state ferite e 60 stuprate. Altre mille sono state rapite e nessuno sa che fine abbiano fatto. Anche all’interno del Ypj, 30 combattenti sono state rapite e ancora oggi tre sono nelle mani dei mercenari, che stanno chiedendo riscatti alle loro famiglie. Questi atti sono emblematici della mentalità che i turchi hanno nei confronti delle donne». Lana Hussein si trova ancora oggi nel nord-est della Siria, ma non può rivelare il punto esatto per motivi di sicurezza.

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rojava donne
Combattenti dell’Ypg – Foto: Kurdishstruggle (via Flickr)

Violenze sulle donne curde in Rojava mostrate nei video

Nei primi giorni dell’offensiva turca nel Nordest della Siria, sui social media si era diffuso un video inquietante. Ritraeva dei miliziani affiliati all’esercito turco che dissacravano il corpo di una combattente curda. «Allahu Akbar! Questa è una delle tue puttane che ci hai mandato qui!», urlava uno dei soldati accanto al corpo di una donna, conosciuta con il nome di battaglia di Amara Renas.

Secondo quanto riportato, quel commando era parte di una coalizione di mercenari ingaggiati dalla Turchia. Quello era solo uno dei tanti video, diventati poi virali, che ritraevano le violenze compiute dai soldati contro le donne, in particolare contro le combattenti curde.

Lo stupro come arma di guerra nel Nordest della Siria

L’uso di violenza sessuale contro le donne nelle zone di conflitti non è un fenomeno nuovo. Si tratta di una strategia considerata molto efficacie in guerra: stuprare una donna lascia un segno molto forte, che dura a lungo, è un atto simbolico che porta disonore e vergogna al nemico.

Anche se non ci sono prove che gli stupri siano stati usati sistematicamente nel Nordest della Siria come arma di guerra, gli agghiaccianti video che sono stati condivisi sui social media sono probabilmente parte di una guerra psicologica nata per spaventare le donne curde e le loro famiglie.

«L’esercito turco combatte al fianco delle cellule segrete di Isis e i loro metodi sono gli stessi», spiega Lana. «Rapiscono i civili e chiedono soldi alle famiglie, stuprano le donne, uccidono intere famiglie e si impossessano delle proprietà e di tutti i prodotti agricoli. Obbligano le persone a indossare vestiti neri islamici e a parlare, leggere e scrivere in turco. Le famiglie cattoliche vengono fatte convertire all’Islam e i loro nomi vengono cambiati in nomi musulmani. Parlare di una safe zone è assurdo: questa area è tutt’altro che sicura».

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rojava news
Combattenti dello Ypj – Foto: Kurdishstruggle (via Flickr)

Il Rojava resiste: storia di una democrazia senza stato per un paese libero

Il Rojava è una regione autonoma del Kurdistan siriano: dopo il ritiro dell’esercito siriano dal Nordest del Paese, nel 2012, i curdi hanno stabilito un governo autonomo nel Rojava, basato sui principi di equità, orizzontalità, libertà di culto e uguaglianza sostanziale tra uomo e donna. L’obiettivo è quello di mettere insieme diversi gruppi – curdi, arabi, armeni, turkmeni, siri, yazidi – sotto un unico sistema democratico.

Nonostante tutto, la Confederazione democratica del nordest è ancora oggi un laboratorio di autogoverno democratico: le istituzioni e i funzionari stanno continuando a lavorare, così come l’Ypj e l’Ypg non hanno smesso di combattere per proteggere la popolazione civile dagli attacchi.

«Ogni giorno raccogliamo prove per documentare gli immani crimini di guerra che stanno andando avanti», conclude Lana. «Purtroppo le organizzazioni internazionali che dovrebbero garantire la tutela dei diritti umani fanno solo dichiarazioni, ma non intervengono sul campo. Noi comunque resistiamo e non ci arrendiamo: il Rojava deve essere uno stato libero e in pace».

Un mondo a colori

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Nicoletta Dosio

28 Dicembre 2019

Gente bizzarra quella della Val Susa: amano camminare, fare musica e i colori della libertà. Per questo trovano il tempo e il modo per scendere in città, al carcere delle Vallette, perfino nei giorni di Natale. C’è da salutare le vittime della repressione contro la lotta No Tav e la sofferente umanità che quel non-luogo rinchiude, a cominciare dai bambini figli delle detenute. Poi, lunedì 30 dicembre, il colpo di coda avvelenato di fine 2019: Nicoletta Dosio, che firma questo articolo, viene portata in carcere dopo che poche ore prima si era voluta revocare la sospensione dell’ordine di carcerazione. Nicoletta, condannata con altri 11 attivisti per una mobilitazione in Valsusa del 2011, si era rifiutata di richiedere misure alternative alla carcerazione, preferendo il carcere all’accettazione di una misura ingiusta quanto assurda. L’ordine era stato inizialmente sospeso, nell’evidente imbarazzo di portare in carcere una donna di 73 anni colpevole di voler difendere la sua valle. Vergogna


Tratta da pixabay.com
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Un altro Natale se n’è andato. Giornata di vento, con raffiche di caldo fohn che combattono contro il gelo della tramontana. Nell’aria un’improbabile primavera, fatta di erba novella spuntata fuori stagione e di montagne candide di neve. Siamo scesi in città, al carcere delle Vallette, per dare un saluto, almeno da lontano, a Giorgio, Mattia, Luca e, con loro alla sofferente umanità che quel non-luogo rinchiude.

Intorno si allarga una sera gelida, grondante di umidità, squarciata dai riflettori del carcere: muri e cancelli, le sagome degli edifici di reclusione, l’angoscia di un non-quartiere delimitato dalla mole della centrale Iren lampeggiante di luci psichedeliche e dalle colline artificiali della discarica Barricalla. Poco lontano, mascherato dalla notte, il mattatoio, silenzioso dopo la mattanza prenatalizia.

A questo paesaggio fa da sfondo la periferia operaia, i grandi falansteri degli anni Sessanta, popolati dagli immigrati del sud depresso, manovalanza della Fiat e del boom industriale di un nord ricco e arrogante. Le luci natalizie che trapelano dalle finestre, gli stenti alberelli addobbati che popolano i giardini condominiali sono un’anomalia che moltiplica l’insensatezza di quell’altro mondo di sbarre e dolore, fatto anch’esso di uomini, donne e bambini, sì i piccoli figli delle detenute, nati in carcere, che condividono con le madri la vita buia, le inferriate alle finestre. E i malati, per i quali neanche l’incapacità fisica o la prospettiva della morte diventa motivo di clemenza.

Mi chiedo come tutto questo possa giovare alla giustizia sociale, alla costruzione di un mondo migliore….

Quando ha inizio la nostra “camminata musicale” intorno alle mura del carcere, si avvicinano i lampeggianti blu dei blindati, si materializzano gli armati in assetto antisommossa a farci da scorta minacciosa. Dal furgone che apre la piccola folla di resistenti si alternano musica e parole, saluti ai nostri compagni e a tutti i detenuti insieme agli slogan liberatori della lotta NO TAV. I pochi passanti guardano incuriositi quell’insolito corteo, lo sventolio di bandiere. Giungiamo nella zona retrostante il carcere, il luogo più vicino ai blocchi di detenzione, mascherati dalle alte mura, ma non abbastanza perché non se ne scorgano le finestrelle degli ultimi piani. Qui finisce la città e iniziano i campi seminati a frumento, le macchie di robinia che nascondono i ruderi delle vecchie cascine, la terra smangiata dall’asfalto e minacciata dai centri commerciali.

Ed è proprio ai margini di un campo di grano, di cui si intravede il verde spuntato anzitempo per la confusione delle stagioni, che si dispiega il momento più liberatorio del nostro lento andare solidale. Improvvisamente in cielo fiorisce una fantasmagoria di girandole e stelle: cascate di luce che ricadono tutt’intorno, a illuminare la notte, rompendo il silenzio murato dei giorni che non passano mai.

Penso ai bambini e alla loro meraviglia: forse questa notte sogneranno un mondo a colori.