Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

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Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

Serve un approccio di pianificazione che punti a soluzioni più tecnologiche e alla manutenzione. E che sia meno impattante sull’ambiente e più aperto alla concorrenza

Un nuovo piano nazionale dei trasporti sembra essere nelle intenzioni della ministra De Micheli, come lo è stato di molti ministri precedenti. I grandi piani politicamente piacciono. In teoria, cosa c’è di meglio? Finalmente le scelte sono rese coerenti tra loro, dibattibili in pubblico in modo organico, e le risorse assicurate. Razionalità e trasparenza regneranno sovrane. In pratica la storia non funziona così, anzi proprio al contrario, e occorre capire perché. E questo non solo in Italia. Ma incominciamo da noi. Sono stati fatti due piani generali dei trasporti (Pgt) e mezzo (un Pgtl, cui si era aggiunta la logistica). Sono rimasti tutti lettera morta, e da subito. Poi nel 2001 è arrivata la lavagna di Berlusconi da Vespa, con le 19 grandi opere, che non pretendevano di essere un piano: era una lista di soldi (nostri) da spendere per far felici tutti. Una operazione a suo modo onesta: il fine era il consenso elettorale, e questo era per la prima volta dichiarato senza perifrasi. Poi dopo una pausa (di riflessione?) è arrivato un altro super elenco: i 133 miliardi delle opere strategiche di Delrio, nemmeno queste valutate in alcun modo. Anche questo elenco non osava chiamarsi “piano”, ma per le infrastrutture lo era.

Le infrastrutture di trasporto sono diventate promesse elettorali (persino il Tav, in negativo: “Non si farà mai”!). M5S tentò di cambiare logica facendo qualche analisi costi-benefici, ma si arrese subito alla forza politica del partito del cemento. Ma perché i mega-piani infrastrutturali non possono funzionare? Perché in questa fase tutto cambia velocemente, i soldi pubblici sono scarsi, e i rischi di sprechi in questo contesto sono grandissimi. Cambiano gli obiettivi, con il cambiare dei governi. L’ambiente è diventato più importante, forse anche dello sviluppo economico. Emerge un crescente problema di disparità della ricchezza e dei redditi. Si accelera l’urbanizzazione. Cambia la geopolitica (la via della Seta, i flussi degli scambi mondiali, il turismo). Cambia la popolazione che invecchia e in alcune regioni del Sud si riduce in modo rilevante. Cambiano le tecnologie, e in fretta: veicoli stradali sempre più sicuri e meno inquinanti (forse autonomi). Cambiano i mercati con l’apertura alla concorrenza già avvenuta in cielo e sull’alta velocità, e speriamo si estenda a concessioni e servizi collettivi. Cambia il mercato del lavoro, e la mobilità connessa. Cambia la disponibilità di soldi pubblici, in funzione di condizioni e situazioni interne e esterne non prevedibili. Come diceva Darwin: “Non sono le specie più grandi e forti che sopravvivono, ma quelle che meglio si adattano ai cambiamenti”.

Niente mega-piani strategici allora? Non è così semplice: le maggiori infrastrutture sono opere di lungo periodo (10 anni in media): come si fa a non programmarle per tempo? Una prima risposta è tecnica: in un contesto così variabile, i rischi di sprecare soldi pubblici aumentano, quindi, potendo scegliere, è meglio orientarsi su soluzioni più flessibili, per esempio frazionare al massimo i maggiori investimenti nel tempo, rendendoli funzionali all’eventuale crescere della domanda di trasporto. Persino i progetti dei “corridoi europei” (noti come Ten-T) son stati temporalizzati in funzione della domanda, che è risultata inferiore al previsto (per esempio, i francesi non faranno nulla fino al 2038 dall’uscita dal tunnel Tav a Lione, causa traffico insufficiente, di fatto cancellando il corridoio europeo relativo). Se flessibilità (nello spazio, cioè “dove”, e nel tempo, cioè “quando”) diventa la giusta regola degli investimenti nei trasporti, alla flessibilità giova molto che le opere siano anche redditizie in termini finanziari. Questo, oltre a far bene alle casse pubbliche, rende maggiori le possibilità di ri-indirizzare risorse fresche se le esigenze e economiche sociali cambiano. Opere che “congelino” vaste quantità di denaro pubblico rendono le scelte politiche meno flessibili.

Va ricordato il grande esempio dell’Inghilterra all’inizio dell’800, quando fu costruito un grande numero di canali navigabili che fu rapidamente abbandonato all’avvento delle più flessibili ed economiche ferrovie: uno spreco terribile (anche metà delle linee ferroviarie subirono la stessa sorte con l’avvento del trasporto stradale, un secolo dopo). Le soluzioni tecnologiche sono più flessibili di quelle infrastrutturali, oltre che creare più occupazione e di tipo più stabile. Ma il “partito del cemento” è ancora ben radicato: a questo sembra essersi attaccato anche il partito di Renzi con un piano da 130 miliardi. E dell’alta velocità al Sud ha parlato, sembra, anche il primo ministro (quelle linee rimarrebbero sicuramente deserte, basta il retro della busta per fare i conti). Un approccio di pianificazione che punti di più su soluzioni tecnologiche, sulla manutenzione e sul potenziamento graduale dell’esistente, sarebbe più flessibile, probabilmente meno impattante sull’ambiente, e certo più aperto alla concorrenza (le gare per le soluzioni tecnologiche e per le piccole opere funzionano). Ma proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere non gradito a molti.

Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibiliultima modifica: 2020-01-20T21:31:18+01:00da davi-luciano
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